INFALLIBILITÀ (ted. Unfehlbarkeit)
Nel linguaggio ecclesiastico, secondo il senso universale e costante dei teologi, significa non solo esenzione semplice dall'errore (inerrantia facti), ma preservazione dalla possibilità di errare nelle dottrine definite di fede e di morale (inerrantia iuris), in virtù d'un'assistenza speciale dello spirito divino, promessa da Gesù Cristo alla Chiesa, da lui fondata col mandato di custodire e tramandare intatto il "deposito" delle verità affidatele (depositum fidei). Essa è dunque una prerogativa propria della vera Chiesa, secondo l'istituzione storica del suo fondatore; non quindi naturale e intrinseca, ché in tale senso compete a Dio solo, ma soprannaturale ed estrinseca, dovuta cioè a un gratuito ausilio, preservativo dall'errore; ossia è un carisma divino (charisma veritatis) per cui non può avvenire che sia falso o non rivelato da Dio quello che la Chiesa tutta, docente e discente, ha professato o sia per professare come dogma. Né questo carisma è per sé ispirazione propriamente detta, che importi un'azione illuminativa speciale di Dio nella mente e nella volontà, qual è supposta, ad esempio, nel libero esame dei protestanti; neppure è una rivelazione di nuove dottrine, né molto meno un'ampliazione, o peggio universalità, di scienza, sia acquisita sia infusa, fuori dell'ordine strettamente religioso e morale, nonché arbitrarietà di decidere o dispotismo di governare o impeccabilità nell'operare: ma è semplice presidio contro la possibilità di errare, ossia assistenza divina preservativa d'errore nella custodia e nell'esposizione fedele della verità già rivelata (dogmatica e morale) che è il deposito della fede, norma del credere e dell'operare.
Il carisma di verità, così inteso, si chiama infallibilità nel credere, in quanto spetta all'universalità dei pastori e dei fedeli, e dice l'impossibilità che tutti insieme s'ingannino nell'abbracciare una dottrina come dogma; si chiama infallibilità nell'insegnare, in quanto appartiene alla Chiesa considerata nei suoi rappresentanti, nella gerarchia dirigente e docente, ossia nell'unione dei vescovi aderenti al loro capo supremo, il papa, e dice l'impossibilità che s'inganni nel definire, ossia nel proporre da credere un dogma di fede. Questa seconda è denominata anche, da teologi scolastici dell'età moderna, infallibilità attiva, quasi causa rispetto alla prima, che n'è l'effetto; ma essa stessa è dipendente dal depositum fidei, a cui si attiene; ed è considerata ancora o in tutto il corpo sociale della Chiesa docente infallibilità della Chiesa, o nel suo capo supremo infallibilità del papa, sebbene sia lo stesso infallibile magisterium.
L'infallibilità della Chiesa è dimostrata, secondo la teologia cattolica, dal fatto dell'istituzione divina della Chiesa stessa; perché quale fu vaticinata dai profeti d'Israele nel regno messianico, come regno di verità, di redenzione, d'illuminazione e di salvezza spirituale (Isaia, LIV, LIX, ecc.), tale fu voluta da Cristo stesso nell'atto di fondarla. E a questo singolarmente si deve attendere, come notò già Leone XIII nell'enciclica sull'unità della Chiesa (Satis cognitum del 29 giugno 1896): "exquirendum non sane quo pacto una esse Ecclesia queat, sed quo unam esse is voluit qui condidit". Ora la volontà del divino istitutore consta storicamente dalla narrazione degli evangelisti e segnatamente dalle tre solenni promesse che essi riportano di Cristo, concernenti la sua Chiesa: 1. che le porte dell'inferno, e quindi le forze dell'errore, non prevarranno contro di essa (Matt., XVI, 18); 2. che lo spirito di verità rimarrebbe con essa in eterno, e insegnerebbe a essa ogni verità (Giov., XIV, 16-26; XVI, 13); 3. infine, dopo avere affidato ai suoi apostoli la missione di istruire tutte le genti con la sanzione della condanna per chi non avesse creduto, Cristo li assicurò che egli era con essi, e quindi anche coi loro successori "tutti i giorni fino alla consumazione dei secoli" (Matt., XXVIII, 20; cfr. Marco, XVI, 16), preservandoli perciò dall'errore.
Un'altra conferma storica dello stesso carisma è tratta, nella teologia cattolica, dall'insegnamento pratico e teorico dei primi banditori della verità evangelica, gli apostoli. Essi l'insegnavano praticamente, mentre si davano come testimonî autentici della dottrina di Cristo, in cui non poteva sussistere falsità alcuna, e richiedevano perciò fede assoluta alla predicazione da essi fatta in nome di Cristo, come immune dalla possibilità dell'errore: la quale predicazione apostolica persevera, quasi per diritto ereditario, nei loro successori in perpetuo, secondo la stessa parola di Cristo (Matt., XVIII, 20). L'insegnavano poi teoricamente, dichiarando il fine proprio di tale predicazione, come S. Paolo (Efes., XIV, 7-16), mentre descrive il corpo sociale della Chiesa quale corpo mistico di Cristo, e in esso per l'appunto assegna la parte o ufficio proprio di tutto il magistero ecclesiastico nell'intento di preservare i fedeli dall'errore: "onde non siamo più fanciulli vacillanti e portati qua e là da ogni vento di dottrina per i raggiri degli uomini, per le astuzie con cui seduce l'errore". E così S. Paolo esalta appunto la Chiesa quale "colonna e fondamento della verità" (Tim., III, 15).
In tutta la storia della Chiesa stessa si ravvisa infine un'implicita attestazione di tale verità, sia considerando la costante professione e insegnamento ordinario del dogma, sia le diverse definizioni e l'insegnamento straordinario e solenne. Tale è quello dei diciannove concilî ecumenici, dal primo Niceno all'ultimo Vaticano, succedutisi, quali assisi solenni della Chiesa universale, in occasione massimamente delle opposizioni mosse alle dottrine tradizionali dalle contrarie scuole o proposizioni degli eretici: i quali, appunto per il loro contraddire a tale professione o giudizio della Chiesa, venivano condannati, cioè esclusi per ciò solo dalla sua comunione e quindi dalla salvezza spirituale che n'era il frutto. E, certo, tale prassi suppone, nella società che la segue, l'esistenza d'un'autorità inconcussa e indiscutibile, con giudizio perciò infallibile e irreformabile, posto il fatto storico dell'origine divina della Chiesa.
Su questa certezza si fondano altresì i primi apologisti cristiani, come Ireneo e Tertulliano, contro gli eretici, col loro costante richiamo all'insegnamento della Chiesa, derivato per tradizione dagli apostoli, quale norma di verità e di fede. E mentre Tertulliano vi applica, da laico e giurista, il principio romano della praescriptio, Ireneo (v.) dichiara con più precisione e chiarezza, come regola necessaria da seguire, il ricorso alla tradizione della Chiesa romana, quale sicura e perpetua conservatrice della tradizione apostolica secondo quella sua celebre sentenza: "Ad hanc enim Ecclesiam (Romanam) propter potentiorem principalitatem necesse est omnem convenire Ecclesiam; hoc est, eos qui sunt undique fideles, in qua semper ab his qui sunt undique fideles conservata est ea quae ab Apostolis est traditio" (Advers. haeres., L. III, c. 3).
Che se il carisma di verità, attestato dall'istituzione divina della Chiesa come d'una società preservata dalla possibilità dell'errore nei suoi dogmi di fede e di morale, spetta primieramente e per sé a tutto insieme il corpo sociale della Chiesa stessa, docente e discente, deve competere perciò appunto al suo capo supremo e visibile, quando egli insegna da pastore e maestro universale nelle cose di fede e di morale, non potendo darsi una società infallibile che sia ammaestrata e diretta da un capo soggetto a errare. L'infallibilità della Chiesa quindi suppone e inchiude l'infallibilità del papa, come suo capo visibile e vicario di Cristo.
Ma l'infallibilità del papa è inoltre dimostrata essa pure dal fatto stesso dell'istituzione storica della Chiesa e del papato, cioè dalla volontà positiva del divino fondatore: 1. perché Cristo volle la sua Chiesa fondata su Pietro e i suoi successori, come su pietra contro la quale non sarebbero prevalse le porte dell'inferno, cioè le forze dell'errore (Matt., XVI, 18); 2. perché a Pietro promise particolare assistenza, affinché la sua fede non venisse mai meno (Luca, XXII, 32); 3. perché a lui affidò il mandato di confermare i fratelli, e indi gli confermò la missione di pascere tutto il suo gregge, fedeli e pastori (Giov., XXI, 15-17).
Queste testimonianze, che provano il primato di Pietro e dei suoi successori, provano insieme, secondo il Concilio Vaticano, la suprema potestà del magistero e il carisma di verità e di fede indefettibile loro conferito "perché adempissero l'eccelso loro ufficio a salute di tutti, perché il gregge tutto di Cristo, per loro mezzo allontanato dal cibo velenoso dell'errore, fosse nutrito del pascolo della dottrina celeste; perché, rimossa l'occasione dello scisma, tutta la Chiesa si conservasse una e sopra questo suo fondamento poggiata perseverasse ferma contro le porte dell'inferno" (Constit. Pastor aeternus del 18 luglio 1870).
Le impugnazioni a questa dottrina vennero da numerosi e diversi oppositori: anzitutto, com'è naturale, da quelli che negano alla Chiesa l'origine divina, quali i razionalisti; o l'infallibile magistero, come i protestanti e altri eretici; poi da chi ammette bensì l'uno e l'altro principio, ma non la conseguenza che ne discende, come una gran parte degli Orientali, i quali in ciò hanno concorde la porzione di anglicani, sorta dal cosiddetto movimento di Oxford ("anglocattolici", puseysti, ecc.), infine da non pochi tra i cattolici stessi (v. gallicanismo), i quali attribuivano pure una certa infallibilità alle definizioni del papa, ma solo quando fossero promulgate in un concilio ecumenico, ovvero accettate da tutto l'episcopato cattolico. Quest'ultimo sistema dottrinale sorse, per l'oscuramento portato dallo scisma d'Occidente, fra alcuni teologi in prevalenza francesi, al concilio di Costanza e poi di Basilea, fra cui Gerson (v.), e si aggravò per passioni nazionali e politiche nei secoli seguenti, massime sotto Luigi XIV, con la famosa "dichiarazione del clero gallicano". Ebbe alleato in Francia il giansenismo, il parlamentarismo regalista, e da ultimo il costituzionalismo del clero giurato della Rivoluzione. E si diffuse molto anche fuori di Francia, favorito pure dalla politica borbonica nella seconda metà del sec. XVIII, dal governo toscano di Leopoldo I e più dalla politica austriaca di Giuseppe II, e dall'illuminismo, tanto da trovare fautori tra teologi e vescovi, come G. N. von Honteim, noto con lo pseudonimo di Febronio (v.). I resti del gallicanismo si protrassero fino al Concilio Vaticano; ma la definizione del concilio, del quale i gallicani secondo il loro stesso sistema ammettevano come indiscutibile l'infallibilità, pose fine ai loro dissensi. Solo un gruppo di Tedeschi, capeggiati dal Döllinger (v.), si ribellò al concilio e formò la setta dei "vecchi cattolici" (v.), confusasi ben presto coi "neoprotestanti", come i giansenisti della chiesa scismatica di Utrecht.
Anche le impugnazioni, tuttavia, e le prolungate discussioni concorsero, come avviene di solito nello svolgimento del dogma, a fare studiare più a fondo, meglio accertare e chiarire le questioni, e a provocarne infine la decisione, con tutte le maggiori precisioni e le molte limitazioni o cautele di termini, richieste anche dai pregiudizî correnti, come accenna la citata costituzione del Concilio Vaticano (Pastor aeternus) nella sua conclusione dogmatica. Questa dà pure la formula comprensiva di tutta la dottrina, definita nel seguente tenore: "Poiché a questi tempi, nei quali più che mai va richiesta la salutare efficacia dell'officio apostolico, non pochi si trovano che resistono all'autorità di esso, stimiamo al tutto necessario solennemente asserire la prerogativa che l'unigenito figlio di Dio si è degnato congiungere all'officio del sommo pastore. Pertanto noi, fedelmente inerendo alla tradizione ricevuta fino dall'esordio della fede cristiana, alla gloria di Dio salvatore nostro, a esaltazione della fede cattolica e a salvezza dei popoli cristiani, con l'approvazione del sacro concilio insegniamo e definiamo essere dogma divinamente rivelato: che il romano pontefice quando parla ex cathedra, cioè quando nel compiere l'officio di pastore e dottore di tutti i cristiani, secondo la sua autorità apostolica, definisce che una dottrina intorno alla fede e alla morale si deve tenere da tutta quanta la Chiesa, per l'assistenza divina a lui promessa nel beato Pietro, possiede quell'infallibilità di cui il Redentore divino volle insignita la sua Chiesa nel definire una dottrina di fede e di morale; e perciò tali definizioni del romano pontefice sono irreformabili per sé stesse, non già per il consenso della Chiesa".
Fonti: Si trovano riunite, oltre che negli Acta conciliorum, come nella Collectio amplissima del Mansi, in Denzinger-Bannwart, Enchiridion symbolorum, definitionum et declarationum de rebus fidei et morum, Friburgo in B. 1928; Roüet de Journel, Enchiridion patristicum, ivi 1911; e più largamente in F. Cavallera, Thesaurus doctrinae catholicae, Parigi 1920. Per il Concilio Vaticano: Collectio Lacensis, vol. VII; Acta et decreta SS. et oecumenici Concilii Vaticani, Friburgo in B. 1890;. cfr. Granderath, Hist. du Conc. du Vat., III, L'infaill. pont., Bruxelles 1912.
Bibl.: Oltre alle opere citate alla voce cattolica, chiesa, v. R. Bianchi, De constitutione monarchica Ecclesiae et de infallibilitate Romani Pontificis, Roma 1870; G. Bickel, Grunde für die Unfehlbarkeit des Kirchenoberhauptes, 2ª ed., Monaco 1870 segg.; J. Fressler, La vraie et la fausse infallibilité des papes, Parigi 1873; P. Bottalla, L'autorità infallibile del papa nella Chiesa, Palermo 1880; F. X. Weninger, Die Unfehlbarkeit des Papstes als Lehrer der Kirche, Einsiedeln 1869; J. Perrone, De R. P. infallibilitate, Torino 1874; D. Palmieri, Tractatus de Romano Pontifice, 4ª ed. a cura di G. Filograssi, Padova-Roma 1931; C. Granderath, Constitutiones dogmaticae oecumenici Concilii Vaticani, Friburgo in B. 1902; E. Cecconi, Storia del Concilio ecumenico Vaticano, Roma 1877-1879; E. Campana, Il Concilio Vaticano. Il clima del concilio, Lugano 1926.