Abstract
Nella voce si esamineranno gli elementi caratteristici dell’imposta, quali la sua matrice comunitaria, il fatto generatore, i meccanismi di funzionamento (rivalsa e detrazione), i soggetti passivi, i profili di rilevanza territoriale, le operazioni assoggettate all’imposta ed i relativi regimi impositivi, per poi descrivere gli adempimenti richiesti dalla normativa.
Le ragioni che hanno condotto all’introduzione nel nostro ordinamento dell’imposta sul valore aggiunto sono risalenti agli impegni assunti dall’Italia alla firma del Trattato istitutivo della CEE del 1957, che si poneva tra i principali obiettivi quello della creazione di un mercato unico europeo, che tutelasse la leale concorrenza e la libera circolazione delle persone nonché dei beni e servizi.
Proprio l’attuazione del mercato comune richiedeva l’armonizzazione delle legislazioni fiscali dei Paesi membri, al fine di eliminare quei fenomeni distorsivi della concorrenza generati dalle imposte cumulative plurifase (o “a cascata”) vigenti nei singoli ordinamenti (in Italia rappresentate appunto dall’IGE – Imposta generale sulle entrate –, istituita con R.d.l. n. 2/1940), mediante la loro sostituzione con una imposta plurifase sul valore aggiunto che garantisse la neutralità e la generalità del prelievo, da applicarsi su una base imponibile uniforme.
Il Consiglio CEE, con una prima direttiva, l. 11.4.1967, n. 227, dettò i principi generali dell’IVA, prevedendo nell’art. 2 un sistema che consentisse di «applicare ai beni ed ai servizi un’imposta generale sul consumo esattamente proporzionale al prezzo dei beni e dei servizi, qualunque sia il numero di transazioni intervenute nel processo di produzione e di distribuzione antecedente alla fase dell’imposizione»; con la seconda e coeva dir. n. 228 dell’11.4.1967, disciplinò invece la struttura e le modalità applicative dell’imposta.
Il legislatore italiano recepì le citate direttive comunitarie nell’art. 5 della legge delega sulla riforma tributaria (l. 9.10.1971, n. 825) cui il legislatore delegato diede attuazione con il d.P.R. 26.10.1972, n. 633 istitutivo dell’IVA (qui di seguito, “decreto IVA”), vigente a decorrere dal 1° gennaio 1973. Tale decreto, che resta la principale fonte di riferimento dell’imposta nell’ordinamento italiano, ha poi subito continue ed importanti modifiche per tenere conto delle esigenze emerse in sede di applicazione del tributo, di armonizzazione della disciplina alle fonti comunitarie, oltre che per motivazioni connesse al gettito e alla necessità di variare e uniformare le aliquote.
A dieci anni dall’emanazione delle dir. nn. 227 e 228, il Consiglio CEE con la sesta dir. n. 388 del 17.5.1977 (prevista in sostituzione della seconda) intese implementare ulteriormente il processo di armonizzazione dell’imposta ormai introdotta in tutti gli Stati membri, definendone il fatto generatore, i soggetti passivi, la base imponibile, i criteri per la determinazione delle aliquote e le tipologie di operazioni soggette al tributo. In Italia il recepimento della sesta direttiva si ebbe con due decreti presidenziali (d.P.R. 29.1.1979, n. 24 e d.P.R. 31.3.1979, n. 94), tramite i quali si intese disciplinare altresì i criteri di calcolo delle somme che gli Stati membri sono tenuti a versare alla CE a titolo di “risorse proprie”, tra cui rientra anche parte del gettito dell’IVA. Con la dir. n. 112 del 28.11.2006 il Consiglio UE attuò infine l’obiettivo di procedere alla rifusione delle disposizioni della sesta direttiva che avevano nel corso del tempo subito diverse e sostanziali modifiche; tale ultima direttiva, quindi, costituisce a tutt’oggi fonte normativa di riferimento per la comprensione dei principi fondamentali del tributo, anche in virtù del suo contenuto talmente preciso ed incondizionato da sostenerne l’immediata applicazione delle sue disposizioni, in difetto del recepimento attraverso specifici provvedimenti normativi nazionali.
Altro importante intervento legislativo in tema di IVA è rappresentato dal d.l. 30.8.1993, n. 331 (convertito dalla l. 29.10.1993, n. 427) recante la disciplina in materia di scambi intracomunitari di beni e servizi, una volta venute meno, dal 1° gennaio 1993, le frontiere doganali agli effetti dell’IVA negli scambi tra Stati membri, con la creazione del cd. “mercato interno” a superamento della fase del mercato comune.
L’IVA si qualifica come un tributo che, da un punto di vista economico, attua una imposizione sui consumi (l’art. 1, par. 2, dir. n. 112/2006 definisce l’IVA una «imposta generale sui consumi») andando in ultima istanza ad incidere, sulla base di un sofisticato meccanismo applicativo, su coloro che acquistano beni e servizi non per utilizzarli in un processo produttivo o distributivo, ma come consumatori finali.
Poiché nella disciplina dell’imposta non viene direttamente definito il presupposto – cioè quel fatto cui la legge ricollega l'esistenza di una capacità contributiva che il tributo intende colpire –, occorre preliminarmente descriverne il meccanismo, previsto negli artt. 17, 18 e 19 del d.P.R. n. 633/1972. Ebbene, l’art. 17 definisce “soggetti passivi” coloro che, in relazione all’effettuazione di operazioni imponibili (definite nell’art. 1 del d.P.R. n. 633/1972, su cui si tornerà oltre), devono versare l’imposta all’erario. L’art. 18 impone ai soggetti passivi di addebitare l’imposta gravante sulle operazioni imponibili ai propri cessionari o committenti, a titolo di rivalsa; mentre l’art. 19 abilita i medesimi soggetti passivi a detrarre, dall’ammontare dell’imposta relativa alle operazioni effettuate, l’ammontare dell’imposta assolta sugli acquisti o a loro addebitata a titolo di rivalsa.
La comprensione del meccanismo di funzionamento dell’imposta non può prescindere dall’analisi degli istituti della rivalsa e della detrazione.
La rivalsa è quell’istituto che consente la traslazione palese dell’IVA (Salvini, L., Rivalsa nel diritto tributario, in Dig. comm., XIII, Torino, 1996), prevedendo che il soggetto tenuto ad assolvere l’imposta nei confronti dell’erario (soggetto attivo della rivalsa) vanta un diritto/obbligo di traslare giuridicamente e non solo economicamente l’onere del tributo su un soggetto diverso (soggetto passivo della rivalsa). La circostanza che la rivalsa sia prevista dalla norma interna come un vero e proprio obbligo giuridicamente normato (a differenza delle direttive che non prevedono analoga disposizione) e che detto obbligo sia peraltro rafforzato, nel comma 4, dall’esplicita nullità di ogni patto contrario alla rivalsa, consente di ritenere che il legislatore abbia voluto attribuire specifica rilevanza giuridica al meccanismo traslativo dell’imposta (soltanto nel comma 3 dell’art. 18 si prevedono tassative fattispecie in cui la rivalsa è meramente facoltativa, in relazione ad operazioni a titolo gratuito o in autoconsumo).
L’istituto della detrazione (che giuridicamente costituisce un diritto del contribuente o, meglio, una sua facoltà liberamente azionabile) assicura invece la neutralità e la trasparenza dell’imposta per i soggetti passivi, consentendo loro di recuperare l’IVA gravante sugli acquisti, detraendola dall’IVA sulle operazioni attive effettuate. La detrazione va quindi operata al fine di determinare l’imposta dovuta o l’eccedenza di imposta rimborsabile (art. 17, decreto IVA) (Basilavecchia, M., Situazioni creditorie del contribuente e attuazione del tributo, Padova, 2000).
È mediante l’esercizio del diritto di detrazione che, in parallelo alla previsione dell’obbligo di rivalsa, il soggetto passivo del tributo attua quella traslazione dell’imposta a valle della catena di consumo, che vede il suo ultimo anello nel soggetto che, non rientrando formalmente tra i soggetti passivi del tributo, si vede addebitare l’imposta per traslazione economica, ma non può al contempo esercitare la detrazione. È detraibile l’IVA dovuta o assolta dal soggetto passivo o a lui addebitata a titolo di rivalsa, «in relazione a beni e servizi acquistati o importati nell'esercizio di arti o professioni», volendosi con tale espressione sottolineare un principio di inerenza, inteso come afferenza dell’acquisto all’attività economica del soggetto passivo. La detrazione è immediata, ovvero nel momento stesso in cui sorge per l’erario il diritto di esigere l’imposta nei confronti di chi cede il bene o presta il servizio (si vd. art. 6), nasce il diritto a detrarre l’imposta per il cessionario o committente. Il diritto può essere esercitato, alle condizioni vigenti al momento in cui è sorto, al più tardi, con la dichiarazione relativa al secondo anno successivo.
Il combinato funzionamento dei descritti istituti configura lo specifico meccanismo applicativo dell’IVA che, pur atteggiandosi ad imposta plurifase, attraverso la rivalsa e la detrazione si rende neutrale nei confronti degli operatori economici ed attua quella giuridica (prima ancora che economica) traslazione del tributo dai soggetti passivi ai consumatori finali (per una ampia descrizione del meccanismo del tributo, ai fini dell’individuazione del presupposto nell’IVA, si rinvia a Salvini, L., Rivalsa, detrazione e capacità contributiva nell’imposta sul valore aggiunto, in Riv. dir. trib., 1993, I, 1287 e ss.; si cfr. altresì Gallo, F., Profili di una teoria dell’imposta sul valore aggiunto, Roma, 1974; Gallo, F., L’Iva: verso un’ulteriore revisione, in Riv. dir. fin., 1978, I, 595 ss.; Filippi, P., Valore aggiunto (imposta), in Enc. dir., XLVI, Varese, 1993).
Il meccanismo applicativo del tributo ha dato vita ad un ampio dibattito in dottrina, teso all’individuazione del presupposto e alla giustificazione dell’imposta in termini di capacità contributiva in base alle tradizionali categorie e principi del diritto tributario. Le teorie sviluppatesi sul tema, pur con diverse sfumature, possono suddividersi in due contrapposte correnti: l’una, di approccio sostanzialistico, che ravvisa nel consumatore finale il soggetto giuridico che manifesta la capacità contributiva colpita dall’imposta ed individua il presupposto dell’IVA nell’immissione in consumo; l’altra, di approccio giuridico-formale, che ravvisa nel soggetto passivo, quale contribuente di diritto, il soggetto che manifesta la capacità contributiva e che, conseguentemente, configura l’IVA come un’imposta sull’effettuazione di operazioni economiche. Sebbene il secondo approccio presenti, oltre all’avallo del dato normativo (che indubbiamente identifica in coloro che effettuano le operazioni imponibili di cui all’art. 1 cit. i soggetti obbligati a corrispondere l’imposta all’erario), il pregio di garantire omogenee applicazioni dell’imposta (appuntando sempre sul soggetto passivo l’obbligazione), esso ha dei limiti obiettivi laddove nega rilevanza giuridica, nell’individuazione del presupposto, alla rivalsa.
Se il presupposto dell’imposta va individuato in relazione all’imposta definitivamente acquisita all’erario, non v’è dubbio che nell’IVA al versamento dell’imposta da parte del soggetto passivo di diritto non corrisponde una definitiva acquisizione dell’imposta, dovendosi correlare necessariamente le posizioni soggettive delle due parti dell’operazione: quella del cedente che, addebitata l’IVA in rivalsa, è tenuto a versarla all’erario e quella del cessionario, che vanta il diritto di computare l’imposta assolta al cedente in detrazione dell’IVA che deve all’erario.
Ciò consente quindi di definire la rivalsa e la detrazione come quegli istituti il cui collegamento funzionale è in grado di assicurare appieno quella neutralità nei passaggi intermedi tipici dell’IVA e di realizzare il presupposto non in capo ai soggetti passivi di diritto, bensì ai contribuenti di fatto sui quali viene definitivamente traslata l’imposta mediante esercizio della rivalsa. La capacità contributiva, infatti, «passa di soggetto in soggetto, fin dove arriva la rivalsa giuridicamente regolata, manifestandosi in capo a colui che resta definitivamente gravato dall'onere del tributo» (cfr., Salvini, L. Rivalsa, detrazione, cit., 1319), ovvero il consumatore finale. Deve quindi definitivamente ritenersi che nell’IVA il presupposto, costituito dal consumo, resti esterno alla struttura giuridica dell’imposta, il cui meccanismo è invero preordinato proprio alla traslazione dell’onere tributario sul consumatore finale, ossia al di fuori del perimetro dei soggetti passivi individuati dalla norma tributaria.
L’art. 2 definisce le cessioni di beni come «gli atti a titolo oneroso che importino il trasferimento della proprietà ovvero costituzione o trasferimento di diritti reali di godimento sui beni di ogni genere». Gli elementi essenziali sono dunque costituiti dalla presenza di un atto dagli effetti giuridici traslativi o costitutivi e dalla sua onerosità (esulando dall’ambito dell’imposta gli acquisti a titolo originario – occupazione, usucapione, invenzione – per mancanza dell’atto traslativo). Costituiscono cessioni di beni, oltre ai negozi di stampo privatistico destinati al trasferimento di beni, anche gli atti produttivi di effetti giuridici traslativi e/o costitutivi (come nel caso delle cessioni di beni per atto di pubblica autorità), purché possano ricondursi alla generica nozione di “trasferimento”.
L’art. 2, co. 2, prevede poi una serie di ipotesi assimilate alle cessioni, benché mancanti di alcuni elementi della nozione generale prevista nel comma 1. L’elencazione tassativa si riferisce, in particolare, alle vendite con riserva di proprietà, alle locazioni con clausola di trasferimento della proprietà vincolante per entrambe le parti (ipotesi in cui non v’è civilisticamente l’immediato trasferimento della proprietà, venendo invece fiscalmente anticipato il momento impositivo); sono inoltre assimilate alle cessioni i passaggi di beni tra committente e commissionario e viceversa.
Sono in ultimo assimilate alle cessioni (quindi, ritenute soggette ad IVA) alcune ipotesi in cui manca o il corrispettivo o il trasferimento. Si tratta, in particolare: i) delle cessioni gratuite di beni (art. 2, n. 4), salvo quelli la cui produzione o commercio non rientra nell’attività propria dell’impresa di costo unitario non superiore a 25,82 euro, e quelli per cui non vi è stata detrazione dell’IVA sull’acquisto; ii) della destinazione di beni all’uso o al consumo personale o familiare dell’imprenditore, dell’artista o del professionista (art. 2, n. 5) o ad altre finalità estranee all’impresa o all’esercizio di arte o professione; iii) delle “assegnazioni” ai soci (art. 2, n. 6), a qualsiasi titolo, da parte di società di ogni tipo e oggetto.
In tutte le ipotesi di autoconsumo previste dalla disposizione, il legislatore ha inteso evitare quell’immissione in consumo di beni senza assoggettamento ad imposta “a valle”, per tutti i soggetti passivi che hanno usufruito delle detrazioni di imposta “a monte”.
L’art. 2 prevede, nel comma 3, anche un’elencazione di operazioni espressamente escluse dalla nozione di cessione di beni (tra cui si annoverano le cessioni aventi ad oggetto denaro o crediti in denaro, le cessioni e i conferimenti in società, nonché i passaggi di beni dipendenti da fusioni, scissioni o trasformazioni di società).
La seconda categoria di operazioni soggette ad imposta concerne le prestazioni di servizi (art. 3). La necessità di classificare correttamente l’operazione nell’ambito della tradizionale bipartizione cessioni di beni/prestazioni di servizi non risponde ad una logica formale, ma comporta precise conseguenze sul piano applicativo dell’imposta, come ad es. con riferimento all’individuazione del momento di effettuazione dell’operazione o alla territorialità.
Mentre nella dir. n. 112 cit. (art. 24) le prestazioni di servizi sono semplicemente definite, in via residuale, come «ogni operazione che non costituisce una cessione di beni», il legislatore nazionale non definisce il concetto di prestazione, bensì le fonti dell’obbligo di eseguirla mediante un’elencazione casistica che, in sede di attuazione, ha generato non poche confusioni. L’art. 3 del decreto IVA si riferisce infatti alle «prestazioni verso corrispettivo» dipendenti da una serie di contratti o comunque da una serie di obbligazioni di fare, non fare e permettere, qualunque ne sia la fonte. Dunque l’essenza del concetto si risolve nell’esecuzione di un obbligo che non sia di dare, a fronte di un corrispettivo. Il requisito della corrispettività è soddisfatto quando vi sia una controprestazione, ossia un vantaggio economicamente valutabile per il prestatore, che giustifichi il servizio.
Il comma 2 prevede poi l’assimilazione di alcune operazioni a prestazioni di servizi, se effettuate verso corrispettivo, tra cui si annoverano le concessioni di beni in locazione (anche finanziaria), affitto, noleggio e simili, gli accordi relativi a beni immateriali anche se comportano il trasferimento della titolarità, i prestiti di denaro e di titoli non rappresentativi di merci, le somministrazioni di alimenti e bevande (intese come forniture), le cessioni di contratti di ogni tipo e oggetto.
Come accade per le cessioni di beni, il comma 3 rende rilevanti, ai fini impositivi, anche le prestazioni di valore superiore ad euro 25,82, effettuate da imprenditori per uso personale o familiare, ovvero a titolo gratuito per finalità estranee all’esercizio dell’impresa, purché sia detraibile l’imposta sugli acquisti di beni e servizi relativi all’esecuzione di esse. Inoltre il citato comma 3 considera prestazioni di servizi le assegnazioni ai soci e le ipotesi analoghe di cui all’art. 2 n. 6, quando abbiano ad oggetto le operazioni di cui ai numeri 1,2 e 5 del comma precedente.
Sono inoltre considerate (nell’ultima parte del comma 3) prestazioni di servizi quelle rese o ricevute dai mandatari senza rappresentanza, anche nei rapporti tra mandante e mandatario: l’operazione è quindi tassata come se il mandatario avesse reso egli stesso il servizio al mandante o lo avesse ricevuto da questi.
a) Esercizio di imprese: ai sensi del comma 1 dell’art. 4 del decreto IVA, «per esercizio di imprese si intende l’esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, delle attività commerciali o agricole di cui agli artt. 2195 e 2135 del codice civile anche se non organizzate in forma di impresa, nonché l’esercizio di attività, organizzate in forma di impresa, dirette alla prestazione di servizi che non rientrano nell’art. 2195 del codice civile». Sin qui viene riproposta, con terminologia pressoché identica, la nozione di imprenditore commerciale accolta dal legislatore ai fini delle imposte sui redditi (art. 55 del Testo unico delle imposte sui redditi, d.P.R. 22.12.1986, n. 917); la differenza fondamentale tra le due nozioni è invero costituita dalla ricomprensione in ogni caso, nella nozione di esercizio di impresa rilevante ai fini IVA, dell’esercizio di impresa agricola.
Ai fini IVA è stata quindi accolta una nozione ampia di imprenditore commerciale, fondata su due capisaldi:
a) l’esercizio delle attività oggettivamente considerate commerciali o agricole, a prescindere dalla circostanza che esse siano o meno organizzate in forma d’impresa;
b) l’esercizio di attività che non presentano, di per sé, i caratteri tipici dell’attività commerciale e in relazione alle quali, pertanto, diventa indispensabile la valutazione in ordine alla sussistenza del requisito dell’organizzazione in forma d’impresa, da apprezzarsi non avendo riguardo alla rilevanza quantitativa dell’apparato strumentale di beni e persone impiegato nello svolgimento dell’attività, quanto piuttosto al modo di essere dell’attività stessa, ossia in senso qualitativo.
La norma comunitaria (art. 9, dir. n. 112 cit.) individua invece il soggetto passivo dell’imposta (senza distinguere tra imprenditore e artista/libero professionista, come invece accade nel decreto IVA) in «chiunque esercita, in modo indipendente e in qualsiasi luogo un’attività economica, indipendentemente dallo scopo o dai risultati di detta attività”, intendendosi per attività economica “ogni attività di produzione, di commercializzazione o di prestazione di servizi, comprese le attività estrattive, agricole, nonché quelle di professione libera o assimilate … ». La natura economica delle attività enumerate è definita nella normativa comunitaria in termini oggettivi, nel senso che si è in presenza di un’attività economica tutte le volte in cui l’attività presenta un carattere stabile e viene svolta a fronte di un corrispettivo e quindi a titolo oneroso, a prescindere dai suoi scopi e/o dai risultati.
Affinché vi sia esercizio di impresa occorre che l’attività venga svolta per professione abituale ancorché non esclusiva, potendosi definire l’abitualità come quella regolarità e sistematicità di una pluralità di atti economici coordinati e finalizzati al raggiungimento di uno scopo.
Le operazioni poste in essere dai soggetti indicati ai nn. 1 e 2 del comma 2 (società a forma commerciale di ogni tipo ed enti pubblici o privati, compresi i consorzi, le associazioni e le altre organizzazioni senza personalità giuridica e le società semplici, che abbiano come oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali o agricole) si considerano “in ogni caso” esercitate nell’esercizio di impresa, non potendosi distinguere per tali soggetti una sfera privata e istituzionale da quella imprenditoriale. Si tratta di una presunzione assoluta che non è del pari contemplata nella direttiva n. 112 cit.
Il comma 4 della disposizione prevede per gli enti non commerciali l’assoggettamento ad imposta delle sole operazioni svolte nell’ambito dell’attività di impresa; in tal modo, detti enti saranno soggetti passivi IVA per le attività di impresa esercitate e soggetti esclusi dall’imposta per le attività istituzionali, ricomprese nell’oggetto sociale. Tuttavia, il comma 5 elenca una serie di attività che per espresso disposto normativo sono ritenute commerciali, anche se esercitate da enti pubblici; nel secondo periodo della disposizione vengono poi elencate, al contrario, tutte le attività che non sono ritenute commerciali (tra cui le operazioni effettuate dallo Stato, enti locali e altri enti di diritto pubblico, nell’ambito di attività di pubblica autorità, nonché le prestazioni soggette al pagamento del ticket sanitario, erogate da ASL o da ospedali).
b) Esercizio di arti e professioni: rientra in tale nozione, ai sensi dell'art. 5 del decreto IVA, «l’esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, di qualsiasi attività di lavoro autonomo da parte di persone fisiche ovvero da parte di società semplici o associazioni senza personalità giuridica costituite tra persone fisiche per l’esercizio in forma associata delle attività stesse». Ai fini della corretta individuazione della nozione in commento, va operato un riferimento alla normativa civilistica, che prevede lo svolgimento di lavoro autonomo nelle forme del contratto d’opera (art. 2222 e ss. c.c.) e nell’esercizio delle professioni intellettuali (art. 2229 e ss., c.c.). Con il contratto d’opera una persona si obbliga a compiere, verso un corrispettivo, un’opera o un servizio, con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente. Nel rapporto, dunque, assume rilevanza la personalità del prestatore, tenuto ad eseguire personalmente l’incarico, nonché l’autonomia manifestata nello svolgimento dell’incarico, attraverso un auto-organizzazione della propria attività. Rientrano invece nell’esercizio delle professioni intellettuali quelle attività svolte, anche in forma associata, da liberi professionisti che prestano la loro opera verso corrispettivo ed in base ad un contratto.
Anche nell’esercizio di arti e professioni è richiesto, per l’assoggettamento ad imposta, l’abitualità dell’attività, come definita sub lett. a).
Il terzo presupposto dell’imposta sancito nell’art. 1 cit. è costituto dalle importazioni, disciplinate nel titolo V del decreto IVA (artt. 67-70). A differenza di quanto accadeva nella previgente IGE, in cui la perequazione fiscale dei prodotti importati era ottenuta mediante un’imposta di conguaglio, nell’IVA l’importazione è assunta tra i presupposti dell’imposta, in attuazione del principio di tassazione nel Paese di destinazione.
Dal 1° gennaio 1993 – data di introduzione del regime “temporaneo” degli scambi intracomunitari –
costituiscono importazioni soltanto le introduzioni di merci da Paesi o territori non compresi nel territorio della CE, come definito all’art. 7, co. 1 lett. b) del decreto IVA, che non siano già state immesse in libera pratica in altro Stato membro.
La tassazione delle importazioni si giustifica con l’esigenza di garantire la parità di trattamento fiscale tra i prodotti esteri e quelli nazionali e di assicurare la traslazione dell’imposta anche sul consumatore finale di beni oggetto di commercio internazionale.
Mentre per l’IVA interna l’assoggettamento ad imposta è subordinato alla ricorrenza dei requisiti oggettivi e soggettivi su visti, l’applicazione dell’IVA sulle importazioni non richiede alcun requisito soggettivo, applicandosi sulle operazioni «da chiunque effettuate»: viene in tal modo soddisfatta l’esigenza di colpire direttamente il consumo mediante la tassazione nel Paese di destinazione (con totale sgravio, per converso, delle esportazioni).
Le procedure di applicazione del tributo sono quelle previste per i diritti doganali finali (diverse, quindi, da quelle applicabili sugli scambi interni) e tale circostanza crea delle differenze, rispetto agli ordinari meccanismi di applicazione e di liquidazione dell’IVA interna; una fra tutte il fatto che l’imposta è «accertata, liquidata e riscossa per ciascuna operazione» (art. 70), direttamente dal soggetto che ne subisce l’onere, all’atto dell’introduzione del bene nello Stato. Nonostante tale peculiarità, la disciplina delle importazioni resta pur sempre coordinata con quella delle cessioni di beni e delle prestazioni di servizi, in quanto l’IVA assolta o dovuta in dogana da un soggetto passivo, con le stesse aliquote vigenti per le operazioni interne, resta comunque detraibile dall’imposta relativa agli acquisti di beni e servizi imponibili periodicamente effettuati.
L’introduzione dell’IVA si proponeva, tra le finalità cardine, l’eliminazione delle frontiere comunitarie, la tassazione di ciascuna operazione nello stato dell’origine ed il livellamento delle aliquote di imposta applicate negli Stati membri. All’abolizione delle frontiere doganali tra i Paesi membri, avvenuta come visto nel 1993, tuttavia, vigevano ancora forti differenze fra le aliquote vigenti nei diversi Paesi comunitari, così come non abbastanza maturi apparivano i sistemi di compensazione tra Stati delle posizioni debitorie e creditorie dell’imposta, in grado di sorreggere l’ipotizzato principio di tassazione all’origine. Si decise quindi di introdurre un regime “transitorio” – aggettivo poco calzante, considerato che le regole sancite sono a tutt’oggi in vigore – che regolasse le transazioni soggette ad IVA fra gli Stati membri (introdotto con la dir. CEE n. 680 del 16.12.1991 ed implementato nelle successive direttive n. 77 del 19.10.1992 e n. 111 del 14.12.1992), attuato in Italia con il d.l. n. 331/1993 e fondato sull’inverso principio di tassazione nel Paese di destinazione. Sono considerati pertanto “scambi intracomunitari” gli acquisti e le cessioni di beni che intercorrono tra soggetti passivi IVA appartenenti a diversi Stati membri dell’Unione Europea che vengono considerati non imponibili nel Paese del cedente, per essere assoggettati ad IVA nel paese di destinazione dei beni, da parte del cessionario. L’operazione assoggettata ad imposta in Italia, in base al principio di tassazione nel Paese di destinazione, sarà dunque costituita dall’acquisto intracomunitario disciplinato all’art. 38 del d.l. n. 331/1993 (che diviene, quindi, un nuovo fatto generatore del tributo), mentre la cessione intracomunitaria rileverà come operazione non imponibile, ai sensi dell’art. 41 d.l. n. 331/1993.
L’art. 6 individua il momento di effettuazione delle operazioni ai fini IVA, ovvero il momento impositivo, discendendo da esso, di norma, l’esigibilità dell’imposta e, comunque, la nascita di tutti gli obblighi di natura formale ad essa connessi (fatturazione, registrazione, liquidazione, dichiarazione annuale). Tale è l’importanza della disposizione in commento che autorevole dottrina ha definito «una norma che completa la fattispecie cessione di beni o prestazioni di servizi» (Bosello, F., L’imposta sul valore aggiunto, Aspetti giuridici, Bologna, 1979, 48), una norma quindi sostanziale che, fissando nel tempo l’operazione, ne determina la disciplina applicabile.
L’art. 6 individua diversi criteri a seconda della differente natura delle operazioni. Per le cessioni di beni viene poi operata una seconda distinzione fra beni immobili e beni mobili: mentre le prime si considerano effettuate al momento della stipula dell’atto traslativo, le seconde rilevano ai fini impositivi alla consegna o spedizione; tuttavia le cessioni di beni i cui effetti traslativi o costitutivi si producono successivamente si considerano effettuate nel momento in cui si producono tali effetti e comunque, se riguardano beni mobili, entro un anno dalla consegna o spedizione.
Il comma 2 prevede, sempre per le cessioni di beni, alcune deroghe in relazione a specifiche operazioni, individuando espressamente il relativo momento impositivo.
Per quanto concerne, invece, le prestazioni di servizi, il momento di effettuazione è individuato nel pagamento del corrispettivo.
In deroga ai criteri sopra esposti, l’imposta diviene comunque esigibile, anche prima del verificarsi dell’evento impositivo, laddove venga emessa fattura o venga pagato il corrispettivo.
Se in generale il momento di effettuazione dell’operazione coincide con quello di esigibilità dell’imposta (cioè, con il momento in cui sorge per l’erario il diritto alla percezione del tributo), il comma 5 prevede tuttavia delle ipotesi tassative per le quali l’imposta diviene esigibile in un momento successivo all’effettuazione dell’operazione (cessioni di prodotti farmaceutici, delle operazioni effettuate nei confronti dello Stato, enti pubblici territoriali, enti ospedalieri, etc.). In tutti i suddetti casi, l’esigibilità dell’imposta è facoltativamente differita al momento del pagamento del corrispettivo. Al differimento degli oneri relativi alla contabilizzazione dell’imposta a carico del cedente o prestatore corrisponde un rinvio della detrazione a carico del cessionario o committente.
La disciplina prevista nel comma 5 cit. è stata in ultimo estesa, dall’art. 7 d.l. 29.11.2008, n. 185, anche ad altre categorie di soggetti, ovvero ai contribuenti con volume di affari non superiore a duecentomila euro.
Altro requisito generale dell’IVA è quello della territorialità, tanto che, secondo l’art. 1, per la nascita del rapporto giuridico di imposta è necessario che l’operazione venga effettuata «nel territorio dello Stato», la cui definizione si rinviene nell’art. 7 lett. a) del decreto IVA (Carpentieri, L. Il principio di territorialità nell’Iva, in Riv. dir. trib., 2002, I, 6 ss.). Per individuare se una determinata operazione sia territorialmente rilevante in Italia esistono delle regole che si differenziano a seconda che si tratti di cessioni di beni o di prestazioni di servizi.
Per le prime, vige la regola della fisica esistenza del bene nel territorio dello Stato, al momento di effettuazione dell’operazione, cioè l’ubicazione del bene al momento della cessione e non il luogo di conclusione del contratto (art. 7 bis, co.1).
Per le prestazioni di servizi, invece, l’individuazione dei criteri di collegamento con il territorio nazionale si fanno più complessi. Il d.lgs. 11.2.2010, n. 18 (nel recepire le direttive 2008/8/CE, 2008/9/CE del 12.2.2008 e 2008/117/CE del 16.12.2008, che hanno direttamente modificato la direttiva 2006/112/CE) ha introdotto alcune novità nell’individuazione del requisito di territorialità.
Gli articoli che vanno dal 7 ter al 7 septies del decreto IVA e prevedono – a far data dal 1° gennaio 2010 – due criteri base: i) il primo, dettato dall’art. 7 ter, co.1, lettera a), per le prestazioni poste in essere nei confronti di soggetti passivi (rapporti “B2B”, o “business to business”), che si considerano effettuate nel territorio dello Stato quando il committente è un soggetto ivi stabilito; sono poi previste alcune fattispecie derogatorie, contenute negli artt. 7 quater e 7 quinquies; per l’operatività della norma, assumono rilevanza solo tre circostanze: il fatto che il committente sia un soggetto passivo, il fatto che detto committente agisca nella veste di soggetto passivo e il luogo di stabilimento dello stesso. Non assume invece alcuna rilevanza il luogo di stabilimento del prestatore, né il luogo di utilizzazione del servizio; ii) il secondo, dettato dall’art. 7 ter, co. 1, lett. b), per le prestazioni poste in essere nei confronti di committenti diversi dai soggetti passivi (rapporti “B2C” o “business to consumer”), che si considerano effettuate nel territorio dello Stato quando il prestatore è stabilito nel territorio dello Stato medesimo. Tale criterio risulta quindi sostanzialmente coincidente con quello in precedenza contenuto nel previgente comma 3 dell’art. 7; anche tale criterio subisce specifiche deroghe contenute negli artt. da 7 quater a 7 septies.
La base imponibile delle cessioni di beni e delle prestazioni di servizi è costituita dall’ammontare complessivo dei corrispettivi dovuti al cedente o prestatore secondo le condizioni contrattuali, compresi gli oneri e le spese inerenti all’esecuzione (art. 13, co. 1); essa comprende tutte le somme la cui erogazione è legata da un nesso di causalità alla cessione del bene o alla prestazione del servizio (tra cui figurano anche gli oneri di montaggio, posa in opera e trasporto che non sono soggetti autonomamente all’imposta ma considerati prestazioni accessorie a quella principale, ai sensi dell’art. 12). La base di commisurazione dell’imposta risulta quindi ancorata saldamente ai corrispettivi contrattuali e risponde alla visione comunitaria dell’IVA quale imposta sul consumo, esattamente proporzionale al prezzo di vendita di beni e servizi, restando invece assolutamente secondario il ricorso al criterio del valore normale.
L’art. 13 prevede tuttavia nel comma 2 delle ipotesi di predeterminazione per legge del corrispettivo, come nel caso delle operazioni dipendenti da atto di pubblica autorità (dove il corrispettivo è costituito dall’indennizzo) o delle operazioni permutative (dove il corrispettivo è costituito dal valore normale del bene o del servizio e l’imposta viene applicata separatamente per ciascuna di esse), o, infine, delle prestazioni di servizi rese o ricevute dai commissionari o mandatari, nei contratti di commissione e di mandato senza rappresentanza.
Alla base imponibile determinata in applicazione delle regole su viste, viene poi applicata l’aliquota dell’imposta (art. 16), differenziata per legge in relazione a varie tipologie di beni e servizi e stabilita nella misura ordinaria del 22 per cento, a decorrere dal 1° gennaio 2013. L’aliquota è invece ridotta al 10 per cento, per le operazioni che hanno ad oggetto beni e servizi, tassativamente elencati nella Tab. A, parte prima, allegata al decreto IVA, e al 4 per cento (Tab. A, parte seconda), con riferimento alle cessioni di beni di prima necessità.
Sono costituite da tutte quelle transazioni (cessioni di beni, prestazioni di servizi, acquisti intracomunitari di beni e importazioni) per le quali ricorrono tutti i requisiti applicativi dell’IVA disciplinati nell’art. 1 del decreto IVA. Esse sono soggette a tutti gli obblighi richiesti dalla normativa (fatturazione, registrazione, dichiarazione e versamento del tributo), soggiacendo all’applicazione delle disposizioni formali e sostanziali del tributo. In relazione a tali operazioni è consentita senza limiti la detrazione dell’imposta relativa ai beni e servizi impiegati per la loro effettuazione.
Sono costituite da quelle operazioni che, pur essendo effettuate da soggetti passivi dell’imposta ed oggettivamente qualificabili come cessioni di beni o prestazioni di servizi, sono dichiarate dalla legge non imponibili, non implicando l’obbligo di pagamento dell’IVA, in considerazione della loro proiezione fuori dal territorio della CE (a seguito dell’entrata in vigore del regime transitorio sugli scambi intra-UE – d.l. n. 331/1993 – con il termine esportazione si indica il trasporto o la spedizione dei beni da parte del cedente al di fuori del territorio doganale della CE). Il regime IVA previsto per tali operazioni rispecchia, di fatto, il principio comunitario alla base dell’imposta, che si prefigge di tassare il consumo nel Paese di destinazione del bene o del servizio.
Sono da ricomprendere nell’ambito delle operazioni non imponibili le cessioni all’esportazione e le operazioni ad esse assimilate (artt. 8 e 8-bis), i servizi internazionali o connessi agli scambi internazionali (art. 9), le cessioni a soggetti domiciliati e residenti fuori dalla Comunità Europea (art. 38 quater) e le cessioni intracomunitarie di cui all’art. 41 d.l. n. 331/1993. Tutte le su elencate operazioni sono regolarmente soggette all’obbligo di fatturazione senza applicazione dell’imposta, il loro corrispettivo concorre alla formazione del volume di affari del soggetto che le compie. Il soggetto passivo che pone in essere operazioni non imponibili conserva tuttavia integro il diritto alla detrazione dell’IVA assolta sugli acquisti. Il sistema prevede altresì la possibilità che il soggetto passivo, una volta acquisito un particolare status di “esportatore abituale”, possa effettuare acquisti e/o importazioni di beni e servizi senza applicazione dell’IVA (art. 8, co. 1, lett. c): la ratio è quella di attribuire un vantaggio strutturale all’operatore economico nazionale che effettui sistematicamente esportazioni, evitando una costante situazione creditoria del medesimo nei confronti dell’erario.
Sono costituite da quelle operazioni che, pur presentando tutti i requisiti previsti per l’applicazione dell’imposta, sono per precisa scelta normativa esonerate dal pagamento del tributo, non prevedendosi in capo al cedente o prestatore l’addebito in rivalsa dell’imposta (La Rosa, S., voce Esenzione (diritto tributario), in Enc. dir., Milano, 1966, 567). Molteplici sono le ragioni, di natura politica, sociale, economica nonché di tecnica fiscale, in base alle quali lo Stato sceglie di rinunciare al prelievo, tanto è che l’art. 10 del decreto IVA contiene un’elencazione tassativa di fattispecie esentative, assolutamente eterogena. Secondo la Corte di giustizia, infatti, «è lo scopo della prestazione a determinare se questa debba essere esentata dall’IVA» (C. giust., 20.11.2003, C-307/01 e causa C-212/01), dovendosi le disposizioni agevolative, qual è appunto la norma sull’esenzione da IVA, interpretarsi sempre restrittivamente.
Le operazioni in commento sono comunque soggette a tutti gli obblighi formali di fatturazione, registrazione, liquidazione e dichiarazione e comportano, in linea generale, l’impossibilità di portare in detrazione l’IVA afferente gli acquisti di beni e servizi utilizzati per l’effettuazione delle medesime (art. 19, co. 2, decreto IVA).
Tale disposizione va poi coordinata con il comma 5 dell’art. 19 che prevede l’applicazione di un pro-rata generale di detrazione (i cui criteri di calcolo sono disciplinati nell’art. 19 bis) e che, in sintesi, prevede che i soggetti d’imposta che compiono sia operazioni che danno diritto a detrazioni sia operazioni che non conferiscono tale diritto, operino la detrazione in base a una percentuale derivante dal rapporto tra il complessivo ammontare delle operazioni che danno diritto alla detrazione e il complessivo ammontare di tutte le operazioni effettuate nello stesso periodo.
Mentre quindi il comma 2 prevede una indetraibilità specifica dell’IVA, cioè per ogni singolo acquisto, in ragione della sua afferenza all’operazione esente, il comma 5 prevede una limitazione su base soggettiva della detrazione, sul complesso delle operazioni attive effettuate dal soggetto passivo (Salvini, L., La nuova disciplina della detrazione IVA: un’occasione persa?, in Rass. trib., 1997, 1209). La regola del pro-rata, così come il principio che, più in generale, nega la detrazione con riferimento alle operazioni esenti, trova giustificazione nell’assunto che la detrazione è ammessa soltanto per l’IVA assolta a monte e relativa a cessioni e prestazioni utilizzate per effettuare scambi imponibili o che, comunque, danno diritto alla detrazione.
L’applicazione dell’IVA richiede una serie di obblighi formali per i soggetti passivi, che consistono nella fatturazione delle operazioni, nell’annotazione dei relativi dati in appositi registri, nell’effettuazione delle liquidazioni periodiche del tributo e nella presentazione della dichiarazione annuale (oltre ad altre dichiarazioni richieste una tantum).
Il primo obbligo consiste, ai sensi dell’art. 21, nell’emissione di un documento (la fattura, per l’appunto) in formato cartaceo oppure elettronico, al momento di effettuazione dell’operazione; la fattura si ha comunque per emessa soltanto all’atto della sua consegna o spedizione al destinatario e deve riportare alcune informazioni essenziali, tra cui i dati identificativi delle parti, l’aliquota, l’imponibile e l’imposta, la descrizione della natura, qualità e quantità dei beni e dei servizi formanti oggetto dell’operazione.
Sia le fatture emesse che quelle ricevute devono essere annotate in appositi registri (acquisti e vendite) entro quindici giorni dalla ricezione, assegnando a ciascuna di esse un numero progressivo (art. 23). Dalle annotazioni discendono gli ulteriori obblighi connessi alla liquidazione, al versamento e alla dichiarazione dell’IVA.
Vi sono poi situazioni in cui l’imponibile o l’imposta di un’operazione variano successivamente all’emissione della fattura o alla registrazione. L’art. 26 disciplina, con regole diverse, sia le variazioni in aumento sia quelle in diminuzione dell’ammontare dell’imponibile o della relativa imposta.
La liquidazione dell’IVA consente di far emergere un debito o un credito di imposta in relazione alle operazioni imponibili effettuate in un determinato arco temporale infrannuale (mese/trimestre); il pagamento del tributo non segue l’effettuazione delle singole operazioni ma ha luogo cumulativamente, in esito alla liquidazione periodica dell’imposta avente ad oggetto tutte le operazioni effettuate nel periodo di riferimento. La liquidazione è quindi una conseguenza della sommatoria algebrica dell’imposta a debito (risultante dall’ammontare complessivo dell’imposta relativa alle operazioni imponibili effettuate e registrate), da un lato, e dell’IVA detraibile o eventuale eccedenza del periodo precedente, dall’altro. La compensazione tra debito e credito d’imposta, effettuata in sede di liquidazione infrannuale, si renderà definitiva solo in sede di presentazione della dichiarazione annuale, nella quale emergerà o un’imposta a debito o un’imposta a credito che potrà essere chiesta a rimborso oppure portata a nuovo, come eccedenza, nell’anno successivo per essere utilizzata direttamente in compensazione interna.
Le dichiarazioni rilevanti ai fini IVA possono riassumersi in:
a) dichiarazione d'inizio di attività: da presentarsi entro trenta giorni dalla data di inizio dell’attività (art. 35, co.1);
b) dichiarazione di variazione e di cessazione di attività: da presentarsi entro trenta giorni dall’evento che determina la variazione o la cessazione dell’attività (art. 35 co. 3);
c) dichiarazione annuale: da presentarsi in via telematica ogni anno, tra il 1° febbraio ed il 30 settembre (art. 8, d.P.R. 22.7.1998, n. 322). Si tratta della dichiarazione relativa a tutte le operazioni imponibili, non imponibili ed esenti registrate nell’anno solare precedente, ha natura di dichiarazione tributaria a tutti gli effetti di legge e può essere presentata in forma separata oppure in forma unificata (cioè, ricompresa nella dichiarazione di cui al modello Unico).
d) comunicazione dati IVA: da presentarsi in via telematica entro il mese di febbraio di ciascun anno ed avente ad oggetto la comunicazione dei dati IVA riferiti all’anno solare precedente.
Dir. CE 28.11.2006, n. 112; d.P.R. 26.10.1972, n. 633; d.l. 30.8.1993, n. 331, convertito nella l. 29.10.1993, n. 427.
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