Impresa
(XVIII, p. 936; App. II, ii, p. 12)
Gli aspetti riguardanti il funzionamento delle i. sono molteplici e variegati, in accordo con le particolari funzioni svolte da questa forma di organizzazione delle attività economiche. Per tale ragione, le questioni che ruotano attorno al concetto di i. sono state trattate in più lemmi sia nell'Enciclopedia Italiana sia nelle Appendici. Un'introduzione di carattere generale è riportata nella voce azienda (V, p. 694), dove si traccia un profilo delle fondamentali caratteristiche economiche, giuridiche e amministrative delle imprese. Per un aggiornamento di questa voce si veda inoltre il lemma industria nell'App. V (ii, p. 664).
Per quanto riguarda gli aspetti operativo-funzionali delle i., i temi legati all'organizzazione del lavoro, alla struttura gerarchica e all'interazione dell'i. con il mercato e l'ambiente esterno sono esposti sotto il lemma organizzazione industriale nell'App. IV (ii, p. 677), ripreso anche nell'App. V (iii, p. 782). In organizzative, tecnologie (App. V, iii, p. 779) sono presi in esame i motivi sottostanti la rapida evoluzione dei sistemi di gestione aziendale verso modelli di management scientifico, e vengono analizzati gli effetti della capillare diffusione delle nuove tecnologie informatiche sulla struttura e sull'organizzazione interna delle imprese. Gli stessi temi sono trattati anche in questa Appendice alle voci gestionale, ingegneria e produzione. Un argomento di particolare rilievo riguarda l'esigenza avvertita dalle i. di rispondere alla complessità dell'ambiente competitivo esterno attraverso l'introduzione di innovazioni di prodotto e di processo. Su di esso si veda, per un inquadramento teorico, la voce innovazione nell'App. V (ii, p. 720) e per un'analisi delle relazioni tra capacità competitiva, innovazioni tecnologiche e politiche di intervento pubblico nel settore della ricerca, la voce ricerca scientifica in App. IV (iii, p. 217), ripresa poi nell'App. V con il lemma ricerca e sviluppo (iv, p. 496). Gli elementi di complessità che entrano nel quadro decisionale delle i. richiedono l'utilizzo di metodologie per la determinazione di scelte strategiche. I presupposti scientifici e gli obiettivi operativi di tali tecniche compaiono nelle voci dell'App. V marketing (iii, p. 350), logistica (iii, p. 249), operativa, ricerca (iii, p. 768), e ancora al sottolemma Marketing in gestionale, ingegneria, in questa Appendice.
Infine, per gli aspetti relativi alla teoria economica, occorre sottolineare come il dibattito sulla natura e sulle funzioni dell'i. abbia ricevuto una più puntuale considerazione solo a partire dagli anni Settanta. Una sintesi complessiva di questo dibattito è riportata di seguito in questa Appendice. Per un approfondimento di singoli aspetti della teoria si rinvia alle voci riguardanti gli autori che hanno dato i contributi più significativi. *
Teoria economica dell'impresa
di Claudio Sardoni
In anni recenti, a partire grosso modo dagli anni Settanta, si è assistito allo sviluppo di un ampio dibattito sulla teoria economica dell'i. che affronta i problemi della natura dell'i., della sua organizzazione ed estensione, delle sue relazioni con il mercato. Questo dibattito si ispira in larga misura, o fa comunque riferimento, a contributi analitici di R.H. Coase che risalgono agli anni Trenta (cfr., in particolare, Coase 1937). L'importanza del contributo di Coase alla teoria dell'i. è stata riconosciuta e gli è stato conferito il premio Nobel per l'economia (per una valutazione che recentemente Coase stesso ha fatto del suo lavoro degli anni Trenta: The nature of the firm, 1991). Il premio però è giunto nel 1991, più di mezzo secolo dopo la pubblicazione dell'articolo del 1937. Questo ritardo non è stato probabilmente casuale, ma dovuto al fatto che, per un lungo periodo di tempo, il contributo di Coase, se non del tutto ignorato, ha destato scarso interesse da parte della disciplina nel suo complesso e della teoria microeconomica neoclassica in particolare. Quest'ultima, infatti, si sviluppava lungo linee che sostanzialmente trascuravano l'analisi dell'i., considerata una sorta di 'scatola nera', cioè qualcosa il cui interno non è oggetto di studio proprio dell'economia.
Nella teoria neoclassica del valore, fondata sull'analisi dell'equilibrio economico generale, l'economia è definita da un insieme di beni, da un insieme di consumatori (a loro volta definiti dai loro bisogni e preferenze e dalla loro dotazione iniziale di risorse) e da un insieme di produttori (imprese). Le i. sono definite dalle loro possibilità tecnologiche e seguono il criterio decisionale della massimizzazione del profitto. L'insieme delle possibilità tecnologiche a disposizione dell'i. è considerato esogenamente dato e la gestione dell'i. si riduce a mero calcolo dei profitti, scegliendo la tecnologia che li massimizza. Nessuna o scarsa attenzione è prestata ai problemi dell'organizzazione interna dell'i., che viene quindi ridotta a un'unità estremamente semplificata e stilizzata. Per descrivere questo stato di cose, J.H. Dreze ha usato una suggestiva metafora in cui l'i. della microeconomia neoclassica è paragonata a un 'pallone sgonfio', in altre parole l'i. viene definita in modo estremamente semplificato e stilizzato (Dreze 1985, p. 1).
Durante il lungo 'intermezzo' fra il lavoro di Coase negli anni Trenta e la recente ripresa del dibattito, l'interesse per l'i. non è stato comunque del tutto assente. Soprattutto negli anni Sessanta, vi sono stati alcuni significativi contributi finalizzati alla comprensione del modo di funzionare delle i. e, in particolare, delle grandi i. moderne. Anche questi contributi, però, sono rimasti sostanzialmente al margine del corpo teorico fondamentale della microeconomia dominante. Solo a partire dagli anni Settanta, come già detto, gli economisti hanno manifestato un interesse assai più vivo per il problema dell'impresa. Molti dei contributi più recenti si propongono di superare alcuni limiti della tradizionale microeconomia neoclassica, pur restando al suo interno. Altri, tuttavia, hanno sviluppato approcci alla teoria dell'i. che si pongono su di un terreno più decisamente critico dei fondamenti stessi della teoria dominante.
Dopo una sintetica esposizione dell'analisi di Coase degli anni Trenta e un rapido cenno alle teorie dell'i. degli anni Sessanta, qui ci si concentrerà su alcuni degli aspetti principali dei contributi più recenti. Per un esame più approfondito della teoria economica dell'i. si rimanda in particolare ad alcune utili raccolte di saggi, fra cui ricordiamo quelle curate da R. Clarke e T. McGuinness (1987), R. Schmalensee e R.D. Willig (1989, parte 1ª) e L. Putterman e R.S. Kroszner (1986, 1996²).
Coase: perché esiste l'impresa
Nel 1937 Coase pubblicava l'articolo, ormai un classico, sulla natura e l'esistenza dell'impresa. Gli economisti generalmente descrivono l'economia capitalistica come un organismo che funziona in assenza di un sistema di controllo centralizzato e dove il sistema economico è coordinato dal meccanismo dei prezzi. Tuttavia, secondo l'interpretazione di Coase, questa caratterizzazione dell'economia è parziale poiché non riesce a dare conto della natura e dell'esistenza dell'impresa.
L'i., elemento fondamentale dell'economia capitalistica, è un'organizzazione regolata da meccanismi diversi da quello dei prezzi. Essa è effettivamente governata da un sistema di controllo centralizzato e da un sistema gerarchico di ordini; al suo interno le transazioni di mercato sono eliminate e sostituite dal ruolo dell'imprenditore-coordinatore che dirige la produzione. Naturalmente l'i. è connessa al sistema di prezzi e costi determinati sul mercato e, quindi, compito fondamentale è l'individuazione e l'analisi dell'esatta natura della relazione fra i. e mercato (Coase 1937; rist. 1991, pp. 19-20).
Coase inizia la sua analisi chiedendosi perché in un'economia di mercato esistano i., perché non sia possibile produrre beni senza ricorrere all'i. ma affidandosi interamente al mercato, perché, in altri termini, la cooperazione dei diversi fattori della produzione non possa essere realizzata attraverso mere transazioni di mercato (contratti) invece che in seno a una struttura organizzata e gerarchica come l'impresa. Per Coase, la ragione fondamentale che rende conveniente la creazione di i. è che le transazioni di mercato implicano dei costi, che sono ormai noti in letteratura con il nome di costi di transazione. La spiegazione dell'esistenza dell'i. fornita da Coase differisce sensibilmente da quella precedentemente proposta da F.H. Knight (1921), che allora era probabilmente la più diffusa.
La teoria dell'i. di Knight è basata sulla sua nozione d'incertezza, che è distinta da quella di rischio. Il concetto di rischio è adeguato a trattare quelle classi di eventi la cui distribuzione di probabilità è nota e quindi misurabile; l'incertezza è invece propria degli eventi la cui probabilità non può essere misurata. Ci si trova in presenza d'incertezza ogni qualvolta la probabilità di un evento futuro non sia valutata in base a una qualche forma di conoscenza scientifica, ma in base a opinioni. Per Knight, tutte le decisioni economiche rilevanti prese in un'economia caratterizzata da divisione del lavoro e da processi produttivi che richiedono tempo sono necessariamente prese in un contesto incerto (Knight 1921, p. 268). La condotta razionale degli individui si basa sul tentativo di ridurre quanto più possibile il grado d'incertezza intrinseco alle loro decisioni. È da qui che Knight fa discendere la sua spiegazione dell'esistenza delle i. in un'economia di mercato.
Il problema dell'incertezza delle decisioni connesse alla produzione di beni, destinati non già al soddisfacimento dei bisogni dei produttori stessi ma di bisogni che si manifestano in modo impersonale sul mercato, viene risolto affidando tali decisioni a una classe limitata di individui, gli imprenditori, piuttosto che a un grande numero di produttori indipendenti. Gli imprenditori organizzano la produzione affittando risorse produttive cui assicurano una remunerazione fissa, mentre la loro remunerazione è il profitto, che assume natura residuale (la differenza fra ricavo e quanto deve essere pagato ai fattori della produzione per i loro servizi). La selezione di questa classe sociale avviene (attraverso un processo evolutivo) sulla base delle capacità di esprimere giudizi e opinioni sul futuro, sulla base delle capacità direttive, sulla fiducia con cui decisioni e azioni vengono intraprese. L'esistenza dell'i. è quindi un diretto risultato dell'incertezza. Gli imprenditori 'prendono il rischio' dell'attività produttiva e proprio per questo acquistano il diritto a controllare e dirigere i fattori della produzione. Un individuo garantisce a un altro la certezza del risultato delle sue azioni se ottiene in cambio il potere di dirigere il suo lavoro; d'altra parte, un individuo non accetterebbe il controllo del suo lavoro da parte di un altro senza una tale garanzia.
Pur ammettendo che senza una qualche forma d'incertezza sarebbe difficile giustificare l'emergere dell'i., Coase (1937; rist. 1991, p. 22) formula diverse critiche nei confronti di Knight, osservando, tra l'altro, che l'esistenza di una classe di individui con maggiori capacità previsionali e direttive non assicura che essi diventino imprenditori; potrebbero infatti trovare un reddito vendendo sul mercato le loro capacità. Egli spiega invece l'esistenza dell'i. invocando i costi connessi all'uso del meccanismo dei prezzi. Il costo più evidente è quello relativo alla scoperta di quali siano i 'prezzi rilevanti' per i soggetti che debbano effettuare una transazione di mercato. Un altro costo è quello associato alla necessità di negoziare e stipulare un contratto separato per ogni transazione di mercato concernente i fattori della produzione che debbono cooperare alla produzione dei beni. Tali costi sono eliminati, o largamente ridotti, organizzando la produzione nell'ambito di un'impresa.
L'esistenza di i. non elimina ovviamente tutti i contratti, ma ne riduce il numero. All'interno di un'i., un fattore di produzione non deve stipulare un contratto separato con tutti gli altri fattori con cui coopera. Ai molteplici contratti se ne sostituisce uno solo, quello fra l'imprenditore e il fattore di produzione impiegato nell'impresa. Si tratta inoltre di un contratto con particolari caratteristiche: il fattore della produzione accetta di obbedire, entro certi limiti, alle direttive impartite dall'imprenditore in cambio di una remunerazione che può essere stabilita in misura fissa o variabile.
Considerando più in dettaglio la natura dei contratti che l'organizzazione della produzione richiederebbe tramite il mercato, Coase si concentra su quelli a lungo termine. La produzione di beni e servizi spesso rende necessario stipulare contratti a lungo termine ma, a causa dell'incertezza, tanto più è lungo tale termine tanto più è difficile la specificazione dettagliata del contratto. In particolare, è difficile specificare tutti gli obblighi della parte contraente che vende un servizio produttivo. In questa situazione, la soluzione consiste nel lasciare indefiniti alcuni dettagli del contratto, stabilendo solo dei limiti per quanto riguarda gli obblighi del venditore. I dettagli di ciò che il venditore dovrà fare verranno decisi successivamente dall'acquirente. Quando si stipulano contratti di questo genere si è di fronte a ciò che Coase denomina un'i.: "Quando la direzione delle risorse (nei limiti stabiliti dal contratto) viene a dipendere in tal modo dall'acquirente, si ottiene la relazione che denomino imprese. È perciò probabile che emerga un'impresa in tutti quei casi in cui un contratto a brevissimo termine sia inadeguato" (Coase 1937; rist. 1991, p. 21). L'i. è così considerata come un'istituzione finalizzata alla minimizzazione dei costi di transazione fra le parti. Essa mira all'ottimizzazione degli scambi tra fattori della produzione specializzati in presenza di vincoli di natura contrattuale, piuttosto che di natura tecnologica (Holmstrom, Tirole 1989, p. 63).
Con l'introduzione e l'uso del concetto di costi di transazione, Coase, richiamandosi a un cardine teorico dell'economia marshalliana, si propone non solo di spiegare perché sorgano i., ma anche il limite alla loro espansione. Il riferimento a Marshall è il principio di sostituzione al margine. La scelta fra affidarsi al meccanismo dei prezzi o all'organizzazione dell'i. si basa sul costo associato all'uso del mercato: tanto esso è maggiore tanto è maggiore l'incentivo ad affidarsi all'impresa. Questo principio fornisce anche una spiegazione scientifica delle dimensioni d'i.: un'i. tende a espandersi fintanto che i costi connessi all'organizzazione di una transazione addizionale in seno all'i. siano inferiori a quelli connessi all'attuazione della stessa transazione tramite il mercato. In tal modo, Coase si pone in una prospettiva teorica diversa rispetto a quella che spiega le dimensioni dell'i. ricorrendo a fattori di natura tecnologica quali l'esistenza di economie e diseconomie di scala (su ciò cfr. anche Holmstrom, Tirole 1989, p. 66).
Un altro importante aspetto dell'analisi di Coase è il suo ricorso alla nozione di contratti incompleti. Il contesto incerto in cui i soggetti entrano in relazione fra loro rende impossibile che siano stipulati contratti completi, cioè specificati in tutti i dettagli. Sia la nozione di costi di transazione sia quella di contratti incompleti sono state riprese e sviluppate da molta della letteratura recente sulla teoria economica dell'impresa. Prima di passare a considerare questi contributi, si esamineranno sinteticamente alcuni aspetti delle teorie dell'i. sviluppatesi soprattutto negli anni Sessanta.
Teorie manageriali e comportamentiste dell'impresa
Le analisi dell'i. capitalistica, note con il nome di teorie manageriali dell'impresa, sono essenzialmente rivolte a considerare le grandi i. moderne (corporations) la cui proprietà azionaria è generalmente diffusa e la cui direzione è affidata a manager. Proprio tali caratteristiche possono far sì che la logica dell'i. non sia più basata sul principio di massimizzazione del profitto, come avviene per la tipica i. della microeconomia neoclassica che opera in regime di concorrenza perfetta. Tra i contributi più significativi alla teoria manageriale dell'i. vi sono quelli di W.J. Baumol (1959 e 1962) e R.L. Marris (1964).
In una certa misura, anche le teorie manageriali dell'i. traggono origine da dibattiti che risalgono agli anni Trenta; più precisamente dal dibattito sulle forme di mercato (The economics of the firm 1987, pp. 2-5). La microeconomia neoclassica si basa tradizionalmente sull'ipotesi di concorrenza perfetta: un'ipotesi criticata fin dagli anni Trenta per la sua mancanza di realismo e che male si adatta a una concezione dell'i. che intenda sottolineare il carattere necessariamente strategico delle sue decisioni (Schumpeter 1954, pp. 972-73). In alternativa all'ipotesi di concorrenza perfetta e nella ricerca di un maggiore realismo, fu introdotta negli anni Trenta l'ipotesi di concorrenza imperfetta e, successivamente, quella di oligopolio (per un esame più approfondito dell'oligopolio e delle tecniche analitiche impiegate per lo studio del comportamento strategico delle i.v. oligopolio, App. V). In questi regimi, l'i. ha potere di mercato e, quindi, assume necessariamente decisioni di natura strategica, più complesse di quelle dell'i. concorrenziale che prende tutti i prezzi come dati dal mercato. In un mercato non perfettamente concorrenziale, l'i. ha la capacità di fissare i prezzi e tiene conto sia del comportamento dei consumatori sia di quello delle i. rivali.
L'adozione di ipotesi di forme di mercato non perfettamente concorrenziale portò anche a mettere in discussione l'ipotesi di massimizzazione del profitto da parte delle imprese. In particolare, A. Berle e G.C. Means (1933), riferendosi alle grandi i. statunitensi, sottolinearono il carattere diffuso della proprietà azionaria e il fatto che, di conseguenza, la direzione di queste i. era affidata a manager, che non necessariamente perseguivano l'obiettivo della massimizzazione del profitto, ma altri tipi di obiettivi.
Le teorie manageriali dell'i. rivendicano un maggiore realismo rispetto alla tradizionale concezione neoclassica dell'impresa. L'esigenza di un approccio più realistico all'analisi dell'i. è stata condivisa anche dalla cosiddetta teoria comportamentista dell'i., proposta in particolare da R. Cyert e J. March (1963). In quest'approccio, l'i. è interpretata non come un'unità massimizzante ma piuttosto come un 'coagulo' d'interessi contrastanti. In quest'ambito, gli inevitabili conflitti d'interesse non sono risolti in modo ottimizzante, ma sono 'quasi risolti' seguendo criteri di razionalità limitata e comportamenti satisficing (soddisfacenti). Per una rassegna critica delle teorie manageriali e comportamentiste si veda, in particolare, F. Machlup (1967), che si pone in una prospettiva di difesa dell'ipotesi tradizionale di massimizzazione del profitto.
La gestione dell'i. da parte di manager e la possibilità che sorgano conflitti d'interesse fra i manager e i proprietari dell'i. sono temi che sollevano il problema del controllo e dell'incentivazione. Quest'ordine di problemi è stato ripreso più recentemente nel dibattito sull'i. e, più in generale, nel contesto del cosiddetto problema principale-agente su cui torneremo più oltre. Anche la nozione di razionalità limitata, cui ha fatto ricorso la teoria comportamentista, svolge un ruolo importante nel dibattito recente sull'impresa. Il concetto di razionalità limitata (bounded rationality) è stato introdotto da H. Simon (1955, 1957 e 1959), il quale critica il concetto di razionalità tradizionalmente adottato in economia. Simon sostiene che, in condizioni d'incertezza e conoscenza limitata, il concetto più adeguato è quello di 'razionalità limitata', che non contempla illimitata conoscenza e capacità di calcolo da parte degli individui. Anche l'attenzione per il fatto che l'i. è costituita dalla coesistenza di diversi gruppi con interessi non coincidenti è stata ripresa più recentemente, criticando l'idea tradizionale che essa sia governata nell'interesse di un solo gruppo. M. Aoki (1984), in particolare, sviluppa la sua analisi concentrandosi sull'interazione fra i diversi gruppi (azionisti, manager e lavoratori) utilizzando la teoria dei giochi cooperativi.
Economia dei costi di transazione e contratti incompleti
Nel 1987, in occasione del cinquantenario della pubblicazione dell'articolo di Coase del 1937, fu organizzato un convegno negli Stati Uniti sulla natura dell'i. (gli atti della conferenza sono pubblicati in The nature of the firm 1991). Molti dei partecipanti al convegno sottolinearono allora che il lavoro di Coase aveva esercitato scarsa influenza sul dibattito economico fino agli anni Settanta, quando si sviluppò un vivo interesse per l'approccio di Coase. O.E. Williamson, uno degli economisti contemporanei più significativamente influenzato da Coase, offre una spiegazione di questo lungo ritardo nel riconoscimento dell'importanza della nozione coasiana di costi di transazione. In particolare, per Williamson, ciò è dipeso dall'iniziale incapacità di rendere 'operativo' il concetto di costi di transazione.
Questa è un'argomentazione più volte sostenuta da Williamson (1985, pp. 3-4; The nature of the firm 1991, pp. 90-91), per il quale il concetto di costi di transazione non può considerarsi operativo finché non sia possibile derivare da esso conclusioni e implicazioni assoggettabili al test di rifiutabilità dell'ipotesi. In mancanza di ciò, il concetto di costi di transazione resta troppo generico, cosicché tutti i fenomeni economici potrebbero essere apparentemente spiegati ricorrendo a un qualche tipo di costo di transazione. A partire dagli anni Settanta, il concetto di costi di transazione ha acquistato crescente operatività e in tal modo è conseguentemente cresciuto l'interesse per l'approccio teorico di Coase. Lo sviluppo in 'senso operativo' del concetto si è avuto, per Williamson, innanzitutto grazie allo sviluppo di un approccio 'microanalitico', finalizzato all'individuazione dei fattori che spiegano le ragioni per cui diversi tipi di transazione implicano diversi costi. Inoltre, vi sono stati significativi sviluppi per quanto riguarda la capacità di porre in relazione specifici tipi di transazione con specifici tipi di istituzioni che le 'governano' e nell'analisi dei processi intertemporali che caratterizzano le organizzazioni economiche. Ciò ha favorito e stimolato anche diversi studi di carattere empirico che si propongono di corroborare la teoria (cfr., per es., P.L. Joskow, in The nature of the firm 1991). Il concetto di costi di transazione è stato applicato anche ad altre sfere della teoria economica nonché del diritto (Williamson 1985, pp. 393-407). È in questo modo sorta la cosiddetta economia dei costi di transazione.
Per quanto riguarda più specificatamente la teoria dell'i., sono di particolare rilevanza due ipotesi comportamentali alla base dell'economia dei costi di transazione. Innanzi tutto, riprendendo i contributi di Simon, si accetta l'ipotesi di razionalità limitata. S'ipotizza inoltre che gli individui si comportino in modo 'opportunistico', vale a dire che nel perseguimento dei propri interessi essi tendano a comportarsi in modo 'astuto'. In un mondo caratterizzato da incertezza e complessità, gli individui obbediscono al principio di razionalità limitata e, in tale contesto, è impossibile che essi possano stipulare contratti completi (cioè perfettamente specificati in tutti i dettagli). Come già aveva sostenuto Coase, le parti stipulano piuttosto contratti incompleti. Quest'ipotesi è considerata preferibile e alternativa a quella di comportamento satisficing, ritenuta poco adatta alle caratteristiche metodologiche della teoria economica (Williamson, in The nature of the firm 1991, p. 92).
L'ipotesi di contratti incompleti, congiuntamente a quella di opportunismo, assume particolare rilevanza quando si considerino transazioni fra parti che effettuano investimenti in attività con significativi connotati di specificità. È infatti proprio in questi casi che più evidentemente emerge il vantaggio dell'integrazione, cioè il vantaggio di governare le transazioni in seno all'organizzazione d'i. piuttosto che tramite il mercato.
Si consideri una situazione in cui le parti entrano in una relazione che prevede investimenti in attività significativamente specifiche, cioè attività che difficilmente possono trovare usi alternativi rispetto a quelli previsti dalla relazione in questione e che, quindi, all'interno della relazione hanno un valore più elevato di quello che avrebbero all'esterno. Poiché, per ipotesi, non è possibile stipulare un contratto completo, sarà impossibile per le parti definire ex ante come suddividere i rendimenti dell'attività economica cui esse si apprestano a dar vita. Tale suddivisione sarà definita solo ex post tramite un processo di contrattazione fra le parti; l'esito di tale processo può dipendere dal fatto che un contraente sfrutti in modo opportunistico la sua posizione di maggiore forza. Nei casi in cui la specificità delle attività e la portata delle transazioni rendono molto probabili comportamenti opportunistici, l'integrazione diviene conveniente, più efficiente del mercato.
Coase, come abbiamo visto, impiega i costi di transazione non solo per spiegare l'esistenza delle i., ma anche per determinare il limite alla loro espansione. Il problema dei limiti all'espansione dell'i. (o limiti all'integrazione) occupa un posto rilevante nelle discussioni più recenti. L'obiettivo è l'individuazione delle ragioni per cui l'integrazione non è spinta fino alla completa eliminazione del mercato, organizzando l'intera produzione in una singola i. (che equivarrebbe al passaggio da un'economia di mercato a un'economia diretta e coordinata centralmente).
Coase aveva introdotto il criterio di fondo da seguire per rispondere a questa domanda ricorrendo al principio di sostituzione al margine. Tuttavia, questo principio generale deve essere ulteriormente articolato, analizzando in primo luogo i fattori che rendono i costi delle transazioni in seno all'i. crescenti al crescere delle sue dimensioni. Infatti, se tali costi non fossero crescenti, non esisterebbe evidentemente alcun limite all'espansione dell'impresa. Williamson (1985, pp. 131-62) ha prestato molta attenzione a questo problema, giungendo alla conclusione che i limiti alla crescita delle dimensioni dell'i. sono fondamentalmente generati dal fatto che una crescente integrazione fra i. precedentemente indipendenti determina un sistema d'incentivazione meno efficiente di quello di mercato.
Qualora l'integrazione fra i. venisse concepita semplicemente come un processo in cui l'i. acquirente di un'altra assume il completo controllo di tutte le attività e gestisce l'i. ora più grande seguendo gli stessi criteri di prima dell'acquisizione, l'individuazione dei limiti all'integrazione sarebbe relativamente semplice. Essendo un manager (o un proprietario-manager) in grado di dirigere direttamente un numero limitato di subordinati, la crescita delle dimensioni d'i. comporterà necessariamente la creazione di strutture gerarchiche addizionali, con una conseguente riduzione delle sue capacità di controllo. I costi di tale perdita di controllo finiranno per eccedere i benefici dell'integrazione.
Ma l'integrazione fra i. non deve necessariamente prendere la forma appena descritta; l'intervento dell'i. 'madre' (quella che ha acquistato un'altra i.) può essere di tipo selettivo: essa interviene sulle i. acquisite (che sono ora sue branche) prendendo decisioni cui esse debbono sottostare solo nei casi in cui l'integrazione produce guadagni netti. In tutti gli altri casi, l'i. madre si astiene dall'intervenire e lascia autonomia decisionale alle sue branche. Se si ritiene che l'integrazione fra i. sia in molti casi di questo tipo, i suoi limiti vanno ricercati nei fattori che rendono impossibili o crescentemente costosi interventi selettivi. La posizione di Williamson è che con interventi di tipo selettivo si riducono gli incentivi a operare efficientemente per i manager delle i. controllate, incentivi che prima dell'acquisizione provenivano dal mercato.
Williamson e altri (per es. Klein, Crawford, Alchian 1978), nel considerare i contratti incompleti, si concentrano sulla specificità delle attività. Altri hanno sviluppato la teoria dei contratti incompleti concentrandosi sul problema dei cosiddetti diritti decisionali residuali. In questa linea un importante lavoro è quello di S.J. Grossman e O.D. Hart (1986). Quando per una parte contrattuale A è impossibile (o troppo costoso) stipulare un contratto completo con un'altra parte contrattuale B (cioè un contratto che specifichi tutti i diritti contrattuali di A), può essere ottimale per la parte contrattuale A acquistare tutti i diritti tranne quelli menzionati specificatamente nel contratto. La proprietà consiste proprio nell'acquisto di questi diritti residuali di controllo (o decisionali). Pertanto la distribuzione dei diritti decisionali di controllo coincide sostanzialmente con la distribuzione dei diritti di proprietà delle attività.
L'idea di fondo è che, per la natura incompleta dei contratti, l'effettivo verificarsi di eventi non previsti ex ante nel contratto dovrà dare vita a processi di ricontrattazione il cui esito dipende significativamente dalla distribuzione dei diritti decisionali di controllo (cioè dalla distribuzione della proprietà delle attività) fra le due parti. In questo quadro, l'integrazione delle attività in seno a un'i. (cioè l'acquisto dell'altra i.) può rappresentare una soluzione più efficiente dell'esistenza di due i. indipendenti. Secondo i sostenitori di quest'approccio, esso consente di definire in modo rigoroso e simmetrico non solo i benefici dell'integrazione, ma anche i suoi costi. In tal modo si determinano i limiti dell'integrazione. La soluzione al problema risiede nella determinazione dell'allocazione ottimale della proprietà delle attività, che dipende da vari fattori quali la natura delle attività e il tipo di relazione che intercorre fra di esse.
Il seguente esempio (tratto nelle sue linee essenziali da O.D. Hart, in The nature of the firm 1991, pp. 141-42) illustra utilmente il tipo di argomentazioni menzionate sopra. Si supponga che due parti A e B abbiano stipulato un contratto che impegna A a fornire una certa quantità di un bene x a B e che, a un certo momento, B desideri ottenere da A una maggiore quantità del bene. Essendo A proprietario di x, si troverà evidentemente nella posizione di decidere se soddisfare o meno la domanda di B poiché il contratto originario non prevedeva un eventuale aumento della fornitura di x assicurata a B. In tal modo, A viene a trovarsi in una posizione di forza contrattuale rispetto a B; un suo rifiuto a fornire la maggiore quantità di x può pregiudicare le attività di B (x, per es., può essere un bene intermedio necessario a B per la sua produzione), cosicché A potrebbe pretendere, per es., un prezzo più alto per x. In un caso del genere, B può difendersi da questi pericoli e attuare le sue attività in modo più efficiente attraverso l'integrazione, cioè acquistando A e integrando l'attività di A con la sua in un'unica impresa. In tal caso, B avrebbe il diritto di stabilire quanto del bene x deve essere prodotto di periodo in periodo.
L'integrazione produce benefici, ma comporta anche dei costi: la proprietà comune di due (o più) i. può divenire inefficiente. Quando l'i. B acquista l'i. A, gli incentivi per quest'ultima a operare efficientemente si riducono rispetto alla situazione precedente in cui essa era autonoma e indipendente. Si tratta quindi di determinare una distribuzione ottimale dei diritti di proprietà, quella cioè che massimizza i benefici netti dell'integrazione (per maggiori dettagli, Grossman, Hart 1986; Holmstrom, Tirole 1989, pp. 69-73; Hart, Moore 1990; Hart, in The nature of the firm 1991).
L'impresa come 'produzione di squadra'
Nel dibattito recente sulla teoria dell'i., un altro lavoro che ha costituito un importante punto di riferimento è un articolo di A.A. Alchian e H. Demsetz dei primi anni Settanta. Gli autori di quest'articolo si allontanano da una spiegazione dell'i. basata sui costi di transazione, caratterizzandosi per una concezione dell'i. come unità produttiva fondata sulla produzione di squadra (team production), cioè sulla cooperazione e collaborazione di più individui (Alchian, Demsetz 1972, pp. 783-85; Demsetz 1995, p. 16).
Alchian e Demsetz non considerano l'i. come una struttura caratterizzata da rapporti d'autorità e misure disciplinari d'ordine superiore rispetto al mercato. In realtà, da questo punto di vista, imprese e mercato sono del tutto simili: una relazione economica all'interno di un'i. (in particolare le relazioni fra datore di lavoro e dipendenti) può essere terminata nello stesso modo in cui può essere terminata una relazione contrattuale di mercato. Ciò che distingue una relazione di mercato da una relazione all'interno dell'i. è che, in quest'ultimo caso, si ha un uso coordinato dei fattori della produzione, una produzione di squadra appunto. La produzione di squadra costituisce in generale un modo più efficiente di produrre, ma fa sorgere anche il problema di misurare il contributo che ogni singolo membro dà alla produzione collettiva e al successo dell'attività di gruppo. È questo problema che conduce alla spiegazione dell'impresa.
Se la produzione di squadra rende impossibile attribuire a ogni membro della squadra una remunerazione proporzionale al suo contributo, esiste un forte incentivo per gli individui allo shirking, cioè a non impegnarsi al massimo nell'attività svolta. I singoli si asterrebbero dall'impegnarsi completamente nell'attività svolta, sapendo che il loro comportamento non sarebbe individuabile. È evidente che, in presenza di tali fenomeni, i fattori individuali non possono essere remunerati in proporzione alla loro produttività marginale secondo i canoni marginalisti tradizionali. Ci si può avvicinare alla determinazione del contributo individuale alla produzione totale attraverso il controllo dei contributi individuali, ma questo controllo è costoso.
In questo quadro, una risposta efficiente allo shirking è lo sviluppo di una funzione di monitoraggio, l'esistenza di qualcuno, cioè, che si specializzi nel controllo degli individui impegnati nella produzione di squadra. Affinché il controllore agisca a sua volta efficientemente, esso deve essere incentivato attribuendogli il prodotto residuale risultante dalla differenza fra prodotto totale e retribuzione dei fattori. Inoltre, il controllore deve avere il potere di penalizzare chi non si comporta secondo i termini stabiliti. Le 'punizioni' possono andare da riduzioni delle remunerazioni al licenziamento (Alchian, Demsetz 1972, pp. 781-83). Questa, in sostanza, è la spiegazione dell'esistenza delle i. capitalistiche. Affinché esista l'i., deve essere possibile aumentare la produttività attraverso l'organizzazione di squadra e deve essere conveniente stimare, attraverso il monitoraggio, il contributo individuale alla produzione totale. I vantaggi dell'integrazione terminano quando i guadagni di produttività non sono più sufficienti a compensare i costi del controllo; in altre parole esistono limiti all'integrazione in seno a un'impresa.
Il problema del controllo riguarda evidentemente i lavoratori dipendenti dell'i. ma è più generale, estendendosi al problema del controllo dei manager da parte dei proprietari (Demsetz 1995, pp. 18-19). Il problema del controllo e monitoraggio può essere inserito nel più generale problema principale-agente che è ampiamente dibattuto nella teoria economica sin dagli anni Settanta (per es. Jensen, Meckling 1976; Holmstrom 1979; Arrow 1984). Un problema principale-agente sorge in presenza di informazione asimmetrica fra due soggetti che entrano in una relazione economica. Una parte (principale) si affida a un'altra (agente) per l'esecuzione di un'attività, avendo minori informazioni dell'agente su come questi si comporterà. Per quanto riguarda specificatamente l'i., un esempio tipico di rapporto principale-agente è quello che viene a stabilirsi fra proprietario (o proprietari) e manager. Il principale (proprietario) dà incarico al manager (agente) di dirigere l'i., avendo minori informazioni di quest'ultimo sul funzionamento concreto dell'i. e dei risultati che essa consegue. Di qui nasce l'esigenza di incentivi atti a indurre il manager a comportarsi 'correttamente'.
Il paradigma neoclassico e la teoria economica dell'impresa
Le teorie dell'i. fin qui considerate presentano alcune caratteristiche che le distinguono dalla microeconomia neoclassica ortodossa (o tradizionale). Due di queste caratteristiche appaiono di particolare interesse. Innanzitutto, mentre la microeconomia ortodossa considera l'i. come una 'scatola nera', le teorie dell'i. entrano al suo interno per studiarne l'organizzazione, andando oltre i meri aspetti tecnologici della produzione. In secondo luogo, qualunque teoria dell'i. non può prescindere da ipotesi di informazione imperfetta, incertezza, costo dei contratti; per ripetere quanto detto da Coase, senza incertezza non esisterebbero imprese. La microeconomia neoclassica, con l'eccezione di alcuni suoi sviluppi più recenti, è stata tradizionalmente fondata sull'ipotesi di concorrenza perfetta (che implica assenza d'incertezza e, quindi, perfetta informazione), non prestando grande attenzione o ignorando del tutto i costi del ricorso al mercato.
Non è mai facile definire con precisione che cosa si debba intendere per teoria economica ortodossa. R.R. Nelson e S.G. Winter (1982, pp. 6-11), tuttavia, offrono un'utile definizione di ortodossia in relazione all'analisi dell'i., identificandola con le posizioni teoriche che dominano nei libri di testo di microeconomia di livello intermedio congiuntamente agli approfondimenti di tali posizioni presentati in lavori di carattere più avanzato (cfr. anche Winter, in The nature of the firm 1991).
Gli elementi di differenziazione rispetto alle posizioni ortodosse non sono trascurabili, ma non sono sufficienti a caratterizzare le teorie dell'i. di cui ci siamo finora occupati come un'alternativa al paradigma neoclassico. Al contrario, alcuni dei più significativi esponenti della moderna teoria dell'i. si distinguono per una convinta difesa della validità della teoria neoclassica. Anche coloro che accentuano maggiormente i caratteri distintivi dell'i. rispetto al mercato non possono essere considerati rappresentanti di posizioni radicalmente alternative a quelle della teoria economica dominante. Dopotutto, lo stesso Coase ha dato l'avvio alla moderna teoria dell'i. con l'idea di applicare e sviluppare un cardine teorico dell'analisi marshalliana come il principio di sostituzione al margine.
In un recente lavoro, Demsetz nega la validità dell'opinione secondo cui la nozione d'i. convive con difficoltà nel corpo teorico neoclassico. Egli definisce l'i. come un'unità specializzata nella produzione per altri che può essere, quindi, costituita anche da un solo individuo. In tal caso, l'esistenza dell'i. non solleva alcun problema di compatibilità con la teoria neoclassica del mercato. L'esigenza di maggiore realismo porta allo studio di i. di più grandi dimensioni con i problemi organizzativi che le caratterizzano (Demsetz 1995, pp. 1-14). Williamson, d'altro canto, non caratterizza le sue posizioni tanto per una critica dei fondamenti della teoria microeconomica tradizionale, ma per avere sviluppato un apparato teorico finalizzato a rispondere a questioni diverse. La microeconomia neoclassica risponde adeguatamente alle questioni che essa tradizionalmente si pone (cfr., per es., Williamson 1993).
Nel dibattito sulla teoria dell'i. sono emerse, tuttavia, anche posizioni che si distinguono per una critica più profonda dell'ortodossia neoclassica e delle teorie dell'i. a essa più direttamente connesse. Vale la pena ricordare, in particolare, lo sviluppo di una teoria evoluzionista dell'i., di cui R.R. Nelson e S.G. Winter sono gli esponenti più noti e significativi (cfr., in partic., Nelson, Winter 1982; Winter, in The nature of the firm 1991). In quest'approccio, ispirato in particolare all'ambizione di Marshall di avvicinare l'economia alla biologia evoluzionistica piuttosto che alla fisica, l'i. non è più considerata un'unità che, dato l'insieme delle possibilità tecnologiche, compie scelte ottimali in funzione dell'obiettivo di massimizzare i profitti. Né l'insieme delle possibilità tecnologiche né le scelte dell'i. possono essere chiaramente definiti e distinti rigorosamente; cosicché l'i. risulta un'organizzazione complessa e soggetta a un processo di cambiamento di tipo evoluzionistico.
Nella teoria ortodossa, l'i. opera in presenza di un insieme definito di possibilità, essendo sottoposta a precisi vincoli e sapendo come scegliere. Ciò è sufficiente alla realizzazione di risultati ottimali. Per Nelson e Winter, ciò che l'i. può fare è sostanzialmente incerto prima che essa si impegni effettivamente a esercitare la sua capacità d'azione; inoltre anche la capacità di fare buone scelte da parte dell'i. solleva problemi assai più complessi di quanto si suppone nell'ipotesi di scelte ottimali massimizzanti.
Altri, in particolare R. Clower e P. Howitt (1996, pp. 32-34), hanno criticato le impostazioni che considerano i. e mercato come mere alternative, sostenendo invece che è la stessa i. che crea il mercato. L'i. non si limita a coordinare le sue attività interne senza riferimento al mercato esterno; parte della sua attività è la creazione del suo mercato e dello stesso sistema dei prezzi. L'economia nel suo complesso non potrebbe funzionare secondo le sue complesse relazioni di scambio se non fosse per le attività delle i. volte alla creazione e gestione del mercato. Clower e Howitt riconoscono che in Coase vi sono accenni in tal senso, che restano però poco o affatto sviluppati. Più recentemente, altri autori (Cowling, Sugden 1998), riprendendo alcune osservazioni di Coase riguardo a un'eccessiva attenzione per il mercato e gli scambi, hanno proposto un'analisi concentrata sul problema delle decisioni strategiche e su chi ha il potere di prenderle in seno all'impresa.
Le posizioni teoriche più radicalmente critiche della teoria economica neoclassica (di ispirazione classica, keynesiana o postkeynesiana) si sono occupate dell'i. coniugando due importanti elementi. Accanto a una critica delle ipotesi neoclassiche sui rendimenti dei fattori della produzione (produttività marginale del lavoro, andamento delle curve dei costi, rendimenti di scala ecc.), queste posizioni hanno concentrato l'attenzione sulla logica di comportamento e di funzionamento delle grandi imprese che operano in mercati oligopolistici (cfr., per es., Sylos Labini 1956, 1967⁴; Eichner 1976; v. anche oligopolio, App. V). Altri autori, d'ispirazione generalmente marxista o radicale, hanno teso a sottolineare le relazioni di potere che caratterizzano l'i. e i rapporti fra parti in un'economia capitalistica (cfr., per es., Bowles, Gintis 1993).
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Cultura d'impresa
di Gianfranco Dioguardi
L'i. in generale, e in particolare l'i. di produzione di beni e servizi, attraverso le proprie attività istituzionali genera costantemente nuova esperienza che si sedimenta come storia. La consapevolezza di tali conoscenze determina una specifica cultura - capace di rappresentare l'i. stessa nel suo ambiente interno e nei confronti del mondo esterno - che diventa complementare con quella che emerge inconsapevolmente nell'ambito del contesto aziendale e come tale viene assorbita in modo naturale da quanti operano in quel contesto. L'elemento culturale, reso esplicito grazie all'acquisizione critica di conoscenza storica e di esperienza, contribuisce ad apportare ulteriore arricchimento alla personalità e alle abilità intellettuali di coloro che operano nell'i. e, nel contempo, dello stesso consesso aziendale che li rappresenta: si configura così una cultura d'i. intesa come formale espressione dell'insieme di valori definiti dalle esperienze e dalla storia, valori che dovrebbero essere condivisi dagli individui che nell'i. lavorano.
Questa cultura d'i. si forma in maniera del tutto naturale con il procedere delle azioni imprenditoriali. Ma perché possa esprimersi palesemente è indispensabile che si manifesti una coscienza di tale attività, e che tale coscienza venga poi esplicitamente condivisa da tutti coloro che nell'i. operano. Non è detto che questa condivisione avvenga in maniera naturale; soprattutto, molto spesso ed erroneamente, non viene riconosciuta come elemento essenziale delle attività di impresa. Oggi sono in atto tendenze che prevedono di realizzare una specifica attività progettuale finalizzata alla cultura d'i. mediante i canali posti in essere dalla formazione aziendale, e questo tipo di cultura aziendale, più tipico e tradizionale, viene generalmente designato come corporate culture.
È necessario, peraltro, considerare anche un'altra caratterizzazione della cultura d'i. legata a una vera e propria attività di promozione imprenditoriale, sviluppata allo scopo di generare un'attitudine culturale da definire strategica, differente ma complementare alla corporate culture. Si tratta di una cultura che l'i. deve impegnarsi a produrre come specifica attività funzionale per affiancare e arricchire la corporate culture, indirizzandola a tutti coloro che operano nel contesto imprenditoriale, e ciò anche al fine di ottenere specifici risultati, per es., nel perseguimento di un progetto di qualità totale nell'ambito della gestione produttiva.
Si passa dunque dalla cultura d'i. intesa fondamentalmente come storia (corporate culture) alla cultura come elemento strategico importante per la gestione dell'i., nel cui ambito tendono a prevalere nuove professionalità legate a un lavoro sempre più intellettuale. È, questa, una traiettoria che si rende sempre più manifesta con l'evoluzione del concetto organizzativo d'i. dalla connotazione tayloristico-fordista al modello di impresa rete, verso il quale oggi vanno orientandosi le unità produttive.
La costituzione della cultura d'i., in particolare nelle sue manifestazioni strategiche, è molto vicina alla formazione professionale, sebbene in pratica non siano ben delineabili i confini fra le due attività.
La formazione professionale (v. professionale, formazione, App. V), funzione diffusa e consolidata in campo aziendale, è orientata a costruire negli individui che lavorano nell'i. le capacità operative grazie ad appositi corsi svolti all'interno, oppure coordinando iniziative esterne di addestramento specifico o generale. La formazione presenta quindi caratteristiche tecniche e specialistiche che servono ad abilitare i vari operatori d'i. a svolgere le diverse attività cui sono preposti. Di conseguenza, ha subito anch'essa profonde modificazioni nel passaggio dall'i. tayloristico-fordista all'i. rete, e in base alle odierne tendenze si può prevedere che nuove e più profonde trasformazioni dovranno attuarsi proprio per consentire di utilizzare meglio i suoi canali e le sue tecniche formative, adeguandoli e rendendoli disponibili a una più generale produzione di cultura d'i., quanto meno nelle sue manifestazioni strategiche.
Per inquadrare l'evoluzione che caratterizza il concetto di cultura d'i. nelle sue connotazioni corporate e strategica, può essere utile risalire alle trasformazioni organizzative avvenute nella storia dell'i. produttiva, osservandole proprio sotto l'aspetto culturale.
In origine le attività imprenditoriali coincidevano con il commercio. Imprenditore era il mercante che concentrava in sé ogni abilità operativa e quindi anche culturale. L'"imprenditore di negozio", così definito dal monaco friulano G.M. Ortes (1713-1790) nel suo trattato Dell'economia nazionale del 1774, si trasformerà in imprenditore di produzione con A. Smith (1723-1790), sebbene il celebre economista scozzese non faccia mai specifico riferimento ai termini imprenditore e impresa, ma parli piuttosto di 'manifattura' come premessa della fabbrica industriale. La manifattura rappresenta il luogo di produzione dove si organizza il lavoro mediante la sua progressiva divisione e specializzazione, ed è proprio questo il modello da cui nasce il moderno concetto di fabbrica industriale.
L'ingegnere statunitense F.W. Taylor (1856-1915) ne studierà l'organizzazione, affinando i dettami proposti da Smith attraverso una razionalità scientifica; quindi l'industriale H. Ford (1863-1947) li metterà in pratica nei suoi stabilimenti di produzione di automobili di grande serie. Quel tipo di produzione di massa privilegiava un prodotto caratterizzato dall'uniformità, che ne consentiva la produzione in grandi quantità standardizzate, la cui qualità era garantita in maniera passiva da controlli statistici sui pezzi quando questi erano stati già prodotti. Si determinava così una sorta di privilegio della quantità sulla qualità, e i processi di produzione, operando attraverso catene di montaggio più o meno automatizzate, impiegavano su di esse un numero molto alto di lavoratori dotati generalmente di scarsa cultura di base.
In una tale situazione predominavano nell'i. le attività di stabilimento, caratterizzate da una rigida programmazione che organizzava il lavoro del singolo operaio in maniera fortemente parcellizzata e ripetitiva, così da renderlo nella sostanza estremamente semplice sia nella fase di apprendimento, sia nella conseguente fase di esecuzione. Veniva così a consolidarsi la concezione di una 'non cultura' aziendale quasi come elemento di vantaggio per ottenere una migliore e più spinta parcellizzazione del lavoro, e con essa una più elevata efficienza nell'applicazione di concetti organizzativi semplici e standardizzati.
La cultura d'i. era dunque pressoché assente, anche perché, essendo l'industrializzazione agli albori, vi era poca 'storia' e quindi anche scarsa corporate culture, e non se ne avvertiva la necessità in termini operativi: si tendeva piuttosto verso una letteratura manageriale che rispecchiasse quanto accadeva nelle i. in generale (delega e controllo) e nelle fabbriche in particolare (organizzazione del lavoro parcellizzato).
La rivoluzione informatica è stata uno dei fattori che ha maggiormente condizionato la modificazione dell'organizzazione, nonché la stessa struttura d'impresa. Grazie all'intervento dell'informatica, il lavoro più demotivante in fabbrica, quello sulla catena di montaggio, viene ora realizzato con l'ausilio di sistemi automatizzati, e ciò ha modificato le funzioni operative, divenute tendenzialmente di governo delle macchine computerizzate impegnate nella configurazione e nel montaggio dei diversi pezzi. I sistemi altamente automatizzati e specializzati, in grado di operare automaticamente nella fase di fabbricazione e assemblaggio delle varie componenti, sviluppano la loro attività sulla base di precisi programmi impostati mediante software che condizionano e determinano le prestazioni hardware delle macchine (v. robotica, in questa Appendice). Si possono dunque, con sufficiente facilità, ottenere molteplici modificazioni nella configurazione qualitativa del prodotto finale, diversificando i programmi software e ridisegnando lo stesso progetto organizzativo della fabbrica. Così, la produzione diviene 'snella' e la fabbrica 'flessibile' (v. anche organizzative, tecnologie e organizzazione industriale, App. V); in questa vera e propria rivoluzione industriale muta anche il ruolo dell'individuo impegnato nelle conseguenti lavorazioni. Si modifica inoltre l'atteggiamento che nei suoi confronti viene proposto dalla direzione d'i. e di fabbrica. Si riscoprono l'individualità del lavoratore e la sua intelligenza creativa, in particolare nel rapporto con le macchine informatizzate, mentre si accresce la sua professionalità nelle attività di gestione e di coordinamento organizzativo, diventate nel frattempo molto più sofisticate e complesse. Cambia la filosofia che presiede all'organizzazione della produzione, così da adeguare meglio i relativi processi alla concezione della fabbrica flessibile. Le modalità di produzione, in particolare nelle caratteristiche di qualità e quantità del prodotto, vengono determinate in funzione delle esigenze poste in evidenza in output dal mercato finale in un andamento non più indirizzato top down come nella fabbrica fordista, dove gli input a monte condizionavano l'intero processo a valle. I processi di produzione vengono ormai programmati bottom up, nel senso che le esigenze di vendita costituiscono quelle caratteristiche finali attraverso le quali si dimensiona e si organizza in tempo reale l'intero ciclo produttivo.
Il mutamento è sostanziale e impone, in particolare, anche di cambiare la concezione di approvvigionamento della catena di montaggio, non più effettuata mediante scorte precostituite (taylorismo), ma resa processo operativo mediante un flusso just in time, cioè effettuato in tempo reale, di prodotti intermedi forniti direttamente dalle i. di indotto: un processo che viene regolato in funzione delle esigenze evidenziate di volta in volta dal processo produttivo flessibile. Ciò impone anche di mutare i rapporti contrattuali con i subfornitori, esaltandone l'affidabilità e facendoli diventare elementi fondamentali dell'i. nelle sue manifestazioni di fabbrica produttiva (v. qualità, App. V).
L'i. fabbrica si trasforma così in un'entità che coordina e riunisce numerose strutture che costantemente alimentano l'unità di governo centrale attraverso le loro subforniture. L'insegnamento maggiore in questo nuovo modo di concepire la fabbrica proviene dal Giappone e, in particolare, dagli stabilimenti della Toyota, fabbrica automobilistica alla quale si fanno risalire i primi schemi di rivoluzione organizzativa 'flessibile' della produzione 'snella' nell'epoca dell'informatica. Nasce così la consuetudine di chiamare toyotismo questa specifica filosofia di produzione, ormai diffusa in tutto il mondo occidentale (v. anche produzione: Organizzazione della produzione, in questa Appendice).
La stessa organizzazione generale d'i. segue le linee di tendenza tracciate. Oggi gli uffici aziendali sono caratterizzati da una rete tecnologica di computer in grado di produrre, gestire e smistare un'enorme quantità di informazioni, ormai indispensabili alla corretta gestione direzionale delle attività imprenditoriali.
I sistemi informativi diventano predominanti nelle organizzazioni, e si collegano poi direttamente alla rete informatica che presiede più specificatamente le attività di fabbrica. Pertanto, una nuova figura professionale s'impone come elemento caratterizzante il fattore umano che collabora alle attività d'i.: un operatore addetto non più a lavori manuali, bensì all'interazione con i computer. È un individuo immesso in modo continuo in una massa enorme di informazioni aziendali che impongono una capacità critica di analisi, di selezione delle informazioni necessarie e sufficienti a eliminare tutte le ridondanze presenti nell'era dell'informatica distribuita, e una capacità di sintesi che permette poi di dare corso all'azione imprenditoriale.
Si tratta dunque di un individuo che anche nel lavoro di ufficio riacquista integralmente la fisionomia di essere umano dotato di capacità critica, di creatività, di sensibilità, di intelligenza da orientare efficacemente allo scopo di realizzare in maniera ottimale l'interazione con la macchina e il rapporto con l'ingente massa di informazioni prodotte dagli EDP (Electronic Data Processing). Sono, queste, caratteristiche che possono svilupparsi soltanto attraverso un'esaltazione della cultura individuale come elemento indispensabile per operare al meglio in questo nuovo contesto aziendale.
La cultura di carattere generale diventa allora elemento ancora più indispensabile per il collaboratore d'i., se si considera la necessità di mantenere 'umano' l'individuo nel suo rapporto con la macchina. Infatti il lavoro al computer e, in generale, con le macchine altamente informatizzate tende a realizzarsi attraverso una vera e propria 'delega tecnologica', con la quale l'individuo assume un atteggiamento di totale sottomissione nei confronti delle strutture automatizzate. Queste diventano, di fatto, sempre più 'intelligenti' e nello stesso tempo tendono a rendere il loro interlocutore sempre meno capace di dominarle, e per questo sempre più intellettualmente opaco.
Si sviluppa perciò una tendenza regressiva e molto pericolosa per l'essere umano, una tendenza sempre più diffusa nell'era dominata dai computer e molto evidente nelle i. e nelle fabbriche fortemente automatizzate. Situazioni, queste, che possono divenire drammatiche dando anche origine, negli addetti, a vere e proprie forme di 'taylorismo intellettuale' in cui lo stesso modo di ragionare finisce per essere condizionato dalle logiche binarie degli elaboratori. Per opporsi a questo fenomeno è indispensabile fare in modo che l'individuo esalti la propria personalità e torni a essere culturalmente vivo e capace, grazie appunto alla sua cultura generale, di dominare la macchina.
Anche per questi motivi, oltre che per una formazione professionale necessariamente arricchita e trasformata in educazione complessa, si rende necessaria una rivisitazione propositiva della cultura, in particolare nella sua componente strategica. Ciò allo scopo di consentirne il corretto sviluppo all'interno dell'i. informatizzata e della fabbrica automatizzata. Questa cultura deve diventare oggetto di specifici investimenti aziendali, che vanno di fatto considerati come funzionali al migliore sviluppo dell'impresa. L'insieme di tutte queste situazioni influenza l'evoluzione della concezione e della natura stessa dell'i., che tende a configurarsi in un modello di vera e propria i. rete. Un'i. rete di strutture informatizzate, che si diramano dagli uffici verso le fabbriche di produzione, ma soprattutto un'i. rete di individui nei quali si devono sviluppare ed esprimere caratteristiche di autonomia intellettuale, promosse e consolidate dalla cultura di ciascuno; individui che siano in grado cioè di operare mediante il proprio bagaglio culturale, esprimendo nel contempo autonoma imprenditorialità innovativa per il conseguimento dei risultati; un'i. rete, infine, di 'imprese d'indotto' verso le quali necessariamente trasferire la propria cultura aziendale, con l'intento di uniformare le azioni per il conseguimento di risultati adeguati agli obiettivi assegnati e agli standard di qualità perseguiti.
L'i. tende così ad allontanarsi dalle forme pure di produzione totalmente internalizzate (logica del make), per privilegiare sempre più l'apporto di attività esternalizzate (logica del buy), costruendo il concetto di 'rete di impresa d'indotto' che instaura un vero e proprio mercato interno da privilegiare rispetto alla stessa gerarchia.
In queste configurazioni organizzative nasce peraltro il pericolo che l'i. possa svuotarsi delle proprie attività fondamentali (core business) diventando una 'azienda cava' (hole corporation); ma in realtà, se l'organizzazione viene ben gestita, si registrano vantaggi sostanziali in termini di flessibilità e di diffusione dell'innovazione, apportati proprio dalle i. subfornitrici e subappaltatrici.
L'i. diventa quindi 'macroimpresa', cioè rete di i. che collaborano in vista di obiettivi comuni, e, nello stesso tempo, anche i. rete di individui imprenditori di se stessi in grado di disegnare un nuovo assetto sociale nei ruoli dei vari collaboratori, in un contesto aziendale nel quale la cultura d'i. assume nuove valenze strategiche. L'i. si trasforma, inoltre, in vera e propria struttura di governo delle transazioni che in essa si producono, rendendo i vari poli operativi altrettanti terminali di input-output sui quali impostare un processo di controllo attivo della qualità, in un progetto-programma di 'qualità totale' che investa l'intera attività economica imprenditoriale.
In questo modello d'i., di natura essenzialmente reticolare, basata sulla ritrovata autonomia dei diversi operatori, può essere rilevata la presenza di pericolose forze centrifughe che tendono a dissolvere la concezione unitaria globale. Proprio per questo, l'i. rete, nella sua componente di organizzazione generale e nelle sue configurazioni produttive incentrate nelle fabbriche e negli stabilimenti, deve saper ulteriormente arricchire la dimensione di cultura strategica, in modo da renderla l'elemento nuovo di coesione sia fra i suoi diversi collaboratori, sia a livello di i. che operano nel suo indotto. È, questa, una missione innovativa che deve impegnare l'i. nella conquista di nuove frontiere organizzative, promuovendo la formazione di una cultura strategica in grado di affiancare costantemente la cultura storica (corporate culture), che intanto si è evoluta con lo sviluppo dell'esperienza e della storia del mondo imprenditoriale.
La cultura d'i., in particolare nella sua componente strategica, serve a delimitare uno scenario interno che deve porsi in termini di complementarità con l'ambiente esterno rappresentato dal territorio. Fra i due ambienti deve infatti sussistere un costante flusso di informazioni in entrambe le direzioni. In questo modo la cultura d'i. può arricchirsi costantemente di ciò che caratterizza il mondo esterno, e nello stesso tempo può proporre trasferimenti culturali verso quel mondo sia come azione specifica sia, più in generale, grazie alle azioni che i singoli suoi collaboratori svolgono interagendo personalmente con il territorio. Ciò consente, fra l'altro, di stimolare la flessibilità dell'azienda per renderla sempre più capace di adattarsi alle mutevoli condizioni di scenario esterno, radicandosi nel territorio in cui opera. Seguendo i dettami descritti, la cultura d'i. e, in particolare, la sua connotazione strategica diventano un fattore etico di crescita individuale perché in grado di migliorare le qualità soggettive dei collaboratori. Nel suo aspetto aggregante, come fenomeno unitario, determina quindi anche un comportamento etico della stessa impresa.
Lo scenario interno all'i., caratterizzato dalla sua organizzazione, e l'ambiente esterno s'incontrano formalmente nel mercato sul quale vengono offerti i prodotti realizzati dall'i. stessa, per proporli alla domanda esterna espressa dai propri clienti. Prodotti che oggi sono sempre più arricchiti in termini qualitativi, giacché proprio attraverso la loro qualità si realizzano i migliori vantaggi competitivi per l'impresa. Ciò impone, nel contesto interno aziendale, di orientare sempre più gli interessi dell'i. verso una cultura della qualità del prodotto, che deve così arricchirsi anche di componenti intangibili, spesso collegabili ai meccanismi d'informazione. Si rende perciò indispensabile canalizzare una componente d'informazione interna orientata al prodotto, indirizzandola verso i clienti esterni per far meglio conoscere e commercializzare le caratteristiche peculiari e competitive della produzione. Questo significa anche, e più in generale, l'istituzione di veri e propri canali formali di collegamento fra la cultura d'i. e il mondo esterno.
Sovente questi canali vengono attuati mediante meccanismi di pubblicità, attraverso i quali si devono proporre tutte le informazioni inerenti la gestione dei prodotti e la loro manutenzione: fenomeno che assume un'importanza e una dimensione sempre più significative. Nell'ambito della cultura d'i. va pertanto costruita anche una cultura della manutenzione come fenomeno complesso di natura sociotecnica, in quanto esso riguarda non soltanto un processo di conservazione tecnica del prodotto, ma anche un'educazione sociale affinché se ne faccia il miglior uso possibile.
Un concreto esempio di tali suggestioni può essere realizzato nell'ambito del territorio urbano, in particolare nelle città e nelle loro zone più emarginate, grazie ad appositi strumenti sociotecnici denominati laboratori urbani di quartiere. Tali strutture dovrebbero generalmente essere messe in funzione dalle i. di costruzioni che realizzano le grandi strutture e infrastrutture urbane, eventualmente con l'ausilio degli enti pubblici (Comuni), così da assicurare la conservazione nel tempo di quanto viene costruito. I laboratori sono attrezzati per compiere una manutenzione urbana nei quartieri e, in particolare, in ambienti caratterizzati dal degrado e dall'emarginazione sociale. Essi allora acquisiscono connotazioni sociotecniche, in quanto alla manutenzione tecnologica delle strutture e delle infrastrutture urbane si aggrega un processo di educazione sociale, finalizzato alla conservazione e al mantenimento del patrimonio pubblico: processi che, di nuovo, costituiscono un sostanziale trasferimento di cultura d'i. dalle aziende verso gli abitanti del territorio.
Più in generale, il concetto di manutenzione sociotecnica orientata verso l'esterno può essere utilmente anche internalizzato, diventando così 'manutenzione culturale' con lo scopo di stimolare, aggiornare ed espandere tutte le componenti di cultura d'i., sia quella di corporate culture derivata dalla storia e dall'esperienza dell'i., sia quella di concezione prettamente strategica.
La cultura d'i. si manifesta così anche come elemento estremamente positivo per sviluppare lo spirito di corpo aziendale e per determinare un'omogeneità dei comportamenti resi autonomi dal concetto di 'rete' organizzativa. È perciò in grado di ricostruire l'unitarietà di azione tipica del soggetto imprenditoriale. Occorre tuttavia segnalare anche il pericolo che essa possa determinare effetti negativi, in particolare ostacolando l'innovazione e il cambiamento aziendale. Situazioni, queste, sempre più necessarie per adeguare le strutture imprenditoriali alle condizioni di scenario ambientale spesso innovative e rapidamente mutevoli: la struttura d'i. rete di individui motivati come imprenditori di se stessi è stata pensata proprio per agevolare e promuovere queste attitudini.
Occorre, al riguardo, segnalare il pericolo che la coscienza di una cultura profondamente radicata nella storia dell'i. possa sollecitare tendenze negative verso un forte e spesso non razionale mantenimento dei fatti del passato, così come essi si sono manifestati e hanno determinato proprio il successo dell'impresa.
È dunque necessario che i vertici aziendali, nel costruire la cultura strategica di i., abbiano sempre presente quanto sia indispensabile che tale elemento si proietti verso il futuro stimolando anche effetti d'innovazione e di cambiamento nei vari individui impegnati nel fenomeno imprenditoriale, e allo stesso tempo che si creino le basi affinché i vari operatori possano esprimersi grazie a principi comuni di comportamento, simbolo e manifestazione dell'i. unitaria.
Il problema non è di semplice soluzione, ma la sua pratica attuazione può essere sollecitata ancora una volta dando l'opportuno risalto alla cultura d'i. come elemento fondamentale di gestione e di corretto sviluppo del fenomeno imprenditoriale.
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Comunicazione d'impresa
di Marcello Morelli
Con l'espressione comunicazione d'impresa si fa riferimento al complesso di strategie, programmi, messaggi che un'i. attiva al fine di porsi in relazione con il contesto economico, sociale, culturale nel quale opera e del quale fa parte, con l'obiettivo di promuovere la propria immagine e quella dei beni/servizi che essa produce. L'esempio più semplice, e più intuitivo, di comunicazione d'i. è rappresentato dalla pubblicità, attraverso la quale - nell'ipotesi specifica della cosiddetta pubblicità prodotto - un'azienda comunica al mercato, cioè ai potenziali consumatori, le caratteristiche dei propri prodotti, i vantaggi legati al loro utilizzo rispetto ad altri di i. concorrenti, le modalità d'impiego, il prezzo o gli sconti disponibili, i nomi dei distributori, insomma tutte quelle notizie che è opportuno che il cliente conosca, non solo per essere informato sui singoli prodotti dell'azienda, ma anche per essere invogliato e motivato al loro acquisto.
Le forme e i modi attraverso i quali la comunicazione d'i. viene concretizzandosi nei singoli casi sono molteplici: può trattarsi di un messaggio pubblicitario, come si è appena detto; del design degli imballaggi nei quali sono contenuti i prodotti; della grafica di brochures promozionali o di manuali d'istruzione; dello stile e del contenuto dei giornali aziendali per il personale, ma anche del modo con il quale clienti e fornitori vengono accolti e trattati nelle sedi dell'i.; dell'architettura o dell'arredamento di uffici e stabilimenti ecc. Si tratta, come appare da quest'elenco, tutt'altro che completo, non solo di forme e modi fra loro diversi, ma anche di espressioni comunicative che utilizzano linguaggi del tutto differenti l'uno dall'altro. La comunicazione d'i. sfrutta modalità espressive diverse e può essere attuata sia in modo volontario con programmi, iniziative e messaggi specifici, sia involontario, quando, pur non essendovene l'intenzione dichiarata, viene messo in atto un processo comunicativo che veicola messaggi dell'i. verso il mondo nel quale essa opera e del quale è parte: è tipico, sotto questo profilo, il rapporto che si stabilisce, per es., fra l'i. e il suo contesto operativo, attraverso il comportamento dei propri dipendenti nei confronti del più diversificato pubblico di riferimento dell'i. stessa. Se obiettivo primario della comunicazione è quello di promuovere sia l'immagine dell'i. sia quella dei beni/servizi che essa produce, occorre chiedersi come tale immagine possa essere definita e quali siano gli elementi che concorrono alla sua effettiva concretizzazione.
L'immagine di un'i. corrisponde all'identità che le viene attribuita (insieme a quella dei prodotti/servizi, dell'attività, dell'organizzazione) dal pubblico per il quale la stessa i. può essere considerata in qualche modo rilevante. Così, se come esempio d'i. prendiamo in considerazione un istituto bancario, concorrono alla formazione della sua immagine fattori molteplici, alcuni di carattere materiale, altri del tutto immateriali: la solidità finanziaria della banca, la rete di sportelli disponibili sul territorio, i tassi d'interesse praticati, il livello di burocrazia connesso alla prestazione dei servizi offerti alla clientela, la cortesia e la disponibilità degli addetti ai rapporti con il pubblico, la 'trasparenza' delle operazioni e dei processi, l'affidabilità dell'istituzione, l'agibilità delle agenzie e altri fattori di natura analoga.
I settori della comunicazione d'impresa
Ogni i. ha un complesso di pubblici interessati alle sue operazioni, ai suoi prodotti, al suo sviluppo; questi possono classificarsi in pubblici esterni all'i. e pubblici interni a essa. Dei primi fanno parte i clienti, i fornitori, la comunità finanziaria, gli enti locali, i sindacati, gli opinion leaders (giornalisti, economisti, politici, uomini di cultura).
Dei secondi fanno parte i dipendenti (dirigenti, quadri, impiegati, operai), i rappresentanti, i concessionari/distributori (che, anche se giuridicamente non fanno parte dell'i., ne vivono in gran parte problemi e realtà, così come avviene per gli effettivi dipendenti), i fornitori (questi, già citati fra i pubblici esterni, possono, per alcune situazioni e informazioni, essere considerati anche fra gli interni, in relazione agli stretti vincoli che li legano all'i., quali, per es., l'aderenza agli standard aziendali, ai principi della qualità totale ecc.).
In funzione dei contenuti dei programmi e delle iniziative di comunicazione e dei relativi destinatari, la comunicazione d'i. si articola in più segmenti che devono essere, in ogni caso, fra loro strettamente correlati in una visione globale del rapporto i./contesto esterno di riferimento (comunicazione integrata d'impresa). Più precisamente, tali segmenti, o settori, sono: la comunicazione interna, che abbraccia anche il telelavoro, e la comunicazione esterna, che a sua volta si suddivide in comunicazione istituzionale, comunicazione finanziaria, comunicazione di marketing.
La comunicazione interna
Tale comunicazione si rivolge a quanti operano all'interno dell'i. e quindi fondamentalmente al suo personale. L'esigenza di comunicare con i propri dipendenti ha molteplici motivazioni: i dipendenti possono essere considerati dei referenti dell'i. verso il mondo esterno, in quanto vengono logicamente accreditati del possesso delle informazioni più vere e aggiornate su di essa; la motivazione dei lavoratori (e quindi il loro impegno, la loro disponibilità nei confronti dell'i., l'aderenza ai suoi principi etici e alle strategie aziendali) dipende in modo non trascurabile dalla loro possibilità di sentirsi effettivamente parte del 'sistema azienda'; e infine non va dimenticato che la comunicazione interna assolve anche precise esigenze di ordine operativo, in relazione al corretto svolgimento delle attività aziendali.
Numerosi sono gli strumenti propri della comunicazione interna; fra questi si possono annoverare: i giornali aziendali, con i quali si portano a conoscenza dei dipendenti le principali novità sull'organizzazione dell'i., sui suoi trend di sviluppo, sui nuovi prodotti che vengono immessi sul mercato, ma anche norme e raccomandazioni in fatto di sicurezza sul lavoro, chiarimenti su carriere e aspetti retributivi, impiego del tempo libero ecc.; le circolari e gli ordini di servizio, per stabilire compiti e mansioni, assegnare incarichi e definirne le modalità di espletamento, comunicare gli avvicendamenti del personale in reparti che lavorino su più turni, definire le responsabilità e le funzioni manageriali ai diversi livelli previsti dagli organigrammi aziendali; i telegiornali aziendali, diffusi a orari prestabiliti nelle diverse sedi dell'i. attraverso monitor installati negli spazi comuni (mensa, caffetterie ecc.) per una tempestiva comunicazione di notizie-flash che in qualche modo riguardino la vita aziendale; i bollettini informativi e le bacheche aziendali (anche informatiche); i programmi di gestione di suggerimenti o di quesiti posti alla direzione dell'i. su temi riguardanti l'organizzazione del lavoro o la gestione del personale; le riunioni di reparto, per il cui efficace svolgimento è ovviamente determinante la capacità motivazionale dei capi; i programmi manageriali di valutazione che, prendendo in esame l'attività svolta nel corso dell'ultimo anno da ciascun dipendente, forniscono a questi un quadro complessivo della situazione personale, in termini di rendimento e di capacità professionali, contribuendo altresì, in tal modo e concordemente, alla definizione degli obiettivi di lavoro per il periodo successivo.
Un ruolo del tutto nuovo hanno acquistato, e ancor più acquisteranno in futuro, per la diffusione rapida e puntuale di informazioni che in qualche modo possono interessare i dipendenti, le reti telematiche come Internet e la relativa versione interaziendale Intranet. È prevedibile che queste reti possano sostituire buona parte degli strumenti di comunicazione interna che abbiamo appena citato, in virtù della loro velocità, della possibile selettività nella trasmissione dei messaggi informativi, della facilità con la quale sono in grado di consentire l'accesso a informazioni archiviate che abbiano formato oggetto di precedenti comunicazioni. Va peraltro sottolineato come l'impiego crescente e indiscriminato di sistemi informatici per la diffusione delle informazioni stia cominciando a produrre, in alcuni casi, allarmanti situazioni di stress, soprattutto nei manager di medio/alto livello, proprio in conseguenza dell'eccessiva quantità di messaggi da cui questi ultimi sono letteralmente sommersi, senza avere molto spesso il tempo e la possibilità di analizzarli criticamente al fine di individuare nella loro massa quelli che potrebbero essere effettivamente meritevoli di un ulteriore approfondimento e valutazione.
Uno studio condotto nel 1997 dall'agenzia Reuters Business Information ha rilevato, per es., come esista per molti manager una vera e propria dipendenza (lo afferma oltre il 53% del campione preso in considerazione per la ricerca) dalle informazioni on-line, la cui mancanza provoca una specie di crisi di astinenza. È chiaro, dunque, come il ruolo delle comunicazioni interne non debba avere quale obiettivo il costante aumento della quantità di informazioni distribuite, bensì un'accorta politica di personalizzazione della distribuzione, affinché ciascuno riceva una giusta e mirata 'dose' di messaggi informativi.
La comunicazione d'impresa e il telelavoro
La possibilità di lavorare senza spostarsi dalla propria residenza abituale, grazie all'utilizzo di sistemi informatici collegati all'azienda di appartenenza, realizzando cioè quello che viene normalmente indicato come telelavoro, è destinata a mutare profondamente le comunicazioni all'interno delle imprese. Vi è, infatti, una differenza sostanziale fra il trovarsi per un certo numero di ore al giorno nell'ambiente di lavoro tradizionale, con tutte le possibilità di socializzazione e d'integrazione nella comunità aziendale, e il lavorare da soli in un ambiente che, nella maggior parte dei casi, è quello domestico - non necessariamente armonioso e rilassante - senza avere l'opportunità di un colloquio continuo con colleghi, capi, clienti ecc.
A questa mancanza di contatto con il proprio mondo del lavoro deve dunque sopperire la comunicazione interna che, questa volta, non ha soltanto la finalità di motivare adeguatamente il personale dell'i. per farlo sentire parte effettiva della realtà aziendale, ma quella, ben più difficile a realizzarsi, di renderlo partecipe e componente essenziale di una realtà aziendale di cui, necessariamente, non può che far parte in modo del tutto virtuale. È questo un compito difficile e complesso che investe e coinvolge aspetti psicosociologici molteplici, le cui distorsioni possono avere conseguenze tutt'altro che trascurabili sia sull'efficienza lavorativa, sia sulla stabilità psicologica del lavoratore. Un ruolo determinante in questo caso è affidato agli strumenti telematici, gli unici a consentire un colloquio diretto e permanente fra azienda e lavoratore, indipendentemente dalla localizzazione di entrambi: la possibilità di scambiare in ogni istante messaggi di informazione, di ricevere dal proprio capo direttive, consigli, giudizi sul lavoro da svolgere o già portato a termine, di interpellare i colleghi su particolari aspetti della vita aziendale o dell'attività che si ha in corso, sono tutti elementi in grado, sia pure con alcuni limiti, di 'simulare', ricreandola virtualmente sullo schermo di un personal computer, una realtà aziendale distante centinaia di metri o di chilometri.
La comunicazione esterna
La comunicazione istituzionale. - Obiettivo della comunicazione istituzionale è la promozione dell'i. in quanto istituzione: con essa, dunque, non si fa alcun riferimento diretto ai suoi prodotti/servizi, mentre viene data la massima attenzione al ruolo che l'i. svolge nel contesto economico, sociale o culturale del paese e al contributo che è in grado di offrire a quest'ultimo, per es., per lo sviluppo tecnologico, per il potenziamento delle strutture produttive, l'equilibrio della bilancia commerciale, l'incremento dell'occupazione, e per il rispetto delle norme che presiedono alla protezione dell'ambiente. In tal modo la comunicazione istituzionale concorre a definire il posizionamento dell'i. nel proprio mercato, e ciò al fine di accrescere o consolidare la fiducia degli ambienti finanziari, far conoscere la realtà produttiva, occupazionale, finanziaria dell'azienda all'opinione pubblica, alle istituzioni, a coloro che, con il proprio giudizio e le proprie valutazioni, siano in grado d'influenzarne le operazioni (per es., quelle di carattere economico-finanziario).
Anche gli strumenti della comunicazione istituzionale a disposizione del management aziendale sono numerosi. Tra i più importanti si segnalano: la stampa, sia quella quotidiana (locale o nazionale) sia quella periodica (riviste a grande tiratura, riviste di settore, specialistiche, professionali), cui si accede con l'attività di pubbliche relazioni con i giornalisti, con l'emissione di comunicati stampa, con conferenze stampa convocate in occasione di eventi aziendali di grande rilievo e che 'facciano notizia' presso il grande pubblico; i mezzi radio-televisivi, delle reti pubbliche o commerciali; le brochures istituzionali, con le quali si possono veicolare, sia nei confronti del grande pubblico sia degli 'addetti ai lavori', informazioni sulla struttura organizzativa dell'i., sulle sue potenzialità produttive, commerciali, distributive, sul ruolo svolto in campo economico, sociale o culturale; le newsletters, messaggi sintetici e di rapido approntamento per comunicare a determinati pubblici di riferimento (azionisti, analisti finanziari ecc.) informazioni specifiche su determinati fatti che riguardano la vita dell'i. (per es. esigenze finanziarie - ricapitalizzazioni, accesso al mercato borsistico - o di altra natura - acquisizioni, fusioni, joint ventures - o più semplicemente per dare conto dell'andamento delle vendite dei prodotti, o delle chiusure di bilancio); il bilancio ambientale, strumento di comunicazione recentemente introdotto anche in Italia (dagli Stati Uniti, dov'è nato) con l'obiettivo di affermare nei confronti degli organi istituzionali e degli opinion leaders, in prima istanza, come l'impegno continuo delle i. per la ricerca della massima efficienza dal punto di vista ecologico possa condurre a un equilibrio/compatibilità fra sviluppo economico e indispensabile tutela dell'ambiente. Il bilancio ambientale è un documento di tipo analitico-quantitativo che fornisce un quadro completo di tutte le attività dell'i. che, in qualche modo, riguardino l'ambiente (consumo di risorse energetiche, emissione di fumi, trattamento di liquidi di scarico, riciclo di materiali e sostanze inquinanti ecc.).
La comunicazione finanziaria
Denominata anche comunicazione economico-societaria, ha l'obiettivo di alimentare nei pubblici di riferimento la fiducia nell'i., informandoli sulla sua solidità finanziaria ed economica, indicandone i trend di sviluppo e delineandone le prospettive future in termini soprattutto di iniziative industriali o commerciali. Chiaramente, questa comunicazione assume un'importanza determinante nel momento in cui l'i. intende rivolgersi al mercato finanziario per individuare nuove opportunità di finanziamento, per posizionarsi positivamente in corrispondenza di operazioni di acquisizione o fusione, dell'avvio di joint ventures o della quotazione in borsa delle azioni societarie. Fra i destinatari di questo tipo di comunicazione un ruolo primario rivestono coloro che, con i loro giudizi, concorrono alla valutazione della solidità e della validità dell'i. come oggetto di possibili investimenti: intendiamo riferirci, in particolare, agli analisti finanziari, ai cosiddetti investitori istituzionali, ai giornalisti economici.
Si tratta di un tipo di comunicazione che può presentare aspetti molto delicati e complessi, i cui risultati possono determinare il successo o l'insuccesso di specifiche operazioni finanziarie: ben difficilmente, infatti, il giudizio negativo degli analisti finanziari potrebbe essere trascurato o ignorato dal comportamento degli investitori che, nel momento in cui devono decidere in chi riporre la propria fiducia e su chi investire, richiedono il supporto conoscitivo da parte degli addetti ai lavori del settore.
Tra gli strumenti della comunicazione finanziaria si segnalano: il bilancio aziendale, documento previsto specificamente dalla legge (art. 2423 c.c.), contenente l'analisi della situazione economica e patrimoniale e la relazione degli amministratori sull'andamento della gestione sociale dell'i. stessa; le lettere agli azionisti, con le quali il vertice aziendale informa periodicamente gli azionisti sui principali risultati conseguiti e sulle ripercussioni che tali risultati possono avere sugli aspetti economici e finanziari della vita dell'i.; gli annunci che le i. fanno per rendere noti cambiamenti significativi sul loro assetto azionario, su eventuali acquisizioni, partecipazioni, fusioni e solitamente preceduti da incontri della dirigenza aziendale con gli analisti finanziari e i giornalisti economici; le assemblee ordinarie e straordinarie degli azionisti, nel corso delle quali il vertice dell'i. rende conto al proprio azionariato dell'andamento degli affari e dei risultati conseguiti in termini di fatturato e profitti.
La comunicazione di marketing. - La comunicazione di marketing, in modo sintetico, può essere definita come il complesso di attività e programmi comunicativi che un'i. mette in atto per fare in modo che i potenziali clienti si trasformino in clienti effettivi, nei confronti di uno o più prodotti dell'i. stessa. Come tale, a differenza, per es., della comunicazione istituzionale, che agisce prevalentemente sugli atteggiamenti dei pubblici di riferimento, la comunicazione di marketing influisce sui comportamenti dei clienti potenziali, in quanto ha la funzione d'indurli all'acquisto dei prodotti.
Molteplici sono gli strumenti disponibili per fare comunicazione di marketing. Fra questi si annoverano la pubblicità, il direct marketing, la promozione delle vendite, le sponsorizzazioni, le fiere e le mostre di settore, le relazioni pubbliche. La pubblicità è uno strumento di comunicazione di massa, normalmente utilizzabile a pagamento, con il quale si portano a conoscenza dei potenziali clienti di un'azienda le caratteristiche salienti di uno o più prodotti, al fine di informarli su di essi, persuaderli della loro eccellenza rispetto a quelli, analoghi, della concorrenza, motivarli all'acquisto. I mezzi con i quali i messaggi pubblicitari possono essere trasmessi al pubblico vanno dalla stampa quotidiana e periodica ai canali radio-televisivi (sia del servizio pubblico sia commerciale), alle affissioni, al volantinaggio. Il direct marketing può essere definito come una modalità comunicativa in grado di stabilire un contatto diretto con il potenziale cliente, sia per fargli pervenire sufficienti informazioni sui prodotti da pubblicizzare, sia per sollecitarlo a un'immediata decisione di acquisto. Il direct marketing ha come mezzi di elezione la posta e il telefono, attraverso i quali è possibile stabilire un contatto immediato e personalizzato con il cliente. Se, nell'ipotesi di utilizzo del mezzo postale, la principale finalità della comunicazione di marketing è direttamente la vendita di un prodotto, si parla di 'vendite per corrispondenza'. La promozione delle vendite ha non tanto l'obiettivo di informare e persuadere il potenziale cliente della validità di un determinato prodotto, quanto di convincerlo al suo acquisto. In questo caso, il cliente viene 'invogliato' dal fatto che al prodotto si trova unito un qualcosa di aggiuntivo, un vantaggio, in grado proprio di motivarlo all'acquisto. Il vantaggio potrà essere costituito da un secondo prodotto diverso dal primo, dall'aumento della quantità di prodotto venduta per ogni confezione senza un corrispondente incremento del prezzo, dall'offerta di tre prodotti al prezzo di due (il tipico 3×2 dei supermercati) o dall'assegnazione di regali immediati per ogni acquisto effettuato (in questi casi non è raro che ciascun regalo faccia parte di una serie da collezionare, e in tale ipotesi l'obiettivo che l'i. persegue è quello di rendere fedele il cliente a una certa marca o prodotto, legandolo a sé fino a che la raccolta della serie di regali previsti non sarà terminata). Le sponsorizzazioni consistono nell'offerta, da parte dell'i., del proprio supporto (economico, professionale, logistico) affinché un evento o un'attività possa svolgersi: potrà trattarsi di un evento sportivo come di un convegno scientifico, della costruzione di un parco giochi per i bambini di un quartiere come del restauro di un edificio storico o di un dipinto, della pubblicazione di un libro d'arte come di un concerto (famosi, negli anni Cinquanta, i concerti Martini & Rossi alla radio). Attraverso questo strumento l'i. promuove la propria immagine, o quella dei propri prodotti/servizi, o di un proprio marchio, ma può anche utilizzare le sponsorizzazioni per presentarsi e farsi conoscere in un nuovo segmento di mercato (per es. un mercato estero). Le fiere, specializzate o generali, e le mostre di settore sono strumenti troppo noti perché se ne debbano approfondire il ruolo e le finalità. Va solo sottolineato che con esse si mira, sempre più, ad aprire o consolidare nuovi mercati, sia in termini geografici sia di settori di pubblico, rivolgendosi frequentemente, in quest'ultimo caso, a target particolarmente qualificati, con manifestazioni riservate agli 'addetti ai lavori'. Le relazioni pubbliche sono quel complesso di attività con le quali un'i. si pone in relazione con il pubblico dal quale dipende lo sviluppo dei propri affari.
Le nuove tecnologie per la comunicazione di marketing
Va sottolineato come il vertiginoso sviluppo delle tecnologie informatiche e, in particolare, delle reti di comunicazione (fra queste Internet occupa un posto del tutto particolare) stia mutando sempre di più il mondo della comunicazione di marketing. Grazie all'utilizzo di strumenti avanzati, quest'ultima trova nuovi spazi e possibilità da sfruttare per raggiungere, in un'ottica di globalizzazione sempre più spinta, mercati non ancora aggrediti e forme di espressione, per quanto riguarda la pubblicità, assolutamente impensabili prima d'ora. Per le sue caratteristiche e per le sue potenzialità - la facilità di accesso, il superamento di barriere spaziali, la velocità di trasmissione e quindi l'immediatezza delle azioni attivabili attraverso l'invio di messaggi sulla rete - la rete di comunicazione è destinata a incidere molto profondamente sulla struttura del commercio e della comunicazione pubblicitaria (fig. 2 A e B).
Non è esagerato prevedere che entro il primo ventennio del 21° secolo una parte consistente di negozi e supermercati si 'trasferirà', virtualmente, in rete, favorita e motivata in questo dall'interesse dei clienti a evitare i problemi del traffico, dei parcheggi, degli orari di apertura dei negozi: è molto più facile fare acquisti in rete, seduti comodamente dinanzi allo schermo del proprio personal computer, potendo scegliere prodotti di qualunque tipo - in assortimenti quali nessun negozio o supermercato reale potrebbe mai permettersi di immagazzinare fisicamente - venduti magari in un altro continente e potendo, tra l'altro, effettuare, prima di scegliere, analisi comparative di prezzi e caratteristiche dei prodotti, altrimenti impensabili se ci si dovesse realmente spostare da un negozio all'altro, con il relativo dispendio di tempo.
Internet (v. multimedialità e rete, in questa Appendice) è, alla fine degli anni Novanta, la rete più diffusa e importante; ma già altre sono allo studio o in fase di progettazione e di parziale avviamento, come Internet 2, voluta dal governo degli Stati Uniti per alleggerire il traffico sulla prima. È evidente che, dal punto di vista della comunicazione d'i., e in particolare da quello della comunicazione di marketing, le nuove tecnologie telematiche offrono ampi spazi per un modo del tutto nuovo di promuovere e vendere i prodotti e di gestire le attività commerciali. Il cosiddetto commercio elettronico (e-commerce) è in fase di notevole sviluppo, in particolare negli Stati Uniti.
La pubblicità realizzata sfruttando le pagine web in Internet è già, alle soglie del 21° secolo, un fatto compiuto: sono ormai moltissime le aziende che reclamizzano i propri prodotti utilizzando la disponibilità di questo mezzo altamente comunicativo, in grado di raggiungere, in tempo reale, pubblici diversi per localizzazione geografica, cultura, costumi sociali, potenzialità di acquisto. È chiaro che la pubblicità veicolata da Internet deve tenere conto, quanto alle sue forme espressive, di questa disomogeneità e molteplicità dei pubblici cui, almeno potenzialmente, può essere diretta. D'altra parte, la possibilità di offrire direttamente in rete i propri prodotti/servizi, dai beni di consumo ai prodotti finanziari - quello che viene oggi individuato come 'commercio elettronico' -, sta avviandosi a conquistare spazi sempre più consistenti in ogni parte del mondo: nascono così, da una parte, aziende che potremmo definire virtuali, in quanto non possiedono negozi o centri di vendita in nessuna parte del mondo ma vendono soltanto su Internet e, dall'altra, aziende che ampliano le loro modalità distributive, includendo fra queste anche la vendita on-line. Le cifre oggi disponibili sullo spazio occupato dal commercio elettronico stanno a indicare come la crescita di questo settore sia notevole e incoraggi la formulazione di previsioni positive: secondo stime accreditate, il fatturato prodotto dal commercio elettronico era valutato, alla fine del 1997, in circa un miliardo di dollari e si prevede che raggiungerà, nell'anno 2000, un valore di circa 6500 miliardi. A rendere ancora più rosee queste previsioni vi sono i risultati di un'analisi condotta in Italia, nel 1998, che indicano come il 43% delle aziende considerate nell'indagine abbia già in atto o pensi di realizzare iniziative di commercio elettronico.
Di fronte a questo nuovo, importante panorama, che è destinato a cambiare radicalmente non solo l'assetto organizzativo e strutturale delle realtà commerciali e produttive di ogni paese, ma il modo stesso di rapportarsi al cliente o al potenziale cliente, è chiaro che la comunicazione di marketing negli anni a venire dovrà adeguare i propri contenuti, le modalità di presentazione dei messaggi e la struttura stessa di questi ultimi.
Così, per es., la pubblicità abbandonerà gli schemi tradizionali oggi ancora ampiamente utilizzati - secondo i quali i messaggi vengono diffusi in modo uniforme e incondizionato, non potendo, se non in casi del tutto particolari (si pensi al marketing diretto), tener conto delle caratteristiche individuali dei singoli esponenti del pubblico di riferimento - per indirizzarsi in modo specifico a ogni singolo potenziale consumatore con messaggi 'su misura', definiti caso per caso in base alle sue esigenze, aspettative, abitudini, ricavate dall'elaborazione e dalla correlazione dei suoi accessi alla rete (prodotti ai quali è maggiormente interessato, periodo dell'anno in cui preferibilmente compie determinati acquisti, entità delle spese che affronta normalmente per ciascun acquisto ecc.). E già va diffondendosi una pubblicità in rete di tipo push, che raggiunge l'utente in modo mirato ogniqualvolta egli accede alla rete per sottoporgli messaggi specifici, progettati in base al profilo dei suoi interessi. La più grande agenzia pubblicitaria operante su Internet, l'americana Doubleclick, distribuisce attualmente (1998) oltre un miliardo di spot pubblicitari (banners) al mese, sulla base di una personalizzazione dell'audience, realizzata grazie a un sofisticato sistema di rilevazione sui target delle campagne pubblicitarie, denominato DART (Dynamic Advertising Reporting and Targeting).
I programmi di responsabilità sociale
Nell'ultimo ventennio del Novecento, con l'aumentare da un lato delle esigenze e delle problematiche sociali, e dall'altro con il parallelo diminuire delle possibilità di gestione, anche economica, di queste problematiche da parte delle istituzioni pubbliche, è venuto emergendo, nel complesso dei programmi di comunicazione delle i., un particolare insieme di iniziative denominate programmi di responsabilità sociale. Si tratta di attività che vengono svolte dalle aziende per affiancare, in un certo senso, le iniziative e gli interventi dello Stato e delle istituzioni in campo sociale e culturale, e che rientrano normalmente nel settore della comunicazione d'i.: attraverso tali attività, infatti, le aziende trasmettono messaggi al contesto in cui operano, segnalando la loro adesione a iniziative positive per il paese di cui fanno parte, e di cui hanno a cuore il progresso sociale e la tutela/sviluppo del patrimonio culturale.
Le forme attraverso le quali questi programmi si esplicitano sono numerose e articolate. Per citare qualche esempio, tratto dalla realtà italiana, ricordiamo, nel campo sociale, il supporto - attraverso finanziamenti o contributi in termini di know-how o attrezzature - a ospedali, asili, centri di assistenza per persone svantaggiate e, in campo culturale, l'organizzazione, diretta o mediata, di mostre d'arte, il restauro di opere d'arte (edifici, dipinti, sculture, libri ecc.), la pubblicazione di libri di particolare significato e valore culturale.
Per dare un'idea dell'importanza, anche dal punto di vista finanziario, delle sponsorizzazioni in Italia, ricordiamo che ogni anno le i. spendono circa 400 miliardi per progetti che riguardano il solo settore culturale. Naturalmente, perché tali interventi abbiano un qualche ritorno per le i., occorre che vengano inquadrati in quella che alcuni autori definiscono la comunicazione culturale, che si fondi cioè su una vera e propria strategia della politica culturale dell'azienda - e non su estemporanei episodi di coinvolgimento in attività e obiettivi fondamentalmente estranei alla specifica cultura d'i. - attraverso la quale si raggiunga un'omogeneità (non un'omologazione) dei comportamenti dei dipendenti e una più forte e coerente immagine dell'i. nei confronti del contesto in cui opera e si sviluppa.
Non diverso può essere il discorso per quanto riguarda il settore sociale, anche se in questo caso è evidente che l'assunzione di un ruolo attivo da parte dell'i. deve essere, in un certo senso, finalizzato esclusivamente alla promozione della propria immagine quale partner affidabile delle istituzioni pubbliche, per migliorare la qualità della vita di quanti non sono in grado con le proprie forze, o con l'aiuto delle istituzioni stesse, di raggiungere almeno una soglia minima di vivibilità.
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