Incostituzionalità del blocco della contrattazione
Nell’ambito della disciplina del lavoro “contrattualizzato” alle dipendenze delle p.a., di cui al d.lgs. 30.3.2001, n. 165, la Corte costituzionale con una sua pronunzia del luglio 2015 ha dichiarato la sopravvenuta incostituzionalità della proroga del “blocco” della contrattazione collettiva, inizialmente disposto per gli anni 2011-2013, ritenendo sussistente un contrasto con la tutela della libertà sindacale di cui all’art. 39, co. 1, Cost. dal momento che la sospensione, originariamente giustificata da ragioni di bilancio, ha acquistato un carattere sistematico.
Facendo seguito alla recente sentenza (C. cost., 30.4.2015, n. 70) in tema di adeguamento perequativo delle pensioni, la Corte torna a valutare i severi sacrifici imposti agli italiani negli anni più neri della crisi, pronunziandosi su due articolate ordinanze di rinvio che avevano ad oggetto l’art. 9, co. 1, 2-bis, 17 (primo periodo) e 21, ultimo periodo, del d.l. 31/5/2010, n. 78 conv. con mod. dall’art. 1, co. 1, l. 30.7.2010, n. 122 e l’art. 16, co. 1, lett. b) e c), del d.l. 6.7.2011, n. 98 conv. con mod. dall’art. 1, co. 1, l. 15.7.2011, n. 111.
Le norme disponevano il complessivo blocco di ogni elemento salariale, al fine di evitare incrementi della spesa pubblica nel settore dei dipendenti contrattualizzati (art. 2, co. 2, d.lgs. n. 165/2001) e di quanti comunque vengano a gravare sull’erario pubblico, in quanto inclusi nel perimetro del conto economico consolidato della p.a.
Con il d.l. n. 78/2010 si era così provveduto a “congelare” per il triennio 2011-2013 la progressione di carriera per anzianità (art. 9, co. 21), il trattamento economico accessorio (co. 1 e 2-bis) nonché la stessa contrattazione collettiva (co. 1 e 17). Il successivo art. 16 d.l. n. 98/2011 aveva meglio precisato i termini del blocco, in ordine alla indennità di vacanza contrattuale e alle assunzioni, prorogando sino al 31.12.2014 le «disposizioni che limitano la crescita dei trattamenti economici anche accessori del personale».
Tali disposizioni, invero, avevano già formato oggetto di due pronunzie della Corte1 che aveva salvato la disciplina da ogni censura, argomentando in maniera molto sommaria in ordine alla necessità che i sacrifici necessari a superare il grave momento di crisi venissero a gravare sui lavoratori pubblici, sulla base dei principi solidaristici che improntano la Costituzione della Repubblica.
La Corte si trovava quindi dinnanzi ad un sentiero già tracciato che non era facile abbandonare attraverso un semplice revirement di due precedenti così vicini. Essa è costretta, quindi, per poter modificare il proprio precedente orientamento, ad analizzare anche due disposizioni di legge che, in quanto successive alla prima ordinanza di rimessione, non avevano potuto costituire oggetto di analisi da parte dei giudici a quo. Si tratta delle leggi di bilancio per gli anni 2014 e 2015 che hanno prorogato il congelamento della Ivc alla data del 31.12.2013 (art. 1, co. 452, l. 27.12.2013, n. 147), nonché il blocco dei trattamenti economici accessori (co. 456) e la contrattazione collettiva dei dipendenti pubblici (co. 453), solo ammettendo che quest’ultima potesse esercitarsi sulla cd. “parte normativa”, confermando così il blocco economico anche per il 2014 e, successivamente, per l’anno 2015 (art. 1, co. 254, l. 23.12.2014, n. 190).
Le motivazioni con cui la Corte accoglie le prospettazioni contenute nelle ordinanze di rimessione sono di grande linearità e si concentrano nella parte terminale della motivazione (punto 17).
Si afferma che il «reiterato protrarsi della sospensione delle procedure di contrattazione economica altera la dinamica negoziale in un settore che al contratto collettivo assegna un ruolo centrale», così da coinvolgere «una complessa trama di valori costituzionali (artt. 2, 3, 36, 39 e 97 Cost.)».
Poiché dunque il «carattere ormai sistematico», che tale sospensione ha assunto, «sconfina … in un bilanciamento irragionevole tra libertà sindacale (art. 39, co. 1, Cost.), indissolubilmente connessa con altri valori di rilievo costituzionale e già vincolata da limiti normativi e da controlli contabili penetranti (artt. 4748 del d.lgs. n. 165/2001), ed esigenze di razionale distribuzione delle risorse e controllo della spesa, all’interno di una coerente programmazione finanziaria (art. 81, co. 1, Cost.)», il «sacrificio del diritto fondamentale tutelato dall’art. 39 Cost., proprio per questo, non è più tollerabile». Da qui, dunque, la dichiarazione di incostituzionalità, nei termini precisati al n. 1 della parte dispositiva.
La Corte, peraltro, si pronunzia anche in relazione al momento del verificarsi della illegittimità, espressamente qualificando questa come sopraggiunta. Infatti, proprio al termine del punto 17 si legge che: «solo ora si è palesata appieno la natura strutturale della sospensione della contrattazione e può, pertanto, considerarsi verificata la sopravvenuta illegittimità costituzionale, che spiega i suoi effetti a séguito della pubblicazione di questa sentenza».
Sono state, invece, rigettate le altre questioni, che, in relazione anche agli artt. 3 e 36 Cost., venivano prospettate nelle due ordinanze dei tribunali di Roma e Ravenna, in attinenza alla indennità di vacanza contrattuale, nonché alla progressione di carriera e alla retribuzione di produttività.
Con lo spirito di cui si è detto al par. 1, si deve sin da subito segnalare come non sia da condividere la disarticolazione che la Corte propone fra il principio dell’equo salario di cui all’art. 36, co. 1, Cost. e quello della tutela della libertà sindacale, di cui all’art. 39, co. 1, Cost., così da giungere al risultato di rigettare tutte le censure fondate sul primo (nn. 58 del dispositivo) accogliendo, invece, la sola fondata sul secondo.
3.1 Libertà sindacale e legge di organizzazione delle p.a.
Nella prospettazione dei giudici a quo, venivano messi in luce «i riflessi del prolungato blocco della dinamica negoziale sulla proporzionalità della retribuzione al lavoro prestato», tanto da «correlare la violazione del citato canone di proporzionalità al mancato adeguamento delle retribuzioni al costo della vita e al fatto che le retribuzioni non rispecchino il livello di professionalità acquisito dai lavoratori e la maggiore gravosità del lavoro prestato, dovuta al blocco del turn over».
Si tratta di un argomento di cui la Corte si sbarazza frettolosamente (punto 14.1), ritenendo solo ipotizzata (e non sufficientemente provata) la situazione denunziata e rilevando come la possibile modifica delle metodologie di lavoro potrebbe comunque assicurare l’equilibrio fra prestazione e retribuzioni promesso dalla norma costituzionale.
Invero il parametro dell’art. 39, co. 1, non sembra poter godere di autonomia sufficiente a giustificare la pronunzia di accoglimento. Ove così fosse, infatti, si verrebbe ad affermare, in contrasto con tutta la giurisprudenza costituzionale, una sorta di riserva di competenza della contrattazione collettiva (e per di più in un settore un tempo regolato esclusivamente in via unilaterale, attraverso leggi o fonti subprimarie: v. d.P.R. 10.1.1957, n. 3; l. 29.3.1983,
n. 93).
Al contrario, era auspicabile, a correzione delle titubanze più recenti2, che il disposto dell’art. 36 Cost. trovasse pieno accoglimento nel settore pubblico, in quanto manifestazione di un diritto elementare che attribuisce ad ognuno una retribuzione proporzionata alla qualità e quantità del suo lavoro, secondo indicazioni che in passato provenivano proprio dal Giudice di legittimità3.
Ed invero appare difficile, anche per quanto riguarda le censure che la Corte giudica infondate in relazione al rallentamento della dinamica salariale in tema di indennità di vacanza contrattuale e di retribuzione accessoria, negare che la crisi abbia costretto i dipendenti pubblici a fronteggiare, a retribuzione invariata (ed anzi, a professionalità accresciuta), un incremento di lavoro conseguente al blocco delle assunzioni e alla molteplicità di provvedimenti diretti ad incrementare l’efficienza del lavoro pubblico.
L’affermazione, che pure si rintraccia in sentenza (punto 9.2), di permanenti elementi di specialità della disciplina del lavoro pubblico avrebbe dovuto, quindi, condurre a collocare le posizioni soggettive dei lavoratori al di fuori degli ambiti nei quali il confronto con altre disposizioni costituzionali può conformare diritti, altrimenti di più ampia portata nel settore privato (come ad es. per le mansioni).
L’inizio della parificazione era stato segnato da una celebre pronunzia in tema di sciopero, là dove si riconosceva che le dinamiche di contrapposizione fra gli interessi datoriali e quelli dei lavoratori sono le stesse, indipendentemente dalla natura del servizio e del datore (C. cost., 28.12.1963, n. 123, punto 5): tuttavia, prima che si giungesse ad estendere anche al settore pubblico la contrattazione collettiva di diritto privato erano passati altri trenta anni; e tanto è avvenuto per decisione del legislatore e non certo in forza di un arresto giudiziale, a significare come fosse del tutto compatibile con il disegno costituzionale una disciplina del rapporto di lavoro fondata su norme unilaterali, e non negoziate, proprio a tutela degli interessi al pareggio di bilancio, comunque assicurati in Costituzione già dall’originario disposto dell’art. 81.
In altri termini, la “privatizzazione” realizzatasi con il d.lgs. 3.2.1993, n. 29 (poi consolidato nel d.lgs. n. 165/2001) non vale certo a minare l’ancoraggio costituzionale della disciplina del lavoro pubblico, dovendosi solamente riconoscere che la disciplina privatistica del rapporto, individuale e collettiva, è apparsa al legislatore come uno strumento idoneo ad assicurare maggior efficienza senza pregiudizio dell’imparzialità dell’azione amministrativa (C. cost. 25.7.1996, n. 313). Non a caso la dottrina ha mostrato perplessità nell’accostare le due fattispecie4 e la stessa Consulta ha escluso una violazione dell’art. 39 Cost., proprio sulla scorta del fatto che il contratto collettivo nel settore pubblico ripete interamente la sua efficacia dal lato datoriale (C. cost., 16.10.1997, n. 309), venendosi quindi a configurare quasi alla stregua di un contratto aziendale5.
In forza di quanto si è affermato, la tutela dell’azione sindacale non può estendersi al riconoscimento di un diritto a contrattare, se non nella prospettiva di assicurare il giusto salario ai dipendenti pubblici. Del resto, anche per il settore privato, l’abbinamento fra il co. 1 degli articoli 36 e 39 Cost. costituisce il fondamento della tutela costituzionale, come documentano le pronunzie nelle quali la Corte era stata chiamata a valutare della legittimità della imposizione di tetti eteronomi alla contrattazione collettiva privata, nella prospettiva di limitare gli effetti derivanti dalla cd. “spirale inflazionistica”. In quella occasione, attraverso molteplici pronunzie, si era riconosciuta la legittimità di norme che ponessero un tetto alle pretese rivendicative avanzate dalle organizzazioni sindacali, ma solo nella precisa prospettiva che le richieste salariali, finivano con l’innescare una rincorsa inflattiva, di modo che, venute meno le condizioni di necessità, la pronunzia era stata di accoglimento delle censure proposte6.
Insomma, la sola violazione dell’art. 39 Cost. appare, in assenza dell’altro parametro costituzionale (e del richiamo a canoni di proporzionalità e logica), del tutto incongrua: che cosa si potrebbe opporre ad un datore privato che, essendo gravato da onerosissimi debiti, dichiarasse di non essere disposto a sedere al tavolo contrattuale per un certo numero di anni, pur continuando ad intrattenere rapporti con il sindacato? Che così facendo verrebbe a compromettere la libertà delle organizzazioni dei lavoratori? Eppure è proprio questo quello che è avvenuto attraverso il blocco della contrattazione collettiva.
Le leggi del 2010 e 2011 e le successive proroghe non possono apprezzarsi infatti quali limiti ad una sfera individuale di autonomia, in quanto esse null’altro costituiscono che una istruzione, data per atto parlamentare, all’Aran (e a tutte le amministrazioni dello Stato) perché comprima al massimo la spesa pubblica.
Quanto si è ora affermato non deve stupire: quando la Corte ebbe a pronunziarsi (C. cost., 29.1.1960, n. 1) sul distacco delle imprese pubbliche da Confindustria, chiarì che quella disposizione non limitava in alcun modo la libertà delle organizzazioni sindacali dei datori (né, tanto meno, di quelle dei lavoratori), ma solamente costituiva una sorta di atto organizzativo “interno” alla parte datoriale, necessariamente dettato con legge a fronte della proprietà pubblica delle imprese. Ed invero è del tutto palese che, pur dopo il blocco della contrattazione collettiva, il sindacato rimane libero, per il resto, di espletare la sua attività senza che i decreti n. 78/2010 e n. 98/2011 appongano limiti alla sua attività di organizzazione.
In parallelo con la sent. n. 70/2015, nella quale l’art. 36 Cost. era stato invocato a tutela dei pensionati, la Corte avrebbe potuto in quest’occasione abbandonare finalmente le remore degli ultimi tempi e cogliere i profili di illegittimità proprio all’incrocio fra i due principi, riconoscendo che spetta alla contrattazione il ruolo di assicurare non solo efficienza (e non è illogico, a riguardo, il richiamo al precetto di cui all’art. 97 Cost. che compare in fondo al punto 17 della motivazione), ma soprattutto equità ed imparzialità all’azione amministrativa così da garantire che i sacrifici cui sono stati chiamati i dipendenti pubblici si mantengano nei limiti dell’equo e del ragionevole, secondo il fondamentale parametro di cui all’art. 3. Si tratta, invero, di argomentazioni che permeano tutta la parte finale della motivazione, ma che, stranamente, rimangono assenti nel dispositivo della sentenza, di modo che questa resta mutila nelle conclusioni finali, con il risultato di limitare la portata della pronunzia stessa nella prospettiva di una ripresa delle trattative collettive.
3.2 Efficacia nel tempo della sentenza
Una speciale considerazione merita poi la formula adottata dalla Corte per chiarire la portata della pronunzia, là dove ricollega la produzione degli effetti del suo dictum alla pubblicazione della sentenza. È noto come la dottrina costituzionale abbia accolto con una buona dose di contrarietà l’indirizzo di cui alla sent. 11.2.2015, n. 10, là dove la Corte ha inteso far salve le vicende svoltesi sotto l’imperio della legge dichiarata illegittima.
Il caso ora in commento è in verità diverso da quello, poiché la Corte qui si pronunzia sulle proroghe e non sulle originarie norme (art. 9, co. 1, 2, 2bis, 17 e 21 d.l. n. 78/2010) che avevano posto il blocco.
Al contrario nella sent. n. 10/2015 era la norma, nella sua formulazione originaria, che veniva ad essere travolta, di modo che si poneva la questione della modulazione degli effetti della pronunzia. In questo senso l’affermazione, contenuta nella parte dispositiva, che la pronunzia produce effetti «a decorrere dal giorno successivo alla pubblicazione di questa sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica» è addirittura ovvia, a norma dell’art. 136, co. 1, Cost.
Non mancano altre ipotesi nelle quali la Corte ha dichiarato una incostituzionalità «sopravvenuta», come nel caso di cui alla già ricordata sent. n. 124/1991.
In quella occasione, la Corte aveva ritenuto che, mentre l’art. 2, co. 1, d.l. 1.2.1977, n. 12 conv. dalla l. 31.3.1977, n. 91 trovasse giustificazione nella situazione economica del tempo, una tale esigenza era ormai venuta meno in occasione della promulgazione della l. 26.2.1986, n. 38 che introduceva (peraltro sul modello del settore pubblico, al tempo non ancora “privatizzato”) un sistema che «per il futuro ... sostituisce una norma standard alla quale i datori di lavoro dovranno attenersi sino a quando non interverranno nuovi accordi collettivi che prevedano una disciplina diversa, eventualmente più favorevole ai lavoratori» (punto 7 della motiv.).
Semmai, avrebbe meritato di essere chiarito con maggiore precisione quali siano i «termini indicati in motivazione» che valgono a determinare l’esatta portata della sentenza, secondo il disposto di cui al n. 1 della pronunzia che si esamina, che lascia quindi qualche incertezza.
Viene dichiarata (come più volte si è detto) l’incostituzionalità dell’art. 16, d.l. n. 98/2011, che proroga di un anno, al 31.1.2014, il blocco di cui al d.l. 78/2010 in relazione a tutte le «disposizioni che limitano la crescita dei trattamenti economici», nonché l’art. 1, co. 453, l. 27.12.2013, n. 147 che ammette la contrattazione collettiva per gli anni 2013 e 2014, ma solo limitatamente alla parte “normativa” e dell’art. 1, co. 254, l. n. 190/2014 che così recita: «Si dà luogo alle procedure contrattuali e negoziali ricadenti negli anni 2013, 2014 e 2015 del personale dipendente dalle amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, per la sola parte normativa e senza possibilità di recupero per la parte economica».
Il combinato disposto delle tre norme e quest’ultima in particolare, quindi, lasciano intendere che costituiscono oggetto di contrattazione, dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza, tutte le materie attribuite al tavolo negoziale e che, una volta che questo sia stato convocato, resta possibile un “recupero” degli importi riferibili al periodo successivo al 31.12.2012 (e dunque all’originario periodo di blocco).
Siffatta soluzione, peraltro, si palesa coerente non solo con il contenuto normativo delle disposizioni dichiarate illegittime, ma anche con l’ampia analisi che si legge in motivazione in ordine alla coerenza pluriennale del bilancio e alla sua articolazione su periodi triennali.
1 C. cost., 17.12.2013, n. 310; C. cost., 18.7.2014, n. 219.
2 V. C. cost., n. 310/2013.
3 V. C. cost., 31.3.1995, n. 101.
4 Mazzotta, O., Diritto sindacale, Torino, 2010, 159; Magnani, M., Diritto sindacale, Torino, 2013, 171.
5 v. Topo, A., Legge e autonomia collettiva nel lavoro pubblico, Padova, 2008, spec. 153 ss. e 190 ss.
6 C. cost., 26.3.1991, n. 124.