improperium
1. Il termine è adoperato da D. in VE I XI 3. Dopo àver scartato il volgare dei Romani, quello degli abitanti della Marca d'Ancona e quello degli Spoletani, D. prosegue: Nec praetereundum est quod in improperium istarum trium gentium cantiones quamplures inventae sunt; inter qual unam vidimus recteatque perfecte ligatam, quam quidam Florenlinus nomine Castra posuerat (v. CASTRA). Chiosa il Marigo: " a beffa delle parlate di questi tre popoli furono composte parecchie canzoni: come quella del Castra, ve ne saranno state altre di Fiorentini o toscani, facili motteggiatori delle parlate delle altre regioni d'Italia e particolarmente di quelle confinanti colla Toscana ".
2. Il largo e vario impiego dell'i. nel poema, e nel senso propriamente ‛ comico ' e in quello della rampogna morale, trova il suo antecedente nell'esperienza realistica e giocosa, che rappresenta un aspetto notevole, se pur circoscritto, nella produzione giovanile di D., a sua volta collocabile nella tradizione così vasta dell'invettiva mediolatina e volgare, che nel sec. XIII assunse proporzioni considerevoli. Infatti la vituperatio, che la retorica classica ascriveva al genia demonstrativum come corrispettivo della laudatio, è a fondamento di una gran quantità di versi latini d'ispirazione satirica, soprattutto antiecclesiastica e anticuriale, quali sono stati tramandati, ad es., nella famosa raccolta dei Carmina Burana. la violenza dell'invettiva e il sarcasmo della parodia caratterizzavano in gran parte la letteratura goliardica, dando largo posto all'i., ma anche la polemica politica contenuta nella poesia di argomento storico del tardo medioevo latino era intessuta di apostrofi e di frecciate ingiuriose. La poesia volgare del Duecento d'ispirazione giocosa, orientata spesso volutamente in senso antistilnovistico, e risolta prevalentemente nella maldicenza, ha nell'i. un elemento fra i più caratterizzanti (v. anche APOSTROFE; ESCLAMAZIONE; IMPRECAZIONE).
Nella tenzone con Forese Donati, che si richiama a questa tradizione, l'i. è presente nel generale senso offensivo di ciascun sonetto, ma in particolare nel terzo (Rime LXXVII), dove all'apostrofe iniziale (figliuol di non so cui, ecc.) seguono l'ingiuria di goloso, di scialacquatore e di ladro, quest'ultima inserita indirettamente come una diceria (Questi ch'ha la faccia fessa / è piuvico ladron negli atti sui, vv. 7-8). Ma anche nelle Rime ‛ petrose ' l'i. è parte integrante del tono realistico del linguaggio: cfr. questa scherana micidiale e latra (CIII 58).
E se perfino nella Vita Nuova non manca l'i., se pure sotto la forma distesa del ragionamento, quello contro la stoltezza dei poeti che non hanno discernimento, l'i. accompagna ampiamente la satira politica e morale dei trattati. Nel De vulg. Eloq. D. non si lascia sfuggire l'occasione di bollare come Totila secundus, in un'esemplificazione (II VI 5), Carlo di Valois, mentre a proposito dei dialetti respinge il tristiloquium del volgare romano con un i. contro i cattivi costumi di quella popolazione (I XI 2). Nel Convivio ricorre l'i. contro la cecità e la malvagità degli avversari del volgare (I XI), o contro la turpitudine delle corti (II X 8). Nella Monarchia l'i. ricorre nei momenti in cui al complesso sillogizzare si alterna il tono solenne e severo, che riprende talora dallo stile biblico. Ma è nelle Epistole che questo tono attinge più direttamente allo schema retorico dell'i., in stretta relazione con l'apostrofe; e si veda l'Ep VII, che ne è l'esempio più notevole, intessuta com'è di offese nei confronti dei Fiorentini.
Nella Commedia generalmente l'i. si risolve in un vocabolo ingiurioso: spergiuro (If XXX 118), malvagio traditor (XXXII 110), bordello (Pg VI 78), che, in una famosa invettiva, si ritrova accanto a una serie di altri improperi (uom sanza cura, VI 107; crudel, v. 109); né mette conto enumerare i numerosi casi simili. Talora l'ingiuria si eleva di tono con l'apostrofe: Ahi Pisa, vituperio de le genti (If XXXIII 79); Ahi Genovesi, uomini diversi / d'ogne costume e pien d'ogne magagna (XXXIII 151-152); Oh Romagnuoli tornati in bastardi! (Pg XIV 99). In Vn VIII 8 1 Morte villana, ha, evidentemente, la medesima struttura e s'inquadra nel componimento che è tutto un " biasimo ", cioè un ‛ improperium '. Talora l'i. si nasconde nel senso contenuto in un esempio (v.), che viene appena rammentato nell'apostrofe (Novella Tebe, in If XXXIII 89), talora si nasconde dietro un'indiretta rampogna, che risulta da una perifrasi (Quelli ch'usurpa in terra il luogo mio, Pd XXVII 22). Una perifrasi ampliata dal ricordo mitico è il più notevole degl'i. contenuti nell'invettiva contro il fiero fiume e la maladetta e sventurata fossa (Pg XIV 16 ss.): ond'hanno sì mutata lor natura / li abitator de la misera valle, / che par che Circe li avesse in pastura (vv. 40-42); la stessa accusa torna esplicita nella cruda ingiuria dei versi successivi (brutti porci, v. 43; botoli, v. 46). in tutto un contesto realistico s'inseriscono le ingiurie che si rivolgono i falsari, dove l'i. è ancora retoricamente ampliato e aggravato dalla litote (v.): ma tu non fosti sì ver testimonio / là 've del ver fosti a Troia richesto (If XXX 113-114). così talora l'i., presentato in forma indiretta come nell'antitesi di Pd XXXI 39 (di Fiorenza in popol giusto e sano) o nell'interrogazione retorica di If XXIX 122 (fu già mai / gente sì vana come la sanese, ecc.), accresce il suo effetto. Anche la metafora si presta spesso all'i., ora attingendo alla pregnanza del linguaggio biblico (che fu già vite e ora è fatta pruno, Pd XXIV 111), ora alla crudezza dello schermo, che vede al primo posto la designazione del peccatore attraverso l'immagine della bestia: e si veda, oltre il passo citato di Pg XIV, la conclusione dell'invettiva di Pier Damiano: Cuopron d'i manti loro i palafreni, / sì che due bestie van sott'una pelle (Pd XXI 133-134). Talora l'i. colpisce un personaggio senza che esso venga nominato, ed è proprio all'allusione ingiuriosa introdotta per identificarlo, che viene affidato l'effetto satirico: Quel traditor che vede pur con l'uno (If XXVIII 85); mal del corpo intero, / e de la mente peggio, e che mal nacque (Pg XVIII 125). Il più grave e singolare i. è certo quello famoso di Vanni Fucci (If XXV 3), che accompagna un gesto blasfemo: Togli, Dio, ch'a te le squadro! Vedi GIULLARESCA, poesia.
Bibl. - V. Cian, La satira, Milano 1945, 48 ss.; M. Marti, Cultura e stile nei poeti giocosi del tempo di D., Pisa 1953, 59 ss.