Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La riduzione del reale alla pura datità materiale predicata dal naturalismo prelude in realtà alla sua trasfigurazione simbolica: apparentemente antitetiche, le poetiche naturalistiche e simbolistiche sono, alla resa dei conti, complementari.
Il Wort-Ton-Drama wagneriano
Antoine ha soltanto dodici anni, e Zola venti, quando, nel gennaio 1860, Wagner tiene il suo primo concerto a Parigi presentando brani tratti da Tannhäuser, Tristano e Isotta e Lohengrin. Se la maggior parte del pubblico rimane scandalizzata dalla musica wagneriana, un ristretto numero di artisti quali Gounod, Saint-Saëns, Doré e Baudelaire, intuiscono la carica innovativa delle opere del compositore tedesco. La "Revue wagnérienne" che Dujardin pubblica tra il 1885 e il 1888 diventa un punto di riferimento capitale per la cultura simbolista.
Anche nel mondo germanico il Wort-Ton-Drama wagneriano è assunto a simbolo delle utopie di palingenesi artistico-culturali della nuova generazione di intellettuali. Nel 1872 Nietzsche dedica a Wagner il proprio saggio La nascita della tragedia che, riscoprendo la componente dionisiaca della tragedia greca quale inquietante risvolto notturno del perfetto equilibrio dell’arte classica, indica nelle opere wagneriane la via per una rifondazione del teatro tedesco.
Il mito, indiscusso protagonista dell’opera d’arte totale sognata da Wagner, trova il proprio tempio nel Festspielhaus che il musicista fa costruire a Bayreuth e che inaugura nel 1876.
La scena "mentale" del Théâtre de l’Œuvre
Nell’ultimo decennio del secolo la vita teatrale parigina è percorsa da fremiti di rivolta: nel 1888 Henri Signoret apre il Petit Théâtre de Marionnettes; nel 1890 Paul Fort dà vita al Théâtre d’Art e nel 1893 Lugné-Poë inaugura con il suo Théâtre de l’Œuvre la scena ufficiale del simbolismo. La svalutazione della materialità del teatro a vantaggio della scena "mentale" teorizzata da Mallarmé e la volontà di penetrare il mistero metafisico di cui l’universo sensibile è simbolo sono i dogmi della nuova scuola drammaturgica.
La riduzione del reale al puro dato materiale predicata dal naturalismo prelude in realtà alla sua trasfigurazione simbolica: apparentemente antitetiche, le poetiche naturalistiche e simbolistiche sono, alla resa dei conti, complementari. Non a caso il simbolista Lugné-Poë, ex collaboratore di Antoine, con i suoi numerosi allestimenti di drammi di Ibsen fa del Théâtre de l’Œuvre "la casa" francese del drammaturgo. Un forte impianto simbolico è infatti alla base delle opere borghesi ibseniane: basta pensare ai bianchi cavalli di Casa Rosmer, all’anatra selvatica del dramma omonimo o alla torre di Il costruttore Solness.
La suggestione simbolica tende a farsi più forte nei drammi della tarda maturità (La donna del mare, 1888 e Quando noi morti ci svegliamo. Un epilogo drammatico in tre atti, 1899). Archetipi mitici sono comunque all’origine di tutti i maggiori personaggi del teatro ibseniano; ad esempio Hedda Gabler ed Ellida, protagonista di La donna del mare, danno rispettivamente sembianze borghesi alla strega-huldre e all’ondina del folklore nordico.
La sostanziale ambiguità del rapporto tra naturalismo e simbolismo si coglie con chiarezza nell’opera di Anton Cechov. Il celebre drammaturgo sceglie infatti l’attrito tra aspirazioni poetiche e istanze realistiche quale soggetto della commedia Il gabbiano (1896). La volontà cechoviana di aderire alla banalità della vita quotidiana è particolarmente evidente nel passaggio da Lesij (1889) alla sua rielaborazione, Zio Vanja (convenzionalmente 1896). Mentre alla fine del terzo atto di Lesij zio Vanja, con classico gesto melodrammatico, si suicida, nella corrispettiva scena di Zio Vanja, zio Vanja spara al professor Serebrjakov mancandolo: la tragedia si "imborghesisce" con un grottesco effetto tragicomico.
Anton Cechov
Vojnickij esplode e aggredisce Serebrijakov
Zio Vanja
VOJNICKIJ: La tenuta è esente da debiti e non si trova in dissesto solo grazie ai miei sforzi personali. Ed ecco, ora che sono vecchio, mi si vuole scacciare di qui bruscamente!
SEREBRJAKOV: Non capisco dove vai a parare!
VOJNICKIJ: Per venticinque anni ho amministrato questa tenuta, ho lavorato, ti ho mandato il denaro, come il più coscienzioso degli economi, e in tutto questo tempo non mi hai ringraziato nemmeno una volta. In tutto questo tempo, ora e quand’ero giovane, ho ricevuto da te uno stipendio di cinquecento rubli l’anno. Un gruzzolo da accattone! E non ti è venuto in mente nemmeno una volta di aggiungervi sia pure un rublo!
SEREBRJAKOV: Ivan Petrovic, che ne sapevo io? Non sono un uomo pratico e non ci capisco nulla. Avresti potuto aumentarlo tu stesso a piacere.
VOJNICKIJ: Perché non ho rubato? Perché non mi disprezzate per non aver rubato? Sarebbe stato giusto, ed ora non sarei un accattone!
MARIJA VASIL’EVNA: (severamente) Jean!
TELEGIN: (agitandosi) Vanja, amico mio, non si deve, non si deve... io tremo... Perché guastare delle buone relazioni? (Lo bacia) Non si deve.
VOJNICKIJ: Per venticinque anni assieme a mia madre sono rimasto fra quattro pareti, come una talpa... Tutti i nostri pensieri e sentimenti erano solo per te. Di giorno parlavamo di te, dei tuoi lavori, andavamo orgogliosi di te, con venerazione pronunziavamo il tuo nome. Le notti le sciupavamo a leggere libri e riviste, che ora profondamente disprezzo!
TELEGIN: Non si deve, Vanja, non si deve... Non posso...
SEREBRJAKOV: (infuriato) Non capisco che cosa vuoi.
VOJNICKIJ: Tu eri per noi un essere di ordine superiore, e i tuoi articoli li conoscevamo a memoria... Ma adesso mi si sono aperti gli occhi! Vedo tutto! Scrivi di arte, ma di arte non capisci nulla! Tutti i tuoi lavori che amavo non valgono un soldo! Ti sei fatto beffa di noi!
SEREBRJAKOV: Signori! Calmatelo insomma! Io me ne vado!
ELENA ANDREEVNA: Ivan Petrovic, esigo che lei la smetta! Mi sente?
VOJNICKIJ: Non la smetterò? (Sbarrando a Serebrjakov il passo) Aspetta, non ho finito! Tu hai devastato la mia vita! Io non ho vissuto, non ho vissuto! Per bontà tua ho rovinato, ho distrutto gli anni migliori della mia vita! Tu sei il mio peggiore nemico!
TELEGIN: Non posso... non posso... Me ne vado... (Esce, fortemente agitato).
SEREBRJAKOV: Che vuoi da me? E quale diritto hai tu di parlarmi in quel tono? Nullità! Se la tenuta è tua, prendila, non ne ho bisogno!
ELENA ANDREEVNA: Io parto subito da questo inferno! (Grida) Non vi posso più resistere!
VOJNICKIJ: Si è dileguata la vita! Io ho ingegno, intelligenza, coraggio. Se io fossi vissuto in modo normale, sarei potuto diventare uno Schopenhauer, un Dostoevskij... Sto cianciando a vanvera! Mi sembra di impazzire... Mamma, sono disperato! Mamma!
MARIJA VASIL’EVNA: (severamente) Dai retta ad Aleksandr!
SONJA: (si mette in ginocchio dinanzi alla balia e si stringe a lei) Balia mia! Balia mia!
VOJNICKIJ: Mamma! Che devo fare? Non c’è bisogno, non parli! So io stesso che fare! (A Serebrjakov) Ti ricorderai di me! (Esce dalla porta di mezzo, seguito da Marija Vasil’evna).
SEREBRJAKOV: Signori, che sta succedendo? Levatemi di torno questo pazzo! Non posso vivere con lui sotto lo stesso tetto! Abita qui, (indica la porta di mezzo) quasi accanto a me... Si trasferisca al villaggio, nella palazzina in cortile, oppure sarò io a trasferirmi di qui, ma restare con lui nella stessa casa non posso...
ELENA ANDREEVNA: (al marito) Partiremo di qui oggi stesso! E’ necessario far subito i preparativi.
SEREBRJAKOV: Nullità senza uguali!
SONJA: (stando in ginocchio, si volta verso il padre: nervosamente, tra le lacrime) Bisogna essere misericordiosi, papà! Zio Vanja ed io siamo così infelici! (Trattenendo la disperazione) Bisogna essere misericordiosi! Ricorda: quando tu eri più giovane, zio Vanja e la nonna di notte traducevano libri per te, copiavano le tue carte... tutte le notti, tutte le notti! Zio Vanja ed io lavoravamo senza riposo, avevamo paura di sprecare per noi una copeca, ti mandavamo tutto... Il nostro pane ce lo siamo guadagnati! Io non dico questo, non è questo che dico, ma tu devi capire, papà. Bisogna essere misericordiosi!
ELENA ANDREEVNA: (sconvolta, al marito) Aleksandr, in nome di Dio spiegati con lui... Ti supplico.
SEREBRJAKOV: Bene, mi spiegherò con lui... Io non lo accuso di nulla, non sono in collera, ma, ammettetelo, il suo comportamento è per lo meno strano. Scusatemi, vado a cercarlo. (Esce dalla porta di mezzo).
ELENA ANDREEVNA: Sii più dolce con lui, rassicuralo... (Esce dietro al marito).
SONJA: (stringendosi alla balia) Balia mia! Balia mia!
MARINA: Non è niente bambina. Gloglotteranno i paperi - e poi sarà pace di nuovo... Gloglotteranno - e poi sarà pace...
SONJA: Balia mia!
MARINA: (la accarezza sulla testa) Tremi, come se avessi i brividi! Su, su, orfanella, Dio è misericordioso. Un decotto di tiglio o di lampone, e passerà... Non ti affliggere, orfanella... (Guardando la porta di mezzo, con calore) Vedi, si sono dispersi i pareri. Vi prenda il malanno! (Dietro la scena uno sparo. Un grido di Elena Andreevna. Sonja sussulta). Il malanno!
SEREBRIJAKOV: (irrompe, barcollando dallo spavento) Tenetelo! Tenetelo! E’ impazzito!
Elena Andreevna e Vojnickij lottano sulla porta.
ELENA ANDREEVNA: (cercando di togliergli la rivoltella) La dia a me! La dia a me, le dico!
VOJNICKIJ: Mi lasci, Hélène! Mi lasci! (Liberatosi, irrompe e cerca con gli occhi Serebrjakov) Dov’è? Ah, eccolo! (Gli spara contro) Bum! (Pausa). Non l’ho colpito? Di nuovo ho fatto cilecca? (Con rabbia) Ah, il diavolo, il diavolo... il diavolo se lo porti... (Scaglia a terra la rivoltella e, spossato, si siede su una sedia).
Serebrjakov è sbalordito. Elena Andreevna si appoggia alla parete: si sente male.
ELENA ANDREEVNA: Portatemi via di qui! Portatemi via, uccidetemi, ma... io non posso restare, non posso!
VOJNICKIJ: (disperato) Oh, che sto facendo! Che sto facendo!
SONJA: (sommessamente) Balia mia! Balia mia!
Anton Cechov, Teatro, Torino, Einaudi, 1991
D’altra parte i personaggi implosi cechoviani si effondono in monologhi di delicato lirismo perfettamente armonici all’atmosfera sospesa che avvolge le loro esistenze. Il "triste" e "morente" suono "di corda di violino" che si spezza, echeggiante nel secondo atto del Giardino dei ciliegi, è in fondo il precipitato simbolico del mistero cosmico e del senso di dissoluzione che aleggia per tutta la "commedia". Dovendo raccontare situazioni prive di reale svolgimento drammatico – "scene di vita di campagna" è il significativo sottotitolo di Zio Vanja – Cechov, come Ibsen, ricorre agli schemi della drammaturgia francese e costruisce le proprie sinfonie d’ambiente sul modello del vaudeville. Insofferenti alla prigionia del salotto – metaforico teatro di ogni dramma borghese – i personaggi cechoviani cercano un rifugio nella "natura", sia essa il "giardino" di Senza padre/Platonov (1877-1878, ma pubblicato nel 1923), di Ivanov (1887), di Zio Vanja o di Tre sorelle, la "campagna" del Giardino dei ciliegi o il "parco" e il "campo da croquet" del Gabbiano.
Come era accaduto a quasi tutti i drammaturghi con ambizioni artistiche che lo hanno preceduto nel corso del secolo, anche Cechov non trova immediati consensi presso il grande pubblico con le sue opere più impegnate sul piano letterario: fatalmente votati all’insuccesso sono infatti tanto Lesij (fiasco al teatro di M. Abramova di Mosca, 27 dicembre 1889) quanto, in un primo momento, Il gabbiano (fiasco al teatro Aleksandrinskij di Pietroburgo, 17 novembre 1896). Occorre attendere la creazione del Moskovskij Chudožestvennyj Teatr di Stanislavskij e Nemirovic-Dancenko (1898) perché anche le opere cechoviane di maggior impegno artistico trovino un pubblico sensibile al loro valore.
È infatti solo con la prima del Gabbiano al Teatro d’Arte (17 dicembre 1898) che il Cechov "maggiore" comincia a conoscere una certa fortuna teatrale.
Il superamento del naturalismo si manifesta con più evidenza in Bjørnson il cui dramma Al di sopra delle nostre forze (parte I, 1893; parte II, 1895) sfiora il simbolismo. Di aperta rottura si può invece parlare per Hauptmann (La morte di Hannele, 1896; Die versunkene Gloke, 1896) e Strindberg che, con Verso Damasco (1898-1901) e Un sogno (1902), apre la via alle avanguardie storiche.
Ancora una volta è Parigi l’epicentro del terremoto che sconvolge la drammaturgia europea fin de siècle. Alla vigilia della creazione del Théâtre de l’Œuvre, Lugné-Poë mette in scena ai Bouffes Parisiens Pelléas et Mélisande di Maeterlinck (1893), allestimento favorevolmente recensito da Mallarmé. Puntando a una progressiva eliminazione dell’uomo dal teatro, necessaria perché la scena possa diventare l’epifania del puro simbolo, i drammi "statici" di Maeterlinck azzerano l’azione e si trasformano in una ossessiva variazione sul tema della morte (L’intruse, 1890; Les aveugles, 1891; L’intérieur, 1894). Come spiega nel saggio Le tragique quotidien (1896), colpito da una cecità reale o metaforica l’uomo, secondo Maeterlinck, è l’inconsapevole centro di una tragedia metafisica che, totalmente interiorizzata e spiritualizzata, non turba minimamente il lento e impercettibile fluire della vita quotidiana.
Nel 1896 debutta al Théâtre de l’Œuvre Salomé di Oscar Wilde (composta in francese nel 1893), regia di Lugné-Poë, interprete Lina Munte in sostituzione di Sarah Bernhardt a cui la tragedia era originariamente destinata. Il sensuale misticismo del dramma non è che la versione decadente ed estetizzante di gusto Art Nouveau di quella fuga dalla realtà che Wilde aveva già posto in atto con L’importanza di chiamarsi Ernesto (1895). Il ritmo in vertiginoso crescendo del dialogo di quest’ultima commedia è infatti il veicolo di una stilizzazione che trasforma l’arte in modello per la vita.
Oscar Wilde
Salomè si dichiara a Iokanaan
Salomè
SALOMÈ: Iokanaan!
IOKANAAN: Chi ha parlato?
SALOMÈ: Iokanaan! Io sono innamorata del tuo corpo. Il tuo corpo è bianco come i gigli di un prato che il falciatore non ha mai falciato. Il tuo corpo è bianco come le nevi che dormono sulle montagne di Giudea e scendono nelle vallate. Le rose del giardino della regina d’Arabia non sono bianche come il tuo corpo. Né le rose del giardino della regina d’Arabia, né i piedi dell’aurora che premono sulle foglie, né il seno della luna quando essa dorme sul seno del mare... Nulla v’è al mondo che sia bianco come il tuo corpo. Lasciami toccare il tuo corpo!
IOKANAAN: Indietro, figlia di Babilonia! È con la donna che il male è entrato nel mondo. Non parlarmi. Io non voglio ascoltarti. Io ascolto solo le parole del Signore Iddio.
SALOMÈ: Il tuo corpo è orrendo. È come il corpo di un lebbroso. È come un muro di gesso sul quale son passate le vipere; come un muro di gesso nel quale gli scorpioni hanno fatto il nido. È come un sepolcro imbiancato e pieno di cose nauseabonde. È orribile, è orribile il tuo corpo!... Ma è dei tuoi capelli che sono innamorata, Iokanaan. I tuoi capelli sono simili a grappoli d’uva, ai grappoli d’uva nera che pendono nelle vigne di Edom, nella terra degli Edomiti. I tuoi capelli sono come i cedri del Libano, come i grandi cedri del Libano che danno ombra ai leoni e ai ladri che vogliono celarsi durante il giorno. Le lunghe notti nere, le notti in cui la luna non si mostra e le stelle hanno paura, non sono altrettanto nere. Il silenzio che abita le foreste non è altrettanto nero. Non c’è nulla nel mondo di così nero come i tuoi capelli... Lasciami toccare i tuoi capelli.
IOKANAAN: Indietro, figlia di Sodoma! Non toccarmi. Non si deve profanare il tempio del Signore Iddio.
SALOMÈ: I tuoi capelli sono orribili. Son ricoperti di fango e di polvere. Si direbbero una corona di spine posta intorno alla tua fronte. Si direbbero un nodo di serpenti neri che si aggrovigliano intorno al tuo collo. Io non amo i tuoi capelli... Ma è della tua bocca che sono innamorata, Iokanaan. La tua bocca è come una striscia scarlatta su una torre d’avorio. È come una melagrana tagliata da un coltello d’avorio. I fiori di melagrano che fioriscono nei giardini di Tiro, e son più rossi delle rose, non sono altrettanto rossi. I rossi squilli delle trombe, che annunciano l’arrivo dei re e incutono paura al nemico, non sono altrettanto rossi. La tua bocca è più rossa dei piedi di coloro che pestano l’uva nei tini. È più rossa dei piedi delle colombe che abitano i templi e sono nutrite dai sacerdoti. È più rossa dei piedi di colui che ritorna dalla foresta ove ha ucciso un leone e ha visto le tigri dorate. La tua bocca è come un ramo di corallo che i pescatori hanno trovato nel crepuscolo del mare e che riservano per i re!... È come il cinabro che i Moabiti estraggono dalle miniere di Moab, e di cui si impadroniscono i re. È come l’arco del re dei Persiani che è dipinto col cinabro e ha le punte di corallo. Nulla vi è al mondo che sia rosso come la tua bocca... lasciami baciare la tua bocca.
IOKANAAN: Mai! figlia di Babilonia! Figlia di Sodoma! mai.
SALOMÈ: Io bacerò la tua bocca, Iokanaan. Io bacerò la tua bocca.
IL GIOVANE SIRIACO: Principessa, principessa, tu che sei come un fascio di mirra, tu che sei la colomba delle colombe, non guardare quest’uomo, non guardarlo! Non dirgli quelle parole. Io non posso sopportarle... Principessa, principessa... non gli dire queste cose.
SALOMÈ: Io bacerò la tua bocca, Iokanaan.
IL GIOVANE SIRIACO: Ah!
Si uccide e cade tra Salomè e Iokanaan.
IL PAGGIO D’ERODIADE: Il giovane Siriaco si è ucciso! Il giovane capitano si è ucciso. Si è ucciso, lui che era mio amico! Io gli avevo regalato una piccola scatola di profumi e due orecchini d’argento, ed ora si è ucciso! Ah! non aveva predetto che sarebbe accaduta una disgrazia?... Io pure l’avevo predetta, ed è accaduta. Io lo sapevo che la luna chiedeva un morto, ma non immaginavo che volesse proprio lui. Ah! perché non l’ho nascosto alla luna? Se l’avessi nascosto in una caverna essa non l’avrebbe visto.
PRIMO SOLDATO: Principessa, il giovane capitano si è ucciso.
SALOMÈ: Lasciami baciare la tua bocca, Iokanaan.
IOKANAAN: Non hai dunque paura, figlia di Erodiade? Non ti ho forse detto che avevo udito nel palazzo il battito d’ali dell’angelo della morte, e l’angelo non è forse venuto?
SALOMÈ: Lasciami baciare la tua bocca.
IOKANAAN: Figlia di adultera, esiste un solo uomo capace di salvarti. È colui di cui ti ho parlato. Va a cercarlo. Egli è in una barca sul mare di Galilea, e sta parlando ai discepoli. Inginocchiati sulla riva del mare e chiamalo per nome. Quando verrà verso te, perché egli va verso tutti coloro che lo chiamano, gèttati ai suoi piedi e chiedigli di rimetterti i peccati.
SALOMÈ: Lasciami baciare la tua bocca.
IOKANAAN: Che tu sia maledetta, figlia di madre incestuosa, che tu sia maledetta.
SALOMÈ: Io bacerò la tua bocca, Iokanaan.
IOKANAAN: Non voglio più guardarti. Non ti guarderò più. Tu sei maledetta, Salomè, tu sei maledetta.
Discende nella cisterna.
Oscar Wilde, Salomè, Milano, Rizzoli, 1988
Nel 1897 è invece D’Annunzio a debuttare a Parigi con Sogno di un mattino di primavera interpretato da Eleonora Duse al Théâtre de la Renaissance.
L’anno successivo, sempre al Théâtre de la Renaissance, viene per la prima volta rappresentata – in versione francese La città morta (1895), protagonista Sarah Bernhardt. Mescolando suggestioni greche e immaginario simbolista, D’Annunzio teorizza un’italica risposta al Wort-Ton-Drama wagneriano.
In assenza del Teatro d’Apollo che Stelio Effrena, protagonista del romanzo Il fuoco (1900), sogna di costruire sul Gianicolo, è il più convenzionale Théâtre du Châtelet a ospitare nel 1911 la produzione kolossal del Martyre de Saint-Sébastien: musiche di Debussy, coreografie di Fokine, scene di Bakst, interprete Ida Rubinstein. Musica, danza, cerimonialità, misticismo e brividi dei sensi: tutto confluisce in un’opera che compendia le utopie di un’intera stagione teatrale.
La tensione religiosa che anima i drammi poetici di Claudel a partire da Tête d’or (1889), apprezzato da Maeterlinck, fa del drammaturgo un probabile candidato per il repertorio dell’Œuvre. Il sodalizio con Lugné-Poë è suggellato dalla messa in scena nel 1912 de L’annonce faite à Marie – rielaborazione de La jeune fille Violaine (1898). Nello spettacolo di Lugné-Poë il Medioevo leggendario che fa da sfondo al "martirio" di Violaine viene mirabilmente tradotto, sul piano visivo, dalla scenografia-arazzo di Variot ispirata alla lezione dei pittori primitivi senesi. A Parigi si conoscono infine Synge e Yeats, promotori del così detto rinascimento teatrale irlandese.
Da Land of Heart’s Desire (1894) e The Countess Cathleen (1899) a The Death of Cuchulain (1939), Yeats, spettatore appassionato dell’Œuvre, sviluppa una propria coerente idea di teatro simbolico e ritualistico su cui esercita pure una certa influenza la conoscenza del teatro orientale.
Il superamento del naturalismo assume una fisionomia tutta particolare a Vienna. L’empiriocriticismo di Mach, che attraverso l’analisi del rapporto tra fisico e psichico approda a una interpretazione soggettiva del reale, condiziona profondamente i drammaturghi della "Junge Österreich". Tanto gli esordi drammaturgici di Schnitzler (Anatol, 1893; Das Märchen, 1894; Liebelei, 1896) quanto quelli di Hofmannsthal (Der Tor und der Tod, 1893; Alkestis da Euripide, 1893) sono infatti caratterizzati da un approccio impressionistico alla realtà. I successivi lavori di Schnitzler – il "grottesco" Der grüne Kakadu (1899) e lo "Stationendrama" Reigen (1900) – conducono Schnitzler a un passo dall’avanguardia.
Arthur Schnitzler
La prostituta e il soldato
Girotondo
Scena I - La prostituta e il soldato
Il ponte di Augarten. È sera, tardi.
Il soldato giunge fischiettando, diretto a casa.
PROSTITUTA: Vieni, angioletto?
Il soldato si volta, poi prosegue.
Non vuoi venire con me?
SOLDATO: Sarei io l’angioletto?
PROSTITUTA: Certo, chi vuoi che sia? Su, vieni con me. Sto qui vicino.
SOLDATO: Non ho tempo, devo rientrare in caserma!
PROSTITUTA: C’è tempo per tornare in caserma. Stai meglio con me.
SOLDATO (avvicinandosi): Forse.
PROSTITUTA: Su! Può venire una guardia da un momento all’altro!
SOLDATO: Storie! La guardia! Ce l’ho anch’io il moschetto!
PROSTITUTA: Su, vieni con me!
SOLDATO: Lasciami in pace, soldi non ne ho.
PROSTITUTA: E io non ne voglio.
SOLDATO (si ferma. Sono vicini a un lampione): Non vuoi soldi? E chi sarai?
PROSTITUTA: Per i soldi ci sono i borghesi; uno come te può farne a meno, con me.
SOLDATO: Non sei per caso quella di cui mi diceva Huber...
PROSTITUTA: Non conosco nessun Huber.
SOLDATO: Devi essere proprio quella... Hai presente il caffè nella Schiffgasse?... Ti ha conosciuto lì... e tu poi lo hai portato a casa tua.
PROSTITUTA: Ne ho portati a casa tanti, dal caffè... sì! sì!...
SOLDATO: Andiamo allora, su!
PROSTITUTA: Perché tanta fretta, adesso?
SOLDATO: Che dobbiamo aspettare? Alle dieci devo essere in caserma.
PROSTITUTA: Da quando sei sotto?
SOLDATO: Che te ne importa? Abiti lontano?
PROSTITUTA: Dieci minuti di strada.
SOLDATO: È troppo lontano. Dammi un bacio.
PROSTITUTA (lo bacia): È quello che preferisco, quando uno mi piace!
SOLDATO: Io no. No, non vengo con te, stai troppo lontano.
PROSTITUTA: Sai che ti dico? Vieni domani nel pomeriggio.
SOLDATO: Va bene. Dammi l’indirizzo.
PROSTITUTA: Ma poi va a finire che non vieni...
SOLDATO: Se ti dico di sì.
PROSTITUTA: Sta’ a sentire... Se questa sera è troppo lontano... là... là... (accenna al Danubio).
SOLDATO: Che cosa?
PROSTITUTA: È così tranquillo... a quest’ora non c’è anima viva.
SOLDATO: Ma non va bene!
PROSTITUTA: Con me va sempre bene. Su, resta con me. Chissà se domani saremo ancora vivi.
SOLDATO: Allora su... ma presto!
PROSTITUTA: Sta’ attento, è buio qui. Se scivoli, finisci in acqua.
SOLDATO: Forse sarebbe la cosa migliore.
PROSTITUTA: Sst, aspetta un momento! Qui vicino ci deve essere una panchina.
SOLDATO: Sei pratica del posto!
PROSTITUTA: Vorrei uno come te per amante.
SOLDATO: Sarei troppo geloso.
PROSTITUTA: Te la farei passare io, la gelosia!
SOLDATO: Ah!...
PROSTITUTA: Parla piano. Potrebbe capitare una guardia. Chi direbbe che siamo al centro di Vienna?
SOLDATO: Vieni, vieni qui.
PROSTITUTA: Ma che ti salta in mente? Se scivoliamo, andiamo a finire in acqua.
SOLDATO (stringendola): Ah...
PROSTITUTA: Sta’ attento...
SOLDATO: Non aver paura...
PROSTITUTA: Sulla panchina sarebbe stato meglio.
SOLDATO: Qui o là... Su, scansati.
PROSTITUTA: Quanta fretta...
SOLDATO: Devo tornare in caserma, già ho fatto tardi.
PROSTITUTA: Va’, va’... Come ti chiami?
SOLDATO: Che t’importa del mio nome?
PROSTITUTA: Io mi chiamo Leocadia.
SOLDATO: Che nome!... Non l’ho mai sentito.
PROSTITUTA: Senti...
SOLDATO: Che altro c’è, adesso?
PROSTITUTA: Senti, dammi almeno due soldi per il portiere!...
SOLDATO: Ohè!... Credi che io sia proprio il fesso che paga! Servo umilissimo, signorina Leocadia!...
PROSTITUTA: Lazzarone! Beccamorto!
Il soldato è scomparso.
Arthur Schnitzler, Girotondo e altre commedie, a cura di P. Chiarini, Torino, Einaudi, 1959
A cavallo tra XIX e XX secolo due "eventi" epocali vengono a segnare una netta cesura nella storia della drammaturgia di ambizione letteraria. Il 10 dicembre 1896, al Théâtre de l’Œuvre, Alfred Jarry – che il mese precedente aveva recitato nel Peer Gynt diretto da Lugné-Poë – mette in scena Ubu re.
Le ostentate provocazioni del dramma, i cui "eroi" sono più marionette che personaggi, scatenano il pandemonio tra il pubblico. Il 14 dicembre 1896, dalle pagine di "Le Temps", Sarcey commenta laconicamente “è l’inizio della fine”. Il 29 maggio 1905 la prima viennese di Il vaso di Pandora di Frank Wedekind suscita altrettanti clamori. La drammaturgia europea è ormai definitivamente entrata nel Novecento.
L’invenzione del cinematografo
I fermenti di ribellione simbolisti e la rottura avanguardista di Jarry non turbano minimamente il tranquillo andamento del teatro commerciale. Nell’ultimo decennio dell’Ottocento le sale parigine frequentate dal grande pubblico non fanno in realtà che riproporre i clichés drammaturgici consolidatisi nel corso del secolo; senza alcuna soluzione di continuità queste forme stereotipate sono poi trasmesse in eredità al Novecento. Edmond Rostand si cimenta nel repertorio mélo con una tecnica che lo pone a metà strada tra Hugo e Sardou (Cyrano de Bergerac, 1897). Eugène Brieux, François de Curel e Paul Hervieu si riallacciano alla tradizione delle pièces à thèse. Jules Renard (Poil de carote, 1900), Octave Mirbeau ed Émile Fabre normalizzano le pulsioni originariamente eterodosse del naturalismo. George de Porto Riche, Bataille e Bernstein analizzano la passione amorosa talvolta intrecciandola al tema del denaro.
Nel genere comico si va dalle commedie brillanti di Flers e Caillavet ai vaudevilles di Feydeau, dalle commedie di carattere di Tristan Bernard a quelle di costume di Georges Courteline.
Un anno prima del debutto di Ubu re una rivoluzione ben più profonda si consuma però sul piano dello spettacolo – una rivoluzione che in un primo momento pare essere un "arricchimento" più che una "svolta", ma che sarà destinata a produrre conseguenze indelebili sulla drammaturgia d’arte e di mercato. Il 28 dicembre 1895, presso il Salon Indien del Grand Café de Paris sul boulevard des Capucines, i fratelli Lumière presentano la prima proiezione pubblica a pagamento del cinematografo. Il fatto che le prime proiezioni cinematografiche siano mute fa pensare che esse non intaccheranno in alcun modo la vita teatrale. In realtà, benprima dell’avvento del sonoro, il film influenzerà profondamente le tecniche narrative della drammaturgia.