Illegalità della pena ed esecuzione penale
Il contributo delinea la linea di tendenza, oramai consolidata, in tema di apertura del giudicato penale, facendo sintesi, anche implicita, delle recenti applicazioni giurisprudenziali in tema di “rimozione” in executivis della pena illegale. Lo scenario che emerge segna un punto di non ritorno: il giudice dell’esecuzione, il relativo modulo procedimentale di intervento e la funzione di cui è titolare, rifuggono oramai da qualsivoglia logica ancillare e di “giurisdizione minore”, essendo la sede esecutiva il luogo elettivo per (ri)condurre ad equità ciò che oramai risulti iniquo poiché illegale alla stregua di una interpolazione disciplinare sopravvenuta ovvero dei dicta della Corte costituzionale e della C. eur dir. uomo.
L’apertura del giudicato penale sembra aver trovato nel codice vigente1, tra l’altro preceduto in parte qua dalle leggi sull’ordinamento penitenziario2, un esplicito punto di emersione3: in proposito, è sufficiente avere riguardo alla possibilità disciplinata dall’art. 671 c.p.p. di riconoscere in sede esecutiva la continuazione o il concorso formale tra reati giudicati separatamente, per comprendere quale sia l’effettivo stato di flessione del criterio dell’intangibilità4.
Infatti, la profilassi post rem iudicatam contro gli errori giudiziari s’è arricchita – tanto per via interpretativa, che per meditata opzione legislativa – di ulteriori opportunità5, che rappresentano, univocamente, il simbolo di una concezione “nuova” del rapporto tra Stato-giurisdizione e prerogative individuali, tenuto conto che ogni sistema processuale partecipa agli orientamenti che permeano l’ordinamento giuridico cui appartiene6.
In altri termini, la svalutazione del principio di tassatività delle impugnazioni vale quale passe-partout verso la giustizia della decisione7, mentre l’accentuata relatività dell’irretrattabilità dell’accertamento contenuto nel provvedimento non più impugnabile, costituisce eco di un ordinamento che delinea mezzi e rimedi processuali tesi a rimuovere le pronunzie che non facciano giusta applicazione del diritto obiettivo8.
Ciò posto, vanno prevenuti difetti di comprensione, che sono sempre forieri di disorientamenti interpretativi: infatti, se l’autorità della cosa giudicata è tendenzialmente a favore dell’imputato – che trova nell’art. 649 c.p.p. protezione da ogni possibilità di essere sottoposto a nuovo giudizio per lo stesso fatto – il giudicato non è comunque titolo inflessibile9, posto che va incrinato ogniqualvolta il buon diritto dell’individuo risulti pregiudicato da una concezione assolutamente formalistica dello stesso.
Sennonché, l’ordinamento processuale positivo, che ha superato da tempo, in punto di pena, il principio dell’intangibilità del giudicato «quanto meno nel suo aspetto di dogma assoluto ed indiscutibile»10, è tuttora “indisponibile” a rivisitazioni generalizzate in ordine all’accertamento del fatto tipico, alla sua antigiuridicità penale ed alla colpevolezza del reo, tanto che al giudice dell’esecuzione deve ritenersi ancora preclusa ogni valutazione in ordine ai profili suddetti, a fronte di una tendenza applicativa, consolidatasi, che individua la sede esecutiva come “luogo” privilegiato per rimuovere la sanzione illegale11.
Il carattere recessivo del giudicato, che ne giustifica l’apertura a tutela dei diritti di libertà individuale12, rappresenta la replica teorica ed operativa alla pretesa intangibilità del giudicato penale13, ogniqualvolta esso costituisca la “matrice” di trattamenti discriminatori per il condannato. Infatti, se garanzia è espressione del lessico giuridico che individua qualsiasi tecnica normativa di tutela di un diritto soggettivo e se il garantismo penale designa le “pratiche procedurali” concepite ed implementate a protezione dei diritti di libertà contro interventi arbitrari di tipo poliziesco e giudiziario, allora il “giudicato aperto” rientra nel novero delle garanzie processuali a valere in executivis, che differenziano il diritto ed il sistema penale dai sistemi punitivi più sbrigativi di tipo informale14.
Stando così le cose, la “recessione” del giudicato costituisce una profilassi che va “somministrata” avverso la punizione ingiusta, non solo a fronte di un vizio genetico da cui risulti “affetto” il dictum irrevocabile, ma anche di una sopravvenienza che “metta in chiaro” l’illegalità del trattamento sanzionatorio in corso di esecuzione15.
Pertanto, ove si consideri che garantismo non significa formalismo, ma congrua protezione dei diritti fondamentali, non è revocabile in dubbio che la firmitas del giudicato, che rispecchia comunque un’esigenza di natura politica16, debba cedere il passo dinanzi al diritto alla libertà personale, se sussistano determinate condizioni che ne rendano ab imis ingiustificata, ovvero sproporzionata, la perdurante compressione e che il carattere recessivo del giudicato penale rientri nel novero delle garanzie utili ad evitare l’esecuzione di una punizione ingiusta, al pari dei princìpi di giurisdizionalità, di quello accusatorio, dell’onere della prova e del contraddittorio per la prova17.
Il codice di rito del 1988, recependo le indicazioni provenienti dalla legge di delegazione legislativa (il riferimento è alle direttive n. 96 e n. 98), ha individuato una serie di interventi, di competenza del giudice dell’esecuzione, che consentono la modificazione sostanziale della pena inflitta al condannato, descrivendo la “cassetta degli attrezzi” al cui interno si rinvengono gli strumenti giuridici processuali che consentono, in concreto, l’apertura del giudicato ovvero la sua rescissione in sede esecutiva18.
Stando così le cose, per ciò che concerne la topografia codicistica, è il titolo III, rubricato «Attribuzione degli organi giurisdizionali», del X libro del codice di procedura penale (artt. 665676 c.p.p.) ad individuare una nutrita serie di poteri del giudice dell’esecuzione (più o meno incidenti sul giudicato)19, che descrivono un quadro di insieme che si presenta, al contempo, «composito ed eterogeneo»20.
Si ha riguardo ai poteri riconosciuti al giudice titolare della funzione giurisdizionale esecutiva – rispettivamente – di carattere selettivo (art. 669 c.p.p.), sospensivo (art. 670 c.p.p.), ricostruttivo (art. 671 c.p.p., 188 disp. att. c.p.p.), modificativo (artt. 672, 676 c.p.p.), risolutivo (art. 673 c.p.p.), complementare e supplente (artt. 674, 675 c.p.p.) e di conversione (art. 2, co. 3, c.p. in relazione all’art. 670 c.p.p.).
Per l’effetto, è oramai superato ex lege il ruolo ancillare tradizionalmente riconosciuto alla fase esecutiva, che è paradigmatica di un momento di verifica giurisdizionale21 che si pone, al contempo, in termini di complementarietà rispetto al giudizio di cognizione e di completamento, sotto il profilo funzionale, del sistema processuale penale22.
Il rilievo dell’analisi degli interventi “demandati” al giudice dell’esecuzione per (ri)condurre ad equità ciò che oramai risulti iniquo poiché illegale, alla stregua, per l’appunto, di una interpolazione disciplinare sopravvenuta al passaggio in giudicato della sentenza ovvero dei dicta della Corte costituzionale e della C. eur. dir. uomo, sta proprio nella specifica tendenza, oramai invalsa, all’apertura del giudicato.
La riscontrata tendenza verso la progressiva erosione dell’intangibilità del giudicato ha avuto una accelerazione ulteriore a fronte della necessità di dare esecuzione all’obbligo di ripristinare i diritti del condannato, una volta accertatane la lesione per effetto della violazione delle norme della CEDU23: infatti, in numerosi casi s’è ravvisata la necessità di adeguare le pronunce dei giudici nazionali alle norme della succitata Carta internazionale dei diritti, nell’interpretazione ad esse data dalla C. eur. dir. uomo24, tanto che il superamento del principio della intangibilità del giudicato è avvenuto anche al di fuori delle ipotesi previste dal codice di rito penale.
È indicativa della segnalata tendenza la sentenza additiva di principio n. 113/2011 della Corte costituzionale, che ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 630 c.p.p. – rubricato «Casi di revisione» – nella parte in cui non prevede una diversa ipotesi di revisione della sentenza o del decreto penale di condanna al fine di conseguire la riapertura del processo, per conformarsi ad una sentenza definitiva della C. eur. dir. uomo25.
In proposito, va individuata la fonte dell’obbligo di adeguamento dell’ordinamento interno alle pronunce della C. eur. dir. uomo e delineato, anche alla stregua di recenti applicazioni giurisprudenziali, un “breviario operativo” che individui le diverse ipotesi di incidenza delle decisioni della C. eur. dir. uomo sul giudicato interno ed i rimedi processuali azionabili al fine di assecondare l’acquis conformativo.
Sotto il primo aspetto, costituisce punto di riferimento non prescindibile l’art. 46, par. 1, CEDU, che impegna gli Stati contraenti «a conformarsi alle sentenze definitive della Corte sulle controversie nelle quali sono parte»; di contro, i paragrafi ulteriori della medesima disposizione (dal 2 al 5) regolano le competenze del Comitato dei ministri e della stessa Corte nell’esercizio dell’attività di controllo sull’esecuzione delle sentenze da parte degli Stati responsabili delle violazioni della Convenzione medesima26. A ciò si aggiunga che l’art. 46 CEDU – che deve essere letto per correlazione logica con l’art. 41 CEDU – alla cui stregua «se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli e se il diritto interno dell’Alta parte contraente non permette che in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa»27.
Sennonché, è oramai consolidato il principio secondo cui quando la Corte constata una violazione, lo Stato convenuto ha l’obbligo giuridico, non solo di versare agli interessati le somme attribuite a titolo di equa soddisfazione previste dall’articolo 41 CEDU, «ma anche di adottare le misure generali e/o, se del caso, individuali necessarie»28. Infatti, se le somme assegnate a titolo di equo indennizzo ex art. 41 CEDU assolvono ad una funzione risarcitoria rispetto ai danni patiti dagli interessati, nella misura in cui essi costituiscano una conseguenza della violazione che non può in ogni caso essere cancellata29, invece, le misure individuali che lo Stato convenuto è chiamato ad adottare tendono alla restitutio in integrum della situazione della vittima, posto che devono porre «il ricorrente, per quanto possibile, in una situazione equivalente a quella in cui si troverebbe se non vi fosse stata una inosservanza delle esigenze della Convenzione», dato che «una sentenza che constata una violazione comporta per lo Stato convenuto l’obbligo giuridico ai sensi dell’articolo 46 della Convenzione di porre fine alla violazione e di eliminarne le conseguenze in modo da ristabilire per quanto possibile la situazione anteriore a quest’ultima»30. Al riguardo, s’è sottolineato che lo Stato “soccombente” deve anche rimuovere gli impedimenti che si frappongono, nella legislazione nazionale, al raggiungimento dell’obiettivo: infatti, ratificando la Convenzione, gli Stati contraenti si impegnano a far sì che il loro diritto interno sia compatibile con quest’ultima31.
Sotto il secondo aspetto, v’è una casistica essenziale desumibile dall’attività interpretativa della C. eur. dir. uomo: infatti, i rimedi giuridici processuali attivabili nell’ordinamento interno – in prospettiva di adeguamento rispetto ad un dictum della medesima Corte che abbia accertato la lesione di una “guarentigia” individuale consumatasi in un procedimento giudiziario – vanno individuati in funzione del “tipo” di violazione che s’è accertata.
Qualora l’accoglimento, ad opera della C. eur. dir. uomo, della questione sollevata presuppone l’individuazione di un profilo di iniquità del procedimento penale di cognizione – che imponga un nuovo accertamento di merito e, per conseguenza, la riapertura del processo – allora il meccanismo procedurale da attivare coinciderà con la cd. revisione europea; invece, se l’esecuzione della pronuncia della C. eur. dir. uomo implichi, in esclusiva, un’attività eminentemente ricognitiva, nel senso che si dovrà incidere simpliciter sul titolo esecutivo per sostituire la pena inflitta con quella conforme alla CEDU, già determinata dalla legge nella specie e nella misura, allora il meccanismo procedurale da utilizzare dovrà individuarsi nell’incidente di esecuzione.
Sotto il primo profilo, la revisione ha subìto, a seguito della succitata sentenza della Corte costituzionale, una mutazione sul piano funzionale32: infatti, lo specifico mezzo straordinario di impugnazione non tende più, in esclusiva, ad una pronuncia di proscioglimento, ma può essere utilmente impiegato anche per ottenere la riapertura del processo, quando ciò risulti necessario per conformarsi ad una sentenza (definitiva) della C. eur. dir. uomo ai sensi dell’art. 46, par. 1, CEDU. Al riguardo, va detto che l’emersione della specifica “problematica” è derivata dall’assenza – nel sistema processuale penale – di un rimedio processuale ad hoc destinato ad attuare l’obbligo dello Stato di conformarsi, anche attraverso una eventuale rinnovazione del processo, alle “conferenti” sentenze definitive della C. eur. dir. uomo, qualora sia stata accertata la violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli, secondo quanto prevede l’art. 46 della stessa Convenzione, nel testo modificato ad opera dell’art. 16 del Protocollo n. 14, ratificato con la l. 15.12.2005, n. 280.
Pertanto, è in tale ambito interpretativo che si collocano le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Corte di appello di Bologna: dapprima, dell’art. 630, co. 1, lett. a), c.p.p. – in riferimento agli artt. 3, 10, e 27 Cost. – nella parte in cui esclude dai casi di revisione l’impossibilità di conciliare i fatti stabiliti a fondamento della sentenza (o del decreto penale di condanna) con la decisione della C. eur. dir. uomo che abbia accertato l’assenza di equità del processo ai sensi dell’art. 6 CEDU33; poi, dell’art. 630 c.p.p., in riferimento all’art. 117, co. 1, Cost. e all’art. 46 della medesima Convenzione, nella parte in cui non prevede la rinnovazione del processo allorché la sentenza o il decreto penale di condanna risultino in contrasto con la sentenza definitiva della C. eur. dir. uomo che abbia accertato l’iniquità del processo ai sensi dell’art. 6 CEDU34.
Sennonché, il rilievo di incostituzionalità è stato inizialmente dichiarato infondato – nonostante la rilevanza della questione sollevata35 – anche in considerazione della circostanza che «nella logica codicistica... il concetto di inconciliabilità fra sentenze irrevocabili», evocato dall’art. 630, co. 1, lett. a), c.p.p., «non può essere inteso in termini di contraddittorietà logica tra le valutazioni effettuate nelle due decisioni»: infatti, «tale concetto deve, invece, essere inteso in termini di oggettiva incompatibilità tra i “fatti” (ineludibilmente apprezzati nella loro dimensione storico-naturalistica) su cui si fondano le diverse sentenze»; successivamente, invece, la Corte costituzionale, investita della questione di legittimità costituzionale dell’art. 630 c.p.p. – e non, quindi, della sola lett. a) del medesimo articolo – secondo una prospettiva interpretativa diversa rispetto a quella già ritenuta infondata, stante la maggiore ampiezza dell’oggetto della questione di costituzionalità deferita e la diversità dei parametri di riferimento (l’art. 117, co. 1, Cost. e l’art. 46 CEDU e non, quindi, gli artt. 3, 10, 27 Cost.) – ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 630 c.p.p., considerata la maggiore ampiezza dell’oggetto della questione di costituzionalità deferita e la diversità dei parametri di riferimento (l’art. 117, co. 1, Cost. e l’art. 46 CEDU e non, quindi, gli artt. 3, 10, 27 Cost.). Infatti, secondo la Corte, l’art. 630 c.p.p. è costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non ha contemplato un “diverso” caso di revisione, rispetto a quelli espressamente regolati, che consentisse – per il giudizio definito con una delle pronunce indicate nell’art. 629 c.p.p. – la riapertura del processo, funzionale anche alla rinnovazione di attività processuali già espletate e, se del caso, del giudizio, ove necessaria, ai sensi dell’art. 46, par. 1, CEDU, per conformarsi ad una sentenza definitiva della C. eur. dir. uomo.
In tema, va comunque detto che le cadenze rituali della cd. revisione europea si presentano singolari rispetto a quelle ordinarie che caratterizzano, invece, la presentazione di una domanda di revisione ex art. 630 c.p.p.: infatti, lo specifico rimedio – a differenza della cd. revisione ordinaria – dà luogo ad una sorta di restitutio in integrum ove si consideri che l’interessato deve essere posto nelle medesime condizioni in cui si sarebbe trovato in assenza della violazione convenzionale accertata, tanto che se si fosse ravvisata – a mero titolo di esempio – una lesione del contraddittorio, nel processo ritenuto iniquo, la violazione così perpetrata deve essere “corretta” nel giudizio rinnovato36.
Per conseguenza, alla cd. revisione europea dovranno «ritenersi inapplicabili le disposizioni che appaiano inconciliabili, sul piano logico-giuridico, con l’obiettivo perseguito» e «prime fra tutte ... quelle che riflettono la tradizionale preordinazione del giudizio di revisione al solo proscioglimento del condannato»; inoltre, rispetto ad essa, rimarrà inoperante la condizione di ammissibilità, basata sulla prognosi assolutoria, indicata dall’art. 631 c.p.p.; a ciò si aggiunga che ad essa dovranno ritenersi inapplicabili – nei congrui casi – le previsioni dell’art. 637, co. 2 e 3, c.p.p. secondo cui, rispettivamente, l’accoglimento della richiesta di revisione comporta senz’altro il proscioglimento dell’interessato ed il giudice non lo può pronunciare esclusivamente sulla base di una diversa valutazione delle prove assunte nel precedente giudizio37.
Per conseguenza, la riapertura del processo, determinata da una decisione della C. eur. dir. uomo che abbia sancito l’iniquità della relativa procedura, «comporta, nella sostanza, una deroga – imposta dall’esigenza di rispetto di obblighi internazionali – al ... principio per cui i vizi processuali restano coperti dal giudicato» – tanto che «il giudice della revisione valuterà anche come le cause della non equità del processo rilevate dalla Corte europea si debbano tradurre, appunto, in vizi degli atti processuali alla stregua del diritto interno, adottando nel nuovo giudizio tutti i conseguenti provvedimenti per eliminarli»38.
Sotto il secondo profilo (id est, individuazione ad opera della C. eur. dir. uomo di un profilo di illegalità della pena inflitta all’esito del procedimento penale di cognizione, che imponga la “mera” sostituzione della pena inflitta con quella convenzionalmente conforme), è oramai ius receputm che possa essere utilmente introdotto il procedimento di esecuzione e, quindi, impiegato il rimedio processuale dell’incidente di esecuzione: infatti, il giudice individuato ex art. 665 c.p.p. non si limita a conoscere le questioni sulla validità ed efficacia del titolo esecutivo, ma ha anche competenza funzionale ad incidere su di esso (artt. 669, 670, 671, 672, 673, 674, 675, 676 c.p.p.).
Per l’effetto, non è percorribile, nell’ipotesi de qua, il procedimento di revisione ex art. 630 c.p.p., così come integrato dalla sentenza additiva di principio n. 113/2011 della Corte costituzionale, non essendo necessaria una “riapertura del processo” al fine precipuo di consentire la celebrazione di un nuovo giudizio di cognizione sul merito della vicenda; inoltre, nel caso di specie, non è “spendibile” neppure il ricorso straordinario ex art. 625 bis c.p.p., ove si consideri che lo specifico rimedio, concepito per rimuovere le conseguenze pregiudizievoli derivanti da errori di fatto contenuti in provvedimenti pronunciati dalla Corte di cassazione, è inidoneo strutturalmente ad intervenire in casi non contraddistinti da violazioni verificatesi nell’ambito del giudizio di legittimità39.
D’altronde, ad una conclusione analoga bisogna pervenire rispetto all’impiego dell’istituto della restituzione in termini per la proposizione dell’impugnazione (art. 175, co. 2, c.p.p. vecchia formulazione), che è oramai residuale, considerato che si tratta di un meccanismo che è utilizzabile, in esclusiva, per rimediare alle violazioni della CEDU collegate alla disciplina del processo contumaciale: infatti, a seguito dell’introduzione dell’istituto della rescissione del giudicato ad opera della l. 28.4.2014, n. 67 e della modifica sostitutiva del secondo comma dell’art. 175 c.p.p., continua ad applicarsi la disciplina della restituzione nel termine per proporre l’impugnazione apparentemente tardiva dettata dall’art. 175, co. 2, c.p.p. nel testo previgente, solo ai procedimenti contumaciali trattati secondo la normativa antecedente alla entrata in vigore della l. n. 67/201440.
L’abbandono della concezione tradizionale del giudicato e l’opzione doverosa in favore delle esigenze di giustizia, rispetto a quelle formali dell’intangibilità della res iudicata, impongono di delineare, anche alla stregua delle più recenti indicazioni promananti dal “diritto vivente”, i contenuti che connotano la funzione legalitaria esercitata dal giudice dell’esecuzione.
Infatti, l’esecuzione della pena implica l’esistenza di un rapporto esecutivo che nasce dal giudicato e si esaurisce soltanto con la consumazione o l’estinzione della pena: pertanto, fino a quando l’esecuzione della pena è in atto, il rapporto esecutivo non potrà ritenersi esaurito, tanto che bisogna comunque procedere alla rimozione della pena “illegale”.
Per conseguenza, se il giudice dell’esecuzione sia richiesto di scrutinare la legalità della pena ancora in corso di esecuzione, non potrà declinare la propria “investitura” sul presupposto che la decisione che ha inflitto la pena illegale sia oramai passata in giudicato, ma dovrà sostituirla, incidendo decisivamente sul giudicato41, facendo uso dei poteri di cui è titolare in ordine al controllo sulla permanente legittimità di essa42.
Quindi, la funzione giurisdizionale esecutiva – che compete al giudice individuato alla stregua dei criteri di cui all’art. 665 c.p.p. – persegue l’obiettivo di garantire la legalità della pena durante il rapporto esecutivo, tanto che al giudice dell’esecuzione compete, nel rispetto dei tipi procedimentali delineati dal codice di rito (artt. 666, 667, co. 4, c.p.p.), la riconduzione a legittimità della pena inflitta: infatti, le questioni concernenti l’illegalità della pena, qualora non siano state rilevabili, anche d’ufficio, nel corso del giudizio di cognizione, potranno pur sempre essere fatte valere dinanzi al giudice dell’esecuzione ex art. 666 c.p.p., essendo la sede esecutiva quella propria per il vaglio di tutti gli aspetti relativi all’esecuzione della pena e, quindi, anche all’eventuale incompatibilità della pena concretamente irrogata rispetto a quella – per tipologia e limiti edittali – applicabile alla fattispecie oggetto del giudizio43.
Sennonché, le indicazioni che si ricavano dal diritto positivo consentono di individuare alcune ipotesi di intervento del giudice dell’esecuzione sulla pena originariamente illegale ovvero che sia da considerare tale per “circostanze sopravvenute” e “canonizzano” altrettanti casi di flessione dell’intangibilità del giudicato.
Anzitutto – tanto nel caso di abrogatio cum abolitio criminis, che nell’ipotesi di dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice – è prevista la revoca della sentenza di condanna (art. 673 c.p.p.) e ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali (art. 2, co. 2, c.p.).
Inoltre, l’art. 30, co. 4, l. 11.3.1953, n. 87 – rubricato «Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale» – prevede una ipotesi ulteriore di apertura del giudicato: infatti, non solo le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione della Corte costituzionale, ma anche cessano l’esecuzione e tutti gli effetti penali della sentenza irrevocabile di condanna, quando essa sia stata pronunciata, per l’appunto, in applicazione di una norma penale non incriminatrice dichiarata incostituzionale44.
Si aggiunga, poi, che l’art. 2, co. 3, c.p. – che è stato inserito dall’art. 14, l. 24.2.2006, n. 85 – prevede che la pena detentiva inflitta con condanna irrevocabile debba essere convertita immediatamente nella corrispondente pena pecuniaria, qualora la legge posteriore preveda esclusivamente quest’ultima: a tacere d’altro, la previsione de qua ha valenza derogatoria rispetto ai contenuti del comma quarto dell’art. 2 c.p., che individua nel giudicato il limite all’operatività della disciplina più favorevole.
Al riguardo, va detto che alla succitata ipotesi di conversione della pena detentiva nella corrispondente pena pecuniaria ai sensi dell’art. 135 c.p. può essere “equiparato”, in via analogica, il novum che sia dettato dalla C. eur. dir. uomo in tema di legalità convenzionale della pena45, nonostante i diversi effetti prodotti nell’ordinamento dalla lex mitior sopravvenuta che sia più favorevole rispetto a quelli derivanti da una sentenza della Corte di Strasburgo46, alla quale consegua la declaratoria di incostituzionalità della relativa normativa interna47: infatti, nonostante il giudicato, in entrambi i casi debbono cessare gli effetti negativi derivanti dall’esecuzione di una pena “rivelatasi” contra legem, la cui legittimità deve essere garantita anche in executivis, fase in cui la sanzione concretamente adempie alla sua funzione rieducativa.
Ed ecco il punto. La firmitas del giudicato – seppur accanto alle succitate ipotesi di apertura – resiste ancora a modificazioni normative favorevoli al reo, che conseguano ad una valutazione diversa del disvalore del fatto48; in particolare, la specifica linea guida di indifferenza allo ius superveniens – la cui matrice sta nell’art. 2, co. 4, c.p. – conosce solo la succitata deroga posta dall’art. 2, co. 3, c.p.; per ogni altro caso, invece, vale il criterio generale d’impermeabilità del giudicato all’applicazione retroattiva della legge penale nel caso di sopravvenuta modifica in senso favorevole al reo.
La consolidata condizione evolutiva del giudicato richiama la congrua protezione dei valori fondamentali della civiltà giuridica che implica, anzitutto, il divieto di introdurre ingiustificate disparità di trattamento ed, al contempo, la tutela dell’affidamento che è connaturato allo Stato e la coerenza dell’ordinamento giuridico49.
Per l’effetto, fermo restando l’indiscutibile rilievo che va ascritto al “fattore tempo” nelle questioni giudiziarie, perlomeno quale momento di cristallizzazione delle “regole del gioco”, sembrano oramai sussistenti le condizioni per tradurre, in cogente fattispecie disciplinare, un regime rinnovato di incidenza, sul giudicato penale, della lex mitior, in modo che sia emendata significativamente la “clausola di impermeabilità” posta dall’art. 2, co. 4, c.p.
A tacere d’altro, la cifra della specifica questione che si impone e, quindi, va risolta, sta nel bisogno oramai indifferibile di scongiurare che un’esigenza eminentemente pratica possa incidere in maniera così decisiva su una prospettiva di libertà individuale, qualora essa risulti “consacrata” in una rivalutazione legislativa della fattispecie sanzionatoria e, quindi, del modello punitivo del caso50.
Note
1 Sul giudicato, in particolare, v. Mancuso, E.M., Il giudicato nel processo penale, Milano, 2012, passim; Callari, F., La firmitas del giudicato penale: essenza e limiti, Milano, 2009, passim; Vigoni, D., Relatività del giudicato ed esecuzione della pena detentiva, Milano, 2009, passim.
2 Il riferimento è alla l. 26.7.1975, n. 354, rubricata «Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà», alla cui stregua il giudicato va ritenuto intangibile solo «nel senso che non può mai aumentarsi l’afflittività implicita della pena stabilita nella sentenza di condanna» (C. cost., 17.5.1989, n. 282), mentre l’esecuzione della pena rimane flessibile in favorem rei. In tema, Cass. pen., S.U., 27.11.2014, n. 6240, in CED rv. n. 262327, Basile, secondo «La sacralità del giudicato, come affermata nel passato, comportava necessariamente una marginalizzazione della fase esecutiva, volta unicamente a dare attuazione alla sentenza e priva di ogni connotazione giurisdizionale. È solo con l’entrata in vigore della Carta costituzionale che si dà inizio alla giurisdizionalizzazione della fase esecutiva con il riconoscimento del diritto al contraddittorio e della ricorribilità per cassazione dei provvedimenti. Il grimaldello, per così dire, fu rappresentato dall’art. 27 Cost. e dal principio in esso affermato della finalità rieducativa della pena. Il processo di erosione dell’intangibilità del giudicato fu, però, lento e di non facile attuazione».
3 Sul significato della formula convenzionale “giudicato aperto”, v. Leone, G., Il mito del giudicato, in Riv. dir. proc. pen. 1956, p. 168 ss. Più di recente, v. Corbo, A., I complessi rapporti tra legge penale e giudicato, in Cass. pen. 2015, Supplemento 4, p. 28; Canzio, G., La giurisdizione e la esecuzione della pena, in www.penalecontemporaneo.it, 4 nonché, volendo, Ranaldi, G., Esecuzione penale, a cura di A. Gaito e G. Ranaldi, Milano, 2016, pp. 16 ss.
4 Cass. pen., S.U., 14.10.2014, n. 42858, in CED rv. n. 260695, Gatto, alla cui stregua, «successivamente a una sentenza irrevocabile di condanna, la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma penale diversa dalla norma incriminatrice, idonea a mitigare il trattamento sanzionatorio, comporta la rideterminazione della pena, che non sia interamente espiata, da parte del giudice dell’esecuzione»; in particolare, «per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 251 del 2012, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, c.p. nella parte in cui vietava di valutare prevalente la circostanza attenuante di cui all’art. 73, comma 5. d.p.r. 9 ottobre 1990, n. 309, sulla recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, c.p. e in applicazione dell’art. 30, quarto comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, il giudice dell’esecuzione potrà affermare la prevalenze della circostanza attenuante, sempreché una simile valutazione non sia stata esclusa nel merito dal giudice della cognizione, secondo quanto risulta dal testo della sentenza irrevocabile»; in tale ipotesi, «è compito del pubblico ministero, ai sensi degli artt. 655, 656 e 666 c.p.p. di richiedere al giudice dell’esecuzione l’eventuale rideterminazione della pena inflitta all’esito del nuovo giudizio di comparazione».
5 Rispetto all’impostazione originaria del Codice Vassalli, si ha riguardo a due ulteriori mezzi straordinari di impugnazione: il ricorso straordinario per errore materiale e di fatto ex art. 625 bis c.p.p. (introdotto dalla l. 26.8.2001, n. 128) e la rescissione del giudicato ex art. 625 ter c.p.p. (contemplata dalla l. 28.4.2014, n. 67). Il riferimento è anche al più ampio concetto di «prove nuove» in materia di revisione, delineato in sede giurisprudenziale (Cass. pen., S.U., 26.9.2001, n. 624, in CED rv. n. 220443, Pisano) ed alla cd. revisione europea (leggi – la riapertura dei processi penali, conclusi con la definitiva adozione di una sentenza di condanna o di un decreto penale, per i quali la C. eur. dir. uomo abbia sancito l’iniquità per contrasto con i dettami dell’art. 6 CEDU, ratificata e resa esecutiva con l. 4.8.1955, n. 848), introdotta per effetto di C. cost., 4.4.2011, n. 113, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 630 c.p.p., rubricato «Casi di revisione».
6 Normando, R., Il valore, gli effetti e l’efficacia del giudicato penale, in Trattato di procedura penale, diretto da G. Spangher, in Esecuzione e rapporti con autorità giurisdizionali straniere, VI, a cura di L. Kalb, Torino, 2009, p. 12. In tema, Damaska, M.R., I volti della giustizia e del potere, Bologna, 1991, p. 301; in prospettiva storica, v. Orestano, R., Appello (dir. romano), in Enc. dir., II, Milano, 1958, p. 708.
7 Gaito, A., Impugnazioni ed altri controlli: verso una decisione giusta, in, Le impugnazioni penali, a cura di A. Gaito, vol. I, p. 1 ss.
8 Tranchina, G., Impugnazione (dir. proc. pen.), in Enc. dir., XX, Milano, 1970, p. 700 ss. Sui tratti distintivi che caratterizzano la cosa giudicata penale e civile, v. Corbi, F.Nuzzo, F., Guida pratica all’esecuzione penale, Torino, 2003, p. 19.
9 In proposito, tra gli altri, v. Normando, R., Il sistema dei rimedi revocatori del giudicato penale, Torino, 1996, p. 84 ss.
10 Corbi, F., L’esecuzione nel processo penale, Torino, 1992, p. 311. Si ha riguardo alla possibilità di rimuovere gli “effetti limite” connessi al giudicato, in conseguenza dell’emersione di sopravvenienze dimostrative (prove nuove ovvero non valutate nel corso del giudizio), regolamentari (abolitio criminis ovvero declaratoria di illegittimità costituzionale di fattispecie incriminatrici e/o di elementi circostanziali che abbiamo inciso sul trattamento sanzionatorio ovvero ricognizione che il giudicato, quanto al trattamento sanzionatorio, sia fondato su norme nazionali violatrici della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali), della percezione di errori di fatto nella formazione del convincimento del Supremo Collegio ovvero della constatata invalida costituzione del rapporto processuale nel processo in absentia.
11 Carnelutti, F., Contro il giudicato penale, in Riv. dir. proc., 1951, I, p. 291.
12 C. cost., 3.7.2013, n. 210.
13 In proposito, Cass. pen., S.U., 14.10.2014, n. 42858, in CED rv. n. 260695, Gatto, secondo cui «La concezione tradizionale del giudicato ha dominato incontrastata per decenni nella giurisprudenza e nella cultura giuridica penalistica, influenzate dall’affermato ed egemone primato del potere statuale su qualsiasi diritto della persona; ha cominciato a essere posta in discussione con la proclamazione dei diritti fondamentali, che ha dato l’avvio ad una mutazione del fondamento e della stessa forza della cosa giudicata. La Costituzione della Repubblica e, successivamente, il nuovo codice di procedura penale hanno ridimensionato profondamente il significato totalizzante attribuito all’intangibilità del giudicato quale espressione della tradizionale concezione autoritaria dello Stato e ne hanno, per contro, rafforzato la valenza di garanzia individuale ... a differenza di quanto accade in materia civile, dove “l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato a ogni effetto di legge tra le parti, i loro eredi o aventi causa” (art. 2909 c.c.), con ciò assicurando certezza e stabilità dei rapporti patrimoniali in ambito penale la forza della cosa giudicata nasce certamente dall’ovvia necessità di certezza e stabilità giuridica e dalla stessa funzione del giudizio, volto a superare l’incertezza dell’ipotesi formulata dall’accusa a carico dell’imputato per pervenire, secondo le regole del giusto processo, ad un risultato che trasformi la res iudicanda in res iudicata, ma essa deriva soprattutto dall’esigenza di porre un limite all’intervento dello Stato nella sfera individuale e si esprime essenzialmente nel divieto di bis in idem, che assume nel vigente diritto processuale penale la portata e la valenza di principio generale (Sez. 6, n. 1892 del 18/11/2004, dep. 2005, Fontana, Rv. 230760; S.U., n. 34655 del 28/06/2005, Donati, Rv. 231799231800), impedendo la celebrazione di un nuovo processo per il medesimo fatto e imponendo al giudice di pronunciare in ogni stato e grado del processo sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere, se, nonostante tale divieto, viene di nuovo iniziato procedimento penale». Si veda, altresì, Cass. pen., S.U., 26.2.2015, n. 37107, in CED rv. n. 264857, Sonni, per la quale «la pena applicata con la sentenza di patteggiamento avente ad oggetto uno o più delitti previsti dall’art. 73 d.P.R. 309 del 1990, relativi alle droghe c.d. leggere, divenuta irrevocabile prima della sentenza n. 32 del 2014 della Corte Costituzionale, può essere rideterminata in sede di esecuzione in quanto pena illegale».
14 In tema, Ferrajoli, L., Il paradigma garantista, Napoli, 2014, p. 3.
15 Cass. pen., S.U., 24.10.2013, n. 18821, in CED rv. n. 258650, Ercolano.
16 Leone, G., Il mito del giudicato, cit., p. 175.
17 Ferrajoli, L. Il paradigma garantista, cit., p. 19.
18 Cass. pen., S.U., 27.11.2014, n. 6240, in CED rv. n. 262327, Basile, che ha affermato il principio per cui «l’applicazione di una pena accessoria extra o contra legem da parte del giudice della cognizione può essere rilevata, anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza, dal giudice dell’esecuzione, purché essa sia determinata per legge (o determinabile, senza alcuna discrezionalità) nella specie e nella durata, e non derivi da un errore valutativo del giudice della cognizione». Nello specifico, in motivazione, si legge che «il superamento del principio di intangibilità del giudicato ... ha trovato, sul piano normativo, significativo riconoscimento attraverso l’ampliamento, nel nuovo codice di procedura penale, dei poteri del giudice dell’esecuzione. Il codice abrogato si limitava a prevedere, una volta divenuta irrevocabile la sentenza, la declaratoria di estinzione del reato e della pena (art. 578), la revoca della sospensione condizionale della pena (art. 590), l’applicazione dell’amnistia e dell’indulto ai condannati (art. 593)». In proposito, v. Alesci, T., I poteri del giudice dell’esecuzione sulla determinazione della pena accessoria illegale: presupposti e limiti, in Proc. pen. giust. 2015, 4, p. 106.
19 Guardata, M., Sub art. 665 c.p.p., in Comm. c.p.p. Chiavario, Torino, 1991, VI, p. 520, secondo cui il capo I del titolo III del libro X del codice di rito, tratteggia le competenze del giudice dell’esecuzione attraverso una elencazione non esaustiva «in quanto, come espressamente affermato nell’art. 676, il giudice ha una competenza generale e residuale nella materia dell’esecuzione».
20 Vigoni, D., Giudicato ed esecuzione penale: confini normativi e frontiere giurisprudenziali, in Proc. pen. giust., 2015, 4, p. 6.
21 Cass. pen., S.U., n. 18821/2013, la quale evidenzia che «i margini di manovra che l’ordinamento processuale riconosce alla giurisdizione esecutiva sono molto ampi. I poteri di questa non sono circoscritti alla sola verifica della validità e dell’efficacia del titolo esecutivo, ma possono incidere, in vario modo, anche sul contenuto di esso, allorquando imprescindibili esigenze di giustizia, venute in evidenza dopo l’irrevocabilità della sentenza, lo esigano ... L’incidente di esecuzione disciplinato dall’art. 670 c.p.p., pur sorto per comporre i rapporti con l’impugnazione tardiva e la restituzione nel termine, implica necessariamente, al di là del dato letterale, un ampliamento dell’ambito dell’istituto, che è un mezzo per far valere tutte le questioni relative non solo alla mancanza o alla non esecutività del titolo, ma anche quelle che attengono alla eseguibilità e alla concreta attuazione del medesimo. Il genus delle doglianze da cui può essere investito il giudice degli incidenti ex art. 666 c.p.p., in sostanza, è molto ampio ed investe tutti quei vizi che, al di là delle specifiche previsione espresse, non potrebbero farsi valere altrimenti, considerata l’esigenza di garantire la permanente conformità a legge del fenomeno esecutivo».
22 Cass. pen., 24.6.1998, n. 10136, in CED rv. n. 211566, Ottaviano.
23 Gianniti, P., L’incidenza delle sentenze della Corte EDU sul sistema, in La CEDU e il ruolo delle Corti, Bologna, 2013, pp. 393 ss.
24 A seguito dell’interpolazione sostitutiva subita dall’art. 117 Cost. per effetto dell’art. 3 della l. cost. 18.10.2001, n. 3, la specifica disposizione della Carta costituzionale «condiziona l’esercizio della potestà legislativa dello Stato, oltre che quella delle Regioni, al rispetto degli obblighi internazionali, tra i quali … rientrano quelli derivanti dalla Convenzione europea per i diritti dell’uomo»; pertanto, deve ritenersi «ammissibile la questione di legittimità costituzionale posta sul presupposto della violazione di una norma interna con una disposizione contenuta nella Convenzione europea dei diritti dell’Uomo, dovendo essere affermata la netta distinzione tra norme contenute in detto trattato e quelle comunitarie, in quanto le prime, pur rivestendo grande rilevanza, in quanto tutelano e valorizzano i diritti e le libertà fondamentali delle persone, sono pur sempre norme internazionali pattizie, che vincolano lo Stato, ma non producono effetti diretti nell’ordinamento, tali da affermare la competenza dei giudici nazionali a darvi applicazione nelle controversie ad essi sottoposte attraverso la disapplicazione delle norme interne in eventuale contrasto con esse»: in tal senso, C. cost., 22.10.2007, n. 348 e C. cost., 22.10.2007, n. 349.
25 Così, Cass. pen., S.U., 19.4.2012, n. 34472, in CED rv. n. 252933, Ercolano.
26 Sull’art. 46 CEDU, seppur nella configurazione previgente, tra gli altri, v. Drzemczewski, A., Sub art. 46, in Commentario alla Convenzione Europea per la tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, Padova, 2001, p. 685.
27 Sull’art. 41 CEDU, v. Sundberg, F., Sub art. 41, Commentario alla Convenzione Europea per la tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, cit., p. 661.
28 C. eur. dir. uomo, 17.9.2009, Scoppola c. Italia; C. eur. dir. uomo, 1.3.2006, Sejdovic c. Italia; C. eur. dir. uomo, 8.4.2004, Assanidze c. Georgia.
29 C. eur. dir. uomo, 13.7.2000, Scozzari e Giunta c. Italia.
30 In tal senso, ex plurimis, C. eur. dir. uomo, 17.9.2009, cit.; C. eur. dir. uomo, 8.2.2007, Kollcaku c. Italia; C. eur. dir. uomo, 10.11.2004, Sejdovic c. Italia; C. eur. dir. uomo, 18.5.2004, Somogyi c. Italia; C. eur. dir. uomo, 8.4.2004, Assanidze c. Georgia. In proposito, occorre precisare che particolari obblighi di conformazione alle pronunce della C. eur. dir. uomo. sono posti dalle cc.dd. sentenze pilota. A titolo esemplificativo, si veda C. eur. dir. uomo, 22.6.2004, Broniowski c. Polonia, nonché, di recente, C. eur. dir. uomo 8.11.2013, Torreggiani ed altri c. Italia.
31 C. eur. dir. uomo, 17.9.2009, Scoppola c. Italia; C. eur. dir. uomo, 8.4.2004, Assanidze c. Georgia.
32 Vigoni, D., Giudicato ed esecuzione penale, cit., p. 4.
33 C. cost., 16.4.2008, n. 129.
34 C. cost., 4.4.2011, n. 113.
35 C. cost. n. 129/2008, nell’ambito della quale il “giudice delle leggi” si rivolge al legislatore, invitandolo ad adottare i provvedimenti necessari al fine di consentire all’ordinamento di adeguarsi alle sentenze della C. eur. dir. uomo che riscontrino violazioni ai principi sanciti dal succitato art. 6 CEDU.
36 Al riguardo, a mero titolo di esempio, si immagini il caso in cui la condanna sia stata pronunciata senza esaminare, nel contraddittorio delle parti, i testimoni che resero dichiarazioni eteroaccusatorie; in tal caso, nel processo “riaperto” per dare esecuzione alla pronuncia della C. eur. dir. uomo va assicurata l’operatività della specifica garanzia.
37 C. cost. n. 113/2011.
38 C. cost. n. 113/2011.
39 Il ricorso straordinario per errore materiale o di fatto ex art. 625 bis c.p.p. venne utilizzato, al fine di rispettare i principi dell’economia dei mezzi processuali e della ragionevole durata del procedimento, nel caso Scoppola, al fine di sostituire la pena dell’ergastolo, dichiarata convenzionalmente illegittima, con quella di anni trenta di reclusione. Sul punto, v. Cass. pen., 11.2.2010, n. 16507. In particolare, la sentenza C. eur. dir. uomo, 17.9.2009, Grande Camera, Scoppola c. Italia, in www.hudoc.echr.coe.int, rilevò la violazione da parte dello Stato italiano dell’art. 7, par. 1, CEDU, per effetto dell’applicazione dell’art. 7 del d.l. 24.11.2000, n. 341 e dichiarò che lo Stato italiano era tenuto ad assicurare che la pena dell’ergastolo, inflitta al ricorrente, fosse sostituita con una pena non superiore a quella della reclusione di anni trenta.
40 Cass. pen., S.U., 3.9.2014, n. 36848, in CED rv. n. 259992, Burba.
41 Il principio di legalità della pena, enunciato dall’art. 1 c.p. e dall’art. 25, secondo comma, Cost., informa l’ordinamento giuridico penale e trova conferma nell’art. 7 CEDU. Esso ha portata generale, tanto da essere applicato anche in sede di esecuzione, e va affermato tanto rispetto al precetto penale, quanto con riferimento alla sanzione ad essa collegata. In proposito, v. Cass. pen., 27.4.2012, n. 24128, in CED rv. n. 253763, D. Cristo, secondo cui il principio di legalità della pena ex art. 1 c.p. e la funzione rieducativa della ex art. 27 Cost. sono inconciliabili con la applicazione di una sanzione non prevista dall’ordinamento.
42 Cass. pen., S.U., n. 18821/2013 e Cass. pen., S.U., 26.2.2015, n. 33040, in CED rv. n. 264207, Ahmed.
43 In tema, v. anche Cass. pen., S.U., 26.6.2015, n. 44766, che ha escluso che sia rilevabile d’ufficio, in sede di legittimità, in presenza di ricorso presentato fuori termine, l’illegalità della pena, ferma restando la deducibilità della illegalità della pena davanti al giudice dell’esecuzione.
44 In materia di rapporti tra la revoca della sentenza di condanna ai sensi dell’art. 673c.p.,rubricato «Revoca della sentenza per abolizione del reato» ed il rimedio revocatorio di cui all’art. 30, co. 4, l. 11.3.1953, n. 87, v. Cass. pen., S.U., n. 42858/2014.
45 C. eur. dir. uomo, 17.9.2009, Scoppola c. Italia.
46 Cass. pen., S.U., n. 18821/2013, che ha indicato le regole fondamentali da seguire al fine di “recuperare”, nell’ordinamento interno, la sentenza della C. eur. dir. uomo che abbia dichiarato l’illegalità convenzionale della pena irrogata. La Corte ha affermato che «il meccanismo di aggressione del giudicato, nella parte relativa alla specie e alla misura della pena inflitta dal giudice della cognizione, è attivabile con incidente di esecuzione, in quanto ricorrano le seguenti condizioni: a) la questione controversa deve essere identica a quella decisa dalla Corte EDU; b) la decisione sovranazionale, alla quale adeguarsi, deve avere rilevato un vizio strutturale della normativa interna sostanziale, che definisce le pene per determinati reati, in quanto non coerente col principio di retroattività in mitius; c) la possibilità d’interpretare la normativa interna in senso convenzionalmente orientato ovvero, se ciò non è praticabile, la declaratoria d’incostituzionalità della medesima normativa ... ; d) l’accoglimento della questione sollevata deve essere l’effetto di una operazione sostanzialmente ricognitiva e non deve richiedere la riapertura del processo».
47 Cass. pen, S.U., n. 18821/2013.
48 Il riferimento è, per l’appunto, all’abrogatio cum abolitio criminis; alla declaratoria di incostituzionalità della norma incriminatrice ovvero della norma penale che incida sul trattamento sanzionatorio; alla conversione della pena detentiva in pena pecuniaria; alla “sostituzione” della pena una volta che sia stata ritenuta convenzionalmente illegittima.
49 In tema, seppur secondo una prospettiva diversa, C. cost., 7.6.2010, n. 209.
50 Ranaldi, G., Esecuzione penale, cit., p. 42.