Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La corrente verista esprime l’esigenza di una maggior adesione degli scrittori alla vita reale, con una nuova attenzione alle classi sociali più umili: un programma, già presente nel romanticismo, ma connotato ora dall’oggettivismo scientifico proprio del positivismo francese, che in letteratura si esprime soprattutto nelle opere del naturalismo francese, di cui il maggior esponente è Émile Zola. In Italia il verismo si identifica in particolare con le figure dei tre scrittori siciliani, Capuana, Verga, De Roberto, e influenza gli scrittori minori, coevi e successivi, sia per le tematiche assunte, sia per l’inserzione nel testo italiano di lessico e locuzioni dialettali.
Modello francese e esperienze italiane
La letteratura verista si afferma in Italia a partire all’incirca dalla metà degli anni Settanta dell’Ottocento, principalmente per opera di due scrittori siciliani, Giovanni Verga e Luigi Capuana. Si tratta di una esperienza culturale, nella sua espressione più caratteristica e pura, abbastanza breve, ma che presenta negli anni del suo fiorire tratti di omogeneità e insieme di grande consapevolezza teorica e sulla quale agisce fortemente il modello della contemporanea letteratura francese, adattato però alla diversa situazione politica e culturale italiana. Nella discussione critica sul verismo e sulla valutazione dell’opera dei singoli autori a esso afferenti è stato perciò spesso centrale il dibattito sulle consonanze e sulle differenze tra il verismo e il naturalismo francese, e in particolare sull’influenza più o meno determinante svolta in Italia dalla diffusione delle opere di Émile Zola. Parte della critica, infatti, ha sottolineato maggiormente i tratti comuni, forse umiliando eccessivamente le istanze verso il realismo già presenti nella precedente letteratura italiana; parte, invece, ha sottolineato i tratti specifici, a sua volta mettendo troppo in sordina la forte carica attrattiva che le posizioni nette e militanti del naturalismo francese dovevano esercitare, se non altro a livello programmatico.
Romanticismo e verità
Una spinta al realismo, alla ricerca di una maggior adesione della letteratura alla vita, è programma già ben presente nelle polemiche romantiche della prima metà dell’Ottocento. L’infrazione delle regole classicistiche di unità di tempo e luogo a favore di un maggior realismo rappresentativo è il tema centrale della Lettera a Monsieur Chauvet di Manzoni, a giustificazione delle sue scelte adottate nella tragedia Il conte di Carmagnola, così come ancora a Manzoni si deve la fortuna in Italia del "romanzo", il genere per antonomasia della cultura borghese, che offre finalmente una struttura abbastanza "capiente" e "larga" per permettere una rappresentazione integrale della società, dal suo strato più umile al più alto, e, insieme, l’adozione di una lingua meno letteraria e più vicina al parlato. Vero però è anche che già in Manzoni, e poi ancor più pesantemente nella scuola che a lui si ispira, l’istanza realistica appare soffocata dall’impegno pedagogico, che ritaglia e manipola la rappresentazione a fini morali ed educativi, censurando perciò intere zone della psicologia e della realtà dell’uomo e della società, con una selezione pari a quella attuata sul piano linguistico, dove il criterio della verosimiglianza, perseguito a livello diastratico (con le differenze cioè nella resa della parlata popolare da quella delle classi più elevate) è consapevolmente ignorato a livello diatopico (della differenza regionale, ancora clamorosa nell’Italia ottocentesca) con la decisione di adottare il modello linguistico del fiorentino, giustificata dalla prioritaria esigenza politica della creazione di un modello di lingua nazionale.
La letteratura campagnola
Una tappa ulteriore nella direzione del realismo può essere individuata qualche anno più tardi, sull’onda probabilmente di analoghi modelli tedeschi e francesi (si pensi in particolare a George Sand) nella produzione di tipo "campagnolo", che, tuttavia, non arriva a grandi risultati né a imporsi in maniera persuasiva sullo sviluppo della letteratura successiva, ma che, pur nascendo indubbiamente dalla spinta romantica alla ricerca del vero e al recupero delle tradizioni culturali locali, presenta caratteri suoi propri, che mostrano finalmente l’attenzione alla classe sociale quantitativamente maggioritaria in Italia ma del tutto assente dalla produzione letteraria: il mondo contadino e agrario con le sue problematiche sociali, particolarmente esposte nel momento dell’unità italiana e della spinta alla modernizzazione capitalistica a divenire oggetto di una profonda crisi sociale. Pur non riuscendo a elaborare una sua forma persuasiva, perché frenata e attenuata nel suo sguardo da intenti pedagogici e insieme dall’eredità di un certo idillismo bucolico, la produzione di Carcano, Dall’Ongaro, della Percòto e del giovane Nievo (per fare i nomi più significativi) mostra però una prima attenzione concreta alla vita dei contadini e al sistema di produzione rurale e un primo tentativo di dar voce in maniera meno astratta a protagonisti popolari.
Realismo e naturalismo
Fondamentale, però, per una presa di coscienza più consapevole è l’influenza francese che comincia a operare inizialmente in ambito figurativo. Il termine realismo nasce infatti in ambito pittorico con Gustave Courbet, che intitola Padiglione del realismo una mostra di proprie opere, molte delle quali a sfondo sociale, rifiutate dall’Esposizione universale parigina del 1855 (fra cui il celebre Un enterrement à Ornans). Con questo termine, che passerà poi in ambito saggistico e letterario, si intende appunto un’arte caratterizzata dall’attenzione alla realtà sociale contemporanea e che verrà sviluppata in Francia principalmente nei romanzi di Balzac e Flaubert. In Italia, una prima recezione di questo fenomeno è evidente nelle discussioni sul realismo in arte portate avanti a Firenze dai macchiaioli. Ma è ancora dalla Francia che provengono stimoli ulteriori per una adesione ancor più spinta ed estrema alla rappresentazione realistica, in una metodologia che nasce dal convergente sviluppo del positivismo scientifico e filosofico. Il termine naturalismo coniato da Hyppolite Taine si propone appunto di trasferire in campo letterario le stesse osservazioni scientifiche riassunte sotto i termini di "race, milieu, moment": il narratore non è più un inventore ma un osservatore che analizza una "tranche de vie" sottolineando i rapporti di causa-effetto che determinano i comportamenti umani, alla luce in particolar modo della teoria della ereditarietà (derivata dai coevi studi darwiniani) e della degenerazione progressiva; principi che vengono esplicitamente teorizzati da Zola nel suo Roman experimental del 1880, cui si informa la stesura del ciclo dei Rougon-Macquart: un modello, come sottolineato dal critico tedesco Erich Auerbach, nella sua fondamentale opera sul realismo, che segna una svolta determinante nel corso della storia letteraria occidentale.
La diffusione di Zola
La conoscenza di Zola in Italia è dovuta soprattutto all’opera di Felice Cameroni, vivace animatore della vita culturale milanese grazie a un’intensa attività giornalistica, che dedica allo scrittore francese un’attenzione puntuale, recensendone tutte le opere a partire dal 1873. La diffusione delle opere di Zola, che cominciano ad essere tradotte dal ’76 conquista ben presto notevole spazio in ambito critico, suscitando in particolare l’attenzione di Francesco De Sanctis, che pubblica nel ’77 un lungo studio in cui sottolinea il carattere democratico e progressista della narrativa naturalista. Il che non esclude, come avviene soprattutto in un successivo saggio sull’Assommoir (del ’79), la presa di distanza dall’eccesso di crudezza della rappresentazione zoliana. La lettura militante di De Sanctis invita in sostanza a un’interpretazione del naturalismo più legata al dibattito romantico e alla sua istanza di una letteratura utile e vera, sottolineandone insieme i risultati più propriamente poetici, a discapito della struttura ideologica – la "costruzione anatomico-fisiologica-ereditaria" –, in realtà per Zola consustanziale alla narrazione. Tale linea sarà poi ripresa da Croce che condannerà in Verga l’applicazione degli assunti teorici veristi, salvandone però i risultati in base al riconoscimento della sua prepotente dote lirica. Più vicina agli assiomi della poetica naturalistica zoliana è invece la posizione di Luigi Capuana, teorizzata nei suoi Studi sulla letteratura contemporanea (1880) e coerentemente applicata nel primo suo romanzo Giacinta (del 1879, dedicato allo scrittore francese), vera e propria analisi di un caso di psicopatologia femminile e applicazione dei principi zoliani dell’ereditarietà e della degenerazione: protagonista del romanzo è infatti una giovane che, avendo subito una violenza da piccola, accetta di sposare un aristocratico, ma lo tradisce e finisce per suicidarsi.
La soluzione di Verga
L’incontro con l’opera di Zola costituisce certamente uno snodo decisivo per Verga, che, approdato a Milano nel ’73, entra dapprima in contatto con l’ambiente scapigliato, da cui ha assunto, nei cosiddetti romanzi "mondani", una spinta alla maggior aderenza realistica, interpretata però in chiave piuttosto psicologica e anticonformistica. Anticipata dalla pubblicazione di Nedda, una novella che, pur presentando ancora un impianto stilisticamente tradizionale, già individua lo sfondo della futura produzione siciliana e popolare, la stagione verista si inaugura splendidamente con i racconti di Vita dei campi, editi in rivista dal ‘79 e raccolti in volume nell’80, e con il progetto di Marea: un ciclo di cinque romanzi, di cui verranno di fatto composti soltanto I Malavoglia (pubblicato nell’81) e il Mastro Don Gesualdo (uscito in rivista nell’88 e poi in edizione fortemente rivista nell’89), che doveva costituire un grande affresco della lotta per la vita, a partire dagli strati socialmente più umili fino a quelli più elevati. Vita dei campi e i Malavoglia presentano infatti la più chiara esemplificazione della nuova poetica verista, esplicitamente dichiarata dallo stesso Verga nella lettera-prefazione all’amico Farina della novella L’amante di Gramigna e nella prefazione al romanzo. Nella prima è lucidamente indicata la tecnica dell’impersonalità, consistente nella eclissi totale del narratore, che rinuncia al suo ruolo di commentatore e di deus ex machina a favore di un’“opera d’arte [...] che sembrerà essersi fatta, aver maturato ed esser sorta spontanea come un fatto naturale, senza serbare alcun punto di contatto col suo autore”; nella seconda è indicata anche la visione dell’esistenza umana come lotta per il benessere, diversamente declinata a seconda della condizione sociale, ma sempre motore determinante delle scelte degli uomini e causa di quelle perturbazioni che producono la sopraffazione e l’ingiustizia. Una realtà che “chi osserva […] non ha diritto di giudicare; è già molto se riesce a trarsi un istante fuori del campo della lotta per studiarla senza passione, e rendere la scena nettamente, coi colori adatti, tale da dare la rappresentazione della realtà com’è stata, o come avrebbe dovuto essere”.
Se da un lato la rivendicazione dell’oggettività e dell’impersonalità della narrazione ben consuonano con i propositi del naturalismo francese, l’impostazione nettamente pessimistica che domina l’ideazione del "ciclo dei vinti", sottolinea da subito i caratteri originali del verismo verghiano (che si accentueranno ulteriormente nella successiva produzione) rispetto alla posizione di Zola, dove la letteratura e il romanzo in particolare sono considerati come strumenti di lotta per il progresso e di propaganda politica democratica. Una differenza fondamentale, che ha fatto perciò insistere molti critici più sulle divergenze che sulle convergenze con la poetica naturalista, e che sta alla base della diversa e originale soluzione stilistica del Verga. Mentre infatti l’oggettivismo dello scrittore francese mira alla riproduzione del documento narrativo in maniera neutra e distaccata, con l’obiettivo di scioccare attraverso una rappresentazione cruda della realtà, in Verga la mimesi del narratore avviene attraverso l’immersione, una vera e propria "regressione", in una prospettiva corale che, rappresentando il punto di vista dei protagonisti (tradotti attraverso i discorsi diretti o l’indiretto libero), si nutre della loro cultura e dei loro ideali, che finiscono perciò per assumere un aspetto mitico e poetico e forniscono una sorta di controcanto idillico ma irreparabilmente perduto all’inevitabile decadere della società contemporanea. Sulla base dell’esempio di Verga lo stesso Capuana nei saggi successivi, raccolti in Per l’arte (1885), sottolinea maggiormente l’autonomia del movimento verista, ribadendo come centrale non tanto l’aspetto tematico contenutistico, quanto la metodologia impersonale, mentre nei suoi romanzi successivi (Profumo, 1891 e il Marchese di Roccaverdina, 1901) si aprirà a una maggior ricerca psicologica (del resto anche in Francia rivendicata dai naturalisti meno ortodossi come Maupassant), dove all’analisi patologica e deterministica si associa uno spiritualismo ereditato dai romanzi di Paul Bourget (che in qualche modo lo avvicina al romanzo decadente e dannunziano) e l’influenza della narrativa russa di Dostoevskji e Tolstoj.
La triade catanese
Un elemento singolare del verismo, che lo connota in maniera fondamentale, è la sicilianità dei suoi maggior esponenti: oltre a Verga e Capuana, vi è il più giovane Federico De Roberto, fedele nel suo ciclo degli Uzeda (di cui il romanzo più famoso, I Viceré, 1894, costituisce la seconda tappa) alla poetica dell’impersonalità e a un profondo fatalismo di fondo. Questa fortuna "siciliana" del verismo, oltre che dall’ovvio scambio e sentimento di affinità che può aver legato i tre scrittori, si spiega probabilmente proprio con la particolare arretratezza della Sicilia, che se da un lato li ha spinti a emigrare (tutti hanno passato lunghi periodi a Firenze e Milano) alla ricerca di un clima culturale più stimolante, dall’altro ha creato in loro il senso di spaesamento e di necessità di un più profondo recupero delle proprie radici. Inoltre, a livello politico, la Sicilia è emblema delle difficoltà di integrazione e sviluppo unitario, e ben si presta a diventare metafora dello scenario etico e politico dell’Italia postunitaria, secondo una linea che, particolarmente evidente in De Roberto, passerà nella narrativa novecentesca fino a Sciascia.
Il rinnovamento stilistico e linguistico
La stagione verista induce un profondo rinnovamento nella compagine stilistica e linguistica del romanzo di fine Ottocento; una trasformazione che darà i suoi frutti soprattutto negli anni del secondo dopoguerra, una volta cadute in maniera definitiva le concorrenti tentazioni simbolistiche e decadentistiche, ma che non è priva di immediate conseguenze nella cosiddetta letteratura regionalistica, dal milanese De Marchi al toscano Fucini, al veneto Fogazzaro, alla napoletana Matilde Serao, fino alla sarda Grazia Deledda, dove il modello verghiano si fonde con altri stimoli, al di fuori di una precisa poetica di scuola, ma sempre mantenendo l’impegno all’osservazione realistica. Dal punto di vista linguistico tuttavia, in tutti questi scrittori, pur con soluzioni e esiti diversi, l’adesione al reale si risolve non attraverso la geniale "dialettalità interna" proposta da Verga, ma più semplicemente attraverso l’inserzione nel testo italiano di lessico e locuzioni dialettali.