Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La ripresa di mercati, università e fiere internazionali favorisce nell’XI secolo un rinnovamento culturale che nutre l’ambizione di recuperare il prestigio letterario dell’antichità: dal culto di Ovidio e Plauto nasce così – nell’ambito delle scuole – la commedia “elegiaca” con varianti misogine, satiriche, farsesche. Più retorico il tentativo di riesumare il genere tragico.
Vitale di Blois
Su Platone
Aulularia
Platone, avendo osato penetrare nei segreti della natura, ha scoperto e ci insegna che esiste un solo dio. In base a ciò, intrecciando la prestabilita successione degli avvenimenti con l’ambiguità del destino, ci insegna a non credere all’esistenza degli dèi. E spiega il destino col destino stesso, così da concludere che, benché esista un ordine prestabilito, è il caso che governa tutte le cose. Ma poi spiega ancora il destino col destino, così da concludere che anche la sorte regola il proprio cammino in base a una legge immutabile. Ergo Querulo è necessariamente un infelice; e non può non essere infelice, se bisogna credere a questa scuola filosofica.
Vitale di Blois
Geta
Notizie introduttive in Vitale di Blois
Tutto dedito a un lungo e appassionato studio dei Greci, Anfitrione era lontano da casa, in compagnia di Geta. Il figlio di Saturno, in compagnia di Arcade, s’introduce presso Alcmena sotto mentite spoglie. Ella credette che fosse il marito. Finalmente di ritorno, Geta viene mandato in avanscoperta da Anfitrione, ma, per gli inganni di Arcade, si convince di non esistere. Se ne rammarica e, gabbato da Arcade, si allontana; riferisce al padrone ciò che ha visto: quello se ne rammarica; impugnano le armi. Giove, tutto allegro, si allontana insieme con Arcade. Quelli cercano l’adultero: non c’è. Sono contenti, la questione si appiana, l’ira sbolle.
in Commedie latine del XII e XIII secolo, a cura di F. Bertini, Genova, Istituto di Filologia classica e medievale, 1980
Vitale di Blois
Babione e Fodio
Notizie introduttive in Vitale di Blois
Fodio a Petula: Mi alzo, sto indugiando troppo. Andiamocene: arriva tuo marito con una folla. Potessi ora avere degli orci pieni d’inganni! (A voce alta, fingendo di star male) Sono ammalato, sto per morire. Oh, se almeno Babione fosse ritornato! Più della morte mi tormenta senza avergli detto niente. Ohimè, ohimè, come è fragile il dono della nostra esistenza! Non siamo che schiuma, sonno, fumo, fiore, cenere, aria. L’uomo c’è e non c’è; respira e spira; fiorisce e appassisce, nasce e si consuma: tutto quasi in uno stesso istante. Appena Babione se n’è andato, mi è venuto un gran febbrone; e da allora sono in questo cantuccio.
Babione, ai compagni: Andate a casa, ho vinto! Per lui si avvicina l’ultima ora; non gli resta che la morte. Siamo giunti al momento del suo funerale. Abbiamo vinto, andate a casa!
Fodio, tra sé: L’inganno è andato bene; me la sono cavata: il nemico è in trappola. Ha scambiato l’ipocrisia per la solennità della religione.
Babione: Sono ricco, sono felice: nessun re, nessun suddito lo è quanto me. Tu, che io odio più della morte, ora morrai, Fodio! Mentre tu cadevi, io mi sono risollevato; mentre tu eri incalzato dalla morte, io sono risuscitato; mentre tu venivi portato via, io sono ritornato; la tua croce è la tua vittoria.
in Commedie latine del XII e XIII secolo, a cura di F. Bertini, Genova, Istituto di Filologia classica e medievale, 1980
Intorno alla metà del XII secolo, nella valle della Loira, tra Orléans, Chartres e Arras rifioriscono, insieme alla produzione agraria e artigianale, le grandi fiere internazionali nonché la vita culturale delle scuole monastiche e di quelle cittadine garantite dal prestigio episcopale o delle cattedrali.
Ci si avvia verso le universitates, spesso laiche, organizzazioni corporative o consociative di studenti e maestri; questo rinnovamento culturale in senso profano rivolge la propria attenzione anche alla letteratura dell’antichità, agli esempi degli autori comici latini e alla poesia di Ovidio.
Appunto ai moduli o ai personaggi di Plauto e Terenzio, ma mediati dal distico elegiaco ovidiano, s’ispirano una ventina di testi che provengono dal monastero di Fleury nella valle della Loira. Gli studiosi hanno definito come “commedie elegiache” questo corpus sebbene la forma sia a volte narrativa a volte dialogica e l’intento risponda spesso a quello di sceneggiare a mo’ di canovaccio le situazioni realistiche, satiriche, piccanti che ricorrono nei fabliaux, racconti e novelle di gusto popolaresco.
In ambito scolastico questi testi di natura scenico-drammatica, misti di drammi e poesia narrativa, sembrano destinati allo studio e alla lettura anche se non è improbabile che in occasioni festive siano stati recitati/interpretati da studenti: magari come monologhi dialogati e agiti da un unico attore capace di prendere – come il tradizionale pantomimo – l’attitudine e le voci dei vari personaggi. Certo è che neppure una decina di queste composizioni sembrano concepite per essere recitate su una scena vera e propria da parte dei dotti clerici.
Tra questi dotti spicca un Vitale di Blois, maestro di malizie retoriche, che con il suo Geta, rifacendosi all’Anfitrione plautino – o a rifacimenti tardo-antichi –, propone nel 1140 un nuovo modulo esemplare. Come vuole l’intreccio canonico, il servo Geta, ritornando nella casa ove il suo padrone ha lasciato la bella moglie Alcmena a disposizione delle brame di Giove, si scontra con Arcade che ha assunto le sue sembianze; il servo, avendo orecchiato dialettica e filosofia nelle aule parigine, verbalizza la sua crisi d’identità monologando in questi termini: “Povero me! Che prima esistevo e ora son diventato nulla! Cosa potresti essere, Geta? Un uomo? No, accidenti! Perché se Geta fosse un uomo, chi potrebbe mai essere se non Geta? Sono Platone. Forse i miei studi mi hanno fatto diventare Platone [...]. Al diavolo la dialettica, per colpa della quale al diavolo ho finito con l’andare io! Ora lo so: il sapere è nocivo”.
Il monologo continua a investire la “scienza” dei sofismi a evidente divertimento di un dotto pubblico di chierici colti e scanzonati, che soli erano in grado di comprendere la gustosa parodia delle dispute filosofiche. Dopo le grevi e scurrili esibizioni dei servi, reciterà con sottili sofismi anche l’accorta Alcmena che così tranquillizza Anfitrione dal sospetto d’adulterio: “Certo, ho sognato d’essere stata con te...”.
Convinto d’emanciparsi dagli antichi affinandoli col sapere delle scuole, Vitale di Blois nel prologo della sua seconda commedia, l’Aulularia, non esita a dichiararsi superiore allo stesso Plauto – da cui si scosta mescidandolo con un anonimo Querolus. Il suo protagonista, appunto Querulo, erede d’uno scrigno colmo d’oro, deve fronteggiare i tentativi di furto che mette in atto il suo avido servo Sàrdana e lo fa riflettendo sul paradossale destino umano e sul ruolo assegnato alla divinità: “La sciocca devozione degli uomini si compiace d’essere asservita a dèi che si è fabbricata da sé ed è essa stessa che determina l’esistenza degli dèi. L’uomo trema di fronte a un idolo creato dalle sue mani e chiede che gli impartisca degli ordini [...]. Se gli uomini avessero sale in zucca, la schiera degli dèi sarebbe ridotta a chiedere l’elemosina”.
Mentre il suo interlocutore, l’ortodosso Lare, sostiene che c’è un ordine nel corso degli eventi, l’astuto Sàrdana, travestitosi da mago per truffare il giovane padrone, si dimostra non meno acculturato ridendosela con un compare delle dottrine cosmologiche della Scuola di Chartres e discettando davanti allo scrigno sulle teorie del vuoto: “Ma nulla è vuoto: l’aria che ci circonda, grazie alla sua impalpabilità, non consente che esista alcun spazio vuoto. L’aria, come non toglie spazio a nessun oggetto, così da nessun oggetto viene esclusa: si insinua in tutti i corpi attraverso pori invisibili”. Il successo delle due commedie di Vitale farà sì che nelle intenzioni e nelle attese di autori e pubblico il modello con cui competere non sarà più quello di Plauto o Terenzio quanto piuttosto il modulo elaborato dall’Aulularia e dal Geta – riproposto questo da ben 66 manoscritti.
Anche nell’Inghilterra di Enrico III l’anonimo Baucis et Traso, che organizza la beffa comica ai danni d’un soldato fanfarone e lussurioso, sceneggia i sortilegi di cui si vale la ruffiana Bauci per restaurare la usurata verginità della giovane Glicerio. Il gioco delle apparenze richiama ancora i trucchi e la cialtronesca magia usata da Sàrdana nell’Aulularia per circuire lo sprovveduto di turno.
Una maliziosa ripresa del tema erotico – mutuata però dall’Androgino di Menandro – è offerta nelle varianti di seduzione/inganno nella successione di scene narrate e dialogate dell’Alda, testo scenico-drammatico che Guglielmo di Blois appronta, fra il 1166 e il 1169, per la corte palermitana del giovane Guglielmo II. La vicenda della fanciulla orfana, custodita dal padre perché, non innamorandosi, eviti il rischio di morire di parto come la madre, si sviluppa con l’invaghimento di Pirro che invano fa conto sui servigi d’un pachidermico servo Spurio, a sua volta invaghito della megera Spurca. Solo la vecchia nutrice si muoverà a compassione e, sfruttando l’incredibile somiglianza di Pirro con la sorella – amica di Alda – asseconderà il giovane nell’infilarsi, camuffato da donna, prima nelle stanze poi nel letto dell’amata. L’ingenua Alda partecipa con gioioso entusiasmo alla propria iniziazione erotica da parte della pseudo amica, cui anzi rimprovera di non aver acquistato al mercato una “coda” più grossa: “Accidenti a te e alla tua parsimonia! Saresti povera ma felice, se la tua coda fosse la più grande delle code!”. Quando se la ritrova incinta, il padre accusa la sorella di Pirro d’essere androgina, ma il matrimonio col fratello accomoda tutto.
Per l’eletto pubblico di chierici e di cortigiani il recupero del genere commedia consente di accogliere – ai danni dei personaggi servili – e di canzonare – a vantaggio delle giovani altolocate – la satira misogina tradizionalmente indirizzata contro le donne dai Padri della Chiesa.
Un’ambigua misoginia traspare anche nella Lidia attribuita Arnolfo di Orléans, dove la determinazione amorosa della protagonista, piena di risorse nel tacitare gli scrupoli del riluttante Pirro a possederla, arriva infatti al punto di consumare l’adulterio proprio sotto gli occhi del marito. Salendo sull’ombroso pero del giardino ducale il giovane finge di vedere, scandalizzato, un subitaneo amplesso del duca con Lidia e grida: “Basta, ti prego! Duca, basta! Non è conveniente fare sconcezze proprio qui: questo è amore sconsiderato, libidine dissennata. Potresti sbattere altrove la tua ansimante Lidia...”. Il Duca cade nel tranello, sale sull’albero per controllare e assiste fremendo all’amplesso effettivo dei due amanti. Ma è convinto che il “difetto” sia nell’albero, nel pero che “dà corpo a cose vane”, e alla fine può solo ordinare che venga abbattuto.
Non meno ambigua la prospettiva misogina offerta al pubblico dalla commedia La moglie del calzolaio di Iacopo da Benevento la cui mentalità giuridica di cancelliere rovescia il luogo comune della venalità femminile. La bellissima donna prima finge di cedere più alle suppliche che non ai regali d’un prete invaghito poi, dopo aver svelato all’avido calzolaio il tentativo di seduzione, si trasforma da esca usata per un ricatto in cedevole amante. La gnome spiega che “a ciascuno è lecito sconfiggere l’insidia con l’insidia”.
Come gioco satirico sul mondo della campagna, sul villano rozzo e presuntuoso, esce dal colto ambiente dei chierici anche il Babbeo, composto da un anonimo autore inglese. La prima parte mette in scena il ricco e pauroso Babione a spasimare per la giovane cognata Viola che gli causa un affanno “indivisibile, privo di moto”; gli fa da contraltare il servo di casa Fodio che, non solo s’appropria delle sue sostanze, ma pure della moglie Papula; il babbeo fa appena in tempo a offrirsi alla cognata (“Anche se uomo, io ti sarò sottoposto”) che arriva il superiore Croceo a pretendere con prepotenza i favori di Viola. L’invaghito millantatore si rassegna rivalutando la moglie in virtù d’un retorico sfoggio di antitesi: “Petula non è come Viola: una mentitrice, costei, e quella fedele; questa la notte, quella il giorno; questa un rovo, quella una rosa [...] questa serpente, quella colomba; questa tutto inganno, quella tutto decoro”. La seconda parte introduce Babione ormai a conoscenza della tresca tra il servo e la moglie, ma i due riescono a confonderlo con i loro spergiuri; quando cerca di sorprendere gli adulteri viene preso a bastonate. Né gli giova – nella terza sequenza – ricorrere ad un paio d’amici e guidarli militarmente: “Incalzo l’adultero; sono soldato sotto la tua bandiera, o casta Diana: proteggi con tutto il potere che hai le armi del tuo soldato!”. Neppure la mitologia salva infine lo stolto da un’avvilente mutilazione: “Ti toglierò solo i cimbali, non voglio farti maggior danno”, dichiara cinicamente Fodio. E al suo padrone non resta che ritirarsi in convento.
Proprio la struttura interamente dialogata di questa farsesca commedia ha diviso gli studiosi sulle ipotesi d’un’esecuzione propriamente teatrale: affidata alla recita a più voci ma senza rappresentazione? Limitata recitazione mimetica di un solo attore capace di assumere le attitudini e le voci dei diversi ruoli? O realizzata in vera e propria rappresentazione scenica da singoli attanti?
L’aspetto narrativo – destinato quindi alla lettura o all’esercizio retorico – prevale decisamente nello stile alto del genere tragico, cui affidò il proprio prestigio letterario lo stesso Guglielmo di Blois utilizzando il solito distico elegiaco. Esemplare in questa reinterpretazione della tragedia antica il Patricida di Bernardo Silvestre, maestro di Chartres che – intorno al 1150 – alterna la narrazione al dialogo e drammatizza una declamatio di Quintiliano. Il protagonista è, come Edipo, segnato da un oracolo terribile, la madre lo salva nascostamente e il giovane valoroso sconfigge i Cartaginesi salendo sul trono di Roma. Inorgoglita la donna non sa più celare il segreto e il padre si riscatta offrendo la propria vita al figlio glorioso. Il giovane re si affranca dalla tirannide del fato e ai senatori dichiara di rinunciare al regno: “Mi spoglio subito del titolo di re, per realizzare, in piena libertà i miei desideri”. La gnome sembra premiare gli affetti privati rispetto a ogni ragione di Stato.
In un contesto ferocemente collocato sotto le insegne di Seneca si sviluppa la vicenda di Afra e Flavio – 117 distici di anonimo autore. Dichiarata sterile, la tragica eroina genera un bimbo e dal tribunale è ritenuta adultera, salvo a convincere in extremis il giudice mostrando l’evidente somiglianza di padre e figlio. Ma l’ira di Flavio non si placa e abbandona Afra col neonato su un’isola dove la madre, inariditosi il seno, preferisce divorare la sua creatura piuttosto di abbandonarla alle fiere: “Le mie viscere hanno dato origine alla tua vita, figlio mio; le mie viscere porranno termine alla vita”. Quale patetico e macabro ricordo conserva soltanto una mano; soccorsa da una nave e ricondotta in patria, l’allucinata donna invita Flavio a cibarsi a sua volta della reliquia. Il popolo vorrebbe la condanna del padre che scarica ancora l’infanticidio sulla madre. Lei si redime uccidendosi e seguendo così il destino della sua creatura, il suo piccolo “compagno d’esilio”: “Ricambio vita per vita, morte per morte e con la mia morte vendico la morte del bambino”. Un violento affrancarsi – parrebbe – dalla misoginia di tante commedie.