IMMUNODEFICIENZA ACQUISITA
, Sindrome da (AIDS)
Condizione patologica descritta agli inizi degli anni Ottanta e attribuita a un retrovirus di nuova identificazione, denominato in riferimento al suo effetto patogeno "virus dell'immunodeficienza acquisita". Il virus è indicato con la sigla HIV-1 (Human Immunodeficiency Virus 1), mentre la malattia si designa con la sigla inglese AIDS (Acquired Immune Deficiency Syndrome) oppure con quella francese SIDA (Syndrome Immuno Déficience Acquise).
Le dimensioni epidemiologiche rapidamente assunte dall'AIDS hanno dato luogo a un'attività di ricerca particolarmente fervida, che ha avuto i suoi massimi protagonisti in L. Montagnier e R. Gallo (v. in questa Appendice), ma anche a polemiche di vario genere, a dubbi e a rettifiche anche su argomenti di non trascurabile importanza, ancora oggi (1992) non definitivamente risolti. Le implicazioni indotte dalla comparsa dell'AIDS sono state numerose e di notevole impatto, sia nell'ambito medico scientifico, sia in quello socio-assistenziale. Sostanzialmente gli anni Ottanta sono stati dominati dal problema AIDS. Lo sforzo di contenere il diffondersi epidemico del virus ha visto impegnata la comunità scientifica internazionale ai più diversi livelli, e con particolare riguardo l'Organizzazione mondiale della sanità. Le conoscenze sulla natura del virus e sulla storia naturale dell'infezione che si sono andate accumulando nel decennio Ottanta sono state numerose. Un successo notevole dev'essere già considerato l'aver riconosciuto l'HIV-1 come responsabile dell'epidemia di AIDS. Esistono numerosi aspetti che debbono essere esaminati per caratterizzare l'AIDS e le sindromi a essa correlate; questi riguardano: l'eziologia virale, l'epidemiologia, la patogenesi del danno immunitario, la sierologia, le implicazioni cliniche dell'infezione e l'AIDS conclamata, l'infezione materno-fetale e in età pediatrica, l'approccio terapeutico e il vaccino.
Eziologia. − Il virus HIV-1 appartiene al gruppo dei retrovirus (virus a RNA), noti in patologia umana perché associati ad alcune forme patologiche particolari (HTLV-i o Human T Lymphotropic Virus 1, correlato alla leucemia a cellule T dell'adulto e ad alcune malattie del sistema nervoso centrale; HTLV-ii virus, associato a una particolare forma di neoplasia; v. virus, in questa Appendice). Il virus HIV1 ha una forma cilindrica o bastoncellare che, osservata al microscopio elettronico, possiede una struttura densa con una componente nucleoide eccentrica. Ha le dimensioni di circa 110 nm. La parte più interna (core, secondo la terminologia anglosassone) contiene un genoma con due copie di RNA monoelica. Associato all'RNA c'è l'enzima transcriptasi inversa che converte l'informazione contenuta nell'RNA in DNA. Sono stati identificati tre geni strutturali: gag (che codifica per le proteine del core), pol (transcriptasi inversa), env (involucro esterno o envelope). Sono stati inoltre identificati e studiati numerosi altri geni, con carattere prevalentemente regolatorio. Molto importanti sono due sequenze disposte all'estremità del genoma: si tratta delle Ltr (Long terminal repeat), che svolgono funzioni di controllo e regolano l'espressione degli altri geni del virus. Esiste un altro virus, isolato nell'Africa occidentale, che s'identifica con la sigla HIV-2, il quale si distingue dall'HIV-1 per le sequenze di gag e pol.
Epidemiologia. − Osservazioni preliminari. − Il virus HIV-1 si trasmette per via ematica, sessuale, e dalla madre infetta al feto. Non sono note altre vie di contagio, malgrado l'isolamento della particella sia avvenuto in diversi liquidi organici. La diffusione dell'HIV-1 ha dato luogo in quest'ultimo decennio a una pandemia, che ha investito i cinque continenti. Le modalità con le quali si è esteso il contagio hanno riguardato gruppi di individui con abitudini di vita ad alto rischio (omosessuali con numerosi partners, tossicodipendenti adusi a scambio di siringhe infette con introduzione della droga per via endovenosa, eterosessuali ad alta promiscuità). Anche emofiliaci e politrasfusi sono stati colpiti con varia incidenza dal virus presente in derivati ematici o in flaconi di sangue per trasfusioni. L'identificazione dell'HIV-1 quale responsabile dell'AIDS non è stata immediata, soprattutto perché il quadro clinico sembrava originariamente ristretto a un gruppo di omosessuali maschi americani con numerosi partners non solo negli USA ma anche in varie parti del globo. In seguito è stato anche chiarito come il rapporto tra AIDS e HIV-1 non vada inteso come automatica espressione clinica di un agente patogeno: infatti oggi si parla di malattia da HIV-1, e più precisamente sono stati definiti i vari aspetti (clinici, immunologici, epidemiologici) della storia naturale dell'infezione. Infatti l'AIDS è soltanto l'ultima tappa di un processo che può durare anni dal momento dell'infezione iniziale.
Ai fini di un migliore inquadramento del problema è necessario chiarire alcuni aspetti terminologici: un individuo infetto da un qualsiasi agente patogeno (virus, batterio) elabora una risposta immunitaria che può essere identificata con la produzione di anticorpi (sieropositività = produzione di anticorpi verso un determinato agente patogeno). Nel caso dell'infezione da HIV-1 la maggior parte dei soggetti entro alcune settimane (da due a sei) elabora anticorpi anti HIV-1. L'aver messo a punto sistemi in grado di svelare se un individuo si è infettato ha rappresentato un notevole progresso: con un metodo di relativamente semplice attuazione (cosiddetto ELISA: sistema immunoenzimatico denominato con l'acronimo di Enzyme Linked Immuno Sorbent Assay) si può infatti stabilire con sicurezza se c'è stato contagio. Al metodo ELISA si affianca per completezza il cosiddetto test di conferma denominato Western blot, che serve per dirimere alcuni casi incerti ed evitare le rarissime false positività eventualmente presenti con il metodo ELISA. Quindi sieropositività non significa malattia ma indica semplicemente la presenza di anticorpi nell'organismo di un individuo che, per tale condizione, essendo infetto, è in grado di contagiare altri individui con le modalità dianzi esposte: donando sangue, avendo rapporti sessuali non protetti da profilattico e, se donna, trasmettendo il virus al feto durante la gravidanza o in corso di allattamento. La disponibilità del metodo ELISA ha comunque consentito di ridurre a una probabilità vicina allo zero il rischio che le trasfusioni di sangue siano causa di contagio (infatti tutti i donatori vengono sottoposti a valutazione preliminare e il loro sangue è analizzato con il test ELISA). Rapidi progressi sono stati compiuti anche per i soggetti emofiliaci che, avendo necessità di notevoli quantitativi di derivati ematici per garantire una normale coagulazione, oggi ricevono prodotti opportunamente trattati privi del virus HIV-1.
Un'importanza epidemiologica notevole ha assunto l'identificazione di alcuni individui sieronegativi con integrazione del genoma virale (sebbene non siano ancora chiare le conseguenze di questa particolare circostanza biologica; v. oltre: Manifestazioni chimiche dell'infezione). Esiste infatti l'eventualità che il genoma del virus s'integri nel DNA della cellula infetta, ma che non si possano svelare gli anticorpi anti HIV-1 (condizione senz'altro rara, ma di evidente importanza pratica, dimostrata per es. in ex tossicodipendenti con precedenti abitudini a scambio di siringa e in partners sessuali di individui sieropositivi; in soggetti cioè che per il loro comportamento a rischio possono essere stati contagiati, ma non hanno prodotto anticorpi e quindi risultano sieronegativi all'analisi sierologica).
La sieropositività è dunque una condizione che noi troviamo sia nell'individuo semplicemente infetto sia negli stadi terminali di AIDS: quindi per precisare meglio lo stato clinico, relativamente al soggetto con infezione recente e senza alterazioni manifeste si deve parlare di asintomaticità. L'asintomaticità clinica può perdurare lungo tempo ed essere seguita da un fase di linfoadenopatia persistente generalizzata. Questa è una condizione molto frequente, che può essere stabile per anni o evolvere rapidamente nella fase ARC (Aids Related Complex, Complesso correlato all'Aids). L'ARC si presenta con sintomi ben definiti (febbre, diarrea, dimagramento, astenia) e con sostanziali alterazioni del sistema immunitario soprattutto a carico dell'immunità cellulare. Quando il sistema immunitario è tanto gravemente danneggiato da non poter svolgere anche un livello minimo di funzioni, si hanno le prime infezioni opportunistiche e non (AIDS vera e propria).
La diffusione geografica dell'infezione. − Ai fini pratici e tenendo conto della complessità della storia naturale dell'infezione, il CDC (Center for Diseases Control) di Atlanta, in Georgia (USA), ha elaborato un sistema di classificazione che viene comunemente accettato e con il quale s'identificano le tappe essenziali del decorso clinico dell'infezione da HIV-1 (v. tab. 1). L'Organizzazione mondiale della sanità ha seguito l'evoluzione della pandemia, valutando soltanto il numero dei casi conclamati di AIDS, dal momento che la stima del numero dei contagiati è soltanto ipotizzabile in assenza di uno screening su vasta scala. All'inizio degli anni Novanta i casi stimabili a livello mondiale della forma conclamata sono attorno a 600.000. Essi quindi sono molto più numerosi di quanto riportano le cifre ufficiali; queste ultime infatti dipendono dalle notifiche formali fornite dai vari centri a ciò adibiti, i quali hanno non solo ''ritardi tecnici'', ma ovviamente presentano un'efficienza correlata al sistema sanitario di appartenenza. Oltre il 70% dei casi concerne l'area continentale americana (con prevalenza dei tossicodipendenti e degli omosessuali); tra il 10 e il 15% si registra nell'Europa occidentale, mentre dati non completamente attendibili si hanno per l'Europa orientale. In Italia le statistiche evidenziano la prevalenza dei tossicodipendenti seguiti dagli omosessuali. I casi di AIDS in età pediatrica sono alti nel nostro paese perché la sieropositività tra le donne tossicodipendenti è molto diffusa. Verso la fine degli anni Ottanta si è registrato un sostanziale incremento del contagio anche tra gli eterosessuali (che si avvia a superare l'8%). In Africa il problema ha assunto ben presto una dimensione drammatica: il solo 20% sul totale mondiale dei casi segnalato dalle fonti OMS non corrisponde assolutamente a quanto si verifica in realtà. Se calcoliamo i dati in base alle statistiche più attendibili (numero di contagiati tra 5 e 10 milioni), la metà degli infetti risiede nelle regioni subsahariane dell'Africa, dove almeno il 30% degli adulti tra i 20 e i 40 anni sarebbe portatore del virus HIV-1. All'inizio degli anni Novanta c'è stato un incremento esplosivo in Estremo Oriente, dove in poco tempo la diffusione ha toccato cifre assai ragguardevoli (soprattutto in Thailandia). C'è inoltre da segnalare la presenza del virus HIV-2, la cui diffusione si estende invece in Africa occidentale.
In generale la problematica dell'AIDS presenta numerose implicazioni epidemiologiche: rischio di trasmissione del virus nell'ambito del personale sanitario di assistenza; diffusione dell'epidemia nelle carceri dove è presente un'alta concentrazione di tossicodipendenti; incidenza del contagio tra i donatori di sangue nei centri trasfusionali; incremento dei viaggi e del numero degli incontri sessuali occasionali. Le autorità di tutti i paesi hanno messo in atto numerose iniziative di prevenzione che, dalla metà degli anni Ottanta, hanno lo scopo di estendere i meccanismi di sorveglianza e profilassi.
Patogenesi del danno immunitario. − La prima fase del danno biologico causato dal virus HIV-1 è il suo ingresso all'interno della cellula bersaglio (linfocita). La particella si lega alla superficie mediante un recettore specifico associato alla molecola CD4, che sembra caratterizzata da proprietà fisico-chimiche ottimali per un legame altamente selettivo con il virus. Bersaglio del virus non sono unicamente i linfociti CD4 ma anche altre cellule (monociti, macrofagi, alcune cellule gliali). Le conseguenze dell'infezione di una particolare cellula si diversificano comunque sul piano patogenetico, in funzione delle caratteristiche fisiologiche della cellula interessata dal contagio virale. Per es., la serie cellulare monocitomacrofagica è molto stabile per quanto riguarda gli effetti citopatici provocati dall'HIV-1 rispetto a quanto si verifica per i linfociti infettati. I macrofagi finiscono con il rappresentare ''riserve naturali'' di virus che possono accogliere l'ospite per lungo tempo e trasferirlo in diverse sedi. Alcune osservazioni fanno ritenere che sia proprio il macrofago a trasferire il virus all'interno del sistema nervoso centrale, dove si verificano i fenomeni di encefalite (cosiddetta ipotesi del ''cavallo di Troia''). Ulteriori acquisizioni sul ruolo delle mucose hanno messo in evidenza come alcune cellule, cosiddette dendritiche (caratterizzate da numerosi e sottili processi citoplasmatici che s'interpongono tra le cellule viciniori, derivano da elementi staminali midollari, migrano verso l'epidermide e quindi possono dislocarsi a livello linfonodale o splenico, dove svolgono il ruolo di cellule presentanti l'antigene), possono essere facilmente infettate dall'HIV-1. Queste cellule, attraverso la via ematica, recherebbero il virus verso i linfonodi dove i linfociti T prendono contatto diretto con la particella presente sulle cellule dendritiche stesse.
Comunque il rapporto più studiato riguarda l'infezione della cellula linfocitaria CD4 (conosciuta anche come linfocita T helper), oggi identificata in base all'anticorpo monoclonale specifico anti CD4. Una volta all'interno del linfocita CD4 il virus s'integra nel genoma della cellula o va incontro a replicazione nella maggior parte dei casi; tuttavia le due strade possono coincidere, nel senso che all'integrazione del genoma virale può far seguito la sintesi di nuove particelle di HIV-1, anche se non è ancora completamente chiarito il meccanismo di regolazione che modula, nel corso della storia naturale della malattia, le fasi di replicazione o la condizione d'infezione latente.
Se l'HIV-1 va incontro a un processo di replicazione si formano nuove particelle che vanno a contagiare altre cellule bersaglio. Molto interessante, e di consistente rilevanza clinico-epidemiologica, è, come sopra anticipato, lo status di fase latente durante il quale il provirus (così viene definito il materiale genetico integrato all'interno della cellula ospite) resta silente senza manifestare particolari caratteristiche funzionali. Il problema d'identificare una cellula infettata senza che siano manifesti gli specifici anticorpi anti virus (sieropositività) è stato risolto grazie a metodiche di laboratorio abbastanza sofisticate, tra le quali ha assunto un rilievo importante la PCR (Polymerase Chain Reaction), sistema di amplificazione genica mediante il quale è possibile esplorare e riconoscere frazioni del genoma virale integrate all'interno del materiale genetico della cellula ospite.
Il meccanismo patogenetico dell'infezione da HIV-1 è comunque molto complesso e non può essere ridotto al semplice fenomeno di citolisi indotto dalla replicazione virale. Per es., una proteina del rivestimento virale, la gp120, può disporsi sulla superficie cellulare in una vera e propria nicchia del recettore CD4 anche in linfociti non infettati dal virus. Ne consegue comunque che essi diventano bersaglio di altri sistemi effettori (anche di tipo autoimmunitario) che, nel tentativo di eliminare il virus, aggrediscono le cellule T CD4+ e in tal modo estendono il danno causando un'ulteriore deplezione numerica dei linfociti T, aggravando la conseguente disregolazione funzionale. È noto infatti che i linfociti CD4 hanno un ruolo di coordinazione e modulazione su diverse fasi della risposta immunitaria: un loro danno o la loro diminuzione numerica nel circolo ematico comportano numerose alterazioni sia nell'ambito dell'immunità cellulo-mediata che in quello della sintesi anticorpale.
Un punto fondamentale della patogenesi concerne l'incapacità dell'organismo di eliminare la particella virale: fenomeno condizionato dalla natura stessa del virus e in parte dalla reattività immunitaria. Una delle caratteristiche che giocano a favore del virus è la sua altissima variabilità antigenica. In pratica i meccanismi di clearance immunitaria risultano alterati e gli stessi anticorpi, che vengono prodotti in notevole quantità, non hanno un vero e proprio significato protettivo nel corso del tempo e talvolta potrebbero svolgere addirittura un ruolo sfavorevole nella selezione di ceppi virali più aggressivi.
Gli studi di anatomia patologica hanno dimostrato una progressione del danno istologico a carico dei linfonodi nei quali è possibile riconoscere almeno tre aspetti morfologici, ben definiti, che accompagnano l'evolversi dell'infezione nel tempo: fase iperplastica, con incremento dei centri germinativi; fase regressiva, tipica degli stadi intermedi con fenomeni di necrosi iniziale ed emorragici; fase della deplezione linfocitaria, coincidente con la piena espressione dell'AIDS nella quale si osserva una grave diffusa necrosi del tessuto linfatico. Il danno immunitario centrale è rappresentato comunque dalle alterazioni funzionali e numeriche del linfocita T4 (CD4+) che, procedendo verso un graduale decremento, fornisce indicazione del danno e rappresenta un indice essenziale per il monitoraggio (il valore soglia di allarme è attorno ai 400÷500 linfociti CD+/mmc).
Come si è visto, il danno cellulare causato dal virus sembra il risultato di un'azione citolesiva complessa che a tutt'oggi non ha ancora ricevuto una chiara e definitiva spiegazione. Per es., di recente, studi in vitro hanno dato un certo rilievo alla contemporanea presenza di un micoplasma quale co-fattore di sviluppo dell'infezione da HIV-1. In realtà queste osservazioni, unitamente ad altre che hanno attribuito significato rilevante ad alcuni agenti patogeni virali come il virus di Epstein-Barr o il Citomegalovirus, sono modelli di analisi da non considerarsi realmente definitivi ai fini della comprensione della patogenesi.
È possibile inoltre che la presenza del virus HIV-1 all'interno della cellula infettata sia in grado d'innescare un meccanismo di ''morte cellulare programmata'' che, nel tempo, potrebbe giustificare se confermato la graduale perdita dei linfociti T helper (apoptosi: processo fisiologico che si manifesta in corso dell'embriogenesi o della differenziazione cellulare, indotto da uno specifico enzima endonucleasi, che taglia il DNA in alcuni siti particolari).
Sierologia. - Trascorso un periodo di 6÷8 settimane, gran parte degli individui contagiati sviluppa anticorpi nei confronti di vari antigeni virali. Prima ancora s'identifica una proteina virale nota come p24 (free core antigen) che precede quindi la sieroconversione e altri segni clinici. Seguono le IgM che compaiono 6÷8 giorni dopo la comparsa dell'antigene. L'anticorpo è diretto verso la p24, ma anche verso un'altra proteina nota come p17. Utilizzando sistemi di radioimmunologia si possono rivelare anticorpi IgG anti-p24 due settimane dopo l'insorgere dello stadio iniziale (stadio I del CDC di Atlanta) della malattia (sindrome mononucleosica, v. oltre). Vari studi sono stati compiuti per mettere in relazione l'evoluzione clinica e la comparsa di anticorpi diretti verso particolari antigeni. In questa serie di ricerche hanno particolare valore esemplificativo quelle relative alla p24, che ha acquisito il significato di marker della replicazione virale, dati i rapporti che sono stati dimostrati tra le variazioni del suo titolo, quelle del livello dei relativi anticorpi e l'andamento del decorso clinico.
Manifestazioni cliniche dell'infezione. − Il decorso dell'infezione può essere riassunto in alcune fasi che vanno considerate come tappe ''non reversibili'' della storia naturale del processo morboso (modello in ''quattro stadi'' proposto dal CDC di Atlanta).
Lo stadio i (infezione acuta) si presenta in circa il 20% dei casi con una sindrome definita similmononucleosica caratterizzata da febbre, cefalea, dolori muscolari, artralgia e profonda astenia. È costante anche una linfoadenite reattiva con ingrossamento dei linfonodi (prevalentemente in sede ascellare e latero-cervicale), associata a epatosplenomegalia. Non raro un rash cutaneo. È possibile anche un coinvolgimento del sistema nervoso centrale, con un quadro di meningite acuta di tipo asettico (più rare la meningo-radicolite e la mielopatia). Inizialmente non sono rivelabili gli anticorpi, ma soltanto l'antigenemia (p24). La sindrome regredisce di regola in due settimane ma può talvolta prolungarsi. Il paziente può tornare a uno stato del tutto asintomatico passando allo stadio ii o mantenere l'ipertrofia linfonodale (che è propria dello stadio iii). In alcuni casi poco frequenti può essere evidente il passaggio rapido a una fase sintomatica di ARC (stadio iv A della classificazione del CDC) o anche definito, come detto sopra, complesso correlato all'AIDS (ARC).
Lo stadio ii (infezione asintomatica) è la condizione più frequente che si riconosce mediante specifici esami di laboratorio in individui soggetti al ''fattore rischio'', per categoria di appartenenza o per eventi occasionali. I soggetti asintomatici, ovviamente, non possono essere considerati ''portatori sani'', dato che la carenza di sintomi è la conseguenza dell'insufficiente penetrazione, della limitata efficienza delle usuali indagini di semeiotica medica, mentre in una percentuale variabile, non inferiore al 30%, questi soggetti possono presentare alterazioni dei parametri immunologici. Il problema centrale concerne la stabilità o meno di questo ii stadio e gli elementi che ne condizionano durata e svolgimento: la sua durata può superare i dieci anni, oppure declinare rapidamente, così come il numero dei linfociti CD4+ può subire una diminuzione lenta o andare incontro a un calo drammatico. In una determinata variante (primo modello), dopo anni di caduta del tasso anticorpale, si può verificare una ripresa della replicazione virale e una rapida evoluzione verso l'AIDS; in un'altra variante (secondo modello) avviene il contrario, perché dopo una lunga fase di sieropositività si ha il passaggio a uno stato di infezione silente, con possibilità di dimostrazione del provirus nel soggetto infetto; infine, un'altra possibilità (terzo modello), particolarmente grave sul piano epidemiologico, è data dalla mancata comparsa di anticorpi nell'immediatezza del contagio, dall'integrazione del provirus nei linfociti e dalla comparsa della sintesi anticorpale dopo vari anni.
Lo stadio iii (sindrome linfoadenopatica o LAS) configura un quadro clinico con aumentato volume dei linfonodi che superano il centimetro e presentano iperplasia follicolare, con coinvolgimento di varie stazioni linfoghiandolari al di fuori dell'area inguinale e persistenza per almeno tre mesi. In questi soggetti è possibile identificare varie anomalie immunologiche con presenza di ipergammaglobulinemia, diminuzione del numero dei linfociti circolanti (l'antigenemia p24 è di solito assente). Non sono presenti infezioni opportunistiche.
Lo stadio iv (fase sintomatica) è suddiviso in base a precise caratteristiche cliniche (tab. 1) che configurano alcune varianti: il quadro ARC (iv A con presenza di febbre, dimagramento, diarrea, astenia), la sindrome neurologica (iv B con encefalite, mielopatia e neuropatia periferica), la presenza di infezioni secondarie (iv C1 e C2), la presenza di tumori (iv D con sarcoma di Kaposi, linfoma isolato del cervello, linfoma maligno B non Hodgkin) o altre manifestazioni cliniche (iv E) con pneumopatia interstiziale linfoide e quadri non altrimenti classificabili. Durante questa fase l'estensione del deficit immunitario ha valore predittivo per le manifestazioni cliniche che si sviluppano. Alla fase di ARC (CDC-iv A) che decorre con febbre, dimagramento, diarrea, astenia, fa seguito la comparsa delle infezioni opportunistiche. Sostanzialmente la definizione di AIDS dipende da caratteristiche cliniche che comprendono infezioni opportunistiche o no, a varia diffusione (virus, batteri, protozoi, funghi), la comparsa del sarcoma di Kaposi, l'insorgenza di neoplasie linfatiche (linfomi), e le complicanze neurologiche.
Per accordo internazionale la diagnosi viene effettuata in base ai criteri esposti dal CDC, che identificano la patologia indicativa del grave deficit immunitario. Quando la forma è conclamata, l'organo frequentemente più colpito è il polmone, in particolare dal protozoo noto come Pneumocystis carinii. Frequenti sono anche le infezioni da Candida albicans, localizzate e diffuse nell'apparato digerente, e le forme di toxoplasmosi che colpiscono il sistema nervoso centrale. Il sarcoma di Kaposi ha caratteristiche cliniche proprie: si presenta in forma epidemica, colpisce i giovani, presenta sin dall'inizio lesioni multiple disseminate, ha decorso rapido e comportamento più aggressivo della forma comune e coinvolge linfonodi, mucosa orale e organi interni. Altri aspetti di crescita neoplastica riguardano i linfomi non Hodgkin (linfoma linfoblastico tipo Burkitt, linfoma immunoblastico) e, a livello cerebrale, il linfoma isolato. Il coinvolgimento del sistema nervoso condiziona il quadro clinico in oltre un terzo dei pazienti che nella forma conclamata presentano un grave quadro di deterioramento, cefalea, depressione psichica e neuropatia periferica. Il coinvolgimento del sistema nervoso dipende sia da un'aggressione diretta dell'HIV-1 sia da localizzazioni cerebrali di altri agenti infettanti. Con relativa frequenza si ha un'encefalite subacuta, ma la sindrome clinica meglio definita è la demenza da AIDS (AIDS Dementia Complex), che in alcuni casi può precedere ogni manifestazione clinica di altro tipo; ha decorso progressivo e determina lesioni del parenchima cerebrale, della corteccia come della sostanza bianca, denunciata dall'atrofia corticale rilevabile all'esame tomografico e confermata post mortem dall'esame autoptico. Altra localizzazione del virus HIV-1 d'interesse neurologico è espressa dalla mielopatia vacuolare, che provoca cromatolisi nei neuroni delle corna anteriori del midollo spinale, assottigliamento, vacuolizzazione e frattura dei relativi assoni. Sono stati anche descritti casi di poliradicoliti tipo Guillain-Barré, polinevriti e demielinizzazioni. A livello del sistema muscolare sarebbero stati dimostrati reperti istologici simil-polimiositici.
Infezione materno-fetale e in età pediatrica. − L'importanza della via di trasmissione del virus dalla madre al feto è stata dimostrata dalla nascita di bambini infettati. Il rischio di contagio va dal 7 al 34% delle gravidanze con madre sieropositiva. Il momento del contagio prenatale non è ancora chiarito con precisione, tuttavia è stato possibile identificare il virus in un feto di 13 settimane, confermando in tal modo il rischio di un contagio precoce. Nel bambino l'HIV-1 può essere acquisito per via ematica (emofiliaci e politrasfusi), per via sessuale (abuso dei bambini) e subito dopo il parto (perinatale, per es. attraverso l'allattamento al seno, essendo stato il virus isolato dal latte materno di donne infette).
Dal punto di vista laboratoristico la ricerca degli anticorpi anti HIV-1 non è indicativa d'infezione fino al 15° mese di vita (infatti gli anticorpi possono essere trasmessi al feto per via placentare, e quindi la sieropositività passivamente acquisita non è automaticamente indice d'infezione), per cui è necessario ricorrere ad altre indagini, suscettibili di svelare più precocemente l'avvenuto contagio: le tecniche ELISA e western blot per rivelare la produzione da parte del bambino di IgM, specifiche per il virus; la già citata metodica PCR per dimostrare l'inserimento di materiale genetico del virus nel patrimonio genetico della cellula ospite.
La malattia da HIV-1 in età pediatrica assume caratteristiche biologiche e cliniche peculiari; basti ricordare come alla nascita ogni bambino ha comunque una ''fisiologica'' immaturità immunitaria che rende ancora più drammatico l'evolversi dell'infezione. Sono significativi alcuni aspetti di laboratorio che riguardano il numero assoluto dei linfociti CD4 (il cui decremento non ha un significato prognostico così assoluto come per l'adulto), un aumento della linfocitosi, ipergammaglobulinemia policlonale. Sono stati segnalati (come nell'adulto) fenomeni di trombocitopenia e neutropenia. La risposta dell'immunità cellulo-mediata è ridotta, e talvolta è stato possibile identificare anche una riduzione delle immunoglobuline sieriche. Sono sconsigliate le vaccinazioni con germi vivi e il BCG (Bacillo di Calmette-Guerin). Il vaccino antiepatite B non presenta alcun rischio e anzi è in genere consigliabile in bambini figli di madre tossicodipendente.
Come per l'AIDS dell'adulto, l'approccio terapeutico (v. oltre) include due fasi: terapia e profilassi delle manifestazioni infettive; terapia dell'infezione HIV-1. Discreti risultati sono stati ottenuti dall'impiego di immunoglobuline per via endovenosa, che si consigliano sia nelle forme di ipogammaglobulinemia sia in corso di ipergammaglobulinemia. L'uso dell'AZT (v. oltre) presenta gli stessi problemi osservati nell'adulto. Ai fini nosologici si ricorda (v. tab. 2) la classificazione delle varie fasi della malattia da HIV-1 in età pediatrica in bambini al disotto dei 13 anni.
Approccio terapeutico e vaccino. − Allo stato attuale delle conoscenze le procedure terapeutiche si basano su due modalità principali: 1) controllo della replicazione del virus ed eliminazione delle particelle infettanti; 2) ripristino delle funzioni immunitarie alterate dall'infezione. Mentre per il secondo punto i successi sono stati sostanzialmente nulli, per il primo varie molecole sono state impiegate come farmaci antivirus. In casi limitati l'approccio ha riguardato la ricostituzione cellulare mediante trapianto di midollo osseo, tecnica che ha presentato qualche spunto incoraggiante ma che non può essere adoperata su vasta scala. L'unico dato obiettivo è finora rappresentato dalla molecola di 3′−azido-3′deossitimidina (nota come AZT, zidovudina, con il nome commerciale di Retrovir). La molecola di zidovudina è identificata come chain terminator e agisce bloccando la formazione di sequenze di DNA virale, attraverso un'inibizione dell'enzima transcriptasi inversa.
I vantaggi della molecola sono stati immediati, soprattutto negli stadi relativamente avanzati della malattia: il prodotto si può somministrare per via orale; può superare la barriera ematoencefalica e quindi raggiungere le strutture del sistema nervoso centrale; presenta una relativa specificità di azione antivirale. Purtroppo non è esente da effetti collaterali che sembrano manifestarsi con il tempo (tra questi soprattutto rilevante è l'anemia da danno midollare). Sono segnalate anche forme di resistenza virale e, nei casi di più lungo trattamento, il potenziale rischio che si associ la comparsa di tumori.
Attualmente la tendenza dei protocolli riguarda la precocità della terapia in soggetti che presentano parametri immunologici alterati, senza evidenza clinica di grave compromissione e la riduzione della posologia. Esistono comunque protocolli già dimostrativi dell'efficacia dell'AZT a minor dosaggio, senza che ne siano derivati gli inconvenienti osservati durante la prima fase d'impiego del farmaco.
Indiretti progressi ma rapidamente consolidati nell'esperienza quotidiana hanno riguardato i trattamenti di profilassi e terapia delle infezioni secondarie; questo aspetto ha consentito un incremento dei periodi privi di sintomi in soggetti con AIDS conclamata, preparando anche la strada all'impiego di farmaci antivirali. Un ampio spettro di trattamenti è previsto caso per caso, e tra i più efficaci sembra essere la somministrazione di aerosol di pentamidina, al fine di prevenire l'infezione da Pneumocystis carinii. Utile anche la profilassi antitubercolare, da attuarsi caso per caso quando la depressione immunitaria è molto grave.
Resta tuttora aperto il problema vaccino. Varie sono le complicazioni biochimiche e biologiche che hanno reso difficile la sua preparazione; si ricorda la frequente mutazione antigenica (per cui è necessario scegliere gruppi di molecole ''stabili'' nei confronti delle quali si abbia un'efficace risposta), la particolare natura della cellula bersaglio principale (linfocita CD4, che funge da coordinatore di numerose altre funzioni del sistema immunitario), l'inefficace risposta espressa dall'immunità umorale con anticorpi che hanno una limitata efficacia protettiva. Tra i modelli proposti: l'impiego di strutture proteiche dello strato virale esterno (envelope) private del materiale genetico; l'adozione di una molecola particolare dell'involucro esterno (per es., la gp120) associata ad altra molecola adiuvante; il potenziale ruolo della via ''idiotipica'' (in sostanza se si usa la molecola di CD4 come antigene vengono stimolati anticorpi anti CD4 che potrebbero essere veri inibitori competitivi rispetto al virus che tende a legarsi sul proprio substrato cellulare).
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