imperatori romani fino a Marco Aurelio
L’ascesa di Cesare al potere, l’assassinio, la storia del consolidamento imperiale a opera di Ottaviano, il principato sotto i Giulio-Claudi, i Flavi e gli Antonini costituiscono il banco di prova per le tesi machiavelliane intorno al principato civile, alla trasformazione di una repubblica in principato, a quel momento decisivo allorché «sogliono questi principati [variante: principi] periclitare, quando sono per salire da lo ordine civile allo assoluto» (Principe ix 23). Senza neppure farne il nome, il passaggio conclusivo nel cap. ix del Principe offre una diagnosi sulla condizione politica del principato sotto Ottaviano: lo Stato conserva una parvenza degli ordinamenti repubblicani e il principe si limita a esercitare il potere accentrando nelle sue mani le cariche ordinarie e perpetuando l’occupazione di quelle straordinarie, nonché attraverso un insieme di autorevolezza, prestigio personale, capacità economico-militare, che lo pongono in posizione preminente rispetto alle magistrature che spesso egli stesso detiene. Il rapporto tra il normale sviluppo dell’ordinamento costituzionale e l’esercizio di poteri straordinari (extra ordinem; → ordini e leggi), prospettato in Discorsi I vii 12-13 con l’esempio dell’ascesa e caduta di Francesco Valori, è un tema che si svolge in modo coerente e costante nei vari esercizi machiavelliani di riforma delle istituzioni: per es., nella Minuta di provvisione del 1522 si propone un collegio di dodici «Riformatori», presieduto dal cardinale Giulio de’ Medici, con poteri normativi straordinari.
È questo il retroterra argomentativo in Discorsi I x, un capitolo dedicato ai lodevoli fondatori di repubbliche e regni ben ordinati e ai detestabili instauratori di tirannidi, e fra questi ultimi è collocato Cesare. Si tratta di un discorso che risente in generale delle correnti storiografiche filosenatorie a partire da Tacito (Historiae I 1-2), probabile fonte diretta per una parte dell’argomento machiavelliano. Le lodi a Cesare sono tributate da scrittori «corrotti dalla fortuna sua e spauriti dalla lunghezza dello imperio» (Discorsi I x 12), e i più onesti tra loro celebravano almeno Bruto tirannicida, non potendo biasimare direttamente Cesare. L’analisi machiavelliana si arma quasi di ragioni quantitative: da Cesare – considerato secondo il modello svetoniano primo imperatore – a Massimino si sono succeduti ventisei principi, dei quali sedici furono assassinati (indizio di corruzione politica). In questa serie sono additati come «principi buoni» quelli che «vissero sotto le leggi» (§ 16), il cui principato dunque non ‘salì all’ordine assoluto’: essi non ebbero bisogno di pretoriani, né di una moltitudine di legioni per difenderli; ma soprattutto chi guardi a quei periodi felici «vedrà il senato con la sua autorità, i magistrati co’ suoi onori» (§ 22). Durante i principati di Tito, Nerva, Traiano, Adriano, Antonino e Marco, M. addita l’efficace modello dell’adozione (in luogo della carica ereditaria) e sottolinea il funzionamento delle magistrature repubblicane ordinarie. Questa è anche l’occasione per una polemica sferzante e ironica contro il mito cesariano: chi consideri infatti i tempi crudeli, sediziosi e corrotti dei ‘cattivi prìncipi’, tempi nei quali chiunque sia «nato d’uomo» non desidererebbe vivere, «conoscerà allora benissimo quanti obblighi Roma, l’Italia e il mondo abbia con Cesare» (§ 28).
La corruzione dei costumi propria della tirannide, l’incertezza sociale e la violenza politica sono il retaggio lasciato al mondo da Cesare fondatore di un impero. Il tema, come pure l’antitesi fra il biasimo per Cesare e l’esaltazione per Marco Giunio Bruto, era naturalmente presente nella storiografia umanistica filorepubblicana e risuona a esempio nelle movenze iniziali delle Historiae Florentini populi di Leonardo Bruni (volgarizzate da Donato Acciaiuoli nel 1476). Il modello eroico di Bruto tirannicida libertario, secondo una tradizione politica e letteraria che risale al ritratto tucidideo di Armodio e Aristogitone assassini di Ipparco, è fondato dalla biografia plutarchea e gioca un ruolo fondamentale nell’educazione umanistica repubblicana: ne è testimone Pietro Paolo Boscoli (→), che nel 1512 cercò, con Agostino Capponi, di attentare in guise piuttosto maldestre alla vita di Giuliano de’ Medici, coinvolgendo improvvidamente anche M.: nella cronaca redatta da Luca della Robbia intorno alle ultime ore dei congiurati condannati a morte, Boscoli rinnega l’eroismo civile e prega l’amico: «Deh, Luca, cavatemi dalla testa Bruto, acciò ch’io faccia questo passo [la morte] interamente da cristiano» (Testi cinquecenteschi sulla ribellione politica, a cura di G.P. Marchi, 2005, p. 33).
Ancora dalla vita plutarchea di Bruto deriva il giudizio sulla abiezione morale del popolo romano, un degrado che rese impossibile, pur dopo la morte di Cesare, ripristinare quegli ordinamenti repubblicani che esigono un popolo incorrotto. M. articola il tema con un paragone fra Lucio Giunio Bruto, che instaurò la Repubblica dopo la cacciata dei Tarquini, e Marco Giunio Bruto, che congiurò contro Cesare, ma al quale non bastarono neppure le legioni dislocate in Oriente per arginare la catastrofe autocratica dello Stato perseguita da Ottaviano e Antonio (Discorsi I xvii 6-7; cfr. Plutarco, Vite parallele, Vita di Bruto 47). Il mito libertario di Bruto torna in Discorsi III vi 22 – all’interno del capitolo Delle congiure – identificando l’origine della congiura di Bruto e Cassio nel «desiderio di liberare la patria» occupata da un principe.
Polare rispetto a Bruto è il giudizio su Cesare fondatore dell’impero. Significativo già che a lui non sia dedicato uno spazio particolare nel Principe, dove il nome ricorre solo in quanto ‘imitatore di Alessandro’ (Principe xiv 14; così anche nel capitolo in terzine “Di Fortuna”, vv. 162-68, dove Cesare e Alessandro sono abbinati come condottieri capaci di sottomettere Fortuna), ovvero per designarne la munificenza, eccessiva, ma necessaria per conquistare consenso e potere (Principe xvi 12). In entrambi i casi è probabile che la fonte sia costituita dalla biografia plutarchea, associata a quella del giovane condottiero macedone, con integrazioni derivate da Svetonio. Ma decisamente en noir è il ritratto politico che emerge da Discorsi I xvii 8, dove non solo la linea cesariana si oppone al modello libertario di Bruto, ma Cesare spicca quale abile ingannatore, capace di sfruttare a proprio vantaggio la corruzione indotta nel popolo da Caio Mario (un Cesare ‘mariano’ ancora in Discorsi I xxxvii 20), e dunque «potette accecare quella moltitudine, ch’ella non conobbe il giogo che da sé medesima si metteva in sul collo» (I xvii 8). Parimenti antitetico a Romolo (→ Romolo e i re di Roma) è il Cesare ‘fondatore di una tirannide’ in Discorsi I x 30: «E veramente, cercando un principe la gloria del mondo, doverrebbe desiderare di possedere una città corrotta, non per guastarla in tutto come Cesare, ma per riordinarla come Romolo». Qui spicca il peculiare interesse di M. per i ‘prìncipi legislatori’, cioè non meri autocrati, ma capaci di instaurare ordinamenti costituzionali e giuridici; obiettivo dell’analisi machiavelliana sono i fondatori di Stati. È il tema che circolarmente corre da Principe vi 7-15 fino alla exhortatio del cap. xxvi 2-3. La dialettica conquista-mantenimento dello Stato si lega al problema dell’instaurare nuovi ordini: «E debbesi considerare come e’ non è cosa più difficile a trattare, né più dubbia a riuscire, né più periculosa a maneggiare, che farsi capo di introdurre nuovi ordini» (Principe vi 17). Significativamente né Cesare, né Ottaviano, né Vespasiano (che pure, a diverso titolo, sono fondatori dell’impero romano) sono additati qui: un silenzio che implica un giudizio storico severo.
Nella logica dei Discorsi il ruolo di Cesare quale fondatore di una tirannide si colora con tratti di analisi politica particolare: Cesare ebbe la possibilità di prendere con la forza ciò che l’ingratitudine popolare gli negava, cioè la signoria assoluta; ma questo poté accadere solo perché la res publica era già corrotta (Discorsi I xxix 19. Si noti che l’ambizione cesariana accesa dall’ingratitudine è tema che ricorre anche nel capitolo “Dell’Ingratitudine”, vv. 151-56: «Spesso diventa un cittadin tiranno, / e del viver civil trapassa il segno, / per non sentir d’Ingratitudo il danno. / A Cesare occupar fe’ questo il regno; / e quel che Ingratitudo non concesse, / li dette la iusta ira e ’l iusto sdegno»). Tra le forme di corruzione degli ordinamenti, che avviarono nell’età di Cesare la rivoluzione romana e la dissoluzione della res publica, M. segnala la prorogatio promagistratuale, che consentiva a singoli cittadini di restare a lungo a capo di eserciti e dunque di legare le truppe da vincoli personalistici (Discorsi III xxiv 12-13). Allorché l’eccessivo potere accentratosi nelle mani di Cesare convertì in paura l’originario favore dei suoi alleati, e in particolare di Pompeo, si cercarono rimedi che affrettarono la rovina dello Stato (Discorsi I xxxiii 1314); infine, l’ambizione cesariana come fonte della ‘risoluzione’ della repubblica è stigmatizzata ancora con parole attribuite al medesimo Cesare da Sallustio: «che ogni cattivo esempio trae origine da buoni princìpi» (De coniuratione Catilinae 51, 27, in Discorsi I xlvi 8).
Più articolata la dialettica sottesa a Discorsi I xxxiv, dove M. contesta che l’esistenza in Roma della dittatura, come magistratura eccezionale impiegata per brevissimi periodi e in occasione di pericoli particolarmente gravi per lo Stato, avesse coonestato le pretese assolutistiche cesariane. In questo capitolo il Segretario sviluppa un altro tema costante nella sua trattatistica politico-storica: il rapporto fra magistrature ordinarie e rimedi extra ordinem. Se il ‘nome’ di dittatura non fosse esistito, un’altra veste sarebbe stata adottata «perché e’ sono le forze che facilmente si acquistano i nomi, non i nomi le forze» (§ 4). La logica machiavelliana segue, invece, un percorso diverso: se la repubblica fosse stata incorrotta, non si sarebbero dati quei presupposti che davvero sono all’origine dell’autocrazia, «essere ricchissimo e avere assai aderenti e partigiani, i quali non può avere [l’aspirante principe] dove le leggi si osservano» (§ 8). Dunque in uno Stato ordinariamente funzionante, anche le cariche eccezionali, necessarie per far fronte ai periodi di più grave pericolo, non nuocciono alla costituzione; ma dove il processo di dissoluzione dell’ordinamento è già avviato, allora non è il nome di dittatura o l’esistenza di una magistratura eccezionale a favorire la catastrofe, ma a far serva Roma fu «l’autorità presa dai cittadini per la diuturnità dello imperio» (§ 4).
Un Cesare tecnico militare è invece quello che emerge nell’Arte della guerra, dove il giudizio politico sul personaggio appare quasi sospeso. Nel V libro, in tema di guadi, Fabrizio Colonna non può indicare a Zanobi Buondelmonti esempio migliore rispetto a quello di Cesare (De bello Gallico VII 35), allorché le legioni romane finsero di seguire il corso dell’Allier (un affluente della Loira nella Francia centrale), ingannando così Vercingetorige schierato sull’altra riva; intanto un manipolo di soldati, rimasto al riparo di un’area boschiva, allestiva non visto tre ponti per consentire il passaggio delle truppe (Arte della guerra V 141-43). Parimenti in IV 74 ancora Fabrizio contrappone la capacità di Cesare nel perseguire i risultati di una vittoria all’attendismo che fu fatale ad Annibale dopo Canne. Nel libro VII 150 è rievocato un episodio delle Vite dei Cesari di Svetonio (Cesare 68, 2) nel quale le milizie cesariane si cibano di pane fatto d’erba per resistere alle privazioni, pur di incalzare il nemico, e una tale fedele sopportazione sbigottisce naturalmente Pompeo. Tuttavia, M. non rinuncia anche in quest’opera a distinguere l’impiego dell’arte militare in una repubblica ben ordinata, da parte di uomini «valenti e buoni», da quello che si realizza in uno Stato corrotto, da capitani che «acquistarono fama come valenti uomini, non come buoni» (Arte della guerra I 65). L’autore pone un discrimine cronologico: la conclusione dell’ultima guerra contro Cartagine avvia il disfacimento degli ordinamenti repubblicani. Nella schiera di coloro che impiegarono la tecnica militare per il conseguimento di un potere personale e non al di sotto delle leggi primeggiano Pompeo e Cesare, elevati così a emblemi della dissoluzione.
La conquista del potere da parte di Ottaviano è in primo luogo imputata a un errore di calcolo politico da parte di Cicerone (→ Cicerone, Marco Tullio) e strettamente connessa con l’avvio della tirannide instaurata da Cesare (Discorsi I lii 12-16). Cicerone, per contrastare Antonio, avrebbe suggerito al senato e alla fazione ottimatizia di appoggiare Ottaviano, inviandolo contro l’antico tribuno cesariano insieme ai consoli Irzio e Pansa. La fama di Ottaviano crebbe a dismisura, proclamandosi egli legittimo erede di Cesare: ma il piano ciceroniano fallì, poiché Ottaviano e Antonio si allearono tra loro «la qual cosa fu al tutto la distruzione della parte degli ottimati. Il che era facile a conietturare» (§§ 15-16). La figura del princeps è tutta giocata da M. sulla caratterizzazione dell’astuzia politica. Nell’Arte della guerra, invece, Fabrizio Colonna imputa a Ottaviano e Tiberio l’avvio della crisi militare romana: «Perché Ottaviano, prima, e poi Tiberio, pensando più alla potenza propria che all’utile publico, cominciarono a disarmare il popolo romano per poterlo più facilmente comandare» (I 87).
Tiberio, Caligola, Nerone sono meri emblemi della corruzione politica (Discorsi I x 17 e I xvii 5). In tema di congiure (Discorsi III vi) ricorre naturalmente un’analisi della congiura pisoniana contro Nerone (paragonata a quella dei Pazzi contro Lorenzo e Giuliano de’ Medici), e un cenno alla congiura di Seiano contro Tiberio.
Fra gli imperatori del 69 d.C. solo Galba, associato a Pertinace, è richiamato, sulla scia della storiografia filosenatoria, come imperatore ‘buono’, ma assassinato (Discorsi I x 19). Vitellio è invece evocato insieme ai Giulio-Claudii fra gli imperatori corrotti; il suo nome ricorre inoltre in Discorsi I xxix 10-11, quando M. descrive l’ingratitudine di Vespasiano nei confronti di Antonio Primo che, posto a capo delle legioni di stanza in Pannonia (non in Illiria, come invece scrive M.), aveva combattuto contro Vitellio a favore di Vespasiano stesso (fonte in Tacito, Historiae II-IV). Antonio Primo, già condannato per falso da Nerone, si era riconquistato la dignità senatoria sotto Galba che lo pose al comando della settima legione; cercò quindi di accostarsi a Otone. Infine, davanti al declino di Vitellio, non esitò a schierarsi con Vespasiano (Tacito, Historiae II 86), riuscendo a sconfiggere le truppe vitelliane in Italia (Historiae III 15-26, 58-63). Sopraggiunse intanto a Roma Muciano, inviato da Vespasiano ancora acquartierato in Egitto, e con abili promesse ingannatrici privò Antonio Primo del comando (Historiae IV 39). Antonio cercò di lagnarsi presso Vespasiano, ma il nuovo imperatore non accolse le sue rimostranze e Antonio finì con il ritirarsi a Tolosa.
A Vespasiano, che pure sarebbe formalmente il primo principe a occupare l’impero in forza di una riforma costituzionale (lex de imperio), non è dedicato spazio particolare da M., se non richiamandone appunto l’ingratitudine verso Antonio Primo o con un breve cenno, nell’Arte della guerra (IV 110), alla sua strategia militare in Oriente. Tito è naturalmente, con Nerva e Traiano, fra gli imperatori ‘buoni’ nella serie di Discorsi I x 16.
Adriano è additato come principe modello anche sotto il profilo militare in Arte della guerra I 257, e Marco Aurelio, in Principe xix 27 e segg., rappresenta l’ultimo imperatore virtuoso e l’avvio della serie di prìncipi rovinosi per lo Stato (così pure in Discorsi I x 16, 20). Alla morte di Antonino Pio, Marco Aurelio gli succedette iure hereditario: nonostante in Discorsi I x 20 M. celebri l’adozione in luogo dell’ereditarietà, nel Principe il richiamo alla carica ereditaria è connesso con la maggiore stabilità politica dei principati non nuovi. Marco Aurelio assunse il potere insieme con il fratello Lucio Vero, che ebbe tutte le prerogative di Marco fuorché il pontificato (indivisibile): la scelta di una collegialità imperiale fu innovativa ed efficace, sebbene il regno di Marco Aurelio non fosse poi né pacifico (guerre contro i Parti e i Marcomanni) né prospero (pestilenze e carestie si susseguirono in quegli anni in varie regioni dell’impero).
Bibliografia: R. Syme, The Roman revolution, Oxford 1939 (trad. it. Torino 1962); L. Canfora, Giulio Cesare il dittatore democratico, Roma-Bari 1999; J.L. Fournel, J.C. Zancarini, Ôtezmoi Brutus de la tête!, in Le droit de résistence. XII-XX siècle, réunis par J.C. Zancarini, Paris 1999, pp. 47-69; D. Canfora, Prima di Machiavelli. Politica e cultura in età umanistica, Roma-Bari 2005, pp. 20-37; Testi cinquecenteschi sulla ribellione politica, a cura di G.P. Marchi, Verona 2005; F. Russo, Bruto a Firenze. Mito, immagine e personaggio tra Umanesimo e Rinascimento, Napoli 2008, pp. 207-54.