CASAROTTI, Ilario
Nacque a Verona l'8 luglio 1772 da Antonio e Teresa Cabianca, terzo di sei fratelli. Fu tenuto al fonte battesimale dal marchese Borgia Canossa e dalla contessa Lavinia Pompei: circostanza che induce a supporre che la sua famiglia godesse di un decoroso stato sociale. Nel patrio ginnasio ebbe maestri gli abati Gioachino Avenasi e Alberto Fortis. A sedici anni entrò nella Congregazione dei somaschi, che a Verona, come in altre città della Repubblica veneta, reggeva istituzioni scolastiche di un certo prestigio. Fu subito inviato a Venezia, nella casa professa di S. Maria della Salute; qui, dopo cinque anni dedicati a studi di filosofia, matematica e teologia, emise i voti solenni. I superiori lo destinarono alla cattedra di retorica nel collegio padovano di S. Croce: sede impegnativa di per sé, e tanto più per la fama del suo predecessore, l'abate Antonio Evangeli. Vi rimase circa vent'anni, conquistandosi la fama di valente letterato ed insegnante.
Le sue prime prove furono costituite dalle accademie poetiche che si tenevano a fine anno, in cui i professori di lettere erano chiamati a dar saggio del loro valore componendo poesie in vario metro su un determinato argomento, che poi venivano recitate dagli alunni. Il C. non pubblicò mai questi versi, ma una nota del Borgogno ne riporta alcuni titoli: I monti, I poeti campestri, La creanza poetica. Nel 1799 diede alle stampe La Ninive distrutta, traduzione in ottave dal Profeta Nahum: importante sia per la trasparente metafora misogallica, (Ninive e gli Assiri corrispondono a Parigi e ai Francesi), sia per l'aperta inclinazione nei confronti della poesia ebraica (maturata anche in seguito alla lettura del trattato di Robert Lowth, citato in epigrafe), che comportava il rifiuto - non poi così ovvio data la formazione e la posizione del C. - "di accrescere la noia e il fastidio c'à il mondo, di sentirsi sempre all'orecchio gli stessi concetti" della poesia devozionale e dei sonetti d'occasione. L'interesse del C. per la poesia didascalica, oltre che dai citati titoli di accademie poetiche, è testimoniato dall'esemplare commento alla Coltivazione del riso di Giovan Battista Spolverini, uscita a Padova nel 1810, preceduta dal mirabile elogio di Ippolito Pindemonte, la cui inserzione e le cui vicende di stampa diedero luogo ad un fitto carteggio tra il minuziosissimo Pindemonte e il non meno scrupoloso Casarotti.
In quell'anno, essendo stata decretata la seconda e generale soppressione delle congregazioni religiose, il C. tornò a Verona, dove insegnò per un breve periodo nel liceo convitto, godendo della familiare amicizia del Pindemonte, di Alessandro Carli, di Benedetto Del Bene e soprattutto di Bennassù Montanari, col quale intrattenne un'assidua corrispondenza, preziosa per le frequenti notizie sui due salotti letterari più vivaci che esistessero in quel tempo a Verona, quello di Silvia Curtoni Verza e quello di Lavinia Montanari Pompei. Nel 1813 uscì a Padova il suo Trattato sopra la naturae l'uso dei dittongi italiani, che gli assicurò larga fama e lusinghieri giudizi da parte di specialisti e letterati.
Il trattato non è "estraneo a quell'esigenze di osservazione diretta sul materiale della lingua a cui si sforzava di soddisfare il purismo che appunto in quegli anni si affermava solennemente con la vittoria del Cesari" (Trabalza); e il collegamento effettuato con il pensiero linguistico del Vico, secondo il quale i dittonghi "del primo canto de' popoli fanno gran pruova", contribuisce ad arricchire di nuove valenze la "rettorica grammaticale" del somasco veronese.
Da una lettera al Montanari del 17 febbr. 1813 si ricava che il trasferimento del C. al collegio Gallio di Como, che i vecchi biografi attribuiscono al 1814. Con tutta probabilità va anticipato di un anno; quali siano stati i motivi della partenza non sappiamo con precisione; il Borgogno scrive che per il C. spuntarono "giorni amari", a tal punto che egli "ad evitarli stimò bene allontanarsi dalla patria". Ma anche al Gallio, retto da molti suoi vecchi confratelli, non si fermò molto: nel 1816-17 lo troviamo ancora "maestro de' principi di umane lettere" nel liceo di Verona, dove era ritornato, "datosi vinto alla speranza di ritrovarvi per lo innanzi giorni più riposati" (Borgogno). Qui pubblicò un'ampia raccolta di Poesie bibliche recate in versi italiani (Verona 1817), comprendente, oltre alla Ninive, versioni in vari metri da Isaia, Ezechiele, Michea, Gioele e dai Salmi, cui il Carrer riconosce "elezione di modi, bellezze del verso, e decenza continua di poetici ornamenti". Tuttavia, a causa di non meglio precisate "disgustose vicende", che turbarono "l'animo suo fuor d'ogni credere sensitivo", il C. prese la risoluzione di tornare al collegio Gallio. Qui insegnò retorica e religione, dispiegando anche una notevole attività di oratore sacro: degno di particolare menzione il discorso Per le solenni esequie a Monsignore Carlo Rovelli vescovo di Como... il giorno 26di gennaio 1820 (Como 1820), dal quale emerge chiaramente la sua concezione della società legata all'ideologia della Restaurazione.
Così, ad esempio, egli loda l'istituzione della Casa d'industria per poveri ("era pericolo, che la poveraglia montata in furore non rapisse sfrontatamente, e a mano armata non assalisse case e persone, via portando con forza ciò che non era in grado di ben distribuire l'amore"), nel quadro di una visione provvidenziale e statica delle disparità di classe ("Così di fatto la Provvidenza divina conformò la gran famiglia degli uomini, che vi fossero ricchi e poveri, e servi e signori, e compratori ed artefici, e in conseguenza servigi e mercedi, e quindi alla fine gente inabile a mantenersi, e gente facoltosa che la mantenesse").
Ma anche a Como non rimase a lungo: ciò avvenne, "a motivo d'alcune mutazioni a cui l'animo suo non seppe, né potea senza discapito, accondiscendere" (Borgogno); le "mutazioni" prevedevano, come si apprende dal Carrer, "alcuni nuovi metodi di insegnamento prescritti nel collegio di Como".. Il C. cercò ancora una volta di trovare un idoneo inserimento a Verona, ma senza alcun successo. Gli fu forse d'ostacolo una certa franchezza che eccedeva la misura allora normalmente ammessa nel mondo delle lettere (al Montanari scriveva di non aver mai avuto segreti, "fuor di quelli, che mi vengono affidati, poco curante che altri sappia quello che sono, che penso, che fo"). Così il 24 nov. 1820 si trasferì a Milano, congedandosi definitivamente dalla città natale, come risulta da una lettera al Montanari: "Dimani, se a Dio piaccia, partirò per Milano, a foggia di una colomba (né intenderò mai quella, che uscì prima dall'Arca), - che tornata dopo gran tempo alla torre nativa, non trovandovi alcun nido opportuno, scuota l'ali, e tenda a ricovrarsi dal vento sott'altro tetto". A Milano era stato chiamato per insegnare religione nel ginnasio convitto Calchi-Taeggi: del che si lamenta col Montanari ("studiar il Tasso e Dante e Cicerone e Virgilio, per esser professore di religione!"); ma riuscì in qualche modo ad integrarsi nell'ambiente letterario della metropoli lombarda, dove, "frate impretato" come egli stesso si definiva scrivendo al Montanari, esercitò anche il ministero sacerdotale nella chiesa di S. Carlo.
Di fronte alle dottrine romantiche, intomo alle quali era accesa in quegli anni a Milano un'animata polemica, il C. assunse un atteggiamento di protesta, motivandone il rifiuto in termini piuttosto generici nelle Lettere da Innocente Natanaeli scritte a suo nipote (Lugano 1824), opera che ottenne il plauso privato del Pindemonte ("per verità non mi so dar pace che non dimori più in Verona un uomo, le cui opinioni letterarie tanto conformansi con le mie"), il quale pur era impegnato a mantenere esteriormente una posizione di equidistanza tra le due correnti contrapposte; così, ad esempio, incaricò il C. di curare la consegna al Manzoni dei suoi Elogi di letterati.
In realtà, la posizione del C. ha ben scarsa rilevanza nella polemica classico-romantica, dal momento che egli dichiara di non conoscere nemmeno i più illustri rappresentanti del romanticismo europeo, pur protestando contro "le sregolatezze e il disordine" da loro provocato. Le Lettere servono piuttosto a definire la posizione del C. all'interno di un modo tradizionale di far letteratura; e in questa prospettiva non sono prive di interesse. Si nota, ad esempio, il rifiuto della mitologia, comune del resto al Pindemonte, contro Clementino Vannetti che pensava "non doversi la mitologia greca dismettere"; la condanna della poesia pastorale; le forti riserve manifestate a proposito degli eccessi del purismo del Cesari ("quelle ghiottornie toscane in un'opera del tutto ascetica [L'imitazione di Cristo] mi distraggon la mente e scemano la divozione"; il celebratissimo dialogo delle Grazie "dialogo già non è, ma più presto un vocabolario"). Più scontata la polemica contro il Bettinelli detrattore di Dante, ma condotta con un'intransigenza così ferma da non risparmiare nemmeno il suo Pindemonte, reo di aver inserito nelle Prose campestri una valutazione positiva dell'opera dell'abate mantovano. "Alcuni giudizii letterari - scrive il Carrer - a cui non dovevano certo far eco i contemporanei, e probabilmente non farà la posterità neppur essa, sono espressi con quella confidente lealtà che sempre trapela dalle opere di chi scrive coscienziosamente, senza temere i favoriti della fortuna, che anche in letteratura non mancano, e il cinguettio della plebe imitatrice, pronta a metter in cielo o lasciar negli abissi secondo la voce corrente". Il C. ribadì la sua posizione in un opuscolo del 1829 (Al professore Angelo Antongina a Monza lettera del Prof. I. C. in cui si fa qualche cenno della mitologia e del Romanticismo), in cui la scarsa preparazione teorica viene soccorsa da una innegabile sensibilità per il fatto poetico, in forza della quale, a parte talune valutazioni sfocate (i Sepolcri del Pindemonte superiori a quelli del Foscolo), perviene ad un cordiale apprezzamento degli Inni sacri del Manzoni e a riconoscere la funzionalità espressiva della mitologia nel Giorno del Parini.
Alla continua attività di insegnamento il C. associò quella di consulente dell'editore Giovanni Silvestri di Milano, per il quale curò molti volumi della "Biblioteca scelta": citeremo qui Prose e versi e Lettere inedite di Bartolomeo Lorenzi, e le Epistole del Pindemonte; continuò inoltre il suo impegno di panegirista, fissandone i presupposti teorici nella lettera Sopra l'eloquenza sacra estemporanea (Venezia 1826) e nelle lettere premesse alla traduzione delle prediche dell'abate di Cambacérès. Vivente, il C. pubblicò pochissimi versi originali, lasciando inedite molte composizioni, circostanza che indusse in tentazione qualche plagiario; è il caso, ad esempio, di Urbano Lampredi, che si appropriò dell'elegia L'azzurro notturno o la pace dell'animo, già recitata in un'accademia del collegio di S. Croce di Padova. Postumi furono pubblicati due poemetti in ottave, L'innesto vaccino (apparve a puntate nel Baretti, IV [1872]) e Il ferro (Belluno 1841). Negli ultimi anni, dopo aver rinunciato all'insegnamento, si ritirò a vivere in una casetta, da solo, e dedito ai suoi studi e alle pratiche di pietà.
Morì a Milano il 17 maggio 1834, e fu sepolto nel cimitero di Porta Nuova.
Il Carrer, pur rilevando nel C. alcune "piccole macchie" ("una franchezza che avrebbe potuto sembrare soverchia, alquanto di ostinazione in alcuni principii di non bene accertata verità, e una certa naturale tendenza alla satira di cui non andò esente neppure il suo testamento"), gli riconosce "molta nobiltà di carattere, molto e leale affetto alla religione, grande l'amore di giovare agli studi, moderato il desiderio della fama". Par proprio insomma che di se medesimo rugionasse il C. quando scrisse in persona di un filosofo in uno dei suoi discorsi In continuazione de' Trattatelli Malabarici dell'Ab. D. Michele Colombo (Milano 1829): "A quel ruscello, che derivato da un fiume per un coperto canale tortuosamente attraversa una gran città, ed or da un lato, or dall'altro acqua porge a qualche uso, e non veduto dai cittadini che gli passano di sopra, rientra in più bassa parte nel fiume, avrei voluto che sempre fosse rassomigliata, e vorrei che rassomigliasse tuttora la vita mia; util vita senza millanterie, vita oscura senza vergogna, vita ingannevole senza colpa".
Opere: la raccolta Prose e versi del C., pubblicata dal Silvestri di Milano nel 1824 ("Biblioteca scelta", CLVI), comprende il Trattato sopra la natura e l'uso dei dittongi italiani, il discorso Per le solenni esequie fatte a mons. Carlo Rovelli, le Poesie bibliche recate in versi italiani secondo l'edizione veronese del 1817. Oltre agli scritti citati si ricordano ancora: Le favolette esopiane, approvate da Innocente Natanaeli, Milano 1823; Prediche italiane e francesi tradotte in italiano, a conferma di nostra fede, Como 1825; Sopra il sermone poetico, lettera a Giovanni Zuccala, Milano 1829; Favole di Desbillons e di Fedro, volgarizzate, Lugano 1841.
Fonti e Bibl.: Nella Bibl. com. di Verona sono conservate centosessantotto lettere a B. Montanari e poche altre a corrispond. vari (E. Gerini, G. Accordini, S. Curtoni Verza, I. Pindemonte, A. Torri). Sono state pubblicate a cura di F. Calandri cinquanta Lettere di Ippolito Pindemonte a I. C., Casale 1849, riguardanti per lo più l'ediz. padovana della Coltivazione del riso. Criticamente motivato è il profilo del C. di L. Carrer, in Biogr. universale antica e moderna, Supplimento, IV, Venezia 1839, ripreso con qualche integrazione di carattere biografico da T. Borgogno, Elogio del p. don I. C., C. R. somasco, in Giorn. arcadico, CIII, giugno 1845, pp. 288-355. Utili notizie bibliogr. e un elenco completo delle opere dà V. Fontana, Un letterato e poeta veronese amico di I. Pindemonte, I. C. (1772-1834), Verona 1923. Si vedano inoltre: C. Trabalza, Storia della grammatica ital., Milano 1908, pp. 486-488; G. Gambarin, La polemica classico-romantica nel Veneto, in Ateneo veneto, XXXV(1912), 2, pp. 32-35; L. Zambarelli, Il culto di Dante tra i padri somaschi, Roma 1921, pp. 106-117; G. Mazzoni, L'Ottocento, Milano 1934, p. 236; Enc. Ital., IX, p. 284.