Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’Italia, come la Francia, conosce all’inizio del Trecento una straordinaria fioritura musicale: ars nova italiana, o Trecento musicale italiano, sono le espressioni con le quali la storiografia moderna designa l’attività creativa dei polifonisti italiani compresa fra la data di stesura del Pomerium (1318), trattato teorico di Marchetto da Padova sul nuovo sistema di scrittura musicale, e la seconda decade del Quattrocento, quando l’ars nova italiana esaurisce i propri presupposti.
Giovanni Gherardi da Prato
L’umile Francesco
Paradiso degli Alberti
Posto a ssedere i valenti uomini, Francesco, che lietissimo era, chiese il suo organetto e cominciò sì dolcemente a ssonare suoi amorosi canti che nessuno quivi si era che per dolcezza della dolcissima ermonia no•lli paresse che ’l cuore per soprabondante letizia del petto uscire gli volesse
L’ ars nova italiana si caratterizza sin dal principio come fenomeno elitario a esclusivo appannaggio di un ristretto circolo di dotti, per lo più ecclesiastici, e spesso organisti di chiesa. Le corti signorili dell’Italia settentrionale, già avvezze all’arte dei trovatori, sono luoghi privilegiati di coltivazione e diffusione della “nuova arte” musicale: così la corte viscontea (poi sforzesca) a Milano e Pavia, quella scaligera (poi carrarese) a Verona e Padova. Oltre alle corti settentrionali – lasciando in disparte la corte meridionale di Roberto d’Angiò di cui possiamo solo ipotizzare un’attività fiorente grazie a fonti secondarie – è a Firenze, nella seconda metà del Trecento, che l’ ars nova conosce la sua massima fioritura e dove sono compilati i più importanti codici che tramandano il repertorio. Si è soliti distinguere, come Leonard Ellinwood ha proposto negli anni Sessanta del Novecento, i polifonisti in “tre generazioni”. La prima generazione sviluppa i generi del madrigale e della caccia e annovera fra i suoi rappresentanti Maestro Piero, Giovanni da Cascia, Jacopo da Bologna, Vincenzo da Rimini. La seconda generazione coincide con l’affermarsi della ballata polifonica e i suoi maggiori esponenti sono fiorentini: Gherardello, Lorenzo Masini, Donato da Cascia, Francesco Landini, ai quali si aggiunge anche Bartolino da Padova. La terza generazione riprende tecniche e generi della prima generazione, ma l’uso di sonorità morbide e di cromatismi preludono alla sensibilità propria della stagione musicale successiva. A essa appartengono Grazioso da Padova, Antonello da Caserta, Johannes Ciconia, Antonio Zacara da Teramo, Andrea di Firenze, Paolo Tenorista, Giovanni Mazzuoli.
Franco Sacchetti
Messer Mastino
Il Trecentonovelle
e così rimase messer Mastino con gran diletto di così fatta cosa, ed eglino tutti amici l’uno e l’altro rimasono; e mentre che quella festa durò ebbono gran piacere; sanza che messer Mastino né godé gran tempo, come signore che gran diletto avea di così fatte cose
Il repertorio arsnovistico tramandato dai codici è di circa 600 composizioni che intonano perlopiù testi di contenuto profano e in lingua volgare. Una buona parte di questi si conserva in antologie retrospettive compilate tra la fine del Trecento e l’inizio del Quattrocento in maggioranza a Firenze.
Il codice più famoso è quello appartenuto ad Antonio Squarcialupi e compilato intorno agli anni Venti del XV secolo nel quale i brani sono raccolti per compositore e i compositori sono presentati in ordine cronologico. Questo codice testimonia emblematicamente il senso di storia e la coscienza che del proprio valore avevano i compositori appartenenti all’ultima generazione. Il più antico testimone di musica polifonica profana dell’ ars nova è il Rossiano 215 compilato prima del 1360.
Lo storico Filippo Villani nel Liber de origine civitatis florentiae traccia una sintetica immagine di quali sono i modi e i luoghi nei quali la musica partecipa alla vita presso una corte signorile. Villani scrive che molti fiorentini potrebbero essere ricordati per la loro bravura, ma pochi hanno lasciato le loro composizioni scritte. La musica che ci è pervenuta grazie ai manoscritti, più o meno preziosi, ci restituisce infatti lo sforzo creativo di quei musici che, attraverso la formalizzazione del pensiero musicale imposta dalla scrittura, hanno codificato il madrigale, la ballata e la caccia quali forme d’arte. Nella veste latina del proprio Liber, il Villani racconta anche che alla corte di Mastino II della Scala, signore di Verona, due musici, entrambi foresti, si contendevano i premi in denaro offerti dallo scaligero stesso: Giovanni da Cascia e Jacopo da Bologna. Traccia di queste “singolari tenzoni”, che dovevano avvenire anche in altre corti, è ravvisabile nella presenza di medesimi termini particolari, o di medesime allusioni a personaggi femminili. Ad esempio tra i madrigali di Giovanni, di Jacopo e del più anziano Piero, ve ne sono quattro accomunati sia dall’uso del termine “perlato” (nel volgare veneto designa “le bacche brunite del bagolaro spaccasassi”), sia per il riferimento a una donna di nome Anna.
Filippo Villani
Landini e il vaiolo
De origine civitatis florentiae et de eiusdem famosis viribus
Francesco Landini al tempo della sua fanciulleza da subito morbo di vaiuolo fu accecato, ma la fama della musica di grandissimo lume l’ha ristorato
Francesco Landini è il compositore più rappresentativo del Trecento italiano. Come afferma Nino Pirrotta, “Landini, il più famoso dei polifonisti italiani, più decisamente dei suoi predecessori fa della musica una professione”. Il suo nome è citato in molti documenti dell’epoca che testimoniano le sue doti brillanti non solo nel campo musicale, nel quale eccelle come compositore e organista, ma anche in quello della filosofia e dell’astrologia. Landini, secondo Filippo Villani, riceve a Venezia la corona d’alloro per la sua maestria all’organo dal re di Cipro, Pietro I Lusignano, che era in visita nella città lagunare nel settembre 1368. Se si esclude questo episodio, l’attività di Landini si svolge a Firenze, dove è documentato il suo impiego come organista presso la chiesa di San Lorenzo. La sua opera, la più cospicua fra quella dei polifonisti italiani del Trecento, è tramandata quasi interamente dal codice Squarcialupi. Come ha notato Alessandra Fiori nel suo libro su questo compositore, l’arte del “cieco degli organi” si manifesta “nel nitore della scrittura, nella controllatissima naturalezza del discorso musicale, nel perfetto bilanciamento dei suoni tra loro e di questi con la parola” (A. Fiori, Francesco Landini , 2004).
Alla fine del Duecento, si assiste in ambito musicale a un radicale cambio di prospettiva per quanto riguarda il rapporto tra evento sonoro e scrittura grazie all’opera di Franco da Colonia: la notazione musicale, dà ausilio alla memoria per la ricostruzione di melodie interiorizzate in precedenza, pone le basi per essere codice autonomo e sufficientemente preciso per registrare sulla carta un articolato progetto compositivo e renderne possibile la riproduzione.
Le élite colte di tutta Europa apprendono il nuovo sistema di scrittura musicale e ne sviluppano, ciascuna a suo modo, le potenzialità fino al punto in cui, all’inizio del Trecento, le differenze dal sistema di partenza divengono così numerose da rendere opportuna una nuova formulazione. Le differenze si determinano sia diacronicamente con il sistema formulato da Franco sia sincronicamente con gli esiti dello sviluppo che il medesimo sistema franconiano ha generato nelle varie comunità territoriali. Tali diversità persistono, sebbene siano numerosi gli scambi tra le comunità culturali, per almeno un secolo. Così, se a Parigi il compito di istruire i cantori esperti sulla “via moderna” per scrivere musica sarà assunto da Giovanni de Muris con la Notitia artis musicae (1321) e dall’insegnamento di Philippe de Vitry, in Italia sarà Marchetto da Padova a spiegare e motivare “scientificamente” nel suo Pomerium (1318-1319) l’uso di una nuova notazione, come in Inghilterra farà Johannes Torkesey con la sua Declaratio trianguli et scuti (1330). Questi teorici sono consapevoli di avere un debito nei confronti di Franco, ma anche consci di essere latori di un’arte nuova (ars nova).
Marchetto da Padova
Voi, dunque, il più glorioso dei principi, circondato, come si addice alla regia maestà, da uno stuolo di cantori, elevate musiche al cielo esultando con voci modulate a lode e gloria del Re superno e, di tanto in tanto, con vero trasporto del cuore intonate il canto
Per quello che si può ipotizzare in base ai pochi documenti a nostra disposizione, Marchetto, figlio di un sarto di Padova, apprende la grammatica e soprattutto la musica presso la cattedrale padovana, dov’è testimoniata un’importante e ben strutturata attività musicale. All’interno della stessa cattedrale egli diviene maestro del coro (1305-1307), ruolo che gli consente, assai probabilmente, di essere scelto (1316) come candidato per concorrere alla prestigiosa e remunerativa carica di magister scolarum presso la scuola capitolare di Cividale del Friuli, ma che non gli è poi sufficiente a vincere i forti appoggi di cui gode il suo antagonista, costringendolo nel giugno 1317 a rinunciare ai propri diritti. Marchetto non si perde d’animo tanto che nel maggio 1318 lo sappiamo attivo a Napoli all’interno della cappella di Roberto d’Angiò e in procinto di partire, al seguito della corte, alla volta di Avignone: probabilmente è proprio in quell’anno e in quell’ambiente internazionale così ricco di stimoli che Marchetto inizia a scrivere il Pomerium, come ha recentemente dimostrato Carla Vivarelli. Marchetto è anche compositore sebbene, oltre a tre composizioni verosimilmente approntate per gli Uffici drammatici della cattedrale padovana (Iste formosus, Quare sic aspicitis, Quis est iste), ci sia pervenuto un solo mottetto, Ave Regina celorum /Mater innocencie / Ite missa est (Joseph) a lui attribuito con certezza per la presenza della sua firma (Marcum Paduanum) nell’acrostico del testo poetico intonato dalla voce più grave. La datazione è incerta: accanto a chi suggerisce l’occasione dell’inaugurazione della cappella degli Scrovegni (1305), vi è chi propone una datazione posteriore almeno al 1310, anche sulla base di considerazioni stilistiche: la presenza di un modo nuovo di concatenare gli accordi generati dall’incontro delle varie voci, la scelta di uno “spazio sonoro” spesso ampliato oltre l’ottava e l’emancipazione delle consonanze imperfette, che conferiscono dolcezza e fluidità all’impasto sonoro.
Marchetto da Padova
Abbiamo voluto che si chiami Pomerium, perché in esso sono stati piantati i fiori e i frutti di tutta la bella musica a lode e gloria del Creatore. […] Per qualche sua parte mi ha aiutato il religioso Sifante da Ferrara dell’ordine dei predicatori, al quale ho esposto gli argomenti ed egli me ne ha illustrato le ragioni; quanto ho imparato l’ho scritto meglio che ho potuto, in modo che in base a quanto esposto, si mostri ai cantori che la musica misurata non si scrive e si canta secondo qualunque capriccio della volontà ma che, in quanto scienza tra le scienze si orna splendidamente di ragionamenti e conclusioni.
Per quanto concerne l’Italia, è a Marchetto da Padova che si riconosce il merito di aver per primo e più dettagliatamente ordinato quelle regole che già i cantori più esperti e i maestri aggiornati usavano per comporre nuova musica.
Alla base del sistema vi è l’unità di misura del tempo musicale, che può essere divisa in tre (tempo perfetto) o in due (tempo imperfetto), essa è pensata come l’intero più piccolo entro il quale prendono forma, con la fisionomia ritmica tipica di ciascuna, le ulteriori suddivisioni del tempo, chiamate anche divisiones. L’importanza di questo principio base è messa in evidenza dal fatto che a delimitare ciascuna unità, ossia ciascun intero, è posto il pontellus, cioè un punto che ha funzione simile alla moderna stanghetta di battuta. In altre parole, vengono definite una pulsazione per il tempo perfetto e una per quello imperfetto all’interno delle quali si possono avere per il tempo perfetto da tre fino a dodici suoni – ovvero le divisiones ternaria, senaria perfetta, novenaria e duodenaria – mentre per il tempo imperfetto da due fino a otto suoni – a costituire le cosiddette divisiones quaternaria, senaria imperfetta, ottonaria. L’unità di misura è dunque la più piccola “unità di senso” in musica, per cui il tempo si dice musicale. Questo approccio profondamente radicato nell’esperienza emerge anche nel Lucidarium, l’opera nella quale Marchetto tratta del canto piano, allorquando il teorico spiega come debbano essere ordinati i modi cosiddetti gregoriani, in quale maniera concorrano a definire una determinata linea di canto e siano in essa riconoscibili.
Marchetto da Padova
Il modo di cantare degli italici si può difendere dicendo che essi imitano la perfezione per quanto possono
Ad accomunare le due tradizioni arsnovistiche, italiana e francese, è la consapevolezza della novità di cui esse si fanno portatrici, nonché l’emergere di una nuova estetica ravvisabile nella medesima ricerca – per quanto, come si è detto, secondo modalità legate alle tradizioni autoctone – del piacere auditivo attraverso sonorità che adottano con maggiore frequenza intervalli imperfetti (terze e seste) e alterazioni cromatiche. L’ ars nova italiana si distingue per la differente impostazione della riflessione sull’unità di misura del tempo musicale, per la predilezione di ritmi semplici – tanto da denominare quelli composti “alla francese” –, e per una notazione più intuitiva e immediata rispetto alle tendenze analitiche della francese. L’ ars nova italiana non sviluppa strutture compositive molto complesse, care ai francesi, come il mottetto isoritmico (che viene accolto in Italia solo verso la fine del secolo) ma predilige, anche nei mottetti, la nettezza dei contorni e lo slancio melodico della linea del cantus, nonché, come ha rilevato efficacemente Nino Pirrotta, la strutturazione dei materiali musicali “indirizzata a sollecitare e condurre il naturale istinto musicale dell’ascoltatore, piuttosto che del suo intelletto”.
Gidino di Sammacampagna
Sul canto
Tractato de li rithimi volgari
lo sòno, osia lo canto, de li dicti marigali, segondo l’uso moderno, dée essere bellettissimo
Gli studiosi si sono ripetutamente interrogati circa l’origine del madrigale avanzando ipotesi assai diverse: la forma madrigalistica, secondo Guido Capovilla, sarebbe sorta “in seguito alla necessità di disporre d’una struttura strofica più concisa e lineare del sonetto e delle ballate”. Diversamente, Enrico Paganuzzi, in un saggio del 1976 sul Trecento musicale veneto, sostiene che i primi madrigali dovevano essere “sboccati e satirici canti di nozze”. Il termine, secondo Bruno Migliorini, potrebbe derivare dall’aggettivo veneto madregal che significa “alla buona”, “ingenuo e naturale”. Il madrigale però sembra del tutto alieno dall’ambito popolare al quale vorrebbero collegarlo i teorici, poiché fu strettamente legato alle innovazioni musicali arsnovistiche e il pubblico “culto”, quello delle corti, al quale è destinato, sembra aver poco a che spartire con un’origine “grossa” e con quel “ rudium inordinatum concinium ” attribuitogli da Francesco da Barberino (1313 ca.).
Il madrigale è una forma poetica che nasce espressamente per essere musicata. Nel Tractato de li rithimi volgari (1381-1387), che compendia la Summa artis rithimici vulgaris dictaminis (1332) di Antonio da Tempo, Gidino di Sommacampagna spiega che il madrigale è composto da una serie di terzetti (da due a cinque) seguiti, ma non sempre, da un distico a rima baciata con funzione di ritornello (rari sono i ritornelli monostici); il verso usato è l’endecasillabo, eventualmente misto al settenario. Capovilla ha identificato nel repertorio arsnovistico, che comprende circa 190 madrigali, ben 64 schemi diversi per l’organizzazione delle rime, due dei quali più ricorrenti: ABB CDD EE e ABA CDC EE. Le tematiche dominanti sono l’amore raccontato da “li pastori innamorati” (Tractato V, 3) in genere con un’ambientazione bucolica e un andamento narrativo, e l’amore proposto secondo “li moderni”, con parole “più sotili e più leggiadre” (ibidem), “rimotivazione in chiave mondano-elegante delle originarie connotazioni feudaleggianti e cavalleresche del linguaggio amoroso convenzionale”.
L’anonimo Voces applicatae verbis descrive il madrigale come una composizione polifonica. Gidino nel Tractato raccomanda che sia cantato “per tri cantatori, o almeno per duy cantatori” (Tractato V, 5). Solo Antonio da Tempo sembra alludere a madrigali monodici (Summa LI, 21-25), ma nessun madrigale monodico è testimoniato, mentre la stragrande maggioranza è a due voci, un numero esiguo a tre. Nei madrigali a due voci la parte più bassa chiamata tenor è costituita principalmente da note di lunga durata, mentre la voce superiore, cantus, si distende in ampi vocalizzi (o melismi) che si alternano a sezioni dove la melodia scandisce le singole sillabe del testo. In genere i terzetti sono cantati in un tempo (divisio) differente dal ritornello, il quale a dispetto del nome, è intonato una sola volta dopo l’ultimo terzetto. La musica è costituita di due sezioni: la sezione A per l’intonazione delle terzine e la sezione B per l’intonazione del ritornello.
ATTENZIONE INSERIRE TABELLA CON TESTO, SCHEMA RIME, INTONAZIONE MUSICALE. vedi cartella dagli_autori_citazioni doc BLM007_da_trasformare_in_tab --- testo originale: BLM007_3.7_Sucato_Il_Trecento_italiano
Il madrigale è il genere più frequentato dai primi polifonisti italiani del Trecento: di Piero si conoscono solo nove composizioni e cinque sono madrigali, delle 19 di Giovanni 18 sono madrigali, di Jacopo da Bologna si contano 30 madrigali sulle 33 composizioni a noi giunte. Nella produzione di Lorenzo Masini, Donato e Gherardello, che appartengono alla cosiddetta seconda generazione, prevalgono ancora i madrigali sulle ballate, ma, ad esempio, il numero di ballate composte da Niccolò da Perugia è superiore, seppur di misura, a quello dei madrigali (19 a 16), finché a partire dagli anni Sessanta-Settanta la ballata polifonica si impone nelle preferenze dei compositori.
Nell’ultimo periodo dell’ ars nova italiana il madrigale torna ad attrarre l’attenzione dei polifonisti in quanto forma musicale propriamente italica e sentita come “classica” in un momento in cui prevalgono gli influssi della musica francese sia nei generi che nella notazione. In questo periodo il madrigale accoglie nuove tematiche: autobiografiche come in Mostrommi amor di Landini, o in Deus deorum, Pluto di Zachara da Teramo; moralizzanti come in Tu che l’opre altru vo’ giudicare di Landini. In ambito lombardo-veneto i madrigali sono usati soprattutto con funzione celebrativa (anche se tale funzione rimarrà propria dei mottetti) come Alba colomba di Bartolino da Padova per l’ingresso dei Visconti a Padova nel 1388. Meritano una menzione, infine, i madrigali politestuali, in cui ogni voce canta un testo differente, come ad esempio Aquila altera, ferma in su la vetta / Uccel di Dio insegna di giustizia / Creatura gentil, animal degno di Jacopo da Bologna e il madrigale Musica son che mi dolgo piangendo / Già furon dolcezze / Ciascun vuoli narrar che compare ad apertura della sezione dedicata a Francesco Landini nel codice Squarcialupi.
Ovvietà
Voces applicatae verbis
si chiamano ballate perché si ballano
Numerose sono le ipotesi sull’origine della forma metrica della ballata, e nessuna collega in modo convincente questa struttura metrica a forme preesistenti, nonostante le affinità individuate di volta in volta con lo zadjal arabo-andaluso, con le Cantigas de Santa Maria portoghesi, con la dansa provenzale, o con il virelai francese. È invece opinione condivisa che la caratterizzazione morfologica si delinea nel corso del Duecento grazie ai siculo-toscani e agli stilnovisti.
La ballata è costituita da un ritornello, o “ripresa”, che viene ripetuto al termine di ogni strofa (o stanza). Ciascuna stanza si compone di “piedi” (o mutazioni) identici per numero di versi e rime, e di una “volta” che ha uguale lunghezza e medesime rime della ripresa. Le ballate minime e piccole, cioè quelle che hanno come ripresa rispettivamente un settenario o un endecasillabo, hanno la loro prima attestazione all’inizio del Trecento proprio nell’ambito della poesia per musica del XIV secolo. Lo schema più usato dai polifonisti è però quello della ballata mezzana (ripresa di tre versi). L’impasto linguistico è meno sostanzioso e pittoresco rispetto a quello dei madrigali e delle cacce. Per quanto riguarda i temi, Antonio da Tempo scrive che nella ballata seppure è da prediligere l’argomento amoroso, tuttavia sono ammessi anche “verba moralia e notabilia”.
Sul piano musicale la ballata è composta di due melodie: la melodia A per intonare la ripresa, e la volta e la melodia B per l’intonazione del piede. In genere il testo del secondo piede, quello della volta ed eventualmente quello delle altre stanze non è posizionato al di sotto del rigo musicale, ma è copiato nello spazio libero dello specchio del medesimo foglio, o di quello adiacente, e costituisce il cosiddetto residuum . Nel trattatello Voces applicatae verbis , l’anonimo autore distingue le “ballade quia ballantur” dai “soni sive soneti” che sono invece le ballate non destinate alla danza, di carattere lirico e con una melodia molto articolata
Le testimonianze manoscritte rivelano che la ballata, inizialmente monodica, solo dopo il 1360 adotta di preferenza l’assetto a due o a tre voci. Oltre alle ballate monodiche anonime contenute nel Rossiano 215, si conoscono quelle intonate dai polifonisti della seconda generazione come Gherardello (cinque), Lorenzo Masini (cinque) e Niccolò da Perugia (una). La sola ballata polifonica nota composta prima del 1360 è Nel mio parlar di questa donn’eterna di Jacopo da Bologna, mentre a partire da questa data la ballata polifonica diviene il genere preferito dai polifonisti della seconda e terza generazione (basti pensare che Landini ha composto 141 ballate e 11 madrigali). Come il madrigale, anche la ballata può essere politestuale: Perché di nove sdegno / Perché tuo servo e soggetto mi tengo / Vendetta far dovrei di Francesco Landini e di Antonio Zachara da Teramo Je suy navrés tan fort / Gnaff’ a le guagnele , ballata politestuale e plurilingue.
La caccia è un genere musicale tipicamente italiano. Circa la sua origine, non vi sono ipotesi più accreditate di altre, ma gli studiosi concordano che in diverse parti d’Europa doveva esistere una tradizione orale di musica intonata con la tecnica che poi diverrà tipica della caccia: il canone. Il termine “caccia” non deriva, secondo Nino Pirrotta, dall’argomento, perlopiù venatorio, o dalla forma metrica, quanto piuttosto dal fatto che vi è un’imitazione melodica rigorosa tra le diverse voci, ovvero una voce “caccia” l’altra, la insegue. Afferma inoltre Pirrotta che nella caccia il canone rende con efficacia realistica “la descrizione di una scena concitata all’aperto, citandone il serrato dialogo, le grida, i richiami fino a sfiorare l’effetto di una rappresentazione sonora se non visiva”.
Le cacce non hanno tradizione testuale autonoma rispetto alla loro vestizione musicale. Inoltre, la totale assenza di attestazioni nei trattati metrici del tempo e in quelli successivi lascia supporre che il genere non fosse percepito come letterariamente autonomo. I testi, concepiti appositamente per l’intonazione musicale, sono composti di settenari e di endecasillabi variamente combinati e in questa scelta metrica è soddisfatta l’eventuale pretesa di letterarietà. La caratteristica formale fissa è la presenza di un distico a rima baciata al termine di ciascuna strofa. Nella caccia è declinato variamente il tema venatorio, ambientato in un bosco o in mare, talvolta con allusioni ad argomenti erotici (come nel caso di Con brachi assai di Giovanni, e di Così pensoso di Landini). Cacciando per gustar di Zachara da Teramo propone il tema venatorio in chiave gastronomica.
La caccia prevede due voci superiori tra le quali è sviluppato il canone e un tenor che non interviene nel gioco delle imitazioni e che si muove in un registro più grave rispetto a esse svolgendo una funzione di sostegno. L’intonazione del distico finale può distaccarsi da quanto precede sia per l’estensione più acuta della melodia sia per il cambio di tempo.
Nove sono le cacce composte prima del 1360 circa a noi giunte: due di Piero, tre di Giovanni, tre di Jacopo da Bologna e una anonima, Segugi a corda. Sette sono le cacce conosciute ascrivibili ai polifonisti della seconda generazione: una di Lorenzo Masini, una di Gherardello, due di Vincenzo da Rimini, tre di Niccolò da Perugia. Zachara da Teramo, unico tra i compositori dell’ultima generazione a riconsiderare il genere, compone una caccia che si discosta dall’ascendente classico per l’assenza del distico finale a rima baciata. Come il madrigale, così la caccia scompare al volgere del secolo XIV.