Il teatro greco
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il teatro è uno dei centri della vita collettiva della polis greca, un luogo dell’identità culturale, politica e religiosa, che accoglie spettacoli e manifestazioni pubbliche investiti di un fondamentale ruolo educativo per il cittadino; ma costituisce anche la culla di sperimentazioni architettoniche e artistiche di grande rilievo.
Che il teatro sia uno dei più preziosi legati che la cultura classica abbia trasmesso al mondo moderno è una verità indiscutibile; ma il modo in cui il cittadino ateniese del V secolo a.C. “vive” il teatro è profondamente diverso da ciò che significa andare a teatro per l’uomo contemporaneo: nel migliore dei casi, una passione o un piacevole passatempo, talvolta, purtroppo, una sorta di obbligo sociale venato di snobismo intellettuale.
Nell’Atene classica il teatro non è un privilegio per pochi, ma una grande festa per tutti: una festa religiosa, innanzitutto, parte integrante delle cerimonie in onore di Dioniso, le Grandi Dionisie (istituite o almeno riorganizzate da Pisistrato dopo la metà del VI secolo a.C.) che si svolgono nel mese di Elafebolione (marzo-aprile), e le Lenee, celebrate nel mese di Gamelione (gennaio-febbraio); il teatro svolge una propria, importante funzione anche nelle Dionisie rurali, feste itineranti che toccano i diversi demi dell’Attica e che si svolgono nel mese di Posideone (tra dicembre e gennaio). Questi festival teatrali sono organizzati come vere e proprie gare tra gli autori delle opere presentate (tragedie, drammi satireschi, commedie), sottoposte alla votazione di un collegio di giudici, selezionati per sorteggio, che ha il compito di premiare il vincitore: il concorso coinvolge e appassiona il pubblico, che è insieme spettatore, committente e giudice delle opere presentate, perché il collegio giudicante non può non tener conto delle sue preferenze e delle sue reazioni, dagli applausi ai fischi, di cui talvolta ci informano le fonti letterarie.
L’aspetto agonistico che lo spettacolo teatrale assume nella Grecia classica è un elemento essenziale per comprendere l’importanza del ruolo educativo che Atene attribuisce al teatro e che si manifesta soprattutto nella struttura stessa della tragedia: nel confronto tra il protagonista, rappresentante delle istanze, dei desideri e dei problemi del singolo, e il coro, portavoce della collettività della polis e dei suoi valori, si rispecchia l’interrelazione tra individuo e comunità su cui poggia la democrazia ateniese, con la partecipazione diretta del cittadino alla vita politica. È l’attribuzione di questa funzione didattico-politica a fare del teatro ateniese uno spettacolo di stato, promosso e protetto dalla polis, e che coinvolge tutti i cittadini: i più facoltosi hanno il dovere di assumere a turno le spese di allestimento degli spettacoli attraverso la prassi della choregia, mentre per quelli più poveri è la stessa polis a coprire il costo del biglietto, comunque piuttosto modesto.
La rappresentazione teatrale costituisce dunque “un’occasione esemplare di esperienza di vita collettiva”, per usare le parole di Dario Del Corno, grande studioso del teatro classico; ma rappresenta anche il momento della catarsi del singolo, che si confronta con i sentimenti e le passioni che scuotono sulla scena i personaggi del mito e dell’epos, trovando nei loro drammi una forma di consolazione ai dispiaceri e alle pene della propria personale vicenda umana. Le tragedie offrono a tutti un sostegno, come spiega intorno alla metà del IV secolo a.C. il drammaturgo ateniese Timocle, che così prosegue: “Colui che è povero sopporta ormai più facilmente la povertà, avendo appreso che Telefo era più miserabile di lui [...] A colui cui è morto un figlio, Niobe alleggerisce il peso della sofferenza. Chi è zoppo, guarda Filottete [...] Se uno pensa a tutte le sventure, maggiori di quelle che ha subito, che sono capitate ad altri, soffre meno per le proprie” (Ateneo, Deipnosofisti, 6, 223 b; Stobeo, Florilegio, 124, 19).
L’elemento catartico non basta tuttavia a giustificare la profondità del coinvolgimento del pubblico e la violenza di certe reazioni emotive testimoniate dalle fonti letterarie: malori e parti prematuri accompagnano nel 458 a.C. l’irrompere sulla scena delle orribili Erinni nelle Eumenidi di Eschilo, mentre già oltre trent’anni prima un disperato pianto collettivo aveva fatto seguito, nel 492 a.C., alla rappresentazione di una delle rare tragedie di argomento storico presentate sulle scene ateniesi, La presa di Mileto di Frinico, che trattava l’episodio della distruzione violenta di Mileto ad opera dei Persiani (494 a.C.). Per cogliere la potenza emotiva che la tragedia attica esercita sul suo pubblico, quello dell’Atene classica, va tenuto presente che esso non è certo assuefatto alle immagini in movimento come lo è un qualsiasi pubblico contemporaneo; ma anche che la strutturazione dei concorsi drammatici in tre giorni consecutivi, in ognuno dei quali è messa in scena una delle tre tetralogie (costituite ciascuna da tre tragedie e un dramma satiresco) in gara, impone al pubblico una lunga permanenza in teatro, consentendo una totale immersione in quel mondo parallelo che vive ed agisce sulla scena. Naturalmente, questo non implica che tutti gli spettatori siano sempre e completamente rapiti dall’azione scenica: sulle gradinate del teatro, come ricorda Teofrasto nei suoi Caratteri (11; 14) siedono anche gli sbadati, che si addormentano e restano lì da soli quando tutti gli altri se ne vanno, o gli sguaiati, che fanno gli spiritosi battendo le mani o ruttando quando la platea è immersa nel silenzio.
La parola greca theatron deriva dal verbo theaomai, che vuol dire “vedo, osservo”: è dunque un edificio che ha nell’esigenza di offrire al pubblico la massima fruibilità dello spettacolo la ragion d’essere della propria struttura, costituita da tre elementi essenziali: la cavea, l’orchestra e la scena. La cavea del teatro greco (koilon), che accoglie il pubblico su gradinate parzialmente ricavate nella roccia, presenta una forma a segmento circolare che generalmente oltrepassa il semicerchio (per consentire la massima visibilità e una buona acustica) e si addossa ad un pendio naturale (a differenza di quanto avverrà nel teatro romano, nel quale la cavea sarà appoggiata a sostruzioni artificiali), contenuta ai lati da ali costruite artificialmente e sostenute da muri (gli analemmata): uno o più corridoi ad arco di cerchio (diazomata) la dividono in zone semicircolari, scompartite in cunei (kerkides) da scalette radiali (klimakes), che permettono agli spettatori di prendere posto. L’orchestra (da orcheomai, “danzo”) è il luogo riservato alle evoluzioni del coro, e presenta generalmente una forma a ferro di cavallo, anche se in alcuni casi è perfettamente circolare; al centro, soprattutto nei teatri più tardi, può accogliere un piccolo altare (thymele) dedicato a Dioniso. Al limitare dell’orchestra si trovano i posti (proedria) riservati alle autorità, tra cui il trono per il sacerdote di Dioniso.
Gli spettatori entrano nel teatro attraverso le due parodoi, corridoi disposti ai lati dell’orchestra; anche il coro se ne serve per fare il proprio ingresso nell’orchestra, e per questo il suo canto, che segue il prologo nella struttura della tragedia classica, è detto parodos. Alle spalle dell’orchestra, infine, trova posto l’edificio scenico, che è l’elemento che presenta la più variata tipologia strutturale. Il tipo più semplice è quello detto a parasceni, costituito da un palcoscenico di forma allungata, rialzato di poco rispetto all’orchestra e delimitato lateralmente da due avancorpi (i paraskenia), comunicanti con il palcoscenico stesso. Nel tipo detto a proscenio rialzato, più recente, il palcoscenico (logeion) è più alto e sostenuto da pilastri; alle sue spalle si eleva la scena vera e propria, la cui facciata può presentarsi con aspetti diversi: animata da pilastri tra i quali si aprono degli spazi (i thyromata) o caratterizzata da una decorazione architettonica, con nicchie nelle quali si aprono delle porte. L’introduzione del proscenio rialzato, le cui prime attestazioni archeologiche risalgono agli inizi del III secolo a.C., è probabilmente da ricondurre alla perdita della funzione scenica da parte del coro, il cui ruolo viene progressivamente limitato all’esecuzione di danze negli intermezzi musicali, e che dunque non ha più necessità di interagire con gli attori che recitano sul palcoscenico.
Uno splendido frammento di ceramica apula a figure rosse attualmente conservato a Würzburg e databile intorno alla metà del IV secolo a.C. offre un’importante testimonianza figurata sulle scenografie del teatro greco classico: l’edificio scenico presenta un fregio dorico a metope e triglifi, ornato da una teoria di mascheroni e sorretto da eleganti colonne ioniche, e doveva essere definito lateralmente da due ali coronate da frontoni; nell’unica attualmente visibile nel frammento si apre una porta, dalla quale una figura femminile si affaccia per spiare quanto accade sul palcoscenico. Il teatro di tipo greco trova la propria compiuta definizione soltanto nella seconda metà del IV secolo a.C., dunque in un momento in cui si è già conclusa la fase più feconda della produzione teatrale greca.
Le strutture da cui i padri nobili del teatro occidentale, Eschilo, Sofocle, Euripide, e i grandi autori della commedia antica, Cratino, Eupoli, Aristofane presentano al pubblico le proprie opere sono infatti molto più semplici; mentre Tespi d’Icaria, inventore della tragedia secondo la tradizione, aveva portato nei vari demi dell’Attica i primi spettacoli drammatici, affidati ad attori “dalla faccia sporca di mosto” come dice Orazio (Arte poetica, 275 ss.), grazie ad un carro sul quale veniva approntato un rudimentale palcoscenico per le rappresentazioni: un modello cui si ispirerà, nell’Italia fascista, il Ministero della Cultura Popolare per la realizzazione di “carri di Tespi” itineranti, sia drammatici che lirici, per portare il teatro anche nelle località prive di strutture teatrali stabili. Ad Atene i primi concorsi drammatici trovano posto nell’agorà (probabilmente nell’area nord-occidentale), e gli spettatori si accomodano in tribune lignee (ikria): è il crollo di queste strutture, nel 498 a.C., ad imporre il trasferimento degli agoni teatrali nel santuario di Dioniso, dove il pubblico può prendere posto sul pendio dell’acropoli e un muro circolare delimita lo spazio riservato all’orchestra, mentre per il fondale può bastare una struttura scenica in legno, eretta negli anni immediatamente successivi alla vittoria sui Persiani. In questa fase soltanto in alcune città, come a Torico, a Icaria, a Cheronea, sorgono degli edifici teatrali in pietra, caratterizzati nella maggior parte dei casi dall’andamento rettilineo sia dell’orchestra che delle gradinate per il pubblico: questa è la forma che assume anche il primo teatro di Siracusa, costruito nel V secolo a.C. da un architetto di cui eccezionalmente conosciamo anche il nome, Democopo.
Questo antico edificio teatrale siracusano, completamente e sontuosamente ricostruito nella forma circolare canonica all’epoca del tiranno Ierone II, testimonia del precoce svolgimento di rappresentazioni teatrali nella Sicilia greca; verosimilmente è qui che va per la prima volta in scena la tragedia che Eschilo (che a Siracusa risiede tra il 472 e il 468 a.C.) compone per celebrare la rifondazione di Catania ad opera del tiranno Ierone (tiranno dal 478 a.C.): le Etnee.
Ad Atene la costruzione di un teatro in pietra della forma che diventerà canonica, dedicato a Dioniso Eleuterio, si colloca negli anni tra il 338 e il 336 a.C., dietro iniziativa dell’arconte Licurgo, anche se il progetto aveva iniziato a prendere forma probabilmente già nell’età di Pericle: la struttura, della capacità di circa 17 mila spettatori, accoglie anche un piccolo tempio dedicato a Dioniso, e la sua decorazione scultorea comprende le tre statue bronzee di Eschilo, Sofocle ed Euripide (autori che sono considerati dei “classici” almeno dalla fine del V secolo a.C., come dimostra la commedia aristofanea Le rane, rappresentata nel 405 a.C.), statue di cui si conoscono solo copie di età romana. Restauri e rifacimenti successivi interessano in particolare l’edificio scenico e l’apparato scultoreo tra l’epoca ellenistica e l’età romana.
Verso la fine del IV secolo a.C. sorge ad Epidauro, nell’Argolide, quello che Pausania (Periegesi della Grecia, II, 27,5) definisce come il teatro più bello e armonioso di tutta la Grecia, ancora oggi straordinariamente conservato anche nell’eccezionale acustica: opera dell’architetto e scultore argivo Policleto il Giovane, è effettivamente un monumento di grande eleganza e rappresenta forse l’immagine più nota di un teatro greco. Il consistente impegno finanziario che indubbiamente comporta l’erezione di strutture di questo tipo è in parte giustificato dal fatto che esse possono essere utilizzate, oltre che per le rappresentazioni teatrali, anche per tutte quelle attività che presuppongono un largo concorso della cittadinanza, come le assemblee popolari: il teatro si configura dunque anche quale edificio rappresentativo della polis democratica, come dimostra il suo frequente inserimento nel cuore della struttura urbana, in significativo rapporto con l’agorà. Nel corso dell’età ellenistica la tipologia architettonica del teatro di tipo greco si diffonde anche nell’area orientale del bacino del Mediterraneo, dove spesso assume forme grandiose e scenografiche, diventando talvolta il fulcro di ambiziose progettazioni urbanistiche.
L’esempio più rappresentativo di questa tendenza è a Pergamo, dove il koilon del teatro costruito verso la fine del III secolo a.C. si appoggia alle ripide pendici occidentali dell’acropoli, creando un elemento di connessione tra il tempio di Atena Polias, posto sulla sommità, e quello di Dioniso in basso, e assumendo così una funzione che conserva in qualche modo il ricordo dell’antico legame tra rappresentazione teatrale e culto religioso. Al modello pergameno si ispireranno, tra II e I secolo a.C., i santuari laziali della Fortuna Primigenia a Palestrina, di Ercole a Tivoli, di Giunone a Gabi, dotati tutti di una imponente cavea a gradini (non corredata, però, da alcun edificio scenico) che consente l’accesso all’area sacra e che può incastonarsi, come a Palestrina, nel paesaggio naturale, sfruttando in senso scenografico una conformazione orografica particolarmente suggestiva. Ma quella dell’inserimento armonioso dell’edificio nell’ambiente naturale è una preoccupazione che presiede alla scelta dell’orientamento di tutti i teatri greci noti, sempre aperti su panorami di grande bellezza: a Segesta, per esempio, lo splendido teatro costruito intorno alla metà del III secolo a.C. si affaccia su un arioso paesaggio agreste chiuso a nord dalle montagne, mentre dalla summa cavea del teatro di Taormina si gode di una vista mozzafiato sulla costa e sull’Etna.
In base alle testimonianze fornite dalle fonti letterarie è possibile far risalire al periodo di attività di Eschilo e di Sofocle l’introduzione della skenographia, cioè della pittura di scena. Un noto brano di Vitruvio (Sull’architetturaVII, Pref. 11) ricorda il nome di Agatarco di Samo, autore della prima decorazione scenica dipinta per una tragedia di Eschilo e di un commentario scritto sulla propria attività: l’opera drammatica in questione è forse l’Agamennone dalla trilogia dell’Orestea, nella quale l’ambientazione iniziale di fronte alla reggia degli Atridi assume una particolare importanza.
Per quanto riguarda la scenografia di Agatarco, si tratta probabilmente di una decorazione in trompe-l’oeil in cui l’apparenza tridimensionale è raggiunta attraverso una combinazione di pittura e di elementi strutturali in rilievo, realizzati in legno (va a tal proposito tenuto presente che la skene del teatro di Atene in quegli anni è lignea). Con l’introduzione della scena in pietra anche la scenografia tende a diventare più ricca e complessa: pinakes dipinti con diversi tipi di fondale possono essere inseriti sia negli spazi (thyromata) che si aprono dietro al palcoscenico che negli intercolumni del portico che sostiene il palcoscenico stesso nel modello di skene a proscenio rialzato; è inoltre attestata l’esistenza di periaktoi, ovvero di quinte prismatiche ruotanti su se stesse con più tipi di fondale, che consentono rapidi cambiamenti di scena. È ancora Vitruvio (Sull’architettura V, 6,9) ad illustrare quali siano le tipologie scenografiche specifiche per ogni genere teatrale: la scena tragica deve comprendere “colonne, frontoni, statue e altri ornamenti regali”; quella comica, di ambientazione borghese (con ogni probabilità, Vitruvio ha in mente i settings della Commedia Nuova) prevede “edifici privati e balconi”, mentre il dramma satiresco necessita di fondali popolati “di alberi, di caverne, di montagne e di altri ornamenti campestri”. Un notevole riflesso di questo genere di decori di scena è riconoscibile nelle note pitture di II stile del cubiculum dalla Villa di Publio Fannio Sinistore a Boscoreale, ricostruito presso il Metropolitan Museum di New York.
È probabilmente riferendosi alla pittura di scena, che crea illusionisticamente uno spazio immaginario per la rappresentazione teatrale applicando l’uso della prospettiva e dei giochi luministici e cromatici alla realizzazione di decorazioni in trompe-l’oeil e che risulta connessa alla progressiva conquista della spazialità nella pittura “di cavalletto”, che Platone, in alcuni passi (ad esempio, Repubblica X, 602 d), parla polemicamente di un’arte “fantasmagorica”, che mira ad ingannare lo spettatore, blandendo la naturale inclinazione umana a lasciarsi guidare dalle fallaci impressioni sensoriali, e che trasforma il pittore in un prestigiatore, in un sofista, che corrompe il suo pubblico rendendo ciò che “sembra” più importante di ciò che “è”.
Nel teatro greco non mancano le macchine sceniche: le fonti letterarie testimoniano ad esempio dell’esistenza dell’ekkyklema, una pedana ruotante su cui è possibile collocare un baldacchino o una tenda, atti ad ospitare episodi cruenti che non si ritiene opportuno mostrare al pubblico, ma dei quali si svela l’esito finale (come, nell’Agamennone eschileo, il cadavere del re argivo trucidato da Clitennestra nella vasca da bagno). Dèi ed eroi possono fare volando la propria comparsa sulla scena grazie alla geranos, la gru di scena, definita genericamente mechane, “macchina”, artificio assai usato ad esempio da Euripide, nelle cui tragedie compare spesso il deus ex machina, che interviene dall’alto sciogliendo i nodi dell’intreccio narrativo; grazie alla gru, gli dèi possono raggiungere il theologeion, un’alta piattaforma di legno dalla quale pronunciare i loro discorsi. Infine, divinità ctonie o spettri possono fare la propria apparizione, come se sbucassero dalle profondità della terra, grazie alle “scale di Caronte” (charonioi klimakes), una botola aperta sul pavimento dell’orchestra, come nel teatro di Segesta.
Gli attori indossano maschere di legno, di sughero o di stoffa indurita da uno strato di gesso, dipinte e coronate da parrucche; è dubbia la loro utilità per amplificare la voce, ma si tratta di un espediente comunque necessario, visto che sulla scena greca lo stesso attore deve impersonare più di una parte (solitamente non sono disponibili più di tre attori parlanti), e che anche le parti femminili sono interpretate da uomini: nel teatro antico, infatti, non recitano attrici. Oltre alla funzione pratica della maschera, non va naturalmente trascurata la sua valenza apotropaica e magico-sacrale: i partecipanti ai riti in onore di Dioniso o di altre divinità portano spesso maschere, di satiri (nel caso dei riti dionisiaci), di animali o di demoni, di cui riescono così ad assorbire e controllare il potere e l’energia ferina, mentre i sacerdoti possono “diventare” la divinità cui è rivolto il rito assumendone, con una maschera, le fattezze. Allo stesso modo, grazie alla maschera l’attore annulla la propria individualità per “diventare” completamente il personaggio che deve rappresentare; e sono particolarmente suggestive le immagini, frequenti soprattutto nel repertorio della ceramografia magnogreca e in quello della pittura parietale di età romana, che rappresentano l’attore prossimo a fare il proprio ingresso sulla scena, immerso nella contemplazione della propria maschera e concentrato nello sforzo di calarsi nella parte, come su un celebre frammento di ceramica apula a figure rosse oggi a Würzburg. L’uso della maschera rende impossibile il ricorso alla mimica facciale, ma è del resto da supporre che l’intero codice cinesico del teatro antico sia più rigido e formalizzato rispetto a quello cui è abituato lo spettatore moderno: la recitazione è probabilmente di tipo declamatorio, per agevolare la comprensione da parte del pubblico, mentre le dimensioni del palcoscenico, stretto e allungato, limitano i movimenti degli attori, che del resto difficilmente potrebbero essere apprezzati dagli spettatori, soprattutto da quelli seduti nelle ultime file.
Nel teatro antico, infatti, il palcoscenico non gode certo di una illuminazione privilegiata: le rappresentazioni si tengono normalmente di giorno, fino al tramonto, e l’intero edificio, scoperto, è violentemente illuminato dalla luce del sole.
L’artigianato artistico greco e romano costituisce un serbatoio di preziose testimonianze su aspetti della vita teatrale antica, dalle maschere ai costumi alle scenografie, sulle quali saremmo altrimenti ben poco informati; in qualche caso, particolarmente fortunato, è addirittura possibile riconoscere nella tradizione iconografica il riflesso di opere teatrali assenti dalla tradizione manoscritta e note soltanto grazie a citazioni di altri autori, come in una celebre arula fittile dalla necropoli di Medma (l’attuale Rosarno, in Calabria) con una scena di una tragedia perduta di Sofocle, relativa al mito di Tyrò. Particolarmente significativo è l’apporto documentario della ceramica magnogreca a figure rosse: vasi di destinazione essenzialmente funeraria, in cui la tematica teatrale, spesso presente a partire dalla seconda metà del V secolo a.C., ribadisce l’aspirazione della clientela a partecipare dei più nobili valori della cultura ellenica, oltre ad assumere una valenza consolatoria per il defunto e per i suoi cari (basti pensare alle parole di Timocle già citate) e a rimandare al mondo di Dioniso, il cui culto assume dal V secolo a.C. un significato salvifico in rapporto al momento delicato del passaggio dalla vita alla morte.
Sono dunque molto amati i soggetti della tragedia, in particolare di quella euripidea: ma non mancano i riferimenti alla commedia attica, e un particolare favore incontrano intorno alla metà del IV secolo a.C. i vasi cosiddetti fliacici, che ripropongono divertenti sketches farseschi e parodici recitati, spesso su palcoscenici improvvisati, da attori vestiti di calzoncini imbottiti provvisti di voluminosi falli posticci, probabili membri di compagnie itineranti assoldate per occasioni conviviali, comprese forse quelle connesse alle cerimonie funebri. Soprattutto a partire dal IV secolo a.C. diventano frequenti nella piccola plastica in terracotta le riproduzioni di maschere teatrali (con una particolare predilezione per i tipi umani protagonisti della Commedia di Mezzo e Nuova) e di figurine di attori, sia nella Grecia propria che in Magna Grecia e in Sicilia (particolarmente pregevole la produzione di Lipari): piccoli oggetti, spesso qualitativamente modesti, che compaiono sia in contesti votivi che in corredi funerari, e che spesso risultano connessi ad individui in età giovanile, a ribadire ulteriormente l’importante ruolo pedagogico attribuito nella cultura greca al teatro.
La maschera come elemento decorativo avrà poi una lunga fortuna (ennesima spia del ruolo che il teatro riveste nella cultura antica) tra l’età ellenistica e l’epoca romana, nella ceramica, nel mosaico, nei marmi e nelle terrecotte destinati principalmente all’arredo domestico. Nella casa romana, del resto, il richiamo al teatro è un elemento di grande pregnanza, come appare evidente nelle già ricordate pitture parietali di II stile ispirate alle scenografie teatrali.
Ben più profondo e complesso, però, è il rapporto che lega le arti figurative al teatro nel V secolo a.C., l’età in cui sorge e fiorisce la tragedia, forma sovrana di una nuova funzionalizzazione del mito e dell’epos: mostrando gli dèi e gli eroi della tradizione vivere ed agire sulla scena, la tragedia assume infatti un ruolo di straordinario modello per pittori e scultori, stimolandoli ad introdurre nel proprio universo creativo la ricerca di elementi, quali la resa del movimento e dell’azione, la scelta del momento da rappresentare e l’analisi psicologica dell’individuo, attraverso i quali si compie il passaggio dall’arte arcaica a quella classica.