INDUSTRIA
(XIX, p. 152; II, II, p. 28; III, I, p. 866; IV, II, p. 177)
Diritto. - Profili costituzionali. - La disciplina legislativa dell'i. s'incentra sull'interpretazione delle regole stabilite dall'art. 41 della Costituzione e sulla definizione dei suoi contenuti, ripartiti tra il riconoscimento della "libertà di iniziativa privata" e la duplice garanzia che questa "non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana" e che "la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali". Nella più accreditata rilettura dell'art. 41, se si attribuisce alla prima disposizione il compito di "regolare il diritto d'impresa" (Galgano 1977) e non la "scelta di esercitare qualsiasi attività economica" (Mazziotti 1956), si raggiunge l'utile risultato di dare un contenuto specifico e un riconoscimento di autonomia alla situazione giuridica dell'imprenditore, e cioè l'acquisizione di una complessa situazione giuridica attiva che ha per oggetto l'azienda e per contenuto il potere di gestione (Nicolò 1956). Per giunta si risolve, o meglio si dissolve, il problema del significato che la disposizione avrebbe, nell'intento del legislatore, di procedere a una scelta se attribuire il primato all'iniziativa economica privata o a quella pubblica.
In realtà il problema non si pone con riferimento all'art. 41, bensì all'art. 43 della Costituzione, dal momento che è la previsione in questo contenuta − della riserva originaria o di trasferimento allo stato, a enti pubblici o a comunità di lavoratori e di utenti a fini di utilità generale, di determinare imprese o categorie di imprese che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a situazioni di monopolio con carattere di preminente interesse generale −, che dà implicitamente per risolto il problema del primato tra le due norme. In ogni caso, poi, la conseguente specialità della previsione contenuta nell'art. 43 si pone a latere del principio contenuto nel primo comma dell'art. 41, e ciò nel senso che la riserva di attività e i trasferimenti d'impresa sono possibili nelle sole ipotesi previste dall'art. 43.
Dalla concreta applicazione della norma che, come osservato, coammassa in realtà statizzazioni, nazionalizzazioni e socializzazioni (Giannini 1988), non si desumono argomenti che possano far affermare che altro è il diritto d'impresa o l'iniziativa economica privata, altro l'iniziativa economica pubblica. Nel contesto dell'art. 43 l'iniziativa economica pubblica non è certamente il risultato di una scelta, ma è il presupposto perché la norma consenta la riserva di attività o il trasferimento d'impresa salvo indennizzo. Da tale norma si può desumere tutt'al più la necessità di organizzazione di un apparato in forma d'impresa ma non la soggettivazione di un apparato gestore; in ogni caso nell'art. 43 non può essere riconosciuta la norma-base per la costruzione autonoma dell'impresa pubblica.
In realtà si è sempre mal posto il problema della consistenza dell'impresa pubblica rispetto alla privata in termini di distinzione dell'una rispetto all'altra; e la stessa affermazione circa l'esistenza di una disciplina comune all'impresa pubblica e privata in quanto tale, se è esatta dal punto di vista normativo, ha alle spalle la specifica vicenda del passaggio dal liberismo economico allo stato interventista, con un più marcato effetto rispetto agli interventi del legislatore fascista.
Per quanto concerne il rilievo sopra espresso circa l'individuazione di un'organizzazione in forma d'impresa piuttosto che la ''soggettivazione'' di un apparato gestore, si deve osservare che alcune delle difficoltà nell'individuazione di imprese pubbliche − in coloro che si sono accinti a una ricostruzione della nozione d'impresa pubblica sotto il profilo soggettivo − derivano dalla necessità di riferire il requisito della professione d'imprenditore al soggetto titolare e in tal modo, in ogni caso ''al soggetto'' o alla ''figura soggettiva'' che si potessero ritenere titolari di essa impresa. Di qui la difficoltà, forse ritenuta insormontabile, di poter trovare un soggetto responsabile dell'impresa.
L'erroneità della tesi non sta pertanto nell'avere ritenuto possibile o meno tale individuazione, ma nell'avere ritenuto pregiudiziale il problema dell'individuazione dell'imprenditore e non dell'impresa; in ciò si giustifica l'osservazione di chi ha posto in rilievo che nel diritto pubblico − ponendosi la titolarità dell'impresa non come un problema di assetto dominicale ma solo come problema di esercizio di potestà ed essendo tale sdoppiamento tipico negli apparati pubblici − non si sente alcun bisogno di ricorrere alla personalità giuridica per darsi ragione dell'autonoma produzione di effetti. È del resto aperto il problema del perché tale organizzazione, e segnatamente le imprese-organo e le imprese-ente, possano definirsi produttive di beni e servizi, pur avendo tutti gli elementi dell'impresa ma con responsabilità patrimoniale addossata all'ente pubblico di direzione e con un rischio trasformato in responsabilità amministrativa e politica, di regola distinti in capo all'amministrazione dell'impresa e all'ente di direzione.
Se da tali elementi si può pervenire alla conclusione che tali riparti e trasformazioni sono pur sempre riferibili come varianti all'archetipo del diritto di impresa (e questa è forse la soluzione), la reductio ad unitatem ci fa comprendere la bontà della soluzione. Se pertanto il primo comma dell'articolo 41 Cost. è una garanzia (costituzionale) della libertà d'impresa come diritto del privato, il rilievo pubblicistico della materia è racchiuso nei due commi successivi dell'articolo, che si divide così tra una disciplina di principio del diritto d'impresa e una dell'esercizio, in modo che da un lato il diritto d'impresa non venga in contrasto con i valori indicati dal secondo comma e che, dall'altro, il legislatore possa determinare programmi e controlli opportuni con contenuto d'indirizzo e coordinamento nei confronti dell'esercizio dell'attività.
Nella concreta attuazione di tali direttive emerge l'autonoma rilevanza degli strumenti previsti dai due commi rispetto alla materia regolata dal primo comma. I tratti salienti della disciplina pubblica del diritto d'impresa, che sembrano addensarsi in un potere conformativo da parte della pubblica amministrazione attinente a limiti negativi e un potere di controllo e di programmazione a fini positivi, consentono ulteriori combinazioni nel senso che il controllo può essere utilizzato perché l'impresa non sia in contrasto con i fini di cui al secondo comma, mentre si può adottare lo strumento delle disposizioni conformative affinché l'impresa sia indirizzata a fini sociali.
Il diverso rilievo degli interessi pubblici garantiti e realizzati attraverso le due disposizioni consente di osservare che l'inerenza degli interessi pubblici all'impresa si colloca più verso l'''attività'' che verso la ''struttura soggettiva'' di essa, dando luogo a una vasta serie di combinazioni che tengono conto dei seguenti connotati: il criterio dell'attività, e cioè quello del contenuto economico dell'attività imprenditoriale (impresa bancaria, di grande distribuzione, erogatrice di servizi pubblici); il criterio del prodotto (medicinali, alimenti, componenti ad alto contenuto tecnologico); il criterio della circolazione (controlli all'origine, di qualità); il criterio del risultato economico.
Se si tiene conto di tale varietà appare quantomeno approssimativa la distinzione tra legislazione ''generale'' e ''speciale'' in materia di i. (Reggio d'Aci, Trovato 1990). In concreto, generale risulterebbe la legislazione in materia d'incentivazione all'i. e in materia di limitazioni all'attività industriale. L'attività d'incentivazione ha riferimento in linea di principio a categorie di imprese: piccola e media i., artigianato, imprese produttrici di energia; ma nella sua più appariscente applicazione ha sempre avuto a oggetto settori colpiti da crisi (i. tessile, chimica, siderurgica), oppure salvataggi, ristrutturazioni, riconversioni, ma sempre con riferimento a settori titolati. In materia di limitazioni, ancor più speciali si presentano le disposizioni, persino quelle dettate dall'esigenza di salvaguardare la sicurezza pubblica così come appare dallo stesso R.D.L. 18 giugno 1931 n. 773, T.U. delle leggi di pubblica sicurezza.
Impresa pubblica e impresa privata. Unitarietà del concetto e diversificazioni organizzative. - Un altro punto fondamentale è rappresentato dalla necessità di delimitare la materia trattata dal legislatore. Si potrebbe in effetti ritenere che oggetto di questa materia sia l'attività industriale privata e che debba conseguentemente distinguersi da quella riferentesi alle imprese pubbliche. La distinzione può essere mantenuta, purché si tenga conto dei punti caratterizzanti l'attività delle imprese pubbliche rispetto a quelle private, senza conseguenze, però, sull'unità della nozione d'impresa. Per il settore delle imprese pubbliche occorre considerare: che alcune attività di produzione di beni e servizi sono sottratte all'impresa privata e che tale sottrazione può essere generale (collettivizzazione), o riferentesi alle singole imprese; che tale collettivizzazione può avere come destinatario l'ente territoriale esponenziale della collettività (stato, comune, regione), o un organismo centrale diverso dallo stato (per es., l'ENEL), o una collettività di settore organizzata; che i servizi collettivizzabili possono essere organizzati in modo burocratico (scuole, ospedali), o in modo imprenditoriale, e allora l'attività collettivizzata diviene articolazione di un apparato amministrativo, oppure viene affidata a un imprenditore privato; che l'adozione del modello imprenditoriale comporta la costituzione di un'impresa-organo, organo dell'ente che ha collettivizzato, nel caso della statalizzazione, mentre nel caso della nazionalizzazione il modello comporta l'adozione della diversa figura dell'impresa-ente pubblico; che per i servizi non collettivizzabili l'assunzione dell'attività di produzione dei beni e servizi − che non esclude gli altri imprenditori − avviene attraverso enti pubblici economici equiparati a imprenditori, con posizioni di vantaggio sia di diritto (sottrazione al fallimento) sia di fatto connesse con la natura propria di ente, oppure attraverso l'acquisto o costituzione di una società di capitali di cui il pubblico potere diviene azionista, di regola principale.
A tale fenomeno ha dato luogo la costituzione di due enti, l'IRI e l'ENI, con compiti di direzione e controllo di un vasto numero di società private e di società finanziarie la cui gestione è detenuta dallo stato. A seguito dell'istituzione del ministero delle Partecipazioni statali, al quale passò la direzione dell'IRI, dell'ENI e di tutte le società in mano pubblica, il sistema delle partecipazioni statali (v. in questa Appendice) presenta, alla base della piramide, imprese del tutto private che non fanno parte dei pubblici poteri, non hanno privilegi, ma costituiscono la cosiddetta i. di stato.
È proprio con riferimento a tale ultima categoria che sorgono problemi particolari in ordine alla delimitazione dell'impresa pubblica rispetto a quella privata. Se tutte le forme di collettivizzazione previste dall'art. 43 Cost. sono regolamentate, al di là dell'apparente carattere di specialità per cui è prevista la presenza dell'operatore pubblico (ove lo richieda un preminente interesse generale), si osserverà che l'attuazione della norma dà luogo a strutture giuridiche istituzionali cui corrispondono figure organizzatorie di cui si occupa il diritto amministrativo, e cioè imprese-organo e imprese-ente pubblico. Con riferimento a entrambe le figure, vi è un rapporto di subordinazione con l'ente che ha proceduto alla collettivizzazione, con la differenza che mentre per l'impresa-ente il rapporto è di sola direzione, per l'impresa-organo il rapporto è anche gerarchico. Occorre poi tener conto delle assunzioni definite singolari, e cioè le assunzioni da parte di un pubblico potere, quando vi sia un fine pubblico che lo giustifichi, di un'attività produttiva non collettivizzata.
Al contrario, per quanto concerne le società a partecipazione statale il problema per alcuni è rappresentato dalla convivenza o ''compatibilità'' dell'interesse pubblico portato dalla struttura pubblica rispetto all'interesse sociale della struttura societaria; per altri, in via più generale, dal ''ruolo'' dell'impresa a partecipazione statale.
Va premesso che nella l. 22 dicembre 1956 n. 1589 si possono individuare tre livelli: quello di vertice del sistema rappresentato dal complesso ParlamentoCIPE-Governo; quello del ministero delle Partecipazioni statali; quello degli enti di gestione e delle società a partecipazione statale propriamente dette (Cassese 1962). Il problema investe congiuntamente gli ultimi due livelli, dal momento che la considerazione dell'interesse pubblico con riferimento all'interesse sociale della società in forma azionaria di cui l'ente detiene parte delle azioni, porta necessariamente a una conclusione non tanto d'incompatibilità quanto di ''alterità'' dei due momenti, e ciò indipendentemente dagli aggiustamenti che può assumere il problema partendo da considerazioni sulla recessività o svalutazione della causa lucrativa del contratto sociale.
Da tale punto di vista non potrebbe ritenersi inconfutabile la tesi di chi osserva che se è vero che è compito dei pubblici poteri perseguire l'interesse pubblico e a questo fine scegliere, nel rispetto dei principi fissati dalla Carta costituzionale, i mezzi e gli strumenti ritenuti più opportuni, non è men vero che, una volta operata questa scelta, gli stessi pubblici poteri siano vincolati dalla stessa e in particolare − in quanto ciò costituisce il nucleo fondamentale della decisione − al rispetto della ''funzione'' che gli istituti utilizzati sono chiamati ad assolvere nel complesso del sistema.
Il dilemma si scioglie osservando che la mera partecipazione a società non è di per sé esaustiva per poter affermare tout court che in tale ipotesi si sia di fronte a un'impresa pubblica: la società e l'ente perseguono le proprie finalità, l'interesse pubblico dell'ente gestore si realizza nella partecipazione alla società e nei comuni poteri di controllo e di direzione. Anzi proprio con riferimento alla partecipazione si possono comprendere le varietà di interessi pubblici che possono essere realizzati dagli enti di gestione.
Tale configurazione mette in evidenza l'altro problema, rappresentato dall'economicità di gestione prevista dall'art. 3 della l. 1956/1589, da alcuni ritenuto norma esternativa di un ''principio'' di gestione di tutti gli enti pubblici. Si può osservare, quanto meno sotto il profilo soggettivo, che la disposizione è riferita agli enti di gestione e che pertanto il contesto funzionale della norma va ricostruito in base al rilievo pubblico dell'attività degli enti e al vincolo che la norma crea. Va sottolineata tuttavia la circostanza che tale norma appartiene a quella parte del sistema che si concreta nella disciplina pubblica della materia. Se si conclude che il criterio sia riferito alla società − nel senso che esso sia sinonimo di redditività (Graziani 1956), oppure nel senso di criterio di valutazione comparativa del sacrificio effettivamente sostenuto rispetto al costo minimo che sarebbe consentito da un utilizzo razionale dei mezzi a disposizione (D'Albergo 1960) − oppure al ministro delle Partecipazioni statali, nel senso che da ciò conseguirebbe una nozione di economicità riferita alla gestione di tutte le partecipazioni, si deve escludere altresì, per quanto detto sopra, che si tratti di un ulteriore fine pubblico: si è di fronte invece a un criterio di modalità di perseguimento dei fini. Si propone pertanto che l'economicità sia sinonimo di autosufficienza della gestione con riferimento ai singoli enti autonomi e inoltre che il canone sia riferito all'attività di programmazione e d'indirizzo della gestione e non ai risultati di fatto conseguiti.
Le innovazioni della legge n. 218 del 1990: privatizzazioni e modello societario. - Un punto importante che conferma la multiforme consistenza nel settore del rilievo pubblico e privato dell'attività, è rappresentato dalla funzione di direzione. Detta funzione è connessa anzitutto alle vicende delle statizzazioni e nazionalizzazioni, cioè a due accadimenti che realizzano l'istituzione di una riserva di attività nelle mani di un ente territoriale esponenziale di collettività, o di un organismo centrale diverso dallo stato; ma riguarda anche l'ipotesi in cui il potere intraprenda un'attività di produzione di beni e servizi non collettivizzata e quindi senza eliminazione di imprenditori esistenti: l'organismo assuntore delle partecipazioni è in tal caso un ente pubblico, diretto da un ministro ed equiparato a un imprenditore. Nello stesso genere delle assunzioni singolari va ricompreso l'utilizzo dello strumento dell'acquisto o istituzione di una società di capitali di cui il pubblico potere diviene azionista, di regola principale.
Le partecipazioni statali così assestate pressuppongono sempre una decisione del potere politico e una decisione tecnico-economica degli enti pubblici sopra-ordinati alle società, che appunto dirigono e controllano le società stesse nelle quali hanno partecipazione di maggioranza o di minoranza. In base agli articoli 2458-2460 del codice civile, gli statuti sociali possono riservare all'ente pubblico azionista il potere di nomina di uno o più amministratori o sindaci. Se la nomina riguarda i sindaci la presidenza del collegio sindacale è di uno di questi.
Sotto il profilo del raccordo ente di gestione e società il subentro del potere decisionale del soggetto pubblico si può manifestare in vario grado, dal minimo rappresentato dalla direttiva fino all'ordine. Tutto ciò, tuttavia, corrisponde ad aspetti strutturali connessi con l'organizzazione degli apparati pubblici responsabili del settore e non con la nozione d'impresa. Ma questa funzione di direzione, come il criterio di economicità riferito agli enti di gestione, e altri elementi rappresentano appunto connotati della disciplina pubblica del settore e non connotati distintivi delle imprese in esso operanti.
Sul sistema delle partecipazioni statali (v.) porteranno sostanziali innovazioni gli effetti della l. 29 gennaio 1992 n. 35 che ha convertito il D.L. 5 dicembre 1991 n. 386 concernente la trasformazione degli enti pubblici economici, la dismissione delle partecipazioni statali e l'alienazione di beni pubblici suscettibili di gestione economica (la cosiddetta privatizzazione, le cui tappe e le cui modalità sono fissate dal D.L. 11 luglio 1992 n. 333). La nuova normativa accomuna nella possibilità di trasformazione in società per azioni gli enti di gestione delle partecipazioni statali, gli altri enti economici e le altre aziende economiche statali.
Le trasformazioni sono attuate in conformità agli indirizzi di politica economica industriale, nel rispetto dei criteri di economicità ed efficienza deliberati dal CIPE su proposta del ministro del Bilancio e della programmazione economica d'intesa con i ministri competenti. Le deliberazioni che subordinano l'attività degli enti e delle aziende a specifiche direttive gestionali cessano di avere vigore nei confronti delle società fatti salvi gli indirizzi di carattere generale.
I punti regolati dalla legge sono in sintesi due, e cioè le procedure di trasformazione e la disciplina delle partecipazioni risultanti dalla trasformazione. Le delibere di trasformazione sono approvate con decreto del ministro del Bilancio e della programmazione economica di concerto con il ministro del Tesoro e i ministri competenti. Per quanto concerne il secondo punto, le partecipazioni, fatti salvi i diritti di soggetti diversi dallo stato, possono essere alienate nel rispetto degli indirizzi del CIPE e previa approvazione del Consiglio dei ministri in conformità a specifiche deliberazioni delle Camere, ove da dette alienazioni e da ogni altra operazione derivi la perdita di controllo di maggioranza diretto o indiretto dello stato. Sempre sentito il CIPE, con decreti del ministro del Tesoro si provvede al collocamento anche parziale sul mercato finanziario e presso investitori istituzionali delle partecipazioni spettanti allo stato. Entrambe le manovre, e cioè collocamento e cessioni, devono essere eseguite in modo da assicurare diffusione tra il pubblico e da prevenire, anche in forma indiretta, concentrazioni o posizioni dominanti. I proventi derivanti dalla cessione delle partecipazioni sono versati in entrata allo stato.
Se si dà un provvisorio giudizio sui meccanismi contenuti nella legge, si osserverà che la privatizzazione riguarda, al di là degli enti di gestione delle partecipazioni, gli altri enti pubblici economici e le aziende economiche con esclusione delle aziende di credito pubbliche che hanno costituito oggetto di analoga − ma non identica − privatizzazione, mediante la l. 30 luglio 1990 n. 218 e il D.L. 20 novembre 1990 n. 356, nonché delle altre aziende ed enti cui partecipano prevalentemente le Regioni e gli altri enti locali.
La trasformazione riguarda propriamente la forma giuridica dei soggetti titolari di attività, ma prelude, nella legge, all'alienazione delle azioni, al collocamento sul mercato finanziario e al versamento dei proventi al Tesoro. Il che sta a significare, a diversità di altre privatizzazioni, che nelle intenzioni vi è l'idea di dismettere le partecipazioni; ma proprio la destinazione dei proventi incontrerà un non facile consenso degli enti di gestione. In secondo luogo, proprio con riferimento agli altri enti pubblici economici e alle aziende dello stato, la previsione di trasformazione in società per azioni rappresenta in modo indubbio la scelta di un nuovo modello, per giunta unitario, di gestione di attività economica da parte dello stato, che potenzialmente può rivoluzionare l'intero quadro dei soggetti pubblici operanti nel settore.
In sostanza, gli stessi strumenti dell'ente pubblico impresa e dell'organo impresa possono divenire recessivi nel senso che il nuovo modello societario può divenire preferenziale per la gestione di attività economica da parte dello stato. Non si dovrà solo confondere la ''privatizzazione'' che verrebbe a toccare il modello gestore, con l'altra privatizzazione consistente nella dismissione di attività economiche e ritenere che la stessa privatizzazione faccia scomparire, oltre che le strutture dapprima esistenti, il potere pubblico di raccordo tra impresa e amministrazione di governo dell'economia.
La nozione unitaria d'impresa nel diritto comunitario. - L'articolo 90 del trattato CEE afferma il principio che gli stati membri sono tenuti per le imprese pubbliche all'osservanza delle stesse regole fissate dal trattato nei confronti delle imprese private; tra queste regole, di rilievo è l'articolo 92 che, salvo deroghe previste dal trattato stesso, definisce incompatibili con il mercato comune, nella misura in cui incidono sugli scambi, gli aiuti concessi dagli stati − ovvero mediante risorse statali, sotto qualsiasi forma − che favorendo talune imprese o talune produzioni falsino o minaccino di falsare la concorrenza.
Con la direttiva 80/723 emanata dalla Commissione CEE ai sensi dell'ultimo comma dello stesso articolo 92, è stabilito che gli stati membri devono assicurare la trasparenza delle relazioni finanziarie tra i poteri pubblici e le imprese pubbliche, facendo risultare quali siano le assegnazioni di risorse pubbliche operate direttamente alle imprese, quali quelle effettuate tramite imprese pubbliche o enti finanziari nonché come le risorse stesse siano utilizzate. Ai sensi della stessa direttiva, s'intendono per imprese pubbliche quelle nei cui confronti i poteri pubblici possono esercitare direttamente o indirettamente un'influenza dominante per ragioni di proprietà, di partecipazione finanziaria o della normativa che le disciplina.
Nei ricorsi proposti da parte italiana e da altri paesi alla Corte di giustizia de L'Aia si è osservato che la competenza a disciplinare l'applicazione degli articoli 92 e 93 del trattato spetta al Consiglio CEE, mentre la competenza concorrente della Commissione in materia potrebbe essere ammessa solo se esistessero espresse disposizioni del trattato in tal senso; si è osservato altresì che l'art. 90 n. 3 mira ad agevolare l'applicazione degli artt. 85-94 e non a consentire alla Commissione di disciplinare in generale l'applicazione dell'insieme delle disposizioni del trattato nei confronti delle imprese pubbliche.
In realtà, l'art. 2 della direttiva 80/723 della Commissione CEE non ha provveduto a definire l'impresa pubblica quale risulta dall'art. 90, ma ha stabilito criteri per circoscrivere le categorie di imprese le cui relazioni finanziarie sono soggette all'obbligo d'informazione contemplato dalla direttiva. Di fatto l'art. 90 del trattato non prevede di dettare o enucleare criteri distintivi o definitori dell'impresa pubblica, ma impone solo che gli stati non emanino né mantengano nei confronti delle imprese pubbliche misure contrarie al trattato: ha inteso cioè affermare che tutte le imprese, a prescindere dalla proprietà e dal regime garantito loro dalle leggi dei vari paesi, sono eguali di fronte alle disposizioni sulla concorrenza della comunità; e garantire che l'''impresa pubblica'' non sia sinonimo di erogazione di sovvenzioni o agevolazioni alle imprese. Ciò giustifica del resto il richiamo, altrimenti ridondante, contenuto nello stesso art. 90 alle regole sui cartelli e sull'abuso della posizione dominante; ma, ciò che più conta, ferma la distinzione tra le due disposizioni degli artt. 90 e 92, nell'art. 92 è la natura pubblica dell'erogazione, e non del destinatario, a essere concretamente regolata. Nella prassi della Commissione emerge inoltre il criterio di considerare aiuti alle imprese tutti gli investimenti effettuati dai pubblici poteri in circostanze tali che non avrebbero indotto ad analoga scelta un investitore privato il quale, operando nelle normali condizioni di un'economia di mercato, avesse dovuto decidere al posto di quello pubblico; criterio sostanzialmente condiviso dalla Corte di giustizia nelle più recenti pronunce.
Rispetto alle varie pronunce intervenute in materia di aiuti dei paesi membri all'i., si potrebbe obiettare che dalla giurisprudenza della Corte di giustizia conseguirebbe soltanto una riprova dell'''atteggiamento'' comunitario in ordine al problema, ma non elementi utili in ordine all'assimilazione dell'impresa pubblica all'impresa privata nell'ambito dell'ordinamento stesso. In realtà la stessa Corte ha riconosciuto la non coincidenza tra la nozione d'impresa pubblica ex art. 90 del trattato CEE e quella assunta nella direttiva del 1980 sulla trasparenza, qualificando però la nozione d'impresa contenuta nell'art. 90 n. 1 come nozione di diritto comunitario, ma avente carattere funzionale e cioè libera dagli schemi con i quali i vari diritti nazionali sia pubblici che privati possono limitarla: e a questa stessa nozione si è riferita la direttiva del 1980 sulla trasparenza. È chiaro, ha osservato la Corte, che quando lo stato agisce come imprenditore indipendentemente dalla formulazione giuridica che viene usata in detto contesto, la Commissione non può essere fermata da una definizione giuridica d'impresa, ma deve vedere se effettivamente lo stato svolga un'attività di produzione o di scambio di beni e servizi. Né risulta che la definizione d'impresa pubblica debba, in ogni caso, potersi adattare a tutte le situazioni e che per conseguenza anche un organo diretto dello stato che distribuisce i suoi prodotti secondo proprie regole e prezzi rientra nel governo delle imprese pubbliche ai sensi della direttiva.
Attività industriale e interessi pubblici: la salvaguardia dell'ambiente. - Di rilievo appaiono le implicazioni del binomio i.-interesse pubblico, e cioè le modalità con le quali il diritto contempera l'esercizio delle attività produttive con gli interessi che possono essere coinvolti.
Se si accoglie il suggerimento che non è necessariamente l'impresa a dover essere presa in considerazione, si può affermare che schemi e modelli di disciplina sono condizionati dal tipo d'interesse pubblico che emerge. Possono infatti essere presi in considerazione l'insediamento dell'attività, il tipo di attività, la produzione di determinate sostanze e prodotti, la lavorazione nelle sue accezioni tecnologiche di determinati materiali (manipolazione, trattamenti, miscelazione, impiego). Lo spettro degli interessi coinvolti può essere il più diverso ma non necessariamente il più esteso. Si può altresì osservare che la parte più vistosa della normativa è dedicata a procedimenti autorizzatori con funzione prescrittiva nei confronti delle imprese: la disciplina e gli adempimenti e obblighi che ne conseguono è contenuta più che nell'atto in sé, nella parte prescrittiva che lo precede o l'accompagna (Giannini 1988).
Alle origini della normativa si colloca l'art. 64 del R.D. 18 giugno 1931 n. 773, T.U. delle leggi di pubblica sicurezza, secondo cui le manifatture, le fabbriche e i depositi di materie insalubri e pericolose possono essere impiantati soltanto nei luoghi e alle condizioni determinanti nei regolamenti locali, seguito da vicino dagli artt. 216 e 217 del R.D. 27 luglio 1934 n. 1265 del T.U. della legge sanitaria che prevedono rispettivamente: la formazione di un elenco diviso in due classi delle attività da approvare con decreto del ministro della Sanità di concerto con quello dell'Industria, a seconda che le attività stesse debbano essere isolate nelle campagne e tenute lontano dalle abitazioni, a meno che il responsabile non ne dimostri l'innocuità, oppure possano stare nell'abitato ma solo con particolare autorizzazione e rispettando le prescrizioni delle autorità; la facoltà del sindaco di prescrivere le norme da applicare per prevenire o impedire il danno o il pericolo e di assicurarsi della loro esecuzione.
Il d.P.R. 14 gennaio 1972 n. 4 ha attuato il primo trasferimento alle Regioni a statuto ordinario delle funzioni amministrative statali in materia di assistenza sanitaria e ospedaliera, mentre le competenze sono rimaste in capo agli organi statali in materia di aspetti igienico-sanitari delle i. insalubri. Conseguentemente si è ritenuto che mentre in tale delega va ricompreso il potere di decisione dei ricorsi gerarchici proposti contro i provvedimenti del sindaco al medico provinciale, rimanesse al sindaco il potere di emettere i provvedimenti stessi di cui agli artt. 216 e 217 del T.U. della legge sanitaria, emanati anche dopo l'entrata in vigore dell'ordinamento regionale, nella sua qualità di ufficiale di governo. In seguito, per effetto dell'art. 19 n. 12 del d.P.R. 24 luglio 1977 n. 616, sono stati attribuiti ai Comuni i provvedimenti delegati ai prefetti ai sensi dell'art. 64, terzo comma, del T.U. delle leggi di pubblica sicurezza 8 giugno 1931 relativi alle manifatture, fabbriche e depositi di materie insalubri o pericolose. Deve essere inoltre ricordata la disciplina introdotta dal d.P.R. 17 maggio 1988 n. 175 emanato ai sensi della l. 16 aprile 1987 n. 183 in attuazione della direttiva CEE n. 82/101 relativa ai rischi di incidenti rilevanti connessi con determinate attività industriali.
Ai fini dell'applicazione della normativa è definita attività industriale qualsiasi operazione effettuata in impianti industriali di cui all'allegato 1 che comporti o possa comportare l'uso di una o più sostanze pericolose; nonché il loro trasporto ed eventuale deposito effettuati all'interno dello stabilimento, o nelle condizioni specificate dall'allegato 2. Ai sensi dell'art. 3 del decreto il responsabile dell'attività industriale è obbligato a prendere tutte le misure atte a prevenire gli incidenti e a limitarne le conseguenze per l'uomo e l'ambiente nel rispetto delle disposizioni del testo e delle norme vigenti in materia di igiene e sicurezza del lavoro e di tutela della popolazione e dell'ambiente.
Il d.P.R. n. 175 introduce anche l'obbligo di ''notifica'' (artt. 4 e 5) e di ''dichiarazione'' di cui sono destinatari i ministri dell'Ambiente e della Sanità. Con la notifica il fabbricante dichiara di esercitare un'attività che comporta o può comportare la presenza di una o più sostanze pericolose, nelle quantità indicate nello stesso d.P.R., come prodotti e sottoprodotti della fabbricazione, residui, prodotti di reazioni incidentali o sostanze pericolose immagazzinate. Alla notifica va allegato un ''rapporto di sicurezza'' contenente una serie di informazioni che concernono le sostanze inquinanti, l'attività svolta, gli impianti, eventuali situazioni d'incidente rilevante, le misure di garanzia e assicurative adottate. L'altro adempimento è rappresentato dall'invio, nelle stesse ipotesi di attività che comporti o possa comportare l'uso o l'immagazzinamento di sostanze pericolose, di una dichiarazione alla Regione o Provincia autonoma territorialmente competente e al prefetto. Nella notifica e nella dichiarazione il fabbricante deve precisare che si è provveduto all'individuazione dei rischi di incidenti rilevanti, all'adozione di misure di sicurezza appropriate, all'informazione, addestramento e attrezzatura ai fini della sicurezza delle persone addette alla lavorazione. Sulla base delle comunicazioni inviate dal fabbricante, il ministero dell'Ambiente e il ministero della Sanità provvedono ad aprire un'istruttoria sull'attività pericolosa. Acquisiti gli atti istruttori e i pareri previsti dallo stesso d.P.R., il ministro dell'Ambiente, di concerto con il ministro della Sanità, formula le conclusioni, indicando le eventuali misure integrative o modificative e i tempi di adeguamento. Alla vigilanza sullo svolgimento dell'attività industriale provvede la Regione, mentre compete al prefetto la predisposizione del piano di emergenza esterna.
Anche per quanto concerne l'inquinamento atmosferico occorre fare riferimento alle sopraindicate norme del T.U. della legge di pubblica sicurezza e al T.U. della legge sanitaria.
L'art. 20 della l. 13 luglio 1966 n. 615 ha successivamente previsto che tutti gli stabilimenti industriali, oltre agli obblighi loro derivanti dalla classificazione come lavorazioni insalubri o pericolose di cui all'art. 216 T.U. della legge sanitaria, devono in conformità al regolamento di esecuzione della stessa legge possedere impianti, installazioni o dispositivi tali da contenere, entro i più ristretti limiti che il progresso della tecnica consente, l'emissione di fumi, gas o polveri o esalazioni che possano contribuire all'inquinamento atmosferico.
La successiva disciplina generale contenuta nel d.P.R. 24 maggio 1988 n. 203 ha dato attuazione alle direttive CEE 80/779, 82/884, 84/360 e 85/203 concernenti norme in materia di qualità dell'aria, relativamente a specifici agenti inquinanti prodotti dagli impianti industriali. In base all'atto d'indirizzo e coordinamento emanato con d.P.C.M. del 21 luglio 1989, il d.P.R. n. 203 si applica agli impianti industriali di produzione di beni e servizi, compresi quelli di imprese artigiane di cui alla l. 8 agosto 1985 n. 443 nonché agli impianti di pubblica utilità che diano luogo a emissioni inquinanti convogliate o tecnicamente convogliabili, esclusi quelli destinati alla difesa nazionale, delle centrali termoelettriche e delle raffinerie di oli minerali.
Per l'art. 6 dello stesso d.P.R. − in attesa di una riforma organica delle competenze per il rilascio delle autorizzazioni da parte dello Stato, Regioni ed enti locali, e fatte salve le competenze in materia di costruzione di nuovi impianti − sono sottoposti ad autorizzazione della Regione o della Provincia autonoma territorialmente competente le emissioni nell'atmosfera da parte di impianti di nuova costruzione. L'autorizzazione è rilasciata previo accertamento che siano state adottate tutte le misure di prevenzione dell'inquinamento atmosferico e che l'impianto non comporti emissioni superiori ai limiti consentiti.
Ad analoga autorizzazione sono sottoposti gli ''impianti esistenti'', che il d.P.C.M. del 1989 individua in quelli in funzione alla data del 1° luglio 1988, ovvero che, non ancora funzionanti, risultavano comunque costruiti in tutte le loro parti; e in tutti quelli per i quali vi era già autorizzazione ai sensi della l. 13 luglio 1966 n. 615 o del regolamento di esecuzione (d.P.R. 15 aprile 1971, n. 322) o concessioni e autorizzazioni ai sensi del R.D.L. 2 novembre 1933 n. 1731, convertito nella l. 8 febbraio 1934 n. 367.
Se si prescinde dalle norme contenute negli artt. 439 e 440 del codice penale − relativi all'avvelenamento di acque o sostanze alimentari e all'adulterazione o contraffazione di sostanze alimentari − e dalla norma generale contenuta nell'art. 217 T.U. della legge sanitaria, il primo testo di rilievo sulla disciplina degli aspetti qualitativi e quantitativi delle acque è la l. 10 maggio 1976 n. 319 che ha disciplinato gli scarichi di qualsiasi tipo, pubblici e privati, diretti e indiretti, in tutte le acque superficiali e sotterranee, interne e marine, pubbliche e private, nonché nelle fognature, nel suolo e nel sottosuolo. Nell'ambito degli scarichi la stessa legge ha distinto tra scarichi nuovi ed esistenti, tra insediamenti civili e produttivi, nonché in base alla destinazione: fogne, mare, fiumi, suolo e sottosuolo. Con riferimento agli scarichi in genere, la disciplina introduce un regime di autorizzazioni e impone limiti di accettabilità degli scarichi ai quali i reflui devono essere adeguati al momento dell'immissione nei corpi recettori.
Con l. 8 ottobre 1976 n. 690 sono stati definiti ''insediamento o complesso produttivo'' uno o più edifici collegati tra loro su un'area determinata dalla quale abbiano origine uno o più scarichi terminali e nei quali si svolgano prevalentemente, con carattere di stabilità, attività di produzione di beni; mentre si definiscono ''insediamenti civili'' complessi di edifici per le abitazioni o per lo svolgimento di attività alberghiera, turistica, ecc., o per ogni altra attività di tipo produttivo i cui scarichi siano assimilabili a quelli provenienti da abitazioni. La natura imprenditoriale dell'attività esercitata in modo prevalente in una determinata area non si ritiene sufficiente per qualificare uno scarico terminale come produttivo, dal momento che la stessa legge considera tra gli insediamenti civili anche le imprese agricole e le attività che, pur dirette allo scambio di beni o servizi, producono scarichi assimilabili ai primi.
Altro settore della normativa vigente è quello dei rifiuti derivanti dalle attività industriali. La normativa fa capo al d.P.R. 10 settembre 1982 n. 915 che ha dato attuazione a tre direttive CEE (n. 75/442 sui rifiuti, n. 76/403 sullo smaltimento dei policlorodifenili e dei policlorotrifenili e n. 78/319 sui rifiuti tossici e nocivi) e alla delibera del Comitato interministeriale per la prima attuazione dell'art. 4 della l. 27 luglio 1984 n. 915. Successivamente è intervenuta la l. 29 ottobre 1987 n. 441 che nel convertire il D.L. 361 del 1987 ha riguardato in particolare le precedenti approvazioni dei progetti di impianti di smaltimento e gli adeguamenti degli impianti esistenti. Da ultimo, la l. 9 novembre 1988 n. 475 ha convertito il D.L. 9 settembre 1988 n. 397 che, oltre a disposizioni urgenti in materia, ha dettato disposizioni di carattere generale (programma triennale per ridurre quantità e pericolosità dei rifiuti, obbligo di registri per i rifiuti speciali, rifiuti ospedalieri, contenitori di plastica, ecc).
Della distinzione tra rifiuti urbani, speciali e tossici e nocivi, interessano l'i. le ultime due specie: rientrano infatti tra i rifiuti speciali i residui derivanti dalle lavorazioni industriali e sono tossici e nocivi tutti i rifiuti che contengono o sono contaminati dalle sostanze indicate nell'elenco allegato al d.P.R. 915 del 1982, nonché i policlorodifenili, i policlorotrifenili e loro miscele in quantità e concentrazioni tali da presentare un pericolo per la salute e l'ambiente.
Ai fini dell'applicazione delle disposizioni di cui al testo da ultimo citato, va poi ricordato che per rifiuti industriali si intendono i rifiuti speciali, i rifiuti speciali assimilabili ai rifiuti solidi urbani e quelli tossici e nocivi; e ciò al fine di avviare i rifiuti speciali agli impianti destinati allo smaltimento di quelli urbani.
In genere, tutta la materia è oggetto di autorizzazioni da parte delle Regioni per quanto concerne gli enti e imprese che devono effettuare lo smaltimento dei rifiuti urbani e speciali prodotti da terzi, le operazioni di smaltimento dei rifiuti tossici e nocivi, l'installazione e gestione delle discariche e degli impianti di neutralizzazione ed eliminazione dei rifiuti speciali. Sono altresì sottoposti ad approvazione i progetti ed elaborati tecnici degli impianti di smaltimento e, per i rifiuti tossici e nocivi, ogni fase del loro smaltimento: raccolta e trasporto, stoccaggio provvisorio, trattamento, stoccaggio definitivo.
Sulla disciplina dello smaltimento dei rifiuti di origine industriale l'art. 4 della l. 9 novembre 1988 n. 475 prevede che le imprese possono procedere con priorità allo smaltimento in proprio dei rifiuti speciali e di quelli tossici e nocivi, oppure affidarne il trattamento a terzi autorizzati. Inoltre, le imprese possono conferire i rifiuti ai Comuni che gestiscono con esclusiva il servizio pubblico (art. 3 del d.P.R. 915 del 1982), agli impianti realizzati dalla Regione (art. 7 del D.L. 397 del 1988), oppure esportare i rifiuti stessi verso paesi CEE e dell'OCSE secondo quanto previsto dallo stesso testo.
Gli aiuti all'industria. - Negli aiuti all'i. si manifesta l'interesse pubblico verso il risultato economico dell'impresa che viene incentivata: ciò costituisce la parte più controversa della politica economica italiana dagli anni Sessanta in poi, come si è osservato in precedenza con riferimento all'orientamento degli organi comunitari e come si deduce dalle motivazioni della recente l. 30 luglio 1990 n. 218.
Si definiscono incentivazioni quegli istituti che comportano un vantaggio per l'impresa. Da queste si differenziano le sovvenzioni che possono assumere la forma di: contributi in conto capitale a fondo perduto; contributi in conto interessi per mutui d'impianto e di esercizio di attività, ottenuti da istituti di credito; premi per avere compiuto atti reali (escavazioni, esportazioni verso paesi determinati, ecc.); sovvenzioni in senso proprio erogate come capitale di esercizio, per ripianamento di passivi di bilancio o perché siano compiute determinate attività od opere. Caratteristica comune di tutte queste figure è rappresentata dall'atto dell'autorità amministrativa costitutivo di un rapporto obbligatorio in capo all'autorità stessa. Si chiamano contratti di finanziamento quei contratti a condizioni di favore (tasso di interessi, restituzione della somma, garanzie richieste), con obbligo di destinare la somma a un impiego determinato: essi sono preceduti da forme d'istruttoria varie a seconda che si svolgano presso l'autorità amministrativa o un istituto di credito; le varie forme di credito agevolato e i contratti di finanziamento rappresentano le forme più elaborate nelle quali s'introduce un controllo di gestione sull'attività dell'impresa finanziata. Invece i contratti di programmazione hanno a oggetto l'attuazione di progetti indicati in un atto di programmazione disposto dall'amministrazione e sono preceduti dalla presentazione e discussione di progetti da parte dell'impresa.
Una tipologia di rilievo è quella prevista dalla legislazione sul Mezzogiorno (v. mezzogiorno, in questa Appendice). La Cassa per il Mezzogiorno, nata come organismo per la costruzione di opere infrastrutturali con carattere di straordinarietà e divenuta nel 1957 organismo di attività ordinaria di sviluppo agricolo e industriale, è stata oggetto di successivi interventi che riguardano in particolare la disciplina dell'incentivazione delle iniziative industriali. Con l'art. 10 della l. 2 maggio 1976 n. 183 è stato istituito un Fondo nazionale per il credito agevolato al settore industriale, collocato presso il ministero dell'Industria e del Commercio e destinato per il 65% alle iniziative nei territori meridionali e per il 35% al restante territorio. Con la l. 1° marzo 1986 n. 64 − che ha rinnovato la disciplina dell'intervento straordinario ristrutturando la Cassa cui subentra l'Agenzia per la promozione dello sviluppo del Mezzogiorno e decentrando l'attività ad amministrazioni statali, regioni, enti locali, enti pubblici e non e a imprese − gli incentivi di maggior rilievo sono costituiti da: contributi in conto capitale per la costruzione, riattivazione, ristrutturazione e riconversione di stabilimenti industriali secondo scaglioni di investimenti da ultimo modificati dall'art. 9, comma settimo, della l. 64 del 1986; finanziamenti a tasso agevolato per la costruzione di nuovi stabilimenti industriali, l'ampliamento, la riattivazione e l'ammodernamento di stabilimenti esistenti. Con la stessa l. 64 è stato eliminato il limite di 30 miliardi per investimenti fissi e in corrispondenza di ciò il tasso d'interesse è stato modificato nella misura del 36% e del 60% del tasso di riferimento per le iniziative che rispettivamente raggiungono investimenti fissi fino a 30 miliardi, oppure superano detta cifra.
Altro modello è rappresentato dagli interventi del Fondo per la ristrutturazione e riconversione industriale, istituito con la l. 12 luglio 1977 n. 675 come amministrazione autonoma e gestione fuori bilancio. Il Fondo ha operato fino al 1988, anno in cui le disponibilità sono state assegnate al Fondo rotativo per l'innovazione tecnologica di cui all'art. 14 della l. 17 febbraio 1982 n. 46, unitamente a quelle resesi disponibili per la rinuncia da parte delle imprese interessate.
Tra i principali interventi del Fondo si segnalano i mutui agevolati e i contributi su interessi: destinatarie sono le imprese manifatturiere ed estrattive che realizzano nel territorio nazionale progetti di ristrutturazione e riconversione conformi ai programmi finalizzati approvati dal CIPI. Per programmi di ristrutturazione si intendono quelli diretti alla ristrutturazione tecnicoproduttiva delle imprese attraverso la razionalizzazione, il rinnovo, l'aggiornamento tecnologico degli impianti non implicanti aumento della manodopera impiegata nell'ambito dell'occupazione agricola e realizzati nell'ambito della preesistente struttura edilizia. Progetti di riconversione in senso tecnico sono quelli volti a introdurre produzioni appartenenti a comparti merceologici diversi, modificando i cicli produttivi degli impianti esistenti. Progetti di riconversione in senso lato sono invece quelli diretti a sostituire gli impianti esistenti nelle aree sviluppate del Centro-Nord mediante la realizzazione di nuovi impianti di corrispondente entità. Le agevolazioni sono disposte con procedure differenziate a seconda del tipo di agevolazione richiesta.
Il modello generale relativo a mutui e a contributi per interessi prevede che su domanda dell'imprenditore, rivolta a un istituto di credito, questo provveda a inviare una relazione istruttoria al CIPI per il tramite del ministero dell'Industria, alla quale seguono: un parere della Regione per progetti superiori a 30 miliardi; il parere del comitato tecnico previsto dall'art. 4 comma sesto della l. 675 del 1977; una proposta del ministro dell'Industria in ordine all'intervento agevolativo; la delibera del CIPI che accerta la corrispondenza del progetto agli indirizzi generali della politica industriale, ai programmi finalizzati alle direttive e priorità stabilite dallo stesso CIPI (art. 4, comma quarto, l. 675 del 1977). L'impegno di spesa sul Fondo è quindi assunto con decreto del ministro dell'Industria e a esso segue la stipula del contratto di mutuo o di erogazione del contributo in conto interessi.
Altri interventi di rilievo sono quelli a carico del Fondo speciale ricerca applicata e del Fondo per la ricerca tecnologica. Beneficiari del primo, istituito con l. 25 ottobre 1968 n. 1089, sono le imprese industriali e loro consorzi, gli enti pubblici economici che svolgono attività produttiva, società di ricerca costituite con mezzi del Fondo tra i soggetti indicati nonché tra società finanziarie di controllo e di gestione di imprese industriali, centri di ricerca promossi da imprese e loro consorzi, enti pubblici, società finanziarie di controllo e di gestione di imprese industriali, consorzi tra imprese industriali ed enti pubblici e istituti ed enti di ricerca a carattere regionale.
Le attività oggetto d'intervento sono rappresentate da progetti di ricerca applicata definiti autonomamente e realizzati dai soggetti anzidetti; programmi di ricerca finalizzati allo sviluppo di tecnologie fortemente innovative e strategiche suscettibili di traduzione industriale nel medio periodo; iniziative per il trasferimento a piccole e medie imprese di know how e di innovazioni tecnologiche nazionali; contratti di ricerca proposti da pubbliche amministrazioni anche regionali da realizzarsi da parte dei soggetti sopra indicati.
Per determinare il tipo d'intervento è ininfluente la natura del richiedente. Circa le imprese industriali e i consorzi, una prima forma d'intervento riguarda i progetti di ricerca applicata e di sviluppo per i quali sono previsti crediti a tasso agevolato nella misura dell'80% dei costi ammessi e contributi a fondo perduto per progetti che presentino particolare rilevanza tecnologica ed elevato rischio industriale. Contributi a fondo perduto sono previsti per piccole e medie imprese e relativi consorzi, per attività di ricerca di carattere applicativo svolte da laboratori autorizzati per conto di piccole e medie imprese e loro consorzi. A integrazione delle forme d'intervento sopra ricordate l'art. 1 della l. 5 agosto 1988 n. 346 prevede contributi in conto interessi per progetti di ricerca applicata d'importo superiore ai 10 miliardi da parte del ministero per il Coordinamento delle iniziative per la ricerca scientifica e tecnologica (oggi ministero della Ricerca scientifica e tecnologica), sui mutui stipulati dall'IMI.
Gli interventi del Fondo per l'innovazione tecnologica, istituito con la l. 17 febbraio 1982 n. 46, hanno per oggetto programmi d'innovazione tecnologica destinati a introdurre rilevanti avanzamenti tecnologici finalizzati a nuovi prodotti o processi produttivi o al miglioramento di quelli esistenti riguardanti le attività di progettazione, sperimentazione, sviluppo e preindustrializzazione unitariamente considerate.
Direttive del CIPI hanno precisato in quali termini deve intendersi richiesta la concorrenza delle fasi sopra indicate come pure la priorità dei programmi. L'intervento agevolativo per tali programmi consiste in crediti a tasso agevolato pari al 15% del tasso di riferimento per il periodo di preammortamento e al 60% dello stesso per il periodo di ammortamento. Per il procedimento di erogazione, in seguito all'istruttoria favorevole da parte del ministero dell'Industria sul programma d'innovazione presentato dai richiedenti, il CIPI, insieme all'ammissione del programma stesso alle agevolazioni del Fondo, delibera in ordine a entità, condizioni e modalità dell'intervento. Quindi il ministro dell'Industria stipula il contratto con l'impresa ed eroga il finanziamento sulla base di stati di avanzamento delle opere. La stessa agevolazione è prevista come incentivo per costituire consorzi e società consortili tra piccole e medie imprese per lo svolgimento di progetti di ricerca e innovazione.
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Ruolo e fasi di sviluppo dell'industria italiana. - All'inizio degli anni Novanta, il settore industriale in Italia risulta produrre poco meno di un terzo del valore aggiunto totale dell'economia (circa 37% nel Centro-Nord, circa 26% nel Sud), una quota eguale a quella della media dei paesi industriali (più elevata di quella statunitense e francese − meno del 30% −, inferiore a quella tedesca e giapponese, attorno al 40%). Come in questi paesi, la quota è scesa senza interruzione negli ultimi decenni (di circa l'8% a partire dall'inizio degli anni Sessanta) a favore di quella del settore terziario. A questo peso limitato, e in calo, si contrappone il ruolo tuttora primario dell'i. nel segnare sia il ciclo, sia le tendenze di lungo periodo dell'economia.
Nell'i. si concentra ancora grande parte dell'attività di ricerca e sviluppo di nuove tecnologie (le aziende industriali spendevano per la ricerca nel 1987 un valore pari al 3,0% del fatturato, contro l'1,2% delle imprese di altri settori) e si sperimentano e sviluppano nuovi prodotti e modi di organizzare la produzione (circa il 55% delle imprese industriali con oltre 20 addetti ha introdotto nel quinquennio 1981-85 innovazioni tecnologiche). Dalle innovazioni del processo produttivo derivano continui e ingenti risparmi di capitale e di lavoro.
Dallo stato di salute e dalla capacità concorrenziale del settore industriale dipende in larga misura il saldo delle transazioni correnti dell'Italia con il resto del mondo e, dunque, la sostenibilità della crescita. All'inizio degli anni Novanta, il flusso positivo di esportazioni nette (di importazioni) dei settori industriali non energetici non è in grado di fare fronte al crescente disavanzo delle altre transazioni correnti (in particolare: importazioni nette di energia e uscite per redditi da capitale). È infine l'i., anche per il peso dominante del lavoro dipendente (pari all'81% dell'occupazione complessiva del settore, contro solo il 54% nel settore dei servizi privati), che stabilisce il tono delle relazioni fra le parti sociali.
Un fattore soprattutto caratterizza l'i. italiana rispetto all'i. degli altri principali paesi industriali: il peso elevato delle imprese di piccola dimensione e il loro ruolo nello sviluppo economico.
Secondo la ripartizione per dimensione degli stabilimenti risulta che all'inizio degli anni Ottanta il 59,3% degli addetti alle attività industriali di trasformazione lavorava in Italia in stabilimenti con meno di 100 occupati, una quota superata solo da quella dell'economia giapponese e largamente superiore a quelle degli Stati Uniti (circa 25% nel 1977), dell'allora Germania federale e del Regno Unito (circa 19%) e della Francia. Questa quota è cresciuta in Italia in modo assai rilevante nel cinquantennio successivo alla seconda guerra mondiale. Con riferimento, più propriamente, alle imprese, si stima che a metà degli anni Ottanta circa il 20% del valore aggiunto totale dell'i. in senso stretto (i. al netto delle costruzioni) era prodotto in Italia da imprese con meno di 10 addetti, contro un valore medio di 9% per il complesso dei paesi CEE.
A un peso elevato delle imprese minori, l'i. italiana unisce una marcata dicotomia di comportamenti e di risultati fra queste e le imprese maggiori. Per quantificarla si può fare riferimento alle sole imprese della trasformazione industriale con 20 addetti e oltre, per le quali esiste ampia informazione statistica. Si considerano due fasce dimensionali: quella delle ''piccole imprese'', comprese fra 20 e 99 addetti, e quella delle ''medio-grandi imprese'', con oltre 200 addetti.
Le piccole imprese hanno sostenuto lo sviluppo dell'economia italiana lungo tutto il ventennio 1970-90 senza discontinuità, con un tasso di crescita stabile e assai elevato del prodotto (circa 5% medio annuo), una lieve ma continua dinamica espansiva dell'occupazione (0,4% l'anno), una crescita della produttività del lavoro stabilmente attorno al 4,5% (salvo negli anni della prima crisi petrolifera) e una quota dei profitti lordi sul valore aggiunto sempre assai elevata. Viceversa, le imprese medio-grandi, con una dinamica media di prodotto (2,3%) e occupazione (−2,9%) assai meno soddisfacente e una crescita della produttività simile (5,3%), presentano nel ventennio un'evoluzione assai irregolare: dalla crisi degli anni Sessanta e Settanta, alla ''ristrutturazione senza crescita'' (1978-86), fino al ritorno a un'espansione della capacità produttiva.
Le fasi attraverso cui si snoda la vicenda delle imprese mediograndi, segnando l'evoluzione dell'intera economia, possono essere prese a riferimento per rappresentare le linee di tendenza dell'i. italiana nel periodo 1970-92. Si possono identificare cinque fasi.
Fase 1969-73: gli shock e la prima reazione. − Nei 20 anni successivi alla fine del conflitto mondiale, lo sviluppo dell'i. era stato assicurato, oltre che dalla mobilitazione di risorse per la ricostruzione, dal concorrere di diversi fattori: la liberalizzazione degli scambi (culminata con la nascita del Mercato comune); la stabilità monetaria internazionale; l'intervento pubblico nei settori di base e nel Mezzogiorno; la diffusione di un sistema tecnologico fondato su produzioni a elevata intensità energetica e di un ''modello fordista'' di organizzazione della produzione imperniato sulla grande scala. Le piccole imprese avevano svolto una funzione essenzialmente sussidiaria nei confronti di quelle grandi, assorbendo le fluttuazioni del ciclo.
I primi segnali d'instabilità si erano manifestati nella prima parte degli anni Sessanta nel mercato del lavoro, con l'accelerazione della crescita dei salari reali e il conseguente apprezzabile spostamento della distribuzione del reddito a sfavore dei profitti (fig. 1). Sul finire degli anni Sessanta l'interazione di fattori fra loro assai diversi fa rapidamente venir meno i presupposti della precedente fase di sviluppo.
Uno di questi fattori era andato maturando lentamente. Già negli anni precedenti, si erano rese disponibili nuove tecnologie dell'informazione capaci di ridurre la rigidità del capitale (sia nell'ordine di esecuzione delle funzioni produttive sia nella varietà dei beni prodotti), di ridurre la scala minima efficiente degli impianti e di accrescerne il grado di utilizzo. Altri due fenomeni si presentano in modo più improvviso, comunque non previsto: l'esplosione, a partire dal 1969, delle rivendicazioni salariali e normative; l'arresto e l'inversione − che si rivelerà temporanea − del trend discendente della ragione di scambio fra materie prime non energetiche e manufatti e, nella seconda metà del 1973, il balzo del prezzo del petrolio greggio. Il primo di questi due fenomeni è il più importante. Proprio la sua persistenza dopo il 1970 differenzia il caso italiano da quello delle altre economie europee: fra il 1970 e il 1973 la retribuzione oraria cresce a un tasso medio annuo straordinario (11,7% in termini reali). Nonostante l'impennata della produttività oraria (9,0% di crescita annua), la quota sul valore aggiunto dei profitti lordi delle imprese medio-grandi, già in rapida discesa dal 1962, prende a fluttuare attorno al 24%, 8 punti in meno della media degli anni Cinquanta (fig. 1).
L'incremento di produttività oraria è il risultato del primo tentativo di aggiustamento realizzato dalle imprese di fronte alle mutate condizioni esterne. Due ne sono le direttrici. Le maggiori imprese industriali, anziché avviare un processo di ammodernamento tecnologico e di revisione dell'organizzazione del lavoro, accrescono la dotazione di impianti e macchinari e si spostano, fino al 1977-78, su produzioni a più alto rapporto capitale/lavoro. Vi concorre in modo rilevante l'operatore pubblico, con ingenti investimenti nel Sud e attraverso l'azione della politica economica, caratterizzata da tassi d'interese reali fortemente negativi. Nel complesso dell'i. in senso stretto, in presenza di profitti insoddisfacenti, il peso sul complesso dei finanziamenti del debito verso le istituzioni creditizie passa da circa il 34% del 1970 al 51% del 1973. Al tempo stesso, le maggiori aziende industriali avviano il decentramento di attività produttive al fine di ridurre la congestione sociale dei grandi impianti e di capitalizzare la minore conflittualità e i minori salari delle piccole imprese.
Fase 1974-77: incertezze delle grandi, certezze delle piccole imprese. − Il periodo che va dalla fine del 1973 all'inizio del 1977 vede profonde incertezze nell'azione delle imprese medio-grandi e della politica economica e il rapido sviluppo del sistema delle piccole imprese.
A livello macroeconomico, con un'elevata variabilità del tasso d'inflazione, tasso d'interesse reale e tasso di cambio divengono molto instabili. La forte svalutazione nominale della lira che si verifica in questi anni − tre crisi valutarie si susseguono nel 1976 − non ha alcun effetto positivo sui margini di profitto industriali. La costante pressione rivendicativa dei sindacati assicura, infatti, il recupero dei salari, il cui valore reale cresce ancora a tassi assai elevati. A essere sospinto verso l'alto è solo il tasso d'inflazione.
Le imprese medio-grandi sperimentano subito i limiti della strategia volta ad accrescere il capitale senza ammodernarlo. Colpite dalla crisi petrolifera e dall'incertezza sui prezzi relativi e sulle prospettive di crescita, esse vedono stagnare la produttività e i margini di profitto (tab. 1). In netta controtendenza sono le piccole imprese industriali, che consolidano il processo di sviluppo autonomo e innovativo iniziato nei primi anni Settanta. Favorite nell'affacciarsi sui mercati internazionali dall'intensa svalutazione del cambio, ma soprattutto capitalizzando il patrimonio culturale e imprenditoriale dei distretti industriali, le piccole imprese crescono di numero e danno luogo a una dinamica sostenuta del prodotto e della produttività (tab. 2).
Con questo sviluppo si afferma in questi anni un modello di organizzazione produttiva assai congeniale alle nuove tecnologie, che pure con problemi ha poi resistito alla prova degli anni Ottanta. Nel sistema delle piccole imprese italiane, le singole fasi, anche molto specifiche, dei processi di lavorazione si localizzano in impianti separati, facenti capo a imprese autonome specializzate in poche fasi del processo produttivo di molti beni. La capacità d'innovazione è notevole. La proporzione di lavoratori specializzati o comunque coinvolti attivamente nel processo produttivo è elevata. La retribuzione pro capite è inferiore a quella delle imprese medio-grandi (di circa il 37% nel 1973, decrescente negli anni successivi, fino a stabilizzarsi attorno al 20% a partire dal 1980), perché maggiore è in queste imprese il coinvolgimento del lavoro nell'attività produttiva, e minori sono i costi − di assunzione, di licenziamento, di controllo sulle prestazioni − il cui aumento migliora la posizione contrattuale degli occupati. La collaborazione e la collusione fra le imprese nel ripartirsi la domanda è assai elevata, specie nei distretti territoriali.
Fase 1978-80: lo svecchiamento del capitale. − Nel periodo che va dal 1977 al 1980, mentre prosegue il rapido sviluppo delle imprese minori (tab. 2), si avvia il risanamento delle medie e grandi imprese industriali e se ne delineano i connotati. A ciò contribuiscono una politica di concertazione sindacati-imprenditori-governo relativa ai salari e alle condizioni d'impiego del lavoro e una politica espansiva monetaria e del cambio. Indipendentemente dalla natura più o meno preordinata della strategia complessiva, la prima politica si presenta, a posteriori, come la condizione preliminare e necessaria per restituire margine di redditività e di liquidità alle imprese; la seconda come lo strumento che ha consentito alle imprese di sfruttare quei margini.
All'inizio del 1977, nel quadro di un'evoluzione delle alleanze politiche che aveva visto l'assunzione di responsabilità indirette di governo da parte del Partico comunista, sindacati e imprenditori avevano realizzato un ''accordo interconfederale'' (26 gennaio) di notevole importanza per il raffreddamento salariale, una maggiore flessibilità interna del lavoro, e una cospicua fiscalizzazione degli oneri sociali. Notevoli sono, nei successivi tre anni, gli effetti sulla dinamica del costo del lavoro. Nonostante i rinnovi contrattuali e l'elevato grado di copertura della scala mobile, la crescita annua del costo per dipendente delle imprese medio-grandi decelera in termini reali dal 3,0% del 1974-77 allo 0,3% del 1978-80. L'inversione di tendenza nelle rivendicazioni salariali appare ancora più evidente ove si tenga conto del fatto che la pressione fiscale sui lavoratori dipendenti cresce in questi tre anni dall'11,5 al 16%.
La ripresa della domanda consente alle imprese di trarre vantaggio dal rallentamento retributivo. A partire dal 1978, esauriti gli effetti della stretta fiscale, la ripresa è favorita nella sua componente interna dal livello dei tassi d'interesse: il tasso reale sugli impieghi diviene negativo e rimane su livelli modesti anche nel 1980. Sempre in direzione espansiva muove la politica del cambio. Il deprezzamento nei confronti dei concorrenti europei, avviato sul finire del 1977 (avvantaggiandosi della caduta del dollaro) e proseguito fino alle prime settimane del 1979 in previsione dell'entrata in vigore dello SME, è modesto nell'entità. Ma, con la ripresa del commercio internazionale, assicura che il vincolo esterno non ponga un limite stringente alla crescita della domanda interna, garantendo alle imprese uno spazio per l'aumento dei prezzi. A non alimentare la rincorsa salari-prezzi intervengono gli accordi triangolari tra sindacati, imprese e governo, prima richiamati. La ripresa inflazionistica può così risolversi in uno spostamento della distribuzione del reddito a favore dei profitti.
Fra il 1977 e il 1980, per la prima volta dalla fine degli anni Sessanta, la quota dei profitti lordi sul valore aggiunto torna a salire dal 24,5 a quasi il 27% nelle imprese medio-grandi. Al tempo stesso, la stabilità dei tassi monetari sugli impieghi determina, in presenza dell'accelerazione inflazionistica, nuove opportunità di restituzione anticipata dell'elevatissimo debito. Dalla fine del 1977 l'indebitamento riprende a cadere in rapporto al prodotto, mentre il suo peso nei finanziamenti complessivi scende da oltre il 50 a circa il 40% nel 1980 nel complesso dell'i., nonostante l'accelerazione dell'accumulazione.
In questo scenario vengono meno due strumenti che avrebbero dovuto accompagnare la politica della concertazione triangolare: il piano per la disoccupazione giovanile (l. 1° giugno 1977 n. 285) e, soprattutto, il programma di ristrutturazione e riconversione industriale (l. 12 agosto 1977 n. 675). Il taglio dirigista di quelle leggi, l'onnicomprensività degli obiettivi, gli ostacoli frapposti alla loro attuazione rendono impossibile realizzare gli obiettivi ambiziosi che si proponevano: l'uniformità territoriale dello sviluppo economico; la compensazione del disavanzo energetico e agro-alimentare (v. oltre); uno sviluppo adeguato dei comparti tecnologicamente strategici; la compensazione della disoccupazione tecnologica. Obiettivi che sono altrettanti risultati mancati della ristrutturazione degli anni Ottanta.
Il fallimento del tentativo di programmazione della ristrutturazione si riflette, anche per un'altra via, sulla natura del processo di aggiustamento. Con l'accordo del 1977, i sindacati avevano offerto una nuova politica salariale e normativa in cambio di un patto sociale che affidasse loro un ruolo centrale nella politica d'indirizzo pubblico della ristrutturazione. La mancata realizzazione del ''patto sociale'' si tradusse di fatto nella delegittimazione del sindacato e insieme dell'operatore pubblico e nella legittimazione dell'imprenditoria privata a definire autonomamente le modalità del processo di aggiustamento. La politica industriale pubblica si adatta a svolgere una funzione, peraltro cruciale, di supporto passivo (via trasferimenti correnti) all'aggiustamento in atto. Al sindacato rimane la funzione di tutela, in un orizzonte di breve termine e in modo difensivo, degli interessi dei propri iscritti, e soltanto di una parte di essi a partire dal 1981.
L'imprenditoria delle grandi imprese sa sfruttare gli spazi offerti dalla nuova politica salariale e dal cambio. Con la ripresa dei profitti e con il miglioramento della situazione patrimoniale (favorita dal modesto costo reale del denaro) vengono soddisfatte le condizioni finanziarie per l'avvio della costosa e rischiosa azione di sostituzione e ammodernamento degli impianti richiesta dai cambiamenti iniziati oltre un decennio prima. Dopo avere mantenuto sostanzialmente invariato, fra il 1969 e il 1977, il tasso di sostituzione del capitale fisso, a partire dal 1978 le medie e grandi imprese realizzano disinvestimenti accelerati di notevole entità. La durata media di vita degli impianti e dei macchinari (che misura la lunghezza media del periodo durante il quale il capitale viene mantenuto in attività presso le aziende), che oscillava da almeno un decennio fra i 17,4 e 18,1 anni, viene ridotta di circa due anni, scendendo a 16,2 nel 1980.
L'avvio dello svecchiamento del capitale coincide con l'arresto della caduta degli investimenti, ma la spesa per nuovi investimenti sostitutivi è inferiore al costo di rimpiazzo dei capitali disinvestiti. A una crescita modesta del prodotto (tab. 1) e sostanzialmente nulla del potenziale produttivo, si accompagna così una riduzione dell'ammontare di capitale a prezzi costanti (fig. 2). La ristrutturazione produttiva avviata dalle imprese medio-grandi nel periodo 1978-80 si configura come un processo di rinnovamento tecnologico che risparmia sia lavoro che capitale. Il risparmio di lavoro si manifesta solo nella quarta fase, a partire dal 1980.
Fase 1981-86: risanamento senza crescita. − Fra il 1980 e il 1986 le medie e grandi imprese riducono l'occupazione del 30%. Elevano il tasso medio annuo di crescita della produttività dal 2,2 del periodo 1974-80 al 7,9%. Portano la quota dei profitti lordi sul reddito al di sopra del livello massimo degli anni Cinquanta (fig. 1), oltre nove punti in più nel 1986 rispetto al 1980 (dal 26,8 al 36,0). I fondi interni addizionali, creati dal miglioramento della gestione industriale, vengono impiegati per rimborsare i debiti e, in genere, per sviluppare e rendere più efficiente la gestione finanziaria, specialmente di breve periodo, portando fra il 1982 e il 1986 la quota sul valore aggiunto degli oneri finanziari netti dal 14,9 al 7,4%.
Due fattori determinano lo straordinario aumento di produttività: il primo è l'ammodernamento degli impianti intrapreso nel decennio precedente e proseguito attraverso nuovi disinvestimenti accelerati e un'ulteriore riduzione del capitale fisso installato; il secondo è l'impiego più flessibile e più intenso del lavoro con una notevole flessione dell'occupazione e un aumento relativo del contributo del lavoro qualificato a scapito di quello ''fordista'' tradizionale (fig. 2).
Del primo fattore si è detto. Il secondo è complementare al risanamento del capitale. Esso si afferma non con la partecipazione, ma contro i sindacati prima, con la loro accettazione passiva poi, e si realizza lungo tre direttrici. La prima di esse è la massiccia riduzione del monte ore lavorate. Dopo la soluzione (ottobre 1980) della vertenza Fiat favorevole alla proprietà, tale riduzione viene assecondata mediante il ricorso massiccio alla Cassa integrazione guadagni, specie a quella a zero ore, che facilita l'interruzione di fatto del rapporto di lavoro. Sul piano retributivo, la dinamica salariale rimane assai modesta (tab. 1), specie ove si consideri l'ulteriore crescita della pressione fiscale sui lavoratori dipendenti (dal 16 al 21% della retribuzione lorda nel complesso dell'i. fra il 1980 e il 1986). Infine, le imprese accrescono la loro autonomia nella gestione del lavoro: si riducono le assenze (da oltre il 13% del totale delle ore lavorate nel 1980, a circa l'8% nel 1986), mentre vengono introdotte forme di assunzione nominativa e di salario d'ingresso.
Alla ristrutturazione delle imprese maggiori in questi anni concorre anche il radicale mutamento del quadro macroeconomico e di politica monetaria. Con l'adesione allo SME il tasso di cambio nominale viene fatto scivolare lentamente e con ritardo. Quanto al tasso d'interesse, esso risente della transizione a una politica monetaria di tipo indiretto: il tasso reale sugli impieghi viene riportato, e poi stabilizzato, su un livello elevato (circa 10%). Scopo di questa nuova politica è ridurre il tasso d'inflazione. Ma essa è anche di stimolo alla politica di ammodernamento delle imprese attraverso la riduzione del grado d'incertezza rispetto al quadro macroeconomico e attraverso la pressione che il più elevato tasso d'interesse reale esercita all'accrescere il contributo delle fonti interne di finanziamento.
Mentre le medie e grandi imprese si ristrutturano, quelle minori mantengono il tasso di crescita del precedente decennio, continuando a incrementare produttività del lavoro e margini di profitto senza, tuttavia, imprimere loro un'accelerazione. Scarsamente beneficiate dalla politica industriale e (se non ''involontariamente'') dalle politiche del lavoro, le imprese minori vedono, tuttavia, accentuarsi due limiti al loro sviluppo che erano già andati delineandosi negli anni precedenti: nel ricorso alle fonti esterne di finanziamento e nelle fasi di terziarizzazione del processo produttivo, a monte e a valle dell'attività propriamente di trasformazione industriale. Lo sviluppo in proprio di ricerca, formazione del lavoro, commercializzazione, raccolta, elaborazione ed erogazione di informazioni è limitato dalla dimensione. Questo vincolo non è compensato nelle imprese minori da un maggiore ricorso a servizi prodotti all'esterno.
Fase 1987-92: i limiti del risanamento. − A partire dal 1987, da parte delle medio-grandi imprese si manifestano i primi segnali di un ritorno all'ampliamento della capacità produttiva. Vi contribuisce il persistere del ciclo espansivo della domanda mondiale su cui s'innesta con potente effetto accelerativo il controshock petrolifero.
Dopo una flessione continua nel corso degli anni Settanta e una crescita moderata nel periodo 1980-86, gli investimenti fissi lordi delle medio-grandi imprese crescono assai rapidamente nel biennio successivo (tab. 1). Stimolata dalla migliore prospettiva di domanda, aumenta, inoltre, secondo l'indagine campionaria condotta dalla Banca d'Italia, la quota degli investimenti destinati ad ampliare la capacità produttiva. Gli effetti sul prodotto sono immediati: nel biennio 1987-88 esso cresce annualmente del 7,4%, contro meno del 2% nel precedente quinquennio. La produttività del lavoro rimane sul notevole trend di crescita dei primi anni Ottanta, mentre, nonostante l'accelerazione della dinamica retributiva reale, i margini di profitto continuano a crescere, raggiungendo un nuovo picco storico (fig. 1).
Anche le piccole imprese colgono questa fase espansiva per accelerare l'espansione degli investimenti, ma per la prima volta dall'inizio degli anni Settanta il prodotto cresce meno che nelle imprese maggiori. Anche grazie a una dinamica modesta delle retribuzioni, rimane invece assai positiva la profittabilità (tab. 2).
L'espansione degli investimenti delle imprese maggiori viene interrotta a partire dal 1989 dal notevole rallentamento dell'economia mondiale. L'inversione del ciclo economico, assieme a una politica del cambio che dalla primavera del 1988, in previsione della piena liberalizzazione dei movimenti di capitale e dei nuovi accordi monetari, si fa ancora più stringente, porta allo scoperto i limiti del processo di ristrutturazione realizzato dalle medie e grandi imprese industriali negli anni Ottanta. Questi limiti erano già apparenti a una ricognizione dei risultati settoriali degli anni precedenti. I quattro settori industriali che avevano realizzato una più radicale sostituzione di impianti, i massimi incrementi di produttivà e di profitti, la più rapida contrazione degli oneri finanziari e del debito − i settori a tecnologia avanzata degli elaboratori, del materiale elettrico ed elettronico, della chimica e il settore degli autoveicoli, nei quali è predominante il peso delle medie e grandi imprese − non avevano tradotto questi progressi in alcun miglioramento della propria posizione sui mercati interno e internazionale: a una quota sulle esportazioni totali dei paesi industrializzati stazionaria, quando non in calo, si accompagnava un disavanzo commerciale superiore a quello dell'intero comparto energetico (tab. 3). Alla fine degli anni Ottanta, queste difficoltà si accentuano, riprendono a calare gli investimenti, e flettono rapidamente i margini di profitto (fig. 1).
Al di là dei fattori ciclici, l'origine di questi risultati va cercata nel mancato adeguamento delle condizioni esterne all'i. − segnatamente, infrastrutture, efficienza dei servizi per le imprese, regole del mercato del lavoro − e nei limiti delle strategie adottate dalle stesse imprese industriali nel corso del precedente decennio: a) al rinnovamento del capitale e al risparmio di lavoro non è corrisposta una revisione interna del lavoro che, come richiedono le nuove tecnologie, ricercasse una maggiore integrazione fra lavori esecutivi e di controllo e lavori di progettazione e di direzione; b) risorse inadeguate sono state rivolte agli obiettivi di diversificare i prodotti, accelerarne il rinnovo, assistere l'utente; c) sul sistema delle imprese a partecipazione statale sono gravate l'assenza di una demarcazione fra finalità pubbliche (oneri impropri) e gestione secondo criteri di mercato e l'assenza di sistemi d'incentivazione della dirigenza; d) nell'area privata, alla ricerca di un'espansione della propria quota sui mercati interno ed estero le imprese hanno spesso preferito l'accordo strategico, esplicito o tacito, con altri grandi produttori per il mantenimento delle quote di mercato. All'inizio degli anni Novanta, il mantenimento di competitività dell'i. e la ripresa del suo sviluppo appaiono affidati, oltre che alla compressione del differenziale d'inflazione con i principali concorrenti, alla soluzione di questi problemi, attraverso l'intervento pubblico e i comportamenti privati.
Bibl.: Le principali fonti d'informazione, oltre ai censimenti decennali e ai conti nazionali pubblicati dall'ISTAT, sono: ISTAT, Indagini sul prodotto lordo svolte annualmente per le imprese con oltre 20 addetti (Fatturato, prodotto lordo, investimenti delle imprese...) e saltuariamente per le imprese comprese fra 5 e 19 addetti (volumi pubbl. nella Collana d'informazione); Id., Tavole intersettoriali dell'economia italiana (1965-70-71-72-73-74-78-80-82-85); Mediocredito Centrale, Indagine sulle imprese manifatturiere con oltre 10 addetti (1968-73-78-84); Mediobanca, Dati cumulativi sulle medie e grandi società, pubbl. annualmente (dal 1968); Banca d'Italia, Indagine sugli investimenti svolta su un campione di imprese con oltre 50 addetti (dati disponibili su richiesta).
Per i raffronti internazionali, oltre ai conti economici nazionali riportati nelle pubblicazioni dell'Eurostat e dell'OCSE, informazioni comparate sono contenute nell'Economic Outlook e nell'Historical Statistics pubblicati dall'OCSE.
Studi: Crisi e ristrutturazione dell'economia italiana, a cura di A. Graziani, Torino 1975; A. Heimler, C. Milana, Prezzi relativi, ristrutturazione e produttività, Bologna 1984; F. Momigliano, L'innovazione industriale e la condizione dell'Italia, in Innovazioni tecnologiche e struttura produttiva, a cura di G. Antonelli, ivi 1984; M. Salvati, Economia e politica italiana dal dopoguerra a oggi, Milano 1984; Struttura industriale e politiche macroeconomiche in Italia, a cura di I. Cipolletta, Bologna 1986; F. Barca, M. Magnani, L'industria fra capitale e lavoro, ivi 1989 (con ampia bibl.); S. Brusco, Piccole imprese e distretti industriali: una raccolta di saggi, Torino 1989; NOMISMA, Rapporto 1991 sull'industria italiana, Bologna 1992.
L'industria italiana in prospettiva internazionale. - Negli anni Ottanta, il sistema economico italiano − così come quello degli altri paesi a elevato sviluppo economico − è stato caratterizzato da una progressiva riduzione del peso e del contributo relativo del settore industriale all'attività economica.
Tale fenomeno − che, a partire dagli anni Settanta, si accompagna a quello assai precedente della perdita di peso dell'attività agricola − è evidenziato da molti indicatori del contributo dei cosiddetti ''macrosettori produttivi'' (agricoltura, i. e servizi) all'attività economica (tabb. 5 e 6). Ancora nel 1980, il contributo all'occupazione totale italiana del settore industriale e di quello dei servizi destinati alla vendita era sostanzialmente uguale, e pari al 36%. Già nello stesso anno, più della metà dell'occupazione totale italiana risultava attribuibile ad attività produttive di servizi, inclusi quelli della pubblica amministrazione (non destinati alla vendita). Nel corso degli anni Ottanta, il peso percentuale dell'occupazione industriale − sull'occupazione totale in Italia − è costantemente diminuito fino a rappresentare nel 1991 meno del 30% del totale. La prosecuzione di questa tendenza porterebbe − nel 1995 − la quota percentuale dell'occupazione italiana nell'i. al 27%.
Il continuo declino del peso relativo dell'i. italiana è altresì rilevabile attraverso l'andamento della produzione lorda (a prezzi del 1980) dei macrosettori produttivi. Nel 1980, l'attività industriale copriva il 54% della produzione lorda italiana, mentre nel 1990 tale contributo è sceso al 37%. In termini di valore aggiunto (a prezzi del 1980) − ossia, di differenza tra il valore della produzione lorda e il valore dei prodotti intermedi utilizzati per il suo ottenimento − la perdita di peso dell'i. italiana appare meno rilevante e, almeno negli ultimi anni Ottanta, sembra emergere una timida inversione di tendenza. Sempre nel 1980, la quota di valore aggiunto attribuibile al settore industriale era − in Italia − pari al 39,4%, contro una quota dei servizi (in senso lato) pari al 54,8%. Nel 1987 la quota di valore aggiunto industriale risultava scesa al 37,1% mentre nel 1991 è risalita fino al 33,95%. Nello stesso periodo 1987-91, la quota di valore aggiunto nazionale italiano attribuibile ad attività produttrici di servizi è salita al 61,6%.
La diminuzione progressiva del ''peso economico'' − in termini di contributo ''relativo'' all'attività economica − del settore industriale e, in generale, dei settori produttori di beni (dal settore agricolo a quello dell'i. e delle costruzioni) rispetto a quelli produttori di servizi (trasporti, comunicazioni, credito, ecc.) è un fenomeno noto da tempo e comune a tutti i paesi a elevato sviluppo economico e reddito per abitante. La storia economica dei paesi a più antica industrializzazione e a elevato livello di reddito per abitante − come la Gran Bretagna, la Germania e gli Stati Uniti − è infatti contraddistinta da modificazioni regolari nella struttura settoriale dell'attività produttiva e dell'occupazione, riassumibili nell'ampliamento progressivo del peso delle attività di servizio e nel ridimensionamento delle attività produttrici di beni (in particolare, agricole e manifatture).
Tradizionalmente, la spiegazione di tale fenomeno viene ricondotta ai cambiamenti verificatisi nella composizione dei consumi che accompagnano la crescita del reddito pro capite (Fisher 1935; Clark 1940) e/o alla diversa dinamica della produttività del lavoro nelle attività tradizionali − come molte attività produttrici di servizi − e nelle attività manifatturiere (Baumol 1967).
Si può quindi affermare che − relativamente alla struttura macrosettoriale dell'attività produttiva − le trasformazioni verificatesi negli anni Ottanta avvicinano, con un certo ritardo, il sistema economico italiano a quello dei paesi più progrediti. Basta considerare − al riguardo − che, ancora nel 1960, gli occupati in agricoltura erano in Italia (e in Giappone) più del 30% degli occupati totali, mentre in Germania federale erano il 14% e nel Regno Unito appena il 4,1%.
Proprio il ritardo che ha contraddistinto l'industrializzazione e, più recentemente, l'adeguamento della struttura macrosettoriale del sistema economico italiano rispetto ai partners europei più evoluti spiega − almeno in parte − il curioso fenomeno della crescita di peso dell'i. italiana nel contesto europeo; la tendenza quindi dell'i. europea degli anni Ottanta a diventare un po' più italiana. Secondo stime basate su dati dell'Ufficio statistico delle Comunità europee (Eurostat) e riguardanti le imprese industriali con più di 20 addetti (v. Frova, Nova, Scognamiglio 1990), la quota di fatturato dell'i. italiana − nel complesso del fatturato industriale europeo − denota, nel periodo 1980-87, una crescita generalizzata rispetto a quella delle i. dei principali paesi europei (Germania federale, Francia, e Gran Bretagna).
Analizzando la dinamica dei principali settori industriali (i. dei minerali e dei minerali non metalliferi, i. del vetro, ecc.), la crescita della quota di fatturato dell'i. italiana − nel complesso del fatturato industriale europeo − appare attribuibile al fenomeno della concentrazione della crescita industriale italiana in settori (come quelli delle macchine per ufficio e per elaborazione dati, della lavorazione delle pelli e del cuoio) che hanno registrato negli anni Ottanta il più elevato tasso di crescita nell'Europa comunitaria.
Il settore industriale della Germania è caratterizzato da un sostanziale mantenimento della propria posizione di preminenza nel contesto dell'i. comunitaria. A eccezione dei due citati settori a più elevato tasso di crescita nella CEE, l'i. tedesca appare contraddistinta da una favorevole combinazione di crescita settoriale e di aumento della quota di fatturato industriale europeo, confermando quindi − anche negli anni Ottanta − la sua capacità di crescita equilibrata. In base agli stessi dati, la dinamica dei settori industriali francesi e britannici appare meno favorevole, rispetto a quella delle i. italiane e tedesche. L'evoluzione dei settori industriali francesi indica, infatti, una generale perdita di peso rispetto al fatturato industriale europeo, salvo i settori chimico e della meccanica di precisione e alimentare. In generale, l'i. francese denota un orientamento calante rispetto alla crescita industriale della Comunità europea, a testimonianza di una sostanziale conservazione delle posizioni nei settori di minore dinamismo. Nel contesto della crescita del fatturato industriale europeo degli anni Ottanta, l'i. britannica mostra i risultati più negativi, a conferma del perdurare della fase di crisi strutturale che caratterizza l'attività secondaria nel Regno Unito, a partire dagli anni Settanta.
La progressiva e rilevante ''terziarizzazione'' dell'attività produttiva italiana − ossia, la crescente prevalenza delle attività produttrici di servizi rispetto a quelle produttrici di beni − rientra quindi in uno schema di cambiamento della struttura macrosettoriale, al crescere del reddito nazionale e per abitante, già sperimentato e individuato nei sistemi economici leader (Regno Unito e Stati Uniti) negli anni Trenta e Quaranta. È comunque un fenomeno le cui determinanti sono attualmente oggetto di dibattito tra gli economisti e la cui positività − rispetto al progresso e all'efficienza di un sistema economico − è oggi valutata con maggior cautela a fronte delle interpretazioni ottimistiche dei suoi primi studiosi. Da un lato, infatti, si contesta che un preponderante e crescente peso del settore dei servizi (terziario) sia di per sé un indicatore di progresso economico e di efficienza produttiva, come testimonia il caso di sistemi economici − per es. quelli di Regno Unito e Olanda − a elevata terziarizzazione ma con strutture produttive caratterizzate da gravi problemi di produttività e competitività. Dall'altro, si sottolinea il fatto che le attività produttrici di servizi − pur assai variegate − sono in genere caratterizzate da bassa produttività (prodotto per addetto) e modesto ritmo d'innovazione tecnologica. Inoltre, che buona parte della crescita del settore terziario registratasi negli ultimi anni − in Italia e altrove − è dovuta all'espansione delle attività produttrici di servizi intermedi e destinati a ulteriore attività produttiva (manutenzione, trasporto, elaborazione di informazioni, ecc.), in genere venduti a imprese industriali.
Secondo una tesi suggestiva ma tuttora non adeguatamente verificata, l'attività produttrice di beni in genere − e quella industriale in particolare − ha subito negli anni Ottanta un sostanziale cambiamento nel ''modo'' di produzione, sotto l'impatto di fattori come la pervasività e sistemicità del cambiamento tecnologico, la globalizzazione e internazionalizzazione dei mercati e l'incertezza dell'ambiente economico e istituzionale. In tale contesto − tipico dell'ultimo decennio − le imprese produttrici di beni hanno reagito abbinando alle innovazioni dei processi produttivi e dei prodotti, trasformazioni fondamentali nella struttura organizzativa e gestionale. Accanto ai tradizionali investimenti ''materiali'' (impianti e macchinari), il settore industriale ha quindi realizzato rilevanti e crescenti investimenti ''immateriali'' (ricerca e sviluppo, marketing, informatizzazione, ecc.), ossia impieghi di risorse per scopi non direttamente collegati alla capacità produttiva ma alla capacità delle imprese di adeguarsi al − e, se possibile, di guidare il − cambiamento dei mercati e dell'ambiente. D'altronde, l'esigenza di accrescere la flessibilità e adattabilità dei processi produttivi e delle strutture organizzative a un contesto in continuo e imprevedibile cambiamento, ha indotto molte imprese − soprattutto le grandi, con produzione differenziata o diversificata − a decentrare, affidandoli all'esterno, stadi o fasi produttive di minore importanza strategica (manutenzione degli impianti, vigilanza, ecc.) o altamente specializzate e costose (marketing, gestione finanziaria, formazione del personale, ecc.). Una significativa conseguenza di questo imponente e diffuso processo di ristrutturazione delle imprese produttrici di beni è stata l'attivazione di una rilevante domanda di servizi intermedi (destinati a impieghi produttivi anziché al consumo finale) che origina in parte dal settore industriale.
A riprova di questa tesi, si sottolinea come, tra il 1965 e il 1990, la quota percentuale − in termini di occupazione − delle attività produttrici di servizi per l'i., sul totale del settore terziario che produce servizi per la vendita, sia raddoppiata, con un numero di addetti che si è triplicato, fino a superare i due milioni di unità (Baici 1991). Considerando, quindi, il complessivo ''sistema industriale'' − ossia, l'insieme delle attività agricole, terziarie e industriali collegate alla produzione manifatturiera − risulta possibile concludere che l'i. non solo ha conservato ma addirittura accresciuto il suo peso e la sua centralità nel sistema economico italiano e in quello di altri paesi a elevato sviluppo economico. Nel periodo 1961-90, per es., mentre il contributo occupazionale del ''settore'' industriale italiano si è ridotto in termini sia assoluti che percentuali, quello del ''sistema'' industriale è aumentato di circa 900.000 addetti e genera più di un terzo dell'occupazione totale italiana.
Quale che sia la validità di questa tesi − sostenuta da Momigliano e Siniscalco (1986) − è comunque fuori luogo associare alla ''terziarizzazione'' dell'attività produttiva il fenomeno della ''deindustrializzazione'' del sistema economico, e tanto più fuori luogo usare i due termini addirittura come sinonimi. Rigorosamente parlando, infatti, la deindustrializzazione − chiamata anche pittorescamente ''morbo olandese'' (Dutch disease) o ''morbo inglese'' (English disease) in quanto situazione economica tipicamente individuata in questi due paesi alla fine degli anni Settanta − è un fenomeno per cui la dimensione ''assoluta'' del settore industriale tende a diminuire significativamente, creando all'intero sistema economico nazionale problemi di crescita e occupazione, nonché di bilancia dei pagamenti. Per contro, la terziarizzazione dell'attività produttiva italiana è collegata a una progressiva e discussa perdita di peso ''relativo'' del settore industriale, la cui dimensione assoluta è continuamente cresciuta negli anni Ottanta in termini sia di capacità produttiva e produzione che, almeno nell'ultimo anno, di occupazione. In un decennio caratterizzato da tassi di crescita medi annui del PIL italiano superiori al 3%, la diminuzione del contributo fornito dall'i. alla formazione del prodotto nazionale è dovuta al fatto che questo settore è cresciuto meno rapidamente del settore dei servizi destinati alla vendita: a eccezione che nel triennio 1987-89, con tassi di crescita inferiori al 3% (tab. 7).
Altro interessante carattere dell'i. italiana − importante per valutare le modificazioni strutturali in prospettiva internazionale − è la ''composizione settoriale'', ossia la sua articolazione in comparti produttivi identificati in base al tipo di produzione e/o alla tecnologia (v. tabb. 8 e 9). Pur in un decennio − come quello degli anni Ottanta − caratterizzato da grande variabilità nei tassi di crescita dei singoli comparti produttivi, la composizione settoriale dell'i. italiana ha denotato una notevole stabilità. Il peso relativo − in termini sia di occupazione che di valore aggiunto − dei grandi settori industriali è infatti rimasto sostanzialmente identico a quello degli anni Settanta, con le notevoli eccezioni del settore della lavorazione dei minerali e dei metalli e del settore meccanico il cui peso si è rispettivamente ridotto e accresciuto.
La sostanziale stabilità della composizione settoriale dell'i. italiana consolida alcune tradizionali differenze rispetto alla struttura industriale media dei paesi che rappresentano i principali partners e concorrenti nel contesto internazionale. Limitando l'attenzione all'i. manifatturiera (a esclusione, quindi, della produzione energetica e dell'i. delle costruzioni), il confronto tra la composizione settoriale dell'i. italiana e quella media dei paesi della CEE evidenzia un peso sostanzialmente analogo − in termini di valore aggiunto − dei ''settori base'' (chimico, gomma, carta, editoria) e, in Italia, un peso maggiore del settore metallurgico, a riprova del ritardo con cui è stata affrontata nel nostro paese la crisi strutturale della siderurgia. Sottodimensionato appare, per contro, il contributo del settore alimentare e delle bevande che, pur considerato tradizionale e tecnologicamente poco innovativo, costituisce un'attività industriale generatrice di elevati fatturati e rilevante occupazione.
L'aspetto rilevante che emerge dal confronto tra la composizione settoriale dell'i. in Italia e nella CEE è la conferma della perdurante specializzazione italiana nei settori del cosiddetto ''sistema moda'' (tessile, abbigliamento, calzature, pelli, mobili) e il relativo sottodimensionamento del comparto meccanico nel quale rientrano i settori industriali più dinamici e tecnologicamente innovativi. I settori del sistema moda conservano − nell'i. manifatturiera italiana − una quota di valore aggiunto superiore al 20%, all'incirca doppia di quella media dei partners europei, mentre il grande ed eterogeneo comparto meccanico ha un peso declinante (come nella media degli altri paesi considerati) e sensibilmente inferiore. Secondo l'Ufficio statistico delle Comunità europee, nel 1985 il peso del settore metalmeccanico in Italia è stato pari al 29,6% del valore aggiunto industriale, contro il 51,7% nella Germania federale − che ha una tradizionale specializzazione in questa attività manifatturiera − e contro una quota comunque superiore al 40% in Francia e nel Regno Unito.
Le ragioni di queste peculiarità nella configurazione settoriale dell'i. italiana devono essere ricercate sia nel già accennato ritardo nello sviluppo industriale del nostro paese, sia nelle scelte (o non scelte) di politica industriale compiute negli anni Settanta e Ottanta, che hanno condizionato la crescita di settori tradizionali come la chimica e la metallurgia. Le differenze che si sono evidenziate non devono tuttavia essere univocamente interpretate come indicatori di ritardo o debolezza dell'i. italiana ma semplicemente come segnali di un lento adeguamento dell'offerta nazionale alle configurazioni prevalenti nella più competitiva offerta internazionale.
Alcune interessanti valutazioni circa il ritardo tecnologico e di competitività dell'i. italiana possono essere suggerite da un'analisi della composizione settoriale basata sul criterio del vantaggio competitivo predominante per le imprese del settore. Secondo una tassonomia recentemente proposta (Pavitt 1984; Patel e Pavitt 1987), i settori industriali possono essere classificati in quattro categorie: a) settori basati sulla scienza; b) settori a offerta specializzata; c) settori basati sulle economie di scala; d) settori tradizionali.
Ai settori basati sulla scienza appartengono quelli − come l'aerospaziale, dei componenti e prodotti elettronici e di telecomunicazione, degli strumenti scientifici e medicinali, il farmaceutico − le cui imprese competono principalmente attraverso innovazioni tecnico-scientifiche e differenziazioni qualitative dei prodotti e che, in genere, rappresentano diffusori o venditori di innovazioni agli altri settori. I settori a offerta specializzata − molti dei quali realizzano produzioni meccaniche destinate a scopi strumentali (macchine utensili e impianti in genere) − sono caratterizzati dal fatto che le imprese basano la loro competitività sulla specializzazione, mirando a soddisfare segmenti di mercato e varietà di domanda ben definiti e utilizzando tecnologie di base in gran parte recepite e poi adattate alle specifiche esigenze dei clienti. Rientrano nella categoria dei settori basati sulle economie di scala quelle attività industriali − come la produzione di autoveicoli, elettrodomestici, fibre sintetiche, la petrolchimica − nelle quali elemento determinante della competitività è la dimensione della capacità produttiva (scala di produzione). I produttori che, in questi settori, operano al di sotto di una certa soglia dimensionale − detta ''scala minima efficiente di produzione'' − hanno costi unitari sensibilmente superiori a quelli dei produttori efficientemente dimensionati. Dal momento, infatti, che in questi settori la competizione si basa essenzialmente sul prezzo e la tecnologia di base è fondamentale ma consolidata, le imprese sottodimensionate sono ai margini della redditività. Alla categoria dei settori tradizionali appartengono quelle attività industriali − come l'abbigliamento, il calzaturiero, l'i. del mobile, ecc. − nelle quali la competizione si basa sul prezzo e sulla differenziazione del prodotto e, poiché le condizioni produttive non pongono ostacoli di scala e/o di tecnologia, assume importanza determinante il prezzo dei fattori di produzione e, in particolare, del lavoro.
Le analisi dell'evoluzione strutturale dell'i. italiana ed europea, svolte sulla base della precedente classificazione e in rapporto al contributo occupazionale, evidenziano in Italia la preponderante, anche se declinante, prevalenza di settori tradizionali e la rilevante presenza di settori basati sulle economie di scala. Il peso dei settori a offerta specializzata risulta essere in continua crescita mentre − almeno in termini di addetti − il contributo dei settori basati sulla scienza e sulla tecnologia è ancora ampiamente minoritario e, come mostrano i confronti internazionali, significativamente inferiore a quello medio nelle i. dei paesi della CEE, degli Stati Uniti e del Giappone. Nel contesto internazionale appare allarmante il fatto che − nel periodo 1970-85 − il tasso di crescita della quota occupazionale dei settori basati sulla scienza e sulla tecnologia risulta essere, in Italia e nella CEE, circa la metà di quello registrato negli Stati Uniti e in Giappone. Il peso rilevante e crescente dei settori tradizionali nell'i. italiana − rispetto alla struttura industriale dei partners della CEE − è confermato dai dati sul fatturato delle imprese industriali pubblicati dall'Ufficio statistico della Comunità europea (Eurostat). Secondo una recente e già citata indagine (Frova, Nova, Scognamiglio 1990), la crescita del peso dell'i. italiana nel contesto dell'i. della Comunità europea − registrato nel periodo 1980-87 − è attribuibile ai risultati lusinghieri ottenuti dalle imprese dei settori industriali tradizionali nei quali l'economia italiana riveste un ruolo rilevante a livello europeo.
L'aspetto preoccupante di questa crescente specializzazione dell'i. italiana nei settori tradizionali non è tanto (o solo) il modesto livello tecnologico che queste attività comportano, quanto la possibilità che tale specializzazione sia il risultato più di un progressivo abbandono di tali settori da parte delle imprese degli altri paesi che non di un sostanziale successo competitivo delle imprese italiane. La bancadati Eurostat sulle imprese industriali della CEE indica infatti − negli anni Ottanta − una contrazione del numero di imprese operanti nei settori tradizionali in tutti i paesi, a eccezione dell'Italia, con un differenziale estremamente elevato per i settori del ''sistema moda''. Non devono, peraltro, essere sopravvalutati i risultati delle imprese italiane nei settori ad alta tecnologia e basati sulla scienza, dovuti quasi esclusivamente alla crescita del settore delle macchine per ufficio e per l'elaborazione dei dati, che in Italia è stato caratterizzato dalla presenza di un'impresa dominante (Olivetti) peraltro andata incontro (1992) a una gravissima crisi. D'altro canto, i positivi risultati − in termini di fatturato − dei settori a offerta specializzata sono controbilanciati dalla modesta crescita dei settori caratterizzati da economie di scala che sono tradizionalmente la base del sistema industriale. Per es., in settori chiave come il chimico e l'automobilistico, sono risultate vincenti le strategie competitive delle imprese tedesche, perdenti quelle delle imprese britanniche e, in parte, francesi, e di sostanziale mantenimento delle posizioni quelle delle imprese italiane.
È tuttavia opportuno sottolineare che analisi più articolate svolte sulla base di indicatori del livello tecnologico dell'i. (Mariotti 1989) mostrano un quadro variegato in cui l'Italia appare caratterizzata da punti di debolezza ma altresì da notevoli punti di forza o, quantomeno, da rilevanti progressi. Tra i punti di debolezza tecnologica occorre anzitutto segnalare l'ancora insufficiente investimento destinato ad attività di ricerca e sviluppo (R. e S.) da parte di imprese ed enti sia privati che pubblici. Benché − in particolare a partire dai primi anni Ottanta − l'economia italiana abbia intensificato lo sforzo destinato a R. e S. arrivando a sfiorare la ''fatidica soglia'' del 2% del suo PIL, resta tuttavia enorme il distacco, in termini di dimensione assoluta, rispetto ai leaders sia della CEE, sia (e soprattutto) mondiali (Giappone e Stati Uniti) nella destinazione delle risorse a questo incerto ma fondamentale investimento. A tal riguardo basta considerare che i paesi leader della CEE (Germania, Francia e Regno Unito) investono in R. e S. circa il doppio delle risorse investite dall'Italia, mentre Giappone e Stati Uniti destinano a questo scopo risorse superiori, rispettivamente, di 5 e 15 volte a quelle investite nel nostro paese.
La valutazione negativa e preoccupante circa il livello scientifico e tecnologico del sistema industriale (e, in genere, economico) italiano non si attenua neppure se si considera l'ammontare e l'incidenza sul PIL dell'investimento immateriale − ossia, delle spese per R. e S., pubblicità e marketing, informatizzazione e riorganizzazione della produzione − che esprime lo sforzo complessivo d'innovazione organizzativa e gestionale. Anche a questo riguardo, la posizione italiana appare in chiaro ritardo rispetto a quella dei leaders mondiali, dal momento che l'incidenza sul PIL di tali investimenti in Italia è pari alla metà di quella media dei paesi CEE e del Giappone. A parziale conforto si può tuttavia rilevare che nel periodo 1974-84 gli investimenti immateriali sono cresciuti in Italia del 90% mentre nei paesi leader sono aumentati mediamente solo del 40%.
Questi punti di debolezza tecnologica dell'i. italiana si stemperano se si considerano, in questo settore, anche alcuni punti di forza o quantomeno segnali di indubbi progressi compiuti nell'ultimo decennio. Per es., secondo una recente indagine (Mariotti 1987; Colombo e Mariotti 1987) sulla diffusione internazionale delle nuove forme di automazione integrata nei processi industriali, la situazione dell'i. italiana appare, se non d'avanguardia, del tutto in linea e competitiva rispetto a quella dei tradizionali paesi leader.
Il numero dei robot installati nel periodo 1980-86 nell'i. manifatturiera italiana (circa 5000 unità) è − sia in assoluto che in riferimento alla dimensione occupazionale dell'intero settore − del tutto allineato a quello di Francia, Svezia, Germania federale e, in proporzione, degli Stati Uniti. La stessa indagine rileva che il numero e il grado di diffusione nel settore manifatturiero di apparati automatici più complessi − quali i cosiddetti ''sistemi flessibili di produzione'' − pone l'i. italiana addirittura in una posizione di preminenza. Nel complesso, quindi, le prospettive di sviluppo di processi produttivi automatizzati − pur considerando il carattere ampiamente indicativo dei dati statistici disponibili − non vedono l'i. italiana in posizione di ritardo o svantaggio relativo rispetto ai partners europei. Semmai, si può intravedere una situazione di svantaggio rispetto al Giappone che si presenta come il concorrente industriale più agguerrito sia per la sua supremazia nella robotizzazione della produzione manifatturiera, sia per la sua storica capacità di sperimentare nuove forme di organizzazione produttiva. Più che la ''anomala'' composizione settoriale, un rilevante fattore di svantaggio dell'i. italiana − a questo riguardo − può essere costituito, come si vedrà, dal rilevante dualismo dimensionale del suo tessuto produttivo.
Ulteriori considerazioni sulle caratteristiche del sistema industriale italiano possono formularsi sulla base di alcuni semplici indicatori del grado d'internazionalizzazione dei singoli comparti manifatturieri e della sua dinamica. Una prima, generale indicazione, può essere desunta dall'andamento della quota percentuale delle esportazioni italiane di prodotti manufatti sulle esportazioni totali mondiali di tali beni. Sotto questo aspetto, l'i. italiana evidenzia un relativo deterioramento della propria posizione rispetto a quella dell'inizio degli anni Ottanta. Mentre, infatti, nel 1980 e fino al biennio 1986-87 la quota italiana nell'esportazione mondiale di manufatti sfiorava il 6%, nel 1988-89 la percentuale è scesa al 5%, pur in presenza − nello stesso periodo − di un tasso medio annuo di crescita del commercio mondiale dell'8%. Si tratta, in effetti, di una perdita di posizione che riguarda anche altri paesi e sistemi industriali europei (per es., Francia e Regno Unito) ma che appare preoccupante in un contesto internazionale contraddistinto da rilevante crescita degli scambi, dal consolidamento delle posizioni di manifatturiere tradizionalmente esportatrici (Germania, Giappone, Stati Uniti) e dal crescente peso delle i. dei cosiddetti ''paesi di nuova industrializzazione'' (Corea, Formosa, ecc.). Basti considerare che questi ultimi realizzavano nel 1980 una quota del mercato mondiale dei manufatti inferiore a quella italiana, mentre nel 1989 si collocano − nella graduatoria dei maggiori esportatori di manufatti − subito dopo i tre grandi leaders con una quota dell'11%, praticamente doppia di quella italiana.
Esaminando in maggior dettaglio la composizione settoriale del commercio industriale italiano, si può rilevare che la struttura delle importazioni italiane è sostanzialmente simile a quella di partners come la ex Germania federale e la Francia: ossia, elevata incidenza di importazioni di prodotti energetici (con un peso significativamente maggiore per l'Italia) e chimici, nonché di prodotti alimentari e mezzi di trasporto. Per quanto riguarda le esportazioni di prodotti industriali, vi sono per contro rilevanti differenze di specializzazione tra l'i. italiana e quella dei due importanti concorrenti europei. Il settore industriale del nostro paese denota infatti un'evidente specializzazione internazionale nell'esportazione di macchine agricole e industriali e di prodotti del ''sistema moda'' (tessili, pelletterie, abbigliamento) che complessivamente rappresentano oltre il 35% delle esportazioni industriali italiane. Le esportazioni italiane di prodotti chimici e di mezzi di trasporto, pur rilevanti (costituiscono infatti circa il 17% dell'export manifatturiero del nostro paese), sono controbilanciate da flussi ancora più imponenti di importazioni, così che i corrispondenti settori denotano saldi commerciali ampiamente negativi. L'i. della ex Germania federale è invece contraddistinta da rilevanti esportazioni di prodotti chimici, meccanici (mezzi di trasporto e strumenti di precisione) e di macchine utensili, settori nei quali beneficia altresì di rilevanti saldi commerciali positivi. Il caso francese è intermedio: esportazioni manifatturiere concentrate in due soli settori (chimici e mezzi di trasporto) con significativi contenuti tecnologici e saldi commerciali positivi.
L'accentuata concentrazione delle esportazioni industriali italiane su pochi prodotti e settori, a basso contenuto tecnologico, può essere altresì evidenziata analizzando la loro composizione secondo la già utilizzata classificazione dei settori industriali in base al vantaggio competitivo prevalente. Le esportazioni manifatturiere italiane sono infatti caratterizzate dalla netta prevalenza − con una quota che si avvicina al 40% dell'export industriale complessivo − di prodotti di settori tradizionali, mentre il peso di tali esportazioni nell'export manifatturiero dei paesi leader nel commercio internazionale è mediamente inferiore al 15%. Pur rilevante (superiore al 30%), la quota di esportazioni italiane di settori basati sulle economie di scala è sensibilmente inferiore a quella media (pari al 47%) delle i. leader nell'export manifatturiero, con una punta del 57% dell'i. giapponese. È quasi scontata − alla luce del quadro precedentemente esposto − la modesta rilevanza (meno del 10%) delle esportazioni italiane di prodotti dei settori basati sulla scienza e la tecnologia, a differenza dell'export manifatturiero di Stati Uniti, Giappone e Regno Unito che è costituito da prodotti ad alto contenuto scientifico e tecnologico in percentuale oscillante tra il 30% e il 20%.
Un ulteriore indicatore del grado d'internazionalizzazione dei diversi settori dell'i. italiana è rappresentato dalla cosiddetta ''propensione a esportare'', ossia dal rapporto tra esportazione e produzione complessiva di un settore. Nell'ambito di una generale tendenza dell'i. italiana ad accrescere la propensione a esportare (dal 19% del 1973 al 30% del 1988), si registrano differenze assai marcate da settore a settore. Si può, infatti, individuare un ristretto gruppo di settori − macchine agricole e industriali, prodotti in pelle e calzature, macchine per ufficio e prodotti manifatturieri diversi come armi, giocattoli, strumenti musicali, ecc. − con una propensione all'esportazione superiore al 50%, per i quali quindi i mercati esteri sono più importanti del mercato nazionale. Anche i settori produttori di autoveicoli, materiale elettrico ed elettronico, tessili e abbigliamento si possono considerare a elevata propensione all'export in quanto vendono all'estero quote di produzione tra il 30% e il 50%. La maggior parte dei settori industriali italiani − anche alcuni tra quelli con peso rilevante nell'export manifatturiero (come il settore chimico e del mobilio) − possono essere definiti prevalentemente orientati al mercato interno in quanto esportano quote di produzione oscillanti tra il 10% e il 27%.
Tra i caratteri strutturali che caratterizzano l'i. italiana nel contesto internazionale, quello probabilmente più noto e discusso è la coesistenza di un larghissimo numero di piccole e piccolissime imprese da un lato, e di grandi imprese dall'altro: quindi, una struttura dimensionale dualistica o polarizzata. Si deve considerare che questo carattere strutturale è comune a pressoché tutti i moderni ed evoluti sistemi industriali, ma esso tuttavia in Italia, come pure in Giappone, si presenta con tratti più accentuati. Alla fine degli anni Settanta, infatti, la dimensione media d'impresa nell'i. giapponese era di poco superiore a quella italiana, e circa il 58% di addetti industriali risultava occupato in imprese con meno di 100 dipendenti. Alla stessa epoca, le i. di Regno Unito, Stati Uniti, Francia e Germania federale avevano una dimensione media d'impresa rispettivamente di 6, 5, 4 e 3 volte superiore a quella italiana e registravano ''solo'' il 25%÷30% di occupati in piccole imprese.
I pochi dati disponibili per gli anni Ottanta riguardanti questo carattere dell'i. italiana sembrano in gran parte segnalare la prosecuzione della tendenza − registratasi negli anni Settanta − a una riduzione della dimensione media delle imprese, sia per effetto dell'imponente crescita del numero di nuove piccole imprese, sia per la già descritta specializzazione dell'i. in settori (''sistema moda'' e tradizionali in genere) che operano tipicamente con piccole unità produttive.
Per es., le analisi condotte dalla Centrale bilanci della Banca d'Italia su un campione di circa 10.000 imprese industriali evidenziano, nel periodo 1982-88, una riduzione della dimensione media da 185 a 160 addetti. Nello stesso periodo, le registrazioni e le cancellazioni presso le Camere di commercio rivelano la vitalità delle piccole imprese e il decremento (per effetto di un tasso di mortalità superiore a quello di natalità) delle imprese medio-grandi. L'indagine sulle imprese manifatturiere italiane condotta dal Mediocredito centrale − pur trascurando le microimprese con meno di 20 addetti − sembra confermare queste indicazioni con la segnalazione di un aumento assoluto e percentuale delle piccole imprese e una diminuzione di quelle medio-grandi.
D'altro canto, le indagini svolte dall'ISTAT sul prodotto lordo delle imprese con oltre 20 addetti segnalano − per il periodo 1983-85 − una riduzione del 2,3% del numero delle imprese piccole (da 20 a 99 dipendenti), riduzione comunque inferiore a quella dell'i. manifatturiera nel suo complesso.
Una parziale conferma del sottodimensionamento delle imprese industriali italiane rispetto a quelle leader europee, può essere tratta dalla banca-dati Eurostat relativa ai bilanci delle imprese industriali con più di 20 addetti. Posta pari a 100 la dimensione media (in termini di fatturato) dell'impresa europea in 17 settori industriali, le imprese italiane appaiono sottodimensionate − con un fatturato che oscilla tra il 60% e l'80% di quello medio europeo − in ben 14 settori. Fanno eccezione i settori delle macchine per ufficio e per elaborazione dati, della lavorazione della pelle e del cuoio, della carta, stampa ed editoria. Solo le imprese industriali britanniche registrano un sottodimensionamento altrettanto rilevante, mentre quelle francesi e soprattutto tedesche risultano sempre in linea o al di sopra della dimensione europea. Tuttavia, considerando il fenomeno in termini dinamici, appare un significativo trend di crescita del fatturato medio per impresa in tutti i settori dell'i. italiana; tendenza che sembra indicare una relativa attenuazione − almeno in termini di fatturato − del sottodimensionamento delle imprese industriali italiane.
Alla luce delle complementarietà e delle sinergie che hanno caratterizzato − soprattutto negli anni Ottanta − le piccole e le grandi imprese, l'accentuato e crescente dualismo dimensionale dell'i. italiana non è più da considerare come carattere strutturale esclusivamente negativo. Semmai, se c'è una preoccupazione tra gli economisti industriali, è che nell'i. italiana le ''grandi imprese'' sono ancora troppo piccole (rispetto ai concorrenti leaders a livello europeo e mondiale nei settori basati sulle economie di scala e sulla tecnologia), mentre le ''piccole imprese'' incontrano tuttora rilevanti ostacoli (finanziari, manageriali, tecnologici) nel raggiungere quelle dimensioni medie che sono prevalenti nelle i. più evolute.
Questa contemporanea polarizzazione dell'i. italiana in grandi imprese non sufficientemente grandi e in piccole (o piccolissime) imprese impossibilitate a conseguire una dimensione critica, rischia di costituire un fattore strutturale di rilevante svantaggio, soprattutto nei settori basati sulla scienza e sulla tecnologia. Come si è accennato, i tratti dell'attuale e prevedibile processo di cambiamento delle frontiere tecnologiche possono essere identificati nel carattere pervasivo e sistematico delle innovazioni fondamentali (tab. 10) che hanno un impatto diffuso e quasi ''infrastrutturale'' su molti settori e il cui utilizzo con successo dipende da trasformazioni organizzative e gestionali che coinvolgono l'intera struttura delle imprese. A questo riguardo, il dualismo dell'i. italiana può indurre un duplice effetto negativo. Da un lato, l'insufficiente − rispetto ai concorrenti leader- dimensione delle grandi imprese può ostacolare il raggiungimento della ''massa critica'' d'investimento materiale e immateriale necessaria per conseguire accettabili risultati ed essere competitive a livello internazionale. Dall'altro lato, può indurle a limitare l'attenzione a innovazioni marginali, escludendole di fatto dalle possibili utilizzazioni − anche a solo livello applicativo − delle grandi innovazioni.
A supporto di questa tesi si può indicare la significativa differenza di comportamento tra imprese industriali medio-piccole e grandi, circa l'adozione di sistemi di automazione flessibile nell'attività produttiva e/o gestionale. Secondo un'indagine svolta nel 1987 − su un campione di circa 3000 imprese metalmeccaniche che costituiscono il data-base Flauto del Politecnico di Milano − la diffusione dei sistemi più sofisticati di automazione flessibile (cosiddetti CND systems) è assai minore tra le imprese medio-piccole che tra le grandi. Le meno sofisticate apparecchiature computer aided (cosiddette CAD systems) risultano, per contro, abbastanza diffuse anche tra le imprese industriali medio-piccole, in quanto la loro adozione richiede minor impegno finanzario e organizzativo. Tuttavia, dall'indagine è risultato che − nel 1987 − l'incidenza delle imprese comunque dotate di sistemi di automazione flessibile era, tra le imprese minori (con meno di 200 addetti), di circa sei volte inferiore a quella relativa alle imprese con almeno 500 addetti (tab. 11).
L'esistenza di ostacoli all'adozione di sistemi di automazione flessibile da parte delle imprese minori è confermata da un'indagine svolta nel 1990 dall'Unioncamere della Lombardia su un campione di imprese manifatturiere (Unioncamere Lombardia 1991). Secondo tale indagine, la percentuale di imprese che dispongono di attrezzature di automazione flessibile cresce sistematicamente al crescere della dimensione delle imprese. Per es., tra le micro-imprese (con meno di 20 addetti) la percentuale di imprese automatizzate è del 6,3%, per arrivare al 44,8% e al 55% rispettivamente tra quelle medio-piccole e mediograndi (tab. 12). Il differenziale di diffusione dell'automazione flessibile è tale da non poter essere giustificato solo da ragioni tecniche o d'insufficiente scala produttiva. Ciò appare evidente disaggregando i tassi di adozione di sistemi flessibili di automazione a seconda che le imprese siano indipendenti o facciano parte di gruppi industriali. A parità di dimensioni, infatti, le imprese che operano all'interno di gruppi hanno livelli di automazione generalmente superiori. Questo fenomeno è particolarmente evidente per le medio-piccole imprese (con meno di 200 addetti) ove il rapporto tra tassi d'innovazione delle unità indipendenti e di quelle facenti parte di gruppi industriali è di uno a tre.
Si tratta, in definitiva, di un risultato che − come quelli di indagini analoghe − sembra confermare l'esistenza nel sistema industriale italiano di rilevanti barriere organizzative, manageriali, finanziarie e di conoscenze tecniche che ostacolano l'adozione di innovazioni pur all'interno della frontiera tecnologica. Barriere la cui attenuazione e rimozione richiede il consolidamento − in Italia, per ragioni storiche e sociali mai realizzato − di una vera ''cultura industriale''.
Alle soglie dell'avvento − nel 1993 − del Mercato unico europeo, il più preoccupante fattore di debolezza del sistema industriale italiano è infatti rappresentato dalla mancanza di una solida e diffusa capacità manageriale nelle imprese e di governo della politica industriale nelle istituzioni, più che dalla struttura produttiva ereditata dal passato. Di fronte alle sfide competitive degli anni Novanta, la possibilità di sopravvivenza e di successo delle imprese italiane dipenderà verosimilmente dalla capacità di adattamento strategico a condizioni ambientali in continuo e imprevedibile cambiamento. In questo mutevole contesto, l'abilità nel prevedere e assecondare le trasformazioni in atto è forse più importante della possibilità di sfruttare vantaggi consolidati nel passato.
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Storia materiale. - Gli studi sull'i. dal punto di vista della sua storia materiale vengono ormai comunemente indicati con il termine di ''archeologia industriale'' (v. in questa Appendice). "L'archeologia industriale" ha scritto nel 1967 M. Rix, che tra gli studiosi inglesi è stato tra i primi a proporne una definizione, "può essere definita come catalogazione, in determinati casi conservazione, e interpretazione dei luoghi e delle strutture della prima attività industriale, specialmente dei monumenti della rivoluzione industriale". Il concetto di ''monumento industriale'' non è da interpretarsi, idealisticamente e restrittivamente, pensando a ''emergenze'' monumentali di particolare rilevanza storica, estetica o tecnologica, ma, al contrario, in modo estremamente ampio, fino a comprendervi, come propone A. Buchanan (1972), "tutti i resti del processo industriale e dell'industrializzazione: per es. case, luoghi di ritrovo, chiese per la classe operaia". Il campo d'indagine dell'archeologia industriale ha, in tal senso, i caratteri più tipici del ''tessuto'', configurandosi come esemplare luogo d'approccio a quella metodologia di ricerca e di analisi − ''degerarchizzante'' e caratterizzata da un allargamento massimo del corpus- che per gli studi di storia dell'arte, anche tangenti alla storia materiale dell'i., è stata delineata da E. Castelnuovo (1972, 1976 e 1977). Bisogna altresì tenere presente che "l'affermarsi dell'industria nella struttura economica di un paese dà origine a fenomeni che non sono documentabili esclusivamente sul piano materiale (vedi i reperti archeologici di un'officina, di una macchina e via dicendo), ma anche, e forse soprattutto, su quello delle funzioni, dell'organizzazione e degli obbiettivi economico-sociali-culturali, cioè a livello astratto e concettuale più che fisico" (Castellano 1982).
Su basi problematiche di questo genere si è delineato il concetto di ''patrimonio industriale'', inizialmente sviluppatosi soprattutto nell'ambito della scuola francese con qualche connotazione polemica nei confronti della dizione di origine inglese ''archeologia industriale'', da alcuni ritenuta troppo legata alla storia della tecnica e della tecnologia: esso corrisponde, d'altronde, al progetto di un campo di studi ulteriormente allargato alla nozione di civiltà industriale e caratterizzato, quanto alla periodizzazione, da programmatiche aperture sulla storia del presente (Patrimoine industriel et société contemporaine, 1976; L'étude et la mise en valeur du patrimoine industriel, 1981). Se, per il presente, i termini cronologici del campo tendono a essere continuamente spostati in avanti − in ragione del sempre più rapido consumo non solo dei manufatti, ma anche dei rapporti tra le classi tipici della civiltà industriale − per il passato il dibattito non può considerarsi chiuso.
All'apertura del campo alle testimonianze fisiche delle attività produttive dell'uomo anche cronologicamente più lontane − come per es. F. Borsi (1978) lascia supporre sia opportuno fare − si contrappone il punto di vista condiviso, tra gli altri, da N. Carandini (1979), secondo cui è invece necessario fare riferimento a "quel sistema di produzione dominante nella forma capitalistica, che ... chiamiamo propriamente industria", restringendo dunque il campo di studio solo alle "società che hanno conosciuto e conoscono la rivoluzione industriale" e facendo in conclusione "coincidere il raggio di competenza dell'archeologia industriale con l'instaurarsi della fase ''capitalista'' dei rapporti tra le forze interagenti nel processo produttivo" (al proposito si veda anche Barbieri 1989). Questa seconda posizione è attualmente la più accettata. In tale ottica, lo studio delle imprese industriali del passato attraverso i loro resti viene generalmente escluso dal campo d'interesse dell'archeologia industriale quando si tratti di fenomeni antecedenti il periodo della rivoluzione industriale, riferibile a soglie cronologiche diverse in contesti geografici caratterizzati da differenti stadi di sviluppo del modo di produzione.
Vale la pena notare come lo sviluppo della ricerca di archeologia industriale e la progressiva definizione del suo campo d'indagine siano coincisi, storicamente, con la tendenza all'abbandono, da parte dell'i., di strutture produttive considerate non più funzionali, vuoi per ragioni strettamente tecnologiche, vuoi per considerazioni legate all'organizzazione del lavoro e della manodopera. Questa tendenza ha incominciato a manifestarsi in modi progressivamente più rilevanti dopo la seconda guerra mondiale per arrivare, oggi, a un punto di svolta. Nei paesi di più antica industrializzazione, infatti, le aree industriali abbandonate (derelict lands in inglese, o ''aree dismesse'' secondo la terminologia italiana) tendono a occupare spazi sempre maggiori, talvolta anche superiori a quelli ancora destinati ad attività industriali produttive. Non è un caso che in tali paesi il termine ''postindustriale'' sia entrato nell'uso corrente, a indicare una situazione in cui i caratteri della civiltà industriale, sia fisici sia, in parte, ideologici, non sono più quelli dominanti.
La liberazione di una quantità di manufatti, spesso ingombranti e ineliminabili, dalla loro originaria destinazione d'uso, li ha trasformati in altrettanti oggetti di studio di estremo interesse per specialisti di differenti discipline: il campo dell'archeologia industriale è infatti tipicamente multidisciplinare, offrendo materiali e documenti di studio allo storico, allo storico dell'arte e dell'architettura, all'urbanista, allo storico della tecnica. Molto è stato fatto, in un arco di anni relativamente breve, quanto allo studio dei resti fisici di processi di industrializzazione che hanno trasformato il territorio, anche su grande scala: dalla macchina e dal suo contenitore, la fabbrica, a interventi più complessi che hanno modificato l'aspetto del paesaggio − e non di rado i modi della sua percezione − come impianti ferroviari, opere di canalizzazione, quartieri, villaggi o città per operai. La conoscenza della storia materiale dell'i. è tuttavia ancora piuttosto limitata: la necessità di una sua accelerazione è oggi imposta da un già accennato problema chiave della gestione del territorio, quello delle aree industriali e delle strutture produttive abbandonate.
Anche in Italia, manufatti non più utilizzati o non più funzionanti si trovano in massima parte nelle città che hanno avuto un importante passato industriale e nelle loro periferie storiche: grandi aree come il Portello (ex Alfa Romeo) e la Bicocca (Pirelli) a Milano e singoli edifici come il Lingotto (Fiat) a Torino o il mulino Stucky (industria alimentare) a Venezia, nell'isola della Giudecca, che hanno da tempo concluso il loro ciclo produttivo, possono, secondo alcuni, costituire un oggettivo impedimento alla modernizzazione di sistemi urbani che, per funzionare adeguatamente, richiedono radicali ristrutturazioni. Naturalmente, dietro il paravento della ristrutturazione, che può semplicemente significare restauro distruttivo, o distruzione tout court delle preesistenze significative, è assai facile che si nasconda la speculazione su aree e siti di enorme valore commerciale. La riconversione di manufatti del genere a funzioni diverse porta d'altronde a risultati che possono essere di grande suggestione estetica − si pensi a talune mostre eccellentemente allestite al Lingotto − ma implicare anche una fondamentale distorsione dell'oggetto come documento storico. Come alternativa a interventi e ''riusi'' devianti è stato polemicamente proposto (da E. Battisti) l'abbandono programmatico alle cure del tempo di tali oggetti, così che nuove rovine diventino parte integrante del paesaggio urbano contemporaneo, mete di futuri, romantici viaggi tra le memorie storiche della società industriale. Al di là del paradosso, è un fatto che la considerazione realistica degli interessi e delle forze in gioco rende assai problematica l'ipotesi di una conservazione generalizzata dei manufatti di archeologia industriale. Appare perciò di estrema e primaria importanza la loro individuazione sul territorio e la loro descrizione, così che diventi possibile la definizione di fondate serie storiche all'interno delle quali collocare i singoli oggetti. Questa fase conoscitiva è attualmente da considerarsi ancora agli inizi: risultato della ricerca e della riflessione storica legate allo studio dei resti materiali dell'i. non dovrebbe comunque essere soltanto la conoscenza pura, ma la disponibilità di concreti strumenti di giudizio che rendano meno improvvisati e casuali i comportamenti operativi nei confronti del patrimonio industriale.
In Italia è considerata punto di partenza delle ricerche di archeologia industriale la mostra San Leucio. Archeologia, storia, progetto (1977), risultato degli studi congiunti di un'équipe italiana della facoltà di Architettura del Politecnico di Milano, diretta da E. Battisti, e di un'équipe americana del Department of Architecture della Pennsylvania State University, diretta da R. Plunz.
L'oggetto dell'analisi − una filanda con ''quartieri'' per i lavoratori impiantata da Ferdinando iv di Borbone nei pressi di Caserta a partire dal 1776, nella prospettiva di una sorta di città industriale ideale − proponeva esemplarmente la connessione tra individuazione, descrizione e salvaguardia di una serie di oggetti (resti di strutture architettoniche, frammenti di macchine, prodotti di quell'i., iconografia a essa relativa) e studio delle ideologie al centro delle quali il manufatto nel suo complesso − fabbrica e abitazioni − poteva essere collocato: da una parte l'utopia illuminista del connubio tra progresso industriale e felicità degli uomini, dall'altra la civiltà opposta a tale progetto (quanto a modi di essere e di pensare) effettivamente prodotta anche da una nuova forma di divisione e di organizzazione del lavoro, dalla configurazione degli spazi a essa necessari e dalla ristrutturazione del modo di abitare, dunque di vivere al di fuori dei luoghi del lavoro, degli operai.
Gli studi su San Leucio − e il dibattito che ne è immediatamente seguito (Convegno internazionale di Milano, 24-26 giugno 1977) − hanno per la prima volta posto il problema di una storia dell'i. in Italia agganciata allo studio dei suoi resti materiali: la ricerca si è successivamente organizzata per ambiti tipologici, per lo più legati ad aree geografiche determinate − risultati significativi si sono avuti con i volumi sui villaggi operai (1981), sulla ferrovia veneta (1982), sulle filande (Cattaneo 1982; De Seta, Milone 1984) − e, soprattutto, per ambiti territoriali nella forma d'individuazione e documentazione dell'esistente (senza peraltro escludere, ovviamente, lo studio attraverso documentazione cartografica, letteraria e iconografica di ''monumenti'' e siti scomparsi). Tra i contributi in tal senso più utili, che generalmente raccolgono studi di autori diversi, si ricordano quelli sul Mezzogiorno (Rubino 1978; De Seta, Rubino, Vitale 1983), sul Piemonte, sulla Lombardia, su Venezia, ecc.
Oltre che in alcuni dei lavori ora citati, un'eccellente documentazione fotografica di oggetti di archeologia industriale in Italia si trova in volumi, di carattere più divulgativo, pubblicati dal Touring Club Italiano (1981, 1983).
Un contributo fondamentale all'avanzamento degli studi e alla discussione su temi di grande importanza per questo campo d'indagine − dalla questione della schedatura e catalogazione dei reperti a quella di una specifica organizzazione museale − è stato dato da alcune riviste, a partire da Archeologia industriale. Notiziario della società italiana per l'archeologia industriale (1978-81) e Archeologia industriale (1983-84); sono attualmente pubblicati il Bollettino dell'Associazione per l'archeologia industriale-Centro documentazione e ricerca per il Mezzogiorno (dal 1980) e Il coltello di Delfo. Rivista di cultura materiale e archeologia industriale (dal 1987).
Al problema della conservazione e del censimento dei documenti di storia materiale dell'i. (per la situazione italiana si veda il n. 38-39 della rivista Restauro, 1978, e Negri 1980) si connette strettamente l'idea di un museo specificamente dedicato all'archeologia industriale. I più convincenti modelli stranieri − l'inglese Ironbridge Gorge Museum Trust e il francese Ecomusée di Le Creusot, sviluppatisi nel corso degli anni Settanta − presentano strutture ''diffuse'' sul territorio: situati in aree di antica industrializzazione, si caratterizzano per l'integrazione di parti espositive e didattiche centralizzate e di reperti (edifici, macchine, case operaie) conservati, ed eventualmente restaurati, in loco. L'idea di un museo aperto sul territorio è alla base delle più recenti iniziative italiane, tra cui si segnalano il Museo-Laboratorio Aldini-Valeriani di Bologna (in via di trasformazione in una Casa dell'innovazione e del patrimonio industriale) e il Museo di San Leucio (ancora in fase di progettazione). Una serie di musei locali (per es. il Museo della seta di Garlate) costituisce d'altra parte un'importante rete di punti di raccolta e conservazione di reperti e documenti della storia industriale di aree precisamente delimitate.
Il crescente interesse per la storia materiale dell'i. anche al di fuori di un ambito strettamente specialistico è infine testimoniato da alcune mostre di ampio respiro che hanno avuto luogo in anni recenti a Milano, nell'ambito della Triennale (1986) e nello Spazio Ansaldo (1988), e a Torino, nell'edificio del Lingotto (1990).
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