INDOVINO (lat. divinari "presagire")
Indovino si chiama colui che pretende di svelare le cose attualmente e per sé stesse occulte, specie se lontane di tempo o di luogo, non con mezzi razionali, come per es. un astronomo o un rabdomante, ma in virtù d'un rapporto speciale con il mondo soprannaturale. Onde l'indovino è persona religiosa, che cioè pretende di aver comunicazioni speciali con la divinità o col mondo superiore, cui niente è nascosto.
Nelle religioni dei primitivi il mago o stregone è anche indovino, perché come ha il potere di costringere le forze occulte della natura, o i demoni sia benefici sia malefici, alla produzione di effetti soprannaturali, così può costringerli a manifestare cose impenetrabili alla comune conoscenza degli uomini. Ma anche nelle religioni superiori il fedele ricorre al suo dio per averne non solo aiuto e protezione, ma anche lumi e consigli nei casi d'ignoranza invincibile; quindi antichissimamente il sacerdote, rappresentante della divinità, fungeva ancora da indovino; come apparisce chiaro per la religione araba antica da ciò, che il sacerdote era detto kahin (cfr. ebr. kohen), cioè "veggente" e, per lo stadio più antico della religione ebraica, da ciò, che la Bibbia ci presenta esempî di sacerdoti consultati come indovini (I Samuele [Re], IX, 1; X, 9).
In seguito le due funzioni furono separate: sia che gl'indovini seguitassero, come i sacerdoti, a formare classi distinte (per es. in Roma gli auguri e gli aruspici), ovvero a essere addetti al pari dei sacerdoti al servizio di un santuario, in cui qualche nume appunto per mezzo loro dava gli oracoli (p. es., la Pizia nell'oracolo di Apollo in Delfi); o sia che vagassero liberamente per il mondo per dare i loro responsi a chi ne li richiedeva, del che l'antichità ha serbato il ricordo in personaggi mitici, quali i veggenti Tiresia, Calcante e Melampo, e i profeti Bakis, Museo e la Sibilla. Così anche presso gli Ebrei dopo i primi tempi della monarchia per sapere le cose occulte non si va più a consultare il sacerdote, ma il profeta.
Per due diverse vie gl'indovini giungevano alla conoscenza delle cose occulte, l'ispirazione o la divinazione, sia naturale sia artificiale. La divinità per dare i suoi oracoli poteva servirsi direttamente dell'indovino, investendolo del suo spirito e spesso anche di un sacro furore, per cui a lui caduto in estasi (v.) per mezzo di visioni e audizioni comunicava i suoi segreti (mantica in senso proprio); ovvero poteva servirsi direttamente di cose come segni (omina), che poi l'indovino con la sua arte a mente calma interpretava. Del primo genere era la Pizia e tale anche si immaginava la Sibilla (deo furibunda recepto, Ovidio, Metam., XIV, 107); così pure presso gli Ebrei i Nebhīm della prima maniera e anche i grandi profeti dell'epoca classica, la cui estasi, a differenza dei primi, non era furibonda e scomposta, anzi spesso dava luogo alla riflessione naturale, in modo da convertire la profezia in predicazione (v. ispirazione). Il secondo genere era specialmente proprio dei sacerdoti e delle classi degl'indovini addette al culto, come gli auguri e gli aruspici e anche gli antichi sacerdoti degli Ebrei (v. divinazione).
Nell'età ellenistica si aggiunse a questi due generi la profezia meramente letteraria, prodotto di pura riflessione, applicata soprattutto a presagire i grandi avvenimenti della storia o la sorte ultima dell'umanità. Per ottenere più facile credenza essa si ricopriva del nome di qualche antico profeta reale o mitico che fosse (v. apocrifi, libri; apocalittica, letteratura). Particolare fortuna ebbe la Sibilla (v.) ché anzi se ne distinsero parecchie (dieci, secondo Varrone), cui si attribuirono diverse raccolte di oracoli, compilate da Greci, Ebrei e anche cristiani.
Bibl.: V. alle singole voci cui si rimanda.