Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nella seconda metà del Novecento l’improvvisazione diventa un modo di intendere l’ideazione e la realizzazione dell’opera musicale, sia in campo “colto” sia in quello “extracolto”. Particolarmente cruciali sono gli anni Sessanta, in coincidenza con i grandi movimenti di liberazione politici, sociali e di costume: nascono il Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza, Musica Elettronica Viva, l’ensemble AMM, la Scratch Orchestra, le associazioni di post-jazz e di “musica creativa”. Simultaneamente, l’improvvisazione riguarda in modo non secondario compositori importanti come Giacinto Scelsi e Karlheinz Stockhausen.
L’improvvisazione come filosofia
Franco Evangelisti
Dalla presentazione del gruppo di improvvisazione Nuova Consonanza
In alcune conferenze tenute a Brema e Amburgo nel 1959, epoca in cui si scatenò la famosa polemica sulla validità dell’opera aperta, parlai dei limiti che questa portava in sé e della possibilità dei suoi ultimi sviluppi. Dovendo l’interprete completare nell’esecuzione gli schemi che il compositore forniva, io dissi, sarebbe stato necessario l’avvento di un nuovo tipo di esecutore che fosse anche compositore, in modo che potesse legare certi elementi musicali che, in esecuzioni date da interpreti di tipo tradizionale, vengono resi schiavi da una prassi che tale tipo di esecutore porta con sé. Auspicavo così una situazione più favorevole, ricordando il caso della musica indiana: da più di duemila anni in India gli esecutori sono anche compositori essendo quella musica legata a forme momentanee. È da notare, altresì, che le opere cosiddette “aperte” hanno limiti strumentali stabiliti dal compositore, risultandone l’opera aperta soltanto ad alcuni strumenti o a più strumenti; dissi così che limite di questa forma sarebbe stata una specie di “summa” di elementi con i quali l’interprete o gli interpreti-con/creatori potessero agire all’istante senza una precisa determinazione strumentale, in modo che ne risultasse un’opera spersonalizzata in senso tradizionale, quindi opera risultante dal concorso di numero X di interpreti-compositori possibili.
www.nuovaconsonanza.it
Nel Novecento, soprattutto nella seconda metà, l’improvvisazione diventa una filosofia. Già nell’epoca barocca e in quella romantica (così come in quella antica) c’è simultaneità tra l’invenzione di sequenze di suoni e la loro trasformazione in realtà sonora, coincidenza nella stessa persona delle figure dell’autore e dell’interprete, ma pensare l’improvvisazione come elemento costitutivo della propria attività musicale è davvero una novità (nel mondo occidentale, s’intende, e nelle musiche diverse da quelle popolari), una filosofia. Per realizzarla ci si prepara. “Va sfatata un’idea che circola sull’improvvisazione, che il suo unico modo di essere sia il suo puro accadere, ’improvvisandosi improvvisatori’ abbandonando quindi qualsiasi forma di esercitazione” (spiega Franco Evangelisti in Musica su schemi).
Si dirà che queste osservazioni sono adatte a un collettivo che, come ricorda lo stesso Evangelisti nello scritto citato, “è stato il primo al mondo formato totalmente di compositori” e per giunta di formazione “colta”. Il gruppo di improvvisazione Nuova Consonanza nasce nel 1964, e dura circa vent’anni. Franco Evangelisti (1928-1980) è il fondatore, partecipano in tempi diversi Egisto Macchi, Larry Austin, Antonello Neri, Frederic Rzewski, John Heineman, Ennio Morricone, Jesus Villa Rojo, Walter Branchi, Giovanni Piazza, Giancarlo Schiaffini, Mario Bertoncini e altri (si tratta di un gruppo aperto, l’organico cambia in continuazione). Si realizzano lavori senza alcuna traccia scritta in un clima di notevole e rilassata spregiudicatezza. Che sia un’esperienza davvero unica è innegabile, specie se si pensa all’ambiente musicale accademico italiano, il più retrivo, il più refrattario ad accogliere procedimenti eterodossi.
Ma prendiamo un musicista di tutt’altra provenienza, il jazzman Sun Ra (circa 1914-1992). “Per suonare free bisogna studiare!”, ecco una delle sue frasi preferite. Nella sua sconfinata produzione con l’Arkestra, la band – comune – cenacolo di cui è leader (dispotico, pare), il pianista-compositore di Birmingham, Alabama, crea un dispositivo sonoro tra i più affascinanti (radicalmente avant-garde oppure di rilettura dei classici della swing era) per cogliere dell’improvvisazione i significati più riposti, più spiazzanti, avvalendosi di solisti geniali, come John Gilmore, Pat Patrick, Marshall Allen. Se non proprio a tavolino, agisce con un assiduo lavoro di preparazione “militante”, certo ricorrendo anche al pentagramma.
Alla vicenda di Sun Ra possiamo collegarci per dar conto del lavoro artistico, tuttora “in progress”, di un altro musicista carismatico e un po’ incantatorio, anche lui cresciuto con il jazz e approdato a una musica di grande complessità e ricchezza, magmatica, sempre mutevole, vicina ormai alla più antiaccademica musica contemporanea “dotta”: l’americano Lawrence “Butch” Morris (1947-) ha assunto la filosofia improvvisativa, paradossalmente se vogliamo, nel suo ruolo di direttore. Morris improvvisa mentre guida una delle innumerevoli formazioni, sempre diverse, riunite per le sue performances, che chiama conductions. Assegna poche parti non scritte ma da memorizzare, per poi seguire itinerari momentanei nel corso delle esecuzioni, indicando i cambi di strada con i movimenti del corpo. Ma tutto è preparato da un lungo lavoro in comune.
Steve Lacy (1934-2004), solista di sax soprano e compositore, amante delle escursioni solitarie (Straws 1977) come delle opere per ampi organici (Itinerary, 1991), assegna al fattore tematico un’importanza notevole nello stesso processo improvvisativo. Anthony Braxton (1945), multistrumentista (pressoché tutta la famiglia dei sax, flauti, clarinetti), ha un rapporto forte con la struttura e la scrittura (Creative Orchestra Music 1976, 1976) il che non gli impedisce di essere uno dei maggiori improvvisatori totali che si conoscano (For Alto, 1968). Un discorso analogo si può fare per Roscoe Mitchell (1940-), virtuoso degli stessi strumenti di Braxton, membro autorevole dell’Art Ensemble of Chicago. Tutti e tre questi musicisti hanno incontrato sulla loro strada in momenti diversi l’ensemble Musica Elettronica Viva, fondato a Roma nel 1966 da Alvin Curran (1938-), Frederic Rzewski (1938-) e Richard Teitelbaum (1939-), cresciuto nella temperie del Sessantotto italiano, presente nelle università occupate con performances di libera improvvisazione e più tardi impegnato in lavori di sintesi tra improvvisazione e scrittura (United Patchwork, 1978).
Scelsi, Stockhausen e altri casi emblematici
Un caso problematico è quello di Giacinto Scelsi (1905-1988). Per gran parte della sua vita questo stravagante compositore produce la sua musica, giocata su singoli suoni e sulla microtonalità, improvvisando dalle 11 di sera fino all’alba con uno strumento elettronico chiamato ondiola. Solo in un secondo tempo egli affida a fedeli collaboratori il compito di trascrivere per vari organici o voce o strumenti solisti la musica che ha improvvisato e debitamente registrato su nastro. Ora, la musica trascritta di Scelsi che ascoltiamo è improvvisazione o no? Risponde Giancarlo Schiaffini nei suoi Pensieri sull’improvvisazione (testo inedito): “Scelsi non improvvisava in pubblico, ma il suo stream of consciousness si trasferiva senza troppe alterazioni sulla pagina scritta”.
Altro caso curioso in area “colta”, e qui il nome è quello di un gigante riconosciuto: Karlheinz Stockhausen (1928-2007). Lui improvvisatore? No e poi no, è la sua risposta. In qualche caso ha fatto “musica intuitiva”, dice. E noi scopriamo che si tratta di improvvisazione più integrale di quella jazzistica tradizionale, che Stockhausen ritiene abbinata per forza a qualche struttura preesistente, tematica, melodica, ritmica. Lo spiega in una intervista concessa a Libero Farnè per il numero di marzo 2005 della rivista “Musica Jazz”. Vi racconta l’avvicinamento per gradi successivi alla pura improvvisazione (pardon: alla “musica intuitiva”) di un gruppo di musicisti suoi collaboratori (insieme ad altri musicisti ospiti), con la sua regia del suono “in diretta”, durante la registrazione in una sola settimana nell’agosto 1969 di 14 pezzi del ciclo Aus den sieben Tagen.
Alle sedute di “musica intuitiva” stockhauseniana partecipano i quattro musicisti dell’ensemble New Phonic Art, che nasce proprio nel 1969: sono Vinko Globokar (1934-), trombonista e importante compositore dell’area “colta”, un iconoclasta che ama una sorta di “teatro della crudeltà” sonoro, Michel Portal (1935-), clarinettista-sassofonista-bandoneista, virtuoso vitalistico che spazia dal jazz alle partiture di Pierre Boulez (1925-) e Franco Donatoni (1927-2000), il diabolico dadaista percussionista Jean-Pierre Drouet (1935-) e il pianista-organista-compositore Carlos Roqué Alsina (1941-), portatore della visione elettronica nel gruppo nonché di quell’interesse per la gestualità che è comune a tutti e quattro. New Phonic Art esegue partiture scritte, ma a cavallo degli anni Settanta privilegia l’improvvisazione totale. Quella che ci fa ascoltare nello storico triplo Lp della Deutsche Grammophon (Free Improvisation, 1974), unica concessione della conservatrice casa tedesca a questo tipo di esperienze.
E chi troviamo a dividersi i solchi degli Lp della Deutsche Grammophon con New Phonic Art e con il quartetto Wired (che indaga sul live electronics)? Troviamo Iskra 1903: tre musicisti jazz che frantumano ogni possibile catalogazione di genere (è musica contemporanea, punto e basta), tre radicali, anzi estremisti, dell’improvvisazione totale e d’assieme. Sono Derek Bailey (1932-2005), chitarrista, Paul Rutherford (1940-2007), trombonista, e Barry Guy (1947-), contrabbassista. I loro sei brani che occupano le due facciate di uno dei tre Lp, brani un po’ intellettualistici, davvero da laboratorio, risalgono al 1963. Un timido annuncio dell’esplosione di quel vero e proprio movimento artistico europeo generato e nutrito dal jazz che dà alla libera improvvisazione il corpo, la generosità, lo slancio, la riuscita delle singole opere. Niente che regga il confronto in ambito “colto” (per quel che vale, ormai, questo termine), nemmeno – in un campo che si può definire “colto” solo parzialmente, e non certo per le scelte stilistiche – la lunga appassionante vicenda di improvvisazione collettiva di AMM, ensemble tuttora attivo, a sua volta non estraneo al jazz per quanto riguarda la formazione di Eddie Prévost, percussionista, e di Keith Rowe, chitarrista-manipolatore elettronico, i due musicisti che rappresentano la continuità del gruppo. AMM esordisce nel 1965 con la partecipazione del compositore Cornelius Cardew (1936-1981), fondatore nel 1969 della Scratch Orchestra, dedita anche all’improvvisazione oltre che alla vertiginosa rotazione dei ruoli dei suoi membri.
È un movimento artistico: sul finire degli anni Sessanta musicisti inglesi, tedeschi, olandesi, tutti nati jazzmen, si aprono con fervore rivoluzionario (e qualche rigidità avanguardistica) alla libera improvvisazione, all’indeterminazione, al rumorismo, all’elettronica “povera” e dal vivo, alla dissoluzione della forma classica, senza disdegnare l’action music, il citazionismo, il gioco circense, la paradossale musica per banda. Nascono etichette indipendenti in Gran Bretagna (Incus), Germania (Fmp), Olanda (Icp). Tra i protagonisti, il siderale sassofonista Evan Parker (1944-), il cerebrale Derek Bailey, l’apocalittico sax-clarinettista Peter Brötzmann (1941-), i metafisici cabarettisti Misha Mengelberg (1935-), pianista, e Han Bennink (1942-), batterista, percussionista di ogni genere di oggetti, i campioni del “suono industriale” Paul Lytton (1947-) e Paul Lovens (1949-), percussionisti. Il loro nume tutelare, il genio da cui tutti discendono è, però, un afroamericano: il pianista Cecil Taylor (1929-), informale, ossessivo, capace di una ricomposizione costitutiva del nuovo linguaggio musicale dell’oggi. In tale direzione si muove in tempi più recenti la free improvisation nel cuore dell’Europa, con un’attitudine nomade dei musicisti principali che li spinge in terra americana, e con una visione globale che una formazione celebre, la Globe Unity Orchestra (dove suonano più o meno tutti, di tutti i Paesi, Usa compresi), anticipa già con il nome.