INCROSTAZIONE
− La tecnica dell' i. di elementi varî su una superficie da decorare è molto diffusa fin dalle più antiche manifestazioni artistiche; si usarono metalli diversi, madreperla, avorio, legni preziosi, smalti, terrecotte, ma questo termine assume un più preciso significato nel linguaggio archeologico riferito alla particolare decorazione a tarsia marmorea parietale. Questa è una tecnica nota sia nel mondo greco dove fu detta πλαᾒκωσις, sia in quello romano dove fu chiamata incrustatio o, più precisamente, incrustatio marmorea (G. I. L., iii, 6671). Le lastre marmoree impiegate erano dette crustae, crustae marmoreae (Vitr., vii, 5, 1), crustae marmoris (Plin., Nat. hist., xxxvi, 48). Le pareti così decorate erano dette parietes crustati o marmorati (Isid., xix, 13: crustae tabulae sunt marmoris; unde et marmorati parietes et crustati dicuntur).
Le lastre erano ottenute per mezzo di seghe metalliche che si facevano scorrere entro sottili scanalature dove si versava sabbia speciale molto fine (Isid., xix, 13: fiunt autem (crustae) arena et ferro serraque in praetenui linea premente arenas tractuque ipso secante), e Plinio (Nat. hist., xxxvi, 51) nel descrivere questa tecnica di lavorazione enumera le migliori sabbie usate, in ordine decrescente, ricordando prima l'etiopica, l'indiana, la nassia, la copta; poi si usò, dice, la sabbia di Adria e quella di fiume che consuma più il marmo, rende le crustae più sottili e più difficile la levigatura, e si adoperò anche la polvere di pòros.
Le crustae erano segate in varie forme geometriche, quadrate (abaci), rettangolari, triangolari, discoidali (orbes), a losanga e anche in quelle di membrature architettoniche come fasce, cornici, lesene, fregi. Le lastre si fissavano alle pareti con grappe e si colava la malta nell'intercapedine; spesso sull'intonaco rimasto sulle pareti si conserva l'impronta delle lastre cadute e disperse, e se ne può ricavare il disegno originario e la partizione dei pannelli.
Riguardo all'origine di questa tecnica decorativa si è pensato al mondo mesopotamico, all'Egitto, ad Alessandria, ma senza una precisa documentazione. L'unico precedente sicuro e analogo è rappresentato dai rivestimenti parietali di lastre di gesso alabastrino, di fregi di kýanos nei palazzi minoico-micenei, senza peraltro che vi sia un qualche rapporto con l'incrostazione del mondo greco-romano.
Plinio (Nat. hist., xxxvi, 47), che rivela un particolare interesse per i marmi e mostra di averne studiato la qualità, le provenienze, le tecniche, dice di supporre che l'arte di segare le crustae sia stata inventata in Caria, deducendolo dalla notizia che il palazzo del re Mausolo ad Alicarnasso aveva le pareti laterizie rivestite di marmo proconnesio. Anche se questo ragionamento pliniano non può avere un valore assoluto riguardo all'origine della tecnica, è molto verisimile che questo tipo di decorazione sia sorto nel IV sec. a. C. come una sostituzione meno dispendiosa della tecnica struttiva di pareti a blocchi di marmo squadrati, con l'affermarsi di tecniche più facili e di materiali diversi, per nobilitare ambienti costruiti di questi elementi laterizi o in pietra. La tecnica a blocchi di marmo doveva essere necessariamente riservata ai templi, ad alcuni edifici pubblici, ma più difficilmente poteva essere applicata nella costruzione di case private, e con la progressiva importanza che si viene a dare all'abitazione nel periodo ellenistico è probabile che si sia cercato di abbellirne gli ambienti migliori con una decorazione marmorea applicata alle pareti accanto all'uso dell'intonaco dipinto. Il fasto microasiatico, i palazzi dei dinasti e dei prìncipi del mondo orientale, come Mausolo di Caria, possono bene aver rappresentato un primo campo di applicazione di questo sistema decorativo della incrostrazione.
Dal mondo ellenistico l'uso dell'i. parietale passa a quello romano e Plinio ne registra accuratamente i primi esempî a lui noti in Roma (Nat. hist., xxxvi, 48-50). Cornelio Nepote ci dice infatti che per primo Mamurra avrebbe rivestito di crustae marmoree tutte le pareti della propria casa sul Celio e, a proposito del marmo numidico, che M. Lepido aveva usato in blocchi per soglie nella casa, Plinio aggiunge che questa era la prima notizia che a lui risultava dell'introduzione di questo marmo in blocchi e per simile uso secondario e non in colonne o in crustae, come per il caristio. Rimane poi in dubbio se le pareti marmoree della scena del teatro di M. Scauro fossero state fatte di blocchi squadrati oppure di crustae segate, perché non trovava ancora testimonianze di marmi segati in Italia. Il ricordo della casa di Mamurra riporterebbe la prima introduzione di questa i. all'epoca di Cesare; la sicura testimonianza della conoscenza di questa decorazione marmorea fin dai primi anni del I sec. a. C. ci è offerta dall'imitazione di specchiature di crustae policrome, di marmi variegati nella parte inferiore delle pareti con zoccolatura e fasce di riquadratura nelle pitture della prima fase del cosiddetto secondo stile pompeiano come, ad esempio, quelle della Casa dei Grifi sul Palatino. Le pitture parietali del cosiddetto primo stile nel mondo ellenistico e romano imitano, invece, la struttura a blocchi di marmo con cornici architettoniche, e rappresentano una decorazione di carattere tettonico e costruttivo sostanzialmente diversa da quella ad incrostazione.
L'uso di queste crustae parietali che si introduce nel I sec. a. C. si accompagua con la predilezione per i pavimenti marmorei di formelle geometriche policrome per gli ambienti più importanti, nei quali alla decorazione pittorica si sostituiva quella più preziosa e più nobile dell'i., che rivestiva con i marmi i muri di opus incertum e reticulatum e poi di mattoni. Pompei ed Ercolano conservano alcuni esempî di incrostazioni marmoree parietali fino al periodo flavio e fra questi particolarmente notevole è quello della casa ercolanese con specchiature di pavonazzetto, di cipollino divise da semicolonnine scanalate e da fasce. Anche la scena del teatro di Ercolano era fastosamente rivestita di crustae di pavonazzetto, d'alabastro fiorito e di rosso porfirico.
L'i. marmorea ebbe inoltre particolare applicazione e sviluppo negli edifici termali, che andarono moltiplicandosi e ingrandendosi durante il periodo imperiale, perché l'umidità e il calore deterioravano pitture e stucchi e rendevano adatta e funzionale la decorazione di crustae. Le pareti dove passavano le tubature fittili per l'aria calda erano sempre rivestite di lastre marmoree, generalmente bianche, o con partizioni geometriche e policrome negli ambienti e negli edifici più ricchi e sontuosi. Molti esempî possono vedersi nelle varie terme ostiensi, in genere con crustae di marmi bianchi o venati, e oltre che nei monumentali impianti termali di Roma si hanno testimonianze di queste incrostazioni in terme di Baia, Civitavecchia, Fiesole, Massaciuccoli; in Africa a Guelma, a Cirene, a Leptis Magna; in Asia Minore ad Efèso, a Mileto. Per analogo motivo di resistenza all'umidità i rivestimenti di marmi si usarono nelle fontane, come ad esempio nella Peirene di Corinto, o in quelle pompeiane ed ostiensi, nei ninfei, e per il tardo Impero Ostia ne offre molti esempî, fra cui quello del Ninfeo degli Eroti tutto rivestito di marmo bianco. Non mancava inoltre l'applicazione di questa i. in pareti di edifici pubblici come teatri, anfiteatri, biblioteche, ginnasî, e quando si costruì in tufo e in laterizio, anche nei templi, la cui struttura fu nobilitata da un rivestimento marmoreo in quelli più importanti, mentre in altri ci si limità ad imitarlo con lo stucco o a un rivestimento d'intonaco. La grandiosa cella laterizia del Capitolium adrianeo di Ostia può rappresentare un esempio tipico di rivestimento di crustae marmoree, di cui si trovarono molti resti nei vecchi scavi del sec. XIX e di cui si può oggi ricostruire le partizioni attraverso le file di fori dei perni che fissavano un tempo le lastre alle pareti.
Questo gusto decorativo per i rivestimenti marmorei andò prendendo particolare sviluppo nel tardo Impero corrispondendo al senso di fasto e del colore proprio del tempo. Le case signorili del III e del IV sec. d. C. messe in luce ad Ostia mostrano nelle sale più importanti sempre una decorazione parietale di marmi a specchiature divise da fasce e da cornici; si usano soprattutto larghe crustae quadrangolari di Portasanta, di cipollino, di pavonazzetto e, più frequentemente, di marmi bianchi o grigi venati, e quando la specchiatura è bianca si usano marmi colorati per le fasce divisorie, insieme talvolta a listelli di rosso antico, di giallo antico, di serpentino, in qualche caso giocando anche su uno sfalsamento di piani per aggiungere al contrasto cromatico quello di uno stacco di ombra. In queste case il rivestimento si limitava ad un'alta zoccolatura, più o meno all'altezza d'uomo, ma in questo periodo del tardo Impero si giunse in qualche caso di particolare sontuosità a coprire tutta l'altezza delle pareti con le crustae e ad arricchire sia i motivi geometrici, sia i contrasti policromi, e introducendo anche pannelli figurati di opus sectile marmoreo. L'esempio più significativo rimane la basilica di Giunio Basso, nota attraverso disegni eseguiti prima della distruzione e i quattro pannelli superstiti con la quadriga trionfale, Ila (v.) e le ninfe, e gruppi di fiere (v. sectile, opus; giunio basso). Una analoga decorazione aveva una sala aperta sul piazzale porticato fuori Porta Marina a Ostia, che è in corso di restauro.
Se gli esempî conservati di i. sono relativamente scarsi, ampliano la conoscenza di questa decorazione sia gli accenni nelle fonti letterarie, sia le imitazioni in pitture. Plinio (Nat. hist., xxxv, 2) considera addirittura questa moda delle crustae come la causa principale della decadenza della pittura, arte un tempo nobile nunc vero in totum marmoribus pulsa, insieme con l'ostentazione di ricchezza. Plinio soggiunge che si è arrivati al suo tempo non soltanto a rivestire di marmi tutte le pareti, ma anche a traforare il marmo inserendovi piccole crustae sagomate in forma di immagini di cose e di animali (nec tantum ut parietes toti operiantur, verum et interraso marmore vermiculatisque ad effigies rerum et animalium crustis). Non piaccion più, soggiunge Plinio, le semplici riquadrature marmoree e le superfici che hanno dilatato i monti nel cubicolo, cioè le distese di marmi cavati dalle montagne sulle pareti delle case; si arriva ora a far della pittura con il marmo (non placent iam abaci nec spatia montes in cubiculo dilatantia: coepimus et lapide pingere). È un'invenzione del regno di Claudio egli precisa, e sotto Nerone si è cominciato anche a variare l'aspetto unitario del marmo inserendovi macchie che non erano nelle crustae, facendo così in modo che il marmo numidico risultasse con macchie ovali, e che il marmo sinnadico diventasse purpureo, trasformandoli secondo il gusto e l'aspetto con cui si desidererebbe che fossero nati. Il lusso non cessa di riparare a queste deficienze delle cave, in modo che vada così perduto il più possibile in caso d'incendio. Per Plinio l'uso dei marmi è indice di un lusso immodico e condannabile, chiunque per primo inventò l'arte di segare le crustae e di moltiplicare il lusso fu un ingegno inopportuno secondo la sua mentalità catoniana (Nat. hist., xxxvi, 51: sed quisquis primus invenit secare luxuriaque dividere, importuni ingenii fuit).
Ma, nonostante questo atteggiamento conservatore e retorico di alcuni Romani, la moda dovette diffondersi largamente e molti scrittori vi accennano con accenti che denotano il carattere di lusso e l'ammirazione che riscuoteva nella società romana. Già Vitruvio (vii, 5, 1) accenna alle crustarum marmorearum varietates e Seneca (Ep., 86, 6) parla di Alexandrina marmora Numidicis crustis distincta, facendo pensare all'accostamento policromo di varie qualità di marmi in questi rivestimenti.
In Lucano (Phars., x, 114) troviamo: summis crustata domus sectisque nitebat marmoribus, e molti altri accenni abbiamo in Seneca stesso, in Marziale, in Stazio. Sidonio Apollinare (Ep., ii, 2, 7) ricorda rupium variatarum crustas e (Carm., 22, 146) sectilibus paries tabulis crustatus.
Anche le numerose imitazioni dell'i. parietale che abbiamo in pittura confermano il largo sviluppo che questa decorazione trovò durante tutto l'Impero. Oltre alle prime imitazioni nelle pitture di secondo stile di tipo architettonico, abbiamo esempî nelle varie epoche in Pompei, come nelle Case dei Vettii e del Menandro, a Centuripe, a Villa Adriana, a Thera, a Priene, a Dura Europos, ad Alessandria, a Treviri, a Ostia, dove si nota che molte pitture parietali del II sec. d. C. sono state rifatte nel III e nel IV con alte zoccolature imitanti specchiature marmoree policrome, e soprattutto le catacombe ci offrono una ricca esemplificazione di queste i. tradotte in pittura con riquadri di giallo antico, di brecce colorate, di marmi variegati, divise da fasce, arricchite da losanghe centrali, da dischi, da triangoli. Da queste decorazioni marmoree parietali del tardo Impero derivano poi quelle analoghe nell'arte paleocristiana e l'i. con queste specchiature sarà particolarmente usata nelle parti inferiori delle absidi delle basiliche.
Bibl.: H. Blümner, Die römischen Privataltertümer, Monaco 1911, pp. 91-93; id., Technologie und Gewerbe, III, p. 183 ss.; L. Friedländer, Sittengeschichte Roms, II, 10, p. 335; M. Rostovzeff, in Journ. Hell. Stud., XXXIX, 1919, p. 152; R. Delbrück, Hellenistische Bauten in Latium, II, p. 59; O. Deubner, Expolitio, Incrustatio und Wandmalerei, in Röm. Mitt., LIV, 1939, p. 14 ss.; id., in Pauly-Wissowa, Suppl. VII, 1940, cc. 285-293 con tutta la bibliografia particoalre; H. Stern, Les mosaîques de l'Eglise de Sainte-Constance à Rome, in Dumbarton Oaks Papers, XII, 1958, pp. 210-212.