Abstract
Il fenomeno migratorio viene analizzato mettendo in luce la sua natura “internazionale” in relazione alle prerogative sovrane dello Stato in materia di gestione delle proprie frontiere. Il diritto internazionale inquadra il fenomeno migratorio in base alle modalità in cui avviene la migrazione e ai motivi che hanno determinato la migrazione. Vengono quindi esaminate le diverse categorie di migranti e discussi i relativi regimi giuridici. La prassi istituzionale recente promuove però un approccio globale alle migrazioni internazionali.
Il diritto internazionale non fornisce una definizione d’immigrazione. Ai fini del presente scritto, si intende per immigrazione il processo di mobilità di un individuo che, dallo Stato di origine o di residenza abituale, si reca presso uno Stato terzo al fine di risiedervi stabilmente in via temporanea o definitiva. Sono quindi esclusi dal presente scritto le immigrazioni interne, ossia i processi di mobilità che si realizzano interamente ed esclusivamente sul territorio di un unico Stato e che non hanno un elemento di internazionalità. Inoltre, l’immigrazione deve distinguersi da altri processi di mobilità di individui che accedono al territorio di uno Stato terzo senza nessuna intenzione di risiedervi per un periodo più o meno lungo, al fine di svolgere un’attività lavorativa di natura occasionale o per motivi turistici. I motivi che sono alla base della migrazione sono rilevanti per determinare lo status giuridico del migrante al momento dell’ingresso sul territorio dello Stato di destinazione e durante l’eventuale permanenza sul territorio dello stesso Stato.
La materia migratoria rientra negli interessi fondamentali dello Stato poiché attiene direttamente al controllo del territorio e nelle relazioni dello Stato con i suoi vicini. Lo Stato possiede il diritto sovrano di controllare chi entra e chi esce dal proprio territorio, di controllare le proprie frontiere.
Il controllo delle frontiere diventa un ambito cruciale di collaborazione tra gli Stati di destinazione e gli Stati d’origine o di transito delle migrazioni. La prassi offre vari esempi di accordi di collaborazione a livello di polizia e giudiziario in relazione al controllo delle frontiere, di accordi di riammissione e di accordi in cui la concessione di vantaggi di natura economica o commerciale ha quale controparte l’impegno ad una maggiore sorveglianza dei propri confini. L’attraversamento di una frontiera, elemento caratteristico di ogni migrazione internazionale, e il controllo di questa, assumono pertanto un ruolo fondamentale nelle discussioni e nei negoziati in materia.
La frontiera e il significato attribuito ad essa rispecchiano la concezione che ne hanno gli attori coinvolti e l’interesse che maggiormente rileva al momento dell’elaborazione dello strumento. La frontiera non ha infatti un significato univoco e il suo contenuto ha subito e subisce cambiamenti a seconda del contesto storico, politico ed economico. Il diritto internazionale garantisce la stabilità delle frontiere quale strumento d’ordine e di pace sociale tra le nazioni. Le frontiere sono oggettive; i trattati di delimitazione hanno valenza erga omnes e ciò si fonda sulla necessità di stabilità delle situazioni giuridiche. Poche sono però le norme di diritto internazionale che contribuiscono al regime giuridico delle frontiere in relazione alla gestione dei flussi migratori. Tra queste, due sono di particolare importanza perché influiscono direttamente sull’attraversamento delle stesse: il diritto umano di emigrare e l’obbligo internazionale di non-refoulement.
Una delle norme sostanziali alla base del quadro giuridico internazionale dell’immigrazione è il diritto umano ad emigrare. Qualunque sia la causa all’origine della migrazione, l’art. 13, par. 2 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (DUDU) prevede che «[o]gni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio paese». Tale diritto è altresì garantito dall’art. 12 del Patto sui diritti civili e politici, dall’art. 8 della Convenzione internazionale per la protezione dei diritti dei migranti lavoratori e dei membri della loro famiglia, dall’art. 5 della Convenzione per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione, dall’art. 10 della Convenzione sui diritti del fanciullo, dall’art. 3 del Protocollo n. 4 alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) del 1963 e dall’art. 22 della Convenzione americana dei diritti dell’uomo del 1969. In materia di protezione dei rifugiati, il diritto di emigrare è previsto dall’art. 26 della Convenzione di Ginevra del 1951 relativa allo status dei rifugiati e dall’art. 2(6) della Convenzione dell’Organizzazione dell’Unità Africana (OUA) del 1969 che regola gli aspetti specifici dei problemi dei rifugiati in Africa.
Il diritto di partire o di emigrare è a volte considerato anche un diritto umano “sconveniente”, siccome rimette parzialmente in questione una delle funzioni primarie dello Stato sul proprio territorio, ossia il mantenimento della sicurezza e il conseguente controllo, nonché regolamentazione, delle migrazioni. Gli Stati non devono pertanto ostacolare ingiustificatamente la partenza di un individuo dallo Stato di residenza abituale o di origine. Ciò non implica però che gli Stati hanno l’obbligo di permettere l’ingresso sul proprio territorio di un individuo che sta esercitando il diritto di emigrare. Non esiste infatti un diritto di entrare in un paese straniero, anche se potrebbe apparire quale il logico corollario del diritto di emigrare. Il diritto di emigrare non può quindi essere considerato un diritto soggettivo dell’individuo, quale la libertà di movimento; esso rimane una prerogativa dello Stato nell’esercizio della sua sovranità territoriale e può essere soggetto a deroghe.
La lettera dell’art. 12 del Patto delle Nazioni Unite sui diritti civili e politici conferma tale deduzione affermando che «[o]gni individuo è libero di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio» e tale diritto non può essere sottoposto «ad alcuna restrizione, tranne quelle che siano previste dalla legge, siano necessarie per proteggere la sicurezza nazionale, l'ordine pubblico, la sanità o la moralità pubbliche, ovvero gli altrui diritti e libertà, e siano compatibili con gli altri diritti riconosciuti dal presente Patto».
La DUDU e il Patto sui diritti civili e politici garantiscono inoltre un diritto al rientro. L’art. 13, par. 2 DUDI sopracitato lo enuncia in termini assoluti, non prevedendo la possibile limitazione dello stesso. L’art. 12, par. 4 del Patto ne fornisce una dicitura più cauta poiché stabilisce che «[n]essuno può essere arbitrariamente privato del diritto di entrare nel proprio paese» (corsivi aggiunti). Il testo prevede quindi la possibilità per gli Stati di limitare tale diritto, a condizione che le eventuali deroghe non siano di natura arbitraria.
L’obbligo di non refoulement è una norma che si è sviluppata prima in materia di diritto d’asilo e dei rifugiati ed è stata per la prima volta affermata dall’art. 33, par. 1 della Convenzione di Ginevra del 1951:
«Nessuno Stato Contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche».
L’obbligo di non refoulement è l’unica norma che garantisce ad un richiedente asilo di presentare la propria domanda e quella più vicina ad un potenziale diritto di ingresso nel territorio dello Stato d’accoglienza. Esso è il necessario complemento del diritto di cercare asilo garantito dall’art. 14 della DUDU ed è altresì affermato negli strumenti internazionali di protezione dei diritti dell’uomo tra cui: l’art. 3 Convenzione europea dei diritti dell’uomo; l’art. 3 della Convenzione contro la tortura del 1984; l’art. 7 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici del 1966; l’art. 22, par. 8, della Convenzione americana dei diritti dell’uomo del 1969; l’art. 5 della Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli del 1981. La ripetizione di tale principio a livello normativo e nella prassi degli Stati ha permesso di qualificarlo di norma di diritto consuetudinario.
La norma consuetudinaria di non refoulement non possiede un contenuto univoco. Esso è, da un lato, il nocciolo umanitario della Convenzione di Ginevra del 1951, così come sancito dal suo art. 33 e, dall’altro, fa parte del più generale divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti affermato in materia di diritti dell’uomo. Il principio possiede perciò un contenuto e una applicazione ratione personae e ratione materiae che varia a secondo del contesto. Riguardo all’applicazione ratione personae, l’art. 33 della Convenzione di Ginevra indica come beneficiari del principio di non respingimento i rifugiati in senso lato. In tale categoria rientrano sia i richiedenti asilo, sia coloro ai quali lo status di rifugiati sia già stato riconosciuto dallo Stato che eventualmente intende compiere il respingimento. La norma invece come emersa dagli strumenti in materia di diritti dell’uomo e in particolare quale corollario del divieto di tortura e altri trattamenti inumani e degradanti si applica a qualsiasi individuo e quindi a qualsiasi categoria di migrante. Per i migranti che non sono rifugiati o richiedenti asilo, l’applicazione della norma implica il divieto di espulsione verso paesi cosiddetti a rischio, ma non implica necessariamente l’accesso ad un regime di protezione simile a quello dell’asilo.
La nozione di “migrante” comprende tutte le diverse categorie di persone che lasciano il loro luogo d’origine o di residenza abituale per stabilirsi in un altro luogo in modo temporaneo o permanente. Il processo migratorio si riferisce sia ai movimenti “volontari” che a quelli involontari o forzati. Esso può avvenire all’interno dei confini di uno stesso Stato oppure comprendere l’attraverso di una o più frontiere internazionali.
In diritto internazionale generale non esiste la categoria giuridica “migrazione”; si tratta invece di una nozione che è stata declinata in diversi settori del diritto internazionale a seconda delle modalità concrete in cui si svolge la migrazione, del contesto economico, sociale, politico e di cultura giuridica in cui il fenomeno viene inquadrato.
La Convenzione del 1951 relativa allo status dei rifugiati, così come modificata dal suo Protocollo del 1967, dispone che il termine di “rifugiato” è applicabile: «a chiunque, nel giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato; oppure a chiunque, essendo apolide e trovandosi fuori dei suo Stato di domicilio, non può o, per il timore sopra indicato, non vuole ritornarvi».
Il riconoscimento dello status di rifugiato ha mero valore dichiarativo. La protezione si applica infatti dal momento in cui l’individuo che la richiede e che soddisfa i criteri posti dall’art. 1 si trova sul territorio o sotto la giurisdizione di uno Stato terzo. L’individuo non diventa un rifugiato perché formalmente riconosciuto tale, ma è riconosciuto tale perché è un rifugiato.
Una parte della dottrina suggerisce l’estensione della protezione garantita dalla Convenzione di Ginevra alle vittime di violazioni gravi e generalizzate dei diritti dell’uomo, senza che tali violazioni siano perpetrate per motivi politici, religiosi, razziali, di nazionalità o di appartenenza ad un determinato gruppo sociale. Tale ipotesi si scontra col requisito della persecuzione, elemento centrale della definizione convenzionale, e non può quindi rientrare nell’ambito di applicazione della Convenzione di Ginevra. Le vittime di violazioni gravi dei diritti dell’uomo si inseriscono in altri sistemi di protezione internazionale, come i cosiddetti “profughi”.
La migrazione dei profughi, anche detti “sfollati”, non è la conseguenza di una persecuzione, individuale o collettiva, ma è stata provocata da eventi svoltisi nel proprio paese d’origine o di residenza abituale la cui gravità ha generato la necessità di cercare protezione in un altro paese. Tali avvenimenti possono essere di varia natura: il cambiamento violento del regime al governo o il venire meno di una qualsiasi forma di governo; lo scoppio di un conflitto armato di natura interna o internazionale; la presenza di forze ribelli su di una determinata porzione di territorio. L’elemento comune di tali situazioni risiede nel fatto che lo Stato d’origine o di residenza abituale non garantisce più protezione alla propria popolazione o a parte di essa, indipendentemente dal fatto che vi sia un ruolo attivo o una volontà da parte dello Stato stesso.
Nella risoluzione 2958 (XXVII) del 1972, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite fece per la prima volta riferimento in modo esplicito alla categoria “profughi”, anche se in relazione ad un gruppo specifico, quello dei profughi sudanesi, e pertanto non costituiva un riconoscimento dell’intera categoria. Nel 1975, con risoluzione 3455(XXX), l’Assemblea Generale si espresse in termini più generici affermando, nel preambolo, «the eminently humanitarian character of the activities of the High Commissioner for the benefit of refugees and displaced persons» (corsici aggiunti). L’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (ACNUR) ha quindi assunto il ruolo di garante di una protezione minima per le persone non rientranti nella definizione convenzionale di rifugiato, ma che necessitano un’altra forma di protezione internazionale per motivi umanitari.
A differenza delle sopra indicate categorie protette, i cd. migranti economici, ossia coloro che migrano per ragioni per lo più di natura economica, al fine di trovare un lavoro e delle condizioni di vita migliori, non costituiscono una categoria giuridica autonoma e, conseguentemente, non sono sottoposti a un regime ad hoc. Essi godono però di una tutela generale nell’ambito dei diritti fondamentali e di una tutela specifica quando rientrano nella definizione di “migrante lavoratore”.
Oltre ai diritti fondamentali quali il sopra analizzato diritto di emigrare, il diritto alla vita, il diritto a non essere sottoposti a tortura o trattamenti inumani e degradanti, il migrante economico, anche in situazione irregolare, gode del diritto alla vita familiare. Tale diritto è garantito a livello internazionale da vari strumenti: art. 16 della DUDI, all’art. 8 CEDU, agli art. 17 e 23 del Patto delle Nazioni Unite sui diritti civili e politici e all’art. 10 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo.
I lavoratori migranti regolari o irregolari sono inoltre oggetto della Convenzione ILO n. 143 del 1975 (C143) la quale impone agli Stati di «rispettare i diritti fondamentali dell’uomo di tutti i lavoratori migranti» (art. 1, corsivo aggiunto). Il termine “tutti” è comprensivo dei lavoratori migranti irregolari i quali godono degli stessi diritti disposti dalla Convenzione per i lavoratori migranti regolari, ossia l’accesso all’assistenza sanitaria, la tutela della famiglia, le stesse condizioni relative alla remunerazione, il diritto di residenza regolare per fini lavorativi ecc. Il migrante irregolare non gode invece della protezione offerta dalla Convenzione ILO n. 97 del 1949 (C97) che regolamenta le condizione di reclutamento della manodopera straniera e si applica quindi unicamente ai lavoratori migranti regolarmente presenti sul territorio dello Stato in cui svolgono l’attività lavorativa.
Nel 1990 venne adottata la International Convention on the Protection of the Rights of All Migrant Workers and Members of Their Families. Questa convenzione garantisce la protezione di tutti i lavoratori migranti, indipendentemente dal loro status nel paese in cui svolgono l’attività lavorativa. Sono inclusi degli obblighi di collaborazione volti a prevenire ed eliminare l’immigrazione irregolare, in particolare tramite l’adozione nel proprio ordinamento di sanzioni nei confronti dei trafficanti, contrabbandieri e datori di lavoro che sfruttano l’immigrazione irregolare (art. 68, par. 1). La protezione garantita dalla Convenzione ai lavoratori migranti irregolari vuole essere uno strumento per la lotta contro l’immigrazione irregolare, ma è causa di reticenza a ratificare la Convenzione da parte dei paesi di destinazione dei flussi migratori. Essi invocano spesso il fatto che la Convenzione, tutelando i diritti dei lavoratori irregolari, incentiva l’immigrazione irregolare.
La relazione tra migrazioni e ambiente esiste da sempre. Gli uomini hanno sempre migrato in cerca di migliori condizioni di vita le quali sono strettamente legate all’ambiente, ossia alla presenza di risorse e di condizioni adattate per la vita umana. Il verificarsi di calamità naturali e il deterioramento dell’ambiente, siano essi fenomeni connessi ai cambiamenti climatici o meno, hanno sollevato la questione del trattamento, e pertanto del regime giuridico, delle popolazioni indotte a migrare in conseguenza di detti fenomeni. La dottrina e alcune istituzioni internazionali discutono circa l’emergenza di una nuova categoria di migranti avente titolo ad una protezione internazionale, ossia i cd. “profughi ambientali”. L’espressione usata per designare questa nuova categoria è essa stessa oggetto di dibattito e diciture diverse vengono infatti impiegate nella letteratura specializzata.
La letteratura specializzata utilizza per lo più l’espressione “rifugiato ecologico”; altri preferiscono l’espressione “rifugiato climatico” o “rifugiato ambientale”. L’impiego del termine “rifugiato” non è però del tutto condivisibile. L’ACNUR e l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM) rifiutano l’utilizzo di tale termine e già nel 1996 impiegarono invece l’espressione «environmentally displaced persons». L’OIM, in particolare, si riferisce ai migranti ambientali (environmental migrants).
Dalle sopra citate definizioni, emergono tre categorie di profughi ambientali: coloro cacciati provvisoriamente a causa di una catastrofe naturale, quale un terremoto, un ciclone, un’inondazione, o di un incidente industriale; coloro espulsi definitivamente a causa della realizzazione di grandi opere, quali la costruzione di una diga o per l’insorgere di fenomeni permanenti, quali l’innalzamento del livello del mare o la desertificazione; e coloro obbligati a migrare, provvisoriamente o definitivamente, in quanto le risorse del loro ambiente abituali non possono più garantire il soddisfacimento dei loro bisogni essenziali.
L’elemento centrale per inquadrare questa nuova categoria risiede quindi nell’ambiente, o situazione ambientale, che rappresenta la causa principale della migrazione. Le circostanze ambientali sono però difficilmente l’unica causa della migrazione in quanto l’impatto della catastrofe naturale o industriale sarà diverso a seconda del contesto sociale ed economico in cui avviene. Questo fa sì che la categoria rimanga difficile da identificare al fine di garantirne una protezione effettiva.
La globalizzazione e l’interdipendenza degli Stati ha messo in evidenza, alla fine del secolo scorso, che la gestione dell’immigrazione al livello nazionale risulta inefficiente ed è emersa la necessità di una politica integrata al livello sovrannazionale. La cooperazione tra gli Stati in materia di gestione dei flussi migratori è però volta per lo più all’organizzazione di meccanismi di contrasto a livello regionale o bilaterale. Questa tendenza si riflette nell’assenza di un quadro normativo di riferimento.
Tale lacuna ha portato alla creazione nel 2003 della Global Commission on International Migration (GCIM), ad iniziativa del Segretario Generale delle Nazioni Unite. Composta da diciannove commissari indipendenti, aveva il compito di fornire il quadro per l’elaborazione di una politica adeguata alla gestione dell’immigrazione nell’era globale. Il risultato finale consiste in un rapporto, presentato dalla GCIM al Segretario Generale e agli Stati membri nell’ottobre 2005. In questo documento, relativamente alla protezione di cui tutti i migranti dovrebbero godere, la GCIM afferma che:
«24. States must protect the rights of migrants by strengthening the normative human rights framework affecting international migrants and by ensuring that its provisions are applied in a non-discriminatory manner.
25. All states must ensure that the principle of state responsibility to protect those on their territory is put into practice, so as to reduce the pressures that induce people to migrate, protect migrants who are in transit and safeguard the human rights of those in destination countries».
Da quanto sopra, si può desumere l’esistenza di un “nocciolo duro” di diritti che devono essere garanti a qualsiasi migrante, anche non rientrante in una delle categorie internazionalmente protette. Questo è stato ribadito dal Global Migration Group (GMG) che ha stilato un elenco dei diritti ricompresi in questo nocciolo duro, tra cui: il diritto alla vita, alla libertà e sicurezza, di chiedere asilo, a un equo processo; il divieto di ogni forma di discriminazione, di abuso e sfruttamento, di schiavitù; il diritto alla protezione dei propri diritti economici, sociali e culturali, incluso il diritto alla salute e all’educazione. Il GMG altresì afferma che il rispetto di tali diritti non è solo la conseguenza giuridica dell’esistenza degli obblighi, ma è una questione di interesse pubblico strettamente correlata allo sviluppo umano.
Gli sforzi compiuti all’interno delle Nazioni Unite al fine di promuovere un approccio globale alle migrazioni internazionale risponde non solo al bisogno di garantire una protezione più effettiva ai migranti in base agli obblighi internazionali già esistenti, ma altresì al fine di promuovere una maggiore coerenza. Non solo il quadro normativo in materia di immigrazione risulta frammentato alla luce dell’esistenza di numerosi strumenti che regolamentano più o meno direttamente la materia, ma anche il quadro istituzionale include molteplici istituzioni che intervengono a livelli diversi di produzione normativa (nazionale, sovranazionale, internazionale, bilaterale, regionale, universale).
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