Il sogno protestante
Alla metà dell’Ottocento l’Inghilterra («questa infaticabile creatrice d’autonomie», come scrisse Giuseppe Gangale)1 dedicava un’attenzione tutta particolare all’Italia. In un quadro internazionale di aspri interessi strategici – il processo unitario allontanava il rischio dell’egemonia francese sulla penisola e faceva sorgere nello scacchiere del Mediterraneo uno stato potenzialmente alleato – avevano non poca parte anche ragioni del tutto diverse. Il reverendo James Dixon, che era stato presidente della Conferenza metodista britannica, in un discorso nel 1849 disse a proposito delle Valli Valdesi: «Ci si trova proprio sul confine dell’Italia. Metti un missionario o due che stiano attenti al procedere degli eventi, e, se questi si realizzeranno, lasciali senz’altro andare». Gli eventi che dovevano ‘procedere’, e cui un missionario metodista doveva stare attento, erano appunto quelli che avrebbero potuto spalancare alla predicazione evangelica il territorio di un paese unificato sotto una monarchia costituzionale. E infatti dall’uditorio si levò una voce: «Andare dove? A Roma?», e Dixon rispose: «Certo, a Roma»2.
Roma era la chiave di volta di ogni progetto, perché era il tema ricorrente nel millenarismo che caratterizzava l’evangelismo di quegli anni, alimentato dal clima storico, «con le sue speranze di imminente avvento di una nuova èra, le sue apocalittiche minacce rivoluzionarie, sospese sui troni più venerandi, a cominciare da quello pontificio»3. Roma, e Gerusalemme: da un lato il prossimo ritorno d’Israele nella Terra, con il ristabilimento del regno in Palestina, e in seguito alla sua conversione al cristianesimo (una specie di sionismo protestante ante litteram che ben esprimeva il biblicismo evangelico e, insieme, si coniugava con le preoccupazioni politiche per la questione orientale); dall’altro la distruzione di Babilonia, la grande meretrice: anch’essa evento tipico della fine dei tempi, prefigurava senz’altro la fine del potere temporale dei papi. Cade la prostituta vestita di porpora, «ubriaca del sangue dei martiri» (Ap. 17,6), e cade Roma. È così che il Risorgimento stava a cuore ai metodisti inglesi, decisi a diffondere l’evangelo dovunque esso non fosse predicato come a loro, protestanti rinnovati dallo spirito del Revival, sembrava dovesse essere fatto, cioè in vista di una fede vivente e militante, lontana quant’altro mai dalle «superstizioni» e dagli «inganni» papisti. Il Risorgimento era appunto quel moto – politico, ideale, culturale – che aveva all’orizzonte la liberazione di Roma dal potere temporale, e che quindi nel suo cammino consentiva di raggiungere anche il popolo italiano con una predicazione che, chiamando alla conversione individuale, a sua volta avrebbe facilitato e abbreviato quel processo.
Fu così che in Italia arrivarono i primi missionari protestanti. Intorno ai frutti del loro lavoro ruoterà molto della nostra trattazione, ma prima dobbiamo fare un passo indietro, e vedere che cosa c’era già, di protestante, nell’Italia del primo Risorgimento.
Prima di tutti gli altri, in Italia, c’erano stati – e c’erano – i valdesi. Primi per ragioni cronologiche: dall’alveo composito del valdismo medievale, un ramo si era concentrato nelle valli del Piemonte che da loro presero il nome4. Essi furono periodicamente e variamente perseguitati; aderirono alla Riforma svizzera e da essa furono ‘rifondati’ teologicamente; dalla Controriforma furono sterminati in Calabria, dove una parte di loro si era insediata dal secolo XIV; gli altri sopravvissero per secoli come sudditi dei Savoia, ancora con alterne persecuzioni e concessioni, espulsioni e rimpatri, stragi e sollievi, sempre modificando la propria fisionomia teologica, ecclesiale e culturale secondo gli influssi che alle Valli arrivavano dai continui contatti con il protestantesimo europeo e dai rivolgimenti politici del continente, e sempre conservando il loro posto nel panorama delle Chiese riformate: furono puritani con la Glorieuse rentrée (1689), in epoca di guerre di religione, quando «la libertà di coscienza era affidata alla forza delle armi»5; furono illuministi con la Rivoluzione e Napoleone, quando la Ginevra cui facevano riferimento era «ormai guadagnata al neo-socinianismo razionalistico»6; saranno ‘risvegliati’ con Charles Beckwith e con il suo impegno laico, tipico del Revival anglosassone (ma non tanto ‘democratico’ da impedirgli di sognare anche per i valdesi una Chiesa episcopale).
Ma i valdesi furono i primi anche nell’immaginario collettivo di tutti i protestanti – europei e americani. Una leggenda accompagnò fino a oltre la metà dell’Ottocento le ricostruzioni della loro storia, e cioè la pretesa di una fisica successione apostolica, ininterrotta, dalla Chiesa delle origini fino al presente, di un nucleo di ‘santi’ celati e salvati nelle valli piemontesi, mentre fuori la Chiesa apostatava. Sarebbe mai stato possibile credere che Dio permettesse la scomparsa della sua vera Chiesa dal mondo, mentre la Babilonia romana impersonava il suo contrario? I valdesi, sopravvissuti a ogni caccia, testimoniavano della fedeltà del Signore alla sua Chiesa. È loro quel «sangue dei martiri», prefigurato nell’Apocalisse, e di cui si è ubriacata la Chiesa romana. Generazioni e generazioni di inglesi – puritani, anglicani, nonconformisti – impararono a collegare storia e apocalittica sui versi celeberrimi che Milton aveva dedicato all’«Israele delle Alpi»:
«Vendica, Signore, i tuoi santi massacrati, le cui ossa / giacciono disseminate nel freddo delle montagne alpine: / di coloro che pura così serbarono la tua verità, / nel tempo in cui tutti i nostri padri adoravano bastoni e pietre. / Non dimenticare; nel tuo libro registra i loro lamenti, / era il tuo gregge, e nel loro antico ovile / furono uccisi dal Piemontese sanguinario, che rotolò / la madre con l’infante giù dalle rocce. I loro lamenti / le valli han ripetuto alle colline, e queste / al cielo. Il loro sangue di martiri, e le ceneri, / semina su tutti i campi italiani, dove domina / ancora il triplice tiranno: da loro, a centinaia, / crescano quelli che, appresa la tua via, / sfuggano in tempo alla rovina di Babilonia»7.
Milton non aveva esagerato sui bambini buttati dalle rupi, e l’evidente richiamo al verso 9 del salmo 137 non era solo simbolico: testimonianze dirette raccontano che durante il massacro del 1655 era avvenuto anche questo8. E così, ancora nell’Ottocento, non c’era inglese che non si commovesse, e non si confermasse nel suo anticattolicesimo, pensando a questa storia italiana. Non solo metodisti o battisti, ma anche anglicani, perfino la parte più conservatrice della Chiesa stabilita, tutta l’opinione pubblica che fosse minimamente partecipe di questioni religiose o politiche, tutti pensavano ai valdesi del Piemonte come al ‘resto di Israele’ che nel secolo XIX doveva essere salvato dal braccio armato del papa, come lo era stato – e proprio con l’intervento della potente Britannia di Cromwell e del suo segretario Milton – nel XVII. Mista all’emozione poetica del loro grande vate, gli inglesi moderni trovavano nel suo carme gli elementi già compiuti dell’interpretazione storico-escatologica del ruolo dei valdesi in Italia: come dai denti di Cadmo, dal sangue del loro martirio doveva sorgere – una volta che il loro retaggio fosse a sufficienza seminato in tutte le regioni d’Italia – una nuova generazione di italiani liberati dal dominio del papa e perciò in grado di scampare all’immancabile giudizio di Dio sulla città dell’apostasia. Il contesto romantico aggiungeva tensione emotiva (e qualche fantasiosa ricostruzione storica) alla severa drammaticità della poesia puritana. Nella prima metà degli anni Venti dell’Ottocento il dottor Stephen Gilly, canonico della cattedrale anglicana di Durham, dopo un viaggio nelle Valli Valdesi (da cui tornò convinto di aver incontrato, nella persona del vecchio pastore Peyran, un autentico vescovo della Chiesa primitiva), scrisse un libro su questa sconvolgente esperienza. Il re in persona, Giorgio IV, si degnò di accettarne la dedica, e nel 1825 fu fondato, col patrocinio dell’arcivescovo primate di Canterbury, di alcuni altri vescovi, e di membri tra i più illustri della nobiltà, un comitato per il Waldensian Aid.
Dunque – fatta la tara del mito ‘apostolico’ – questo pugno di montanari, che aveva nell’ecumene protestante un prestigio assai superiore alla sua consistenza numerica, entrò nel Risorgimento a pieno titolo come protestante, e con buone amicizie internazionali. Ci sarebbe forse da chiedersi quanto di questo protestantesimo fosse anche autenticamente italiano: chiusi per tanti secoli in mezzo alle montagne, degli altri italiani sapevano ben poco, e di un’ipotetica Italia unita ancor meno. La loro Bibbia, che si fecero tradurre da Pietro Olivetano quando aderirono alla Riforma (durante il sinodo tenuto a Chanforan nel 1532 avevano deciso le due cose insieme), era in francese, e in francese lo stesso Olivetano aveva scritto il piccolo trattato che usava facendo lezione ai bambini delle Valli, l’Instruction pour les enfants. «Attraverso il sinodo di Chanforan e la Bibbia di Olivetano i Valdesi entravano ormai nella grande storia della Riforma in Europa come testa di ponte protestante nella terra stessa del Papato»9. Un passaggio storico, insomma, che li incardinò definitivamente in un contesto più ampio delle valli in cui erano ristretti, e dell’Italia stessa. Eppure si dimostrarono pienamente italiani, se vuol dire qualcosa il fatto che, al momento cruciale, seppero fare la scelta coraggiosa di spostare i centri più importanti della loro elaborazione teologica fuori delle Valli, e di ‘seminare il sangue dei loro martiri’ lungo il territorio della penisola.
Penisola nella quale, già molto prima dell’Unità, si potevano registrare anche altre presenze protestanti: «l’Italia risorgente non ha avuto bisogno di attendere i ‘risvegliati’ per sentir parlare di Riforma e di protestantesimo. È indubbio che un Sismondi, un Vieusseux, un Mayer erano protestanti e che nessuno di loro aveva atteso il 1840 per cominciare a essere presente nel movimento risorgimentale italiano»10.
Firenze fu la culla di quello che Giorgio Spini ha chiamato «il “ginevrismo” della cultura italiana del tempo»11, degli anni successivi al 1821, quando l’Histoire des républiques italiennes di Sismondi introduceva, nell’immaginario e fin nel linguaggio della letteratura e della pittura, i miti storico-patriottici di un’Italia che, dai tempi di Corradino o dei Vespri Siciliani, avrebbe avuto già forte una coscienza di sé; oppure quando faceva scuola la pedagogia elvetica diPestalozzi, e produceva «quella tipica sintesi di interessi agrari, pedagogici ed etico-religiosi, di cui si alimenta il gruppo dei grandi “campagnoli toscani” del primo Ottocento, dal Capponi al Lambruschini, e dal Ridolfi al Ricasoli o al Guicciardini»12. E se «questo “ginevrismo” italiano del primo Ottocento è dunque una componente di grande importanza nella formazione della coscienza risorgimentale»13, non solo nell’ispirazione politica si vide tale influenza, se essa, oltre a questo, condusse molte delle personalità che si ispiravano alla Ginevra liberal-protestante a subirne anche le suggestioni religiose.
Tuttavia è proprio in questa congiuntura che si registra nel modo più evidente il passaggio dal protestantesimo illuministico a quello ‘risvegliato’, fisicamente rappresentabile nella figura del conte Pietro Guicciardini. Discendente di una grande famiglia di proprietari terrieri, attento al tema, tipico della cultura ginevrina, del progresso dell’agricoltura (fu membro dell’Accademia dei Georgofili e collaboratore del Giornale Agrario Toscano), frequentava il cenacolo di Vieusseux e fu sottoscrittore dell’ «Antologia»: tutto un mondo che lambiva quello della Chiesa riformata degli svizzeri a Firenze, dove Guicciardini incontrò non solo un pastore guadagnato ormai del tutto alla teologia del Risveglio ma, soprattutto, la Bibbia che costui gli mise in mano. Il 1836 rimase per lui, per tutta la vita, la data della sua «seconda nascita». Insomma nella sua persona la più calda e fin anche radicale pietà del Risveglio si sommava a interessi ispirati dalla Ginevra dell’Illuminismo a sfondo protestante (la natura, ma anche la cura dell’infanzia: era nella commissione dei Georgofili che doveva promuovere la fondazione di asili infantili).
Negli anni Quaranta si andava diffondendo il movimento dei Fratelli di Plymouth, che si definiva così dal nome della città in cui era sorto, e dalla prima convinzione teologica sulla quale fondavano le loro riunioni, che altro non volevano essere, appunto, se non assemblee di ‘fratelli’ uguali, convocate dallo Spirito santo al di fuori di ogni struttura ecclesiastica, di ogni distinzione, non solo fra clero e laicato, ma anche tra laicato e ministero pastorale, perfino al di fuori di qualunque liturgia prestabilita. Al loro interno era emersa ben presto un’ulteriore radicalizzazione, proposta da John Nelson Darby, un anglicano convertito all’evangelismo, il quale predicò, prima in Gran Bretagna poi in Svizzera, un’assoluta separazione dei credenti dal mondo, per evitare la contaminazione dei santi da qualunque forma di cristianesimo, ché tutto, sia cattolico sia protestante, aveva ormai apostatato irreversibilmente, e sarebbe stato inutile sperare di restituirlo alla primitiva purezza.
Guicciardini, e dopo di lui Salvatore Ferretti, si accostarono a questo tipo di evangelismo. Anche Ferretti è un personaggio interessante: destinato al sacerdozio, scappò invece da Firenze per sposare una ragazza di cui si era innamorato. Ma non si trattò di banali fatti di cuore: a Losanna (dove fu allievo di Vinet), abbracciò appunto la fede evangelica; passato poi a Londra (dove incontrò personalmente Darby) entrò a far parte di un gruppo, che si ingrossava sempre di più, di esuli italiani arrivati lì per varie ragioni, spesso per sfuggire a un sacerdozio mal tollerato, oppure per ragioni politiche. La sua opera nella capitale inglese ci riporta a pagine memorabili della Londra dickensiana: dal 1844 cominciò a raccogliere dalla strada bambini di emigrati italiani, caduti per miseria nelle mani di loschi individui che li sfruttavano. Ma Ferretti non si limitò alla cura dell’infanzia; dal 1847 pubblicò a Londra un periodico che fin dal titolo, «L’Eco di Savonarola», indicava l’intenzione di affrontare il tema della italianità possibile di una riforma religiosa14.
Fu questo il primo esempio di un costume che si diffuse e durò a lungo fra gli evangelici italiani di tutte le denominazioni, con particolare affezione in quelle che legarono più strettamente fede religiosa e impegno civile: il costume di intitolare circoli culturali, iniziative pubbliche, scuole, a personaggi della tradizione italiana che mostrassero come era stato possibile nel passato chiedere una riforma, o ricevere, per praticarla anche pagando prezzi alti, la predicazione della Riforma protestante.
Ma non si trattò soltanto di scegliere figure simboliche. Alla base di questa predilezione per la storia di una riforma italiana stava la stessa dottrina dell’apostasia della Chiesa, declinata nella sua forma meno rigida, e finalizzata a cercare il fil rouge rappresentativo della sopravvivenza, magari nascosta e perseguitata, ma ininterrotta, di una Chiesa fedele. Abbiamo già visto il suo peso nei primi anni del Risorgimento, e quella dottrina accompagnò la storia dei protestanti anche dopo. Nell’ambiente valdese fu I nostri protestanti, un libro di Emilio Comba, professore di Storia del cristianesimo nella Facoltà teologica, a metterla in connessione con nomi e vicende. L’operazione non era esente da pecche anche gravi, ma costituì, oltre che la spinta per molti a radicare storicamente la propria fede, un collegamento (più forte ed esplicito di quanto poteva esserlo nell’ambiente delle chiese dei Fratelli) con l’ispirazione democratica in politica. Il primo aspetto, quello, diciamo così, ‘storicistico’, risaliva addirittura alla ripresa di tali studi operata dall’ «Archivio storico italiano», alla riscoperta del Beneficio di Cristo, alla pubblicazione, per opera di Guicciardini, di opere religiose italiane (da Savonarola ai riformatori del Cinquecento, appunto). La tesi che sosteneva questo lavoro (di ricerca ma anche di battaglia evangelica) è che «i nostri antenati non aspettarono la Dieta di Spira per protestare», e che «l’Italia conobbe protestanti in ogni fase della sua storia: nell’età antica di fronte al papato nascente, nell’età di mezzo di fronte al papato gigante, nell’età moderna di fronte al papato degenere. E il seme loro rifiorisce»15. Di qui, all’aggancio con un patriottismo che non fosse solo un’espressione etica della fede evangelica ma avesse una sua autonoma ragione, il passo è breve: se anche l’Italia è in grado di ‘produrre riforma’, se anche gli italiani possono riformarsi, questo è il momento; la liberazione della patria dallo straniero e dal papa, e la sua unificazione, sono il momento e il luogo del suo riscatto politico e civile, e, insieme, della sua rinascita spirituale e religiosa. Questa posizione fu condivisa, in seguito, da buona parte del mondo evangelico, toccando i metodisti (soprattutto episcopali) e financo parte dei valdesi, per non parlare dell’ala garibaldina delle Chiese libere (mentre aveva caratteri più nettamente spiritualisti la Chiesa evangelica italiana, cui dal 1847 Salvatore Ferretti e Teodorico Pietrocola Rossetti avevano dato un’impronta ispirata alla teologia di Plymouth, anche se meno rigida). E desta qualche interesse il fatto che, nonostante questo (o forse proprio per questo), l’ambiente cui si rivolse la loro predicazione fu soprattutto quello dei contadini e piccoli artigiani – fornai, ciabattini, sigarai, scalpellini, marmisti, barbieri – che patirono (sotto il granduca in Toscana, per esempio, ma anche dopo, nel Regno d’Italia) violenze e soprusi di ogni genere, spesso di inaccettabile malignità, dalla perdita del lavoro al rifiuto del seppellimento dei morti, alla prigione perché scoperti a leggere la Bibbia, perfino all’omicidio o alla strage (come avvenne a Barletta nel 1866). Ma la condizione di minoranza sostanzialmente non tollerata, e in vario modo messa in difficoltà, fu esperienza di tutto il protestantesimo, anche di quello più borghese delle chiese cittadine di valdesi e metodisti.
Nonostante la plurisecolare presenza valdese, è indubbio che il «protestantesimo italiano è nato da uno stesso parto con il Risorgimento»16. Protestantesimo e Risorgimento, cioè, sono fratelli gemelli, e i protestanti italiani di oggi – proprio come la loro Repubblica – sono figli di quella storia. Come per il Risorgimento, non si può stabilire una data di inizio, e infatti si potrebbe andare ancora più indietro, rispetto alle poche cose che abbiamo raccontato. Tuttavia, come per il Risorgimento, si possono stabilire alcune date cardinali, intorno alle quali ruotano le svolte degli avvenimenti – e sono appunto le medesime: il 1848, il 1860, il 1870.
Il 1848, «l’anno dei portenti», «la primavera dei popoli». Nell’episodio della Repubblica Romana, emblematico di quell’anno ‘portentoso’, fece la sua comparsa anche la prima stampa ufficiale a Roma di un Nuovo Testamento in italiano; e si trattò a sua volta di una vicenda avventurosa. Il pastore Théodore Paul di Ginevra, ospite dell’ambasciata di Prussia, da buon protestante interpretò la legge che garantiva la libertà di stampa come lo strumento che avrebbe permesso ai romani di leggere finalmente la Parola di Dio; del resto aveva sentito lui stessoMazzini, in un discorso al popolo di Roma, raccomandare «che si leggesse il Vangelo, dicendo che per esso i popoli si faranno liberi». Con il contributo di scozzesi e svizzeri ne fece stampare 4000 copie, nella versione di Diodati. Ma ben 3000 giacevano ancora nei depositi quando arrivarono i francesi, e Paul le affidò al console degli Stati Uniti, Nicholas Brown, sperando che, prima o poi, potessero riprendere il loro cammino. Poi anche Brown dovette lasciare Roma, e alla fine i soldati del papa ne fecero un rogo quando ripresero possesso della città17. È in quel momento che Bonaventura Mazzarella si rifugiò a Torino, dove si convertì, e che Alessandro Gavazzi lasciò l’Italia per Londra, dove avrebbe incontrato il Revival e aggiunto toni evangelici alla sua fede garibaldina. Lui, come molti altri esuli, e non solo quelli della repubblica Romana, trovarono in Inghilterra appoggio (Spini parla addirittura di «deliri italofili»18 negli anni dal 1849 al 1860) e spesso, appunto, una conversione.
Ma prima che il 1848 mostrasse in tutta Europa il suo potenziale rivoluzionario, anche i valdesi avevano avuto la loro primavera. Negli stessi giorni in cui promulgava lo Statuto nel quale il cattolicesimo era dichiarato religione di Stato, Carlo Alberto concesse però i diritti civili ai suoi sudditi valdesi ed ebrei. Era stato spinto – quasi costretto – da un’azione combinata di molte forze: Palmerston da Londra, attraverso il suo ambasciatore; i politici liberali piemontesi, che consideravano la questione valdese tra le più urgenti e la inserirono non solo nella loro agenda parlamentare, ma nelle rivendicazioni presentate durante le manifestazioni pubbliche; la petizione, firmata da seicento cittadini illustri (tra i quali settantacinque membri del clero cattolico), organizzata da Roberto d’Azeglio (il liberale e massone fratello di Massimo). E se è vero che nelle Regie Patenti si specificava: «quanto al culto nulla è cambiato» (il che significava che ai valdesi restava formalmente l’obbligo di non costruire chiese fuori delle Valli, di non fare proselitismo, e così via), si trattò comunque di un assoluto ribaltamento della politica adottata per secoli nei loro confronti. E i valdesi ne approfittarono, di fatto se non di diritto: è un buon indicatore delle loro intenzioni la decisione di spedire subito quattro giovani pastori a Firenze perché imparassero l’italiano.
Tanta determinazione derivava dalla profonda modifica che frattanto era intervenuta nella spiritualità dei valdesi e nella cultura delle loro classi dirigenti. Il Risveglio aveva fatto piazza pulita del vecchio razionalismo illuminista e sociniano, ed era penetrato profondamente anche nelle Valli. Tuttavia, e non va dimenticato, quella dei valdesi ha nel suo DNA il gene di essere una Chiesa ‘di popolo’, e rigettò sempre le posizioni dei radicali che, nell’ambito del Risveglio, tendevano a generare piuttosto Chiese ‘di santi’. Dunque, anche se il processo non fu univoco, e nemmeno indolore, alla fine fu l’intero corpo ecclesiastico che si collocò su posizioni compiutamente ‘evangeliche’.
Le Valli non erano state mai isolate dall’Europa, anzi erano meta di visite continue, che nella temperie romantica e revivalistica assumevano i connotati del pellegrinaggio – lo abbiamo visto per il buon Gilly. Ma delle trasformazioni che avvenivano a Ginevra (dal razionalismo illuminista della Compagnie des pasteurs all’evangelismo dell’Eglise libre) non solo l’eco raggiunse la ‘Ginevra delle Alpi’, cioè la cittadina di La Tour, la capitale delle Valli; nel 1825 Félix Neff, un sergente delle milizie ginevrine che dopo la sua ‘nuova nascita’ si era dedicato all’evangelizzazione dei montanari valdesi emigrati in Francia, arrivò per predicare tutto un mese al popolo valdese, per ‘risvegliarne’ la spiritualità assopita in «un blando pelagianesimo moralista»19. E tuttavia, ancora nel 1833, William Gladstone in persona, visitate le Valli con la miglior disposizione d’animo possibile nei loro confronti (per aver la testa piena della mitologia filo-valdese imperante in Inghilterra), rimase assai deluso per l’arretratezza teologica del corpo pastorale. Dunque, se pur dalla predicazione di Neff erano nati dei cenacoli di ‘risvegliati’, questi non avevano conquistato tutta la Chiesa; e anzi si erano posti, prima implicitamente poi esplicitamente, in lotta con il corpo pastorale, con conseguenze molto sgradevoli. Dopo una fase di aspri contrasti fra quelli che nelle sue prediche Neff chiamava «ossa secche», e quelli che il pastore David Mondon chiamava «traditori» (contrasti degni della penna di un Trollope, se non fosse per il tasso di ironia, molto più alto negli scontri fra Chiesa alta e Chiesa bassa nell’Inghilterra vittoriana, che nelle Valli Valdesi), si arrivò a espulsioni, scissioni e poi a scissioni fra gli scissionisti20. Le sorti del processo di adeguamento al Risveglio che dominava ormai nel protestantesimo europeo avrebbero potuto essere segnate per sempre tra i valdesi, se non fosse stato per la sua obbiettiva vitalità, per la sua capacità di interpretare lo spirito del tempo, e per il sopraggiungere di un personaggio di ben altra tempra del Neff.
Charles Bekwith, canadese, colonnello dell’esercito di Sua Maestà britannica mutilato a Waterloo, anglicano e ‘risvegliato’, non rimase un mese soltanto, ma venne e tornò ogni anno dal 1827 al 1834, quando decise di non partire più. Portò nelle Valli lo spirito migliore del Revival, autenticamente ‘evangelico’ ma moderato e britannicamente empirico. Ebbe una visione strategica complessa, che cercò di trasmettere ai valdesi, non di imporla ma di farla crescere con iniziative e strumenti concreti. Una parte di quella strategia gli riuscì, una parte no, a dimostrazione della liberalità con cui l’aveva suggerita. Era convinto che la missione della piccola Chiesa veneranda dovesse essere di rappresentare per l’Europa l’icona vivente della Chiesa primitiva che l’evangelismo rimpiangeva e cui anelava assomigliare; dunque, da buon anglicano, considerava la sua struttura presbiteriana, assunta per l’adesione alla Riforma svizzera, come un incidente di percorso cui si sarebbe potuto ovviare facilmente tornando a una bella arcaica forma episcopale (e così prendendo tre piccioni con una fava: rivestire a pieno i panni della Chiesa delle origini, somigliare di più alla Chiesa stabilita d’Inghilterra, e liberarsi di ogni traccia di cultura francese). E questa fu la parte che non gli riuscì: il sinodo del 1839, che avrebbe dovuto occuparsi delle sue proposte in merito, non le prese nemmeno in considerazione e, votando alcune modifiche alla costituzione che era stata approvata sei anni prima, implicitamente confermò la scelta ecclesiologica presbiteriana.
Beckwith se la prese un po’ e si allontanò per un paio di anni. Ma poi tornò dai suoi fratelli valdesi e riprese instancabile l’altra parte del suo progetto strategico: modificare profondamente il valdismo in senso ‘risvegliato’, tenendosi ben lontano dagli eccessi dei dissidenti, anzi coinvolgendo i pastori e le autorità costituite. In questo cammino partì dal basso, con la costruzione di nuove scuole in ogni borgata, provviste di maestri ben istruiti – i montanari le chiamarono les universités des chèvres, con il genere di ironia che sapevano produrre –, favorendo così la crescita di una nuova classe dirigente, più popolare rispetto a quella borghese dell’Illuminismo, che ormai aveva ben poco da dire e che si andava progressivamente estinguendo. Sarà un ceto di homines novi con un maggior collegamento col resto della popolazione rurale del Piemonte (Beckwith fece pubblicare, con l’aiuto della Società biblica britannica e forestiera21, parti della Bibbia in patois, poi in dialetto piemontese, e infine in italiano, proprio per facilitare questo avvicinamento); soprattutto, sarà un gruppo dirigente che, per la vitalità e il dinamismo spirituale indotti dal Risveglio, si troverà pronto a considerare l’Italia come la nuova frontiera della sua vocazione. Gli ultimi colpi di coda della reazione sabauda e cattolica, che tormentarono i valdesi ancora tra il 1835 e il 1844, avevano reso chiaro che l’unica speranza per il futuro stava nella ‘rivoluzione italiana’. È così che la «politica ‘popolare’ attuata da Beckwith, si trasforma tosto in politica ‘nazionale’, che porta i valdesi dal cosmopolitismo illuministico al patriottismo risorgimentale»22.
Certo bisogna fare attenzione: i valdesi non furono mai ‘protagonisti’ del Risorgimento23, e nemmeno espressero un pensiero specificamente affine a quello risorgimentale, una teologia che si affiancasse a esso in un reciproco appoggio, come fecero invece molti metodisti o, in forme più discutibili, personaggi ambigui come Gavazzi.
Si trattò soprattutto di lealtà monarchica, verso il loro re che si trovava a essere a capo di quella ‘rivoluzione’. Il 1848, con le Lettere patenti e un primo, incompleto passo verso la libertà, certamente li incoraggiarono su quella strada. Quando poi il Savoia di turno, Vittorio Emanuele II, invece di pensare a far marcia indietro sui diritti loro concessi – come erano soliti fare i suoi antenati –, intraprese la liberazione della Lombardia, anche i valdesi ‘scelsero l’Italia’. Si dice che il moderatore Jean-Pierre Revel, additando a un giovane pastore la pianura padana nei giorni in cui l’esercito franco-piemontese avanzava verso Milano, esclamasse: «Il cannone apre i solchi nei quali noi semineremo l’evangelo». Frase che purtroppo fa venire alla mente quella di Mussolini «l’aratro apre il solco, ma è la spada che lo difende»; anche se, a onor del vero, dice il suo contrario. E infatti riassume bene le intenzioni di questa nuova generazione di valdesi, che seppero tenere insieme lo slancio evangelico del Risveglio con il rifiuto del pietismo più settario: per loro il Risorgimento (compresi i suoi cannoni), e dunque, più in generale, la politica, non rappresentava il mondo peccaminoso da cui guardarsi, come pensavano in quegli stessi anni i plymoutisti, ma il terreno su cui esercitare la vocazione cristiana. «O sarete missionari o non sarete nulla», diceva Beckwith; e loro furono missionari, in quella terra di ‘pagani papisti’ che era l’Italia. Nel 1853 era stato inaugurato il grande tempio di Torino, eretto nel centro della città, capace di contenere 1500 persone, a simbolo della raggiunta libertà, se non altro di fatto. Il testo della predicazione fu Mat. 5,15: «Non si accende una lampada per metterla sotto il moggio»; i partecipanti al culto furono tanti che il tempio non poté contenerli: i valdesi erano davvero pronti a entrare a far parte di un’Italia che era a pieno titolo anche loro.
Tuttavia, erano degli italiani un po’ particolari. Nel 1861 l’analfabetismo nel Regno di Napoli era dell’89,7%, in Toscana del 74%; nelle Valli già nel 1848 solo il 15% degli uomini non sapeva apporre la propria firma sotto l’atto di matrimonio (le donne il 54%; ma nel 1897 solo una donna non aveva firmato)24. Era cioè una popolazione di gran lunga più alfabetizzata del resto del paese, e questo era dovuto al principio, fondamentale per ogni protestante, che tutti devono poter leggere la Bibbia. Da questa semplice premessa era derivato che, appena possibile, venivano aperte scuole in ogni borgata (e abbiamo visto quanto incise l’iniziativa di Beckwith in questa direzione). Si trattò di un vero e proprio metodo di lavoro, e non solo per i valdesi: lungo tutto l’Ottocento e anche dopo, dovunque arrivassero, i protestanti – valdesi, metodisti, battisti – aprivano locali di culto e scuole; talvolta prima scuole, che erano usate anche come locali di culto. Per i valdesi, poi, a questa si aggiungeva un’altra caratteristica: dentro quella cornice di alfabetizzazione ‘di massa’, era consolidato un ‘biblicismo di massa’, per essersi innestata nella struttura di Chiesa di popolo come era quella valdese la spinta revivalistica alla riappropriazione personale delle Scritture. «Il rigoroso biblicismo degli evangelici di quel tempo assumeva l’aspetto di una cultura di massa nelle Valli, fondata su una stretta simbiosi fra chiesa e scuola»25. Inoltre l’insegnamento veniva svolto in francese, proprio per questa dipendenza delle scuole dalla parrocchia (dove la lingua ufficiale era appunto il francese, che si affiancava ai patois locali). Questo almeno fino all’Unità, quando le scuole passarono ai comuni; ma in ogni caso proprio la prospettiva di uno sbocco nazionale dell’evangelizzazione (e in generale dell’uscita dalle Valli), rese chiara l’urgenza, e subito la messa in pratica, dell’apprendimento dell’italiano. Ciò vuol dire che i Valdesi di ogni strato della popolazione disponevano di due lingue, in un paese dove la conoscenza del francese era ancora un segno distintivo dei ceti più colti.
«La povertà costringeva le ragazze contadine delle Valli ad andare a Torino o a Genova come domestiche […]. Ma ogni Lucille o Susanne o Léonette che ruzzolasse giù in città da un ciabot di pietra delle montagne valdesi, era ben cosciente di non essere una povera zoticona qualsiasi, anche perché il suo francese non era meno distinto di quello di una padrona aristocratica»26.
Potremmo aggiungere che non si trattò soltanto della soddisfazione personale delle contadine valdesi, bensì di una possibilità di mettersi in relazione con la cultura europea, superiore a quella media degli italiani.
Alfabetizzazione di massa (cioè la consapevolezza di poter disporre, come minoranza nel suo insieme, di uno strumento non comune per l’epoca) e biblicismo di massa (cioè il riconoscimento, che li univa fra loro e con il loro passato, di un’autorità che li affrancava da altre autorità, e della quale erano esperti per conoscenza e per esperienza) si condensavano in una specie di storicismo di massa27, se possiamo così chiamare l’autocoscienza dei valdesi di rappresentare nella storia d’Italia un unicum che a quel punto, nell’unificazione del paese, doveva essere vissuto come una vocazione collettiva a contribuire alla sua trasformazione in senso liberale. Fu appunto l’intenzione di rispondere a questa vocazione, che permise alla Chiesa valdese di lavorare subito fianco a fianco con i metodisti, i quali a loro volta avevano un progetto analogo, sia pure spesso più inclinato verso simpatie ‘democratiche’ e sociali, e sia pure con saltuarie difficoltà di reciproca comprensione. E del resto, tutto l’insieme di questa disponibilità verso il paese fu, cento anni dopo, la vocazione condivisa che rese possibile sottoscrivere un patto di integrazione, in base al quale, caso unico nel protestantesimo mondiale, in Italia dal 1975 operano in piena comunione le Chiese valdesi (che appartengono alla famiglia delle Chiese presbiteriane) e quelle metodiste.
Tra il 1859 e il 1860 l’entusiasmo dei valdesi per gli avvenimenti nella penisola andava di pari passo con le speranze di veder realizzata pienamente la libertà religiosa. La volontà delle Deputazioni – per esempio quella del granducato di Toscana – che offrivano l’annessione al «Regno Italico» e il fatto che Lombardia, Toscana e i popoli delle Legazioni facessero «a gara nel proclamare la libertà di coscienza e religiosa [intendendo] mettere così in rilievo il loro spirito liberale, e caratterizzare il loro movimento politico», tutto ciò era considerato dalla stampa evangelica opera della Provvidenza per «rendere all’Italia quella piena ed intera libertà di pensiero, che la dovrà innalzare al livello delle più grandi e più avventurose nazioni d’Europa, e ridonarle quella vera gloria e vera prosperità, di cui è apportatrice la libera e divina Parola del Vangelo»28.
Per partecipare anche loro a quella gara, nel 1860 decisero nel sinodo, cioè nell’annuale assemblea ‘sovrana’ della loro Chiesa di trasferire a Firenze (si noti: in anticipo rispetto alla proclamazione di Firenze capitale) i centri della loro produzione culturale: la Facoltà di teologia, con professori e studenti29; la Tipografia Claudiana, cioè lo strumento tecnico di una Société des Traités Religieux, insomma la loro casa editrice; il periodico «L’Eco della verità» (che era la nuova testata del precedente «La Buona novella», pubblicato dal 1854 a Torino, in italiano, mentre alle Valli era sempre pubblicato in francese «L’Echo des Vallées vaudoises»). Soprattutto, il sinodo del 1860 sganciò tutta l’opera che si svolgeva in Italia dall’amministrazione della Tavola (l’organo esecutivo eletto dal sinodo), riservando a questa le sole parrocchie delle Valli, e affidando le nuove chiese a un Comitato di Evangelizzazione che doveva rispondere direttamente al sinodo del suo operato (anche se al sinodo sedevano soprattutto pastori e delegati delle Valli, e dunque restava una forte centralizzazione, che costringeva in una sorta di minorità le Chiese che andavano nascendo nel resto del paese).
Mentre i valdesi interpretavano così la loro vocazione nei confronti dell’Italia che si stava unificando, anche a Londra quei metodisti che abbiamo visto così attenti alle sorti spirituali del bel paese continuavano a vigilare sul procedere degli eventi. Nel volger di pochi anni, dalla guerra di Crimea cui gli italiani avevano partecipato in vario modo (con la scelta strategica di Cavour, ovviamente, che aveva contribuito non poco a spostare alleanze e favorire collaborazioni, ma anche con una ‘legione italiana’ che aveva avuto nelle sue fila alcuni degli esuli – per ragioni politiche o religiose, o tutt’e due insieme – che in Inghilterra erano entrati in contatto col mondo evangelico), al ‘grido di dolore’ raccolto da Vittorio Emanuele, alla conseguente annessione della Lombardia, e poi ai plebisciti dell’Italia centrale: tutto stava cambiando.
Nel 1859 il segretario della Wesleyan Methodist Missionary Society, William Arthur, fece un viaggio in Italia, un vero e proprio viaggio esplorativo (ci era abituato: era già stato in Egitto e Libano, India e Arabia; e si era preparato: conosceva la lingua) da cui riportò osservazioni così pittoresche ma anche intelligenti che la pubblicazione riscosse un grande successo (sei edizioni in Inghilterra e negli Stati Uniti). A Milano e Torino aveva trovato delle scritte sui muri che lo entusiasmarono: «Siamo una nazione! Siamo undici milioni!»; e commentò: «Questo è possibile per la prima volta dall’antica Roma. E la gioia di questa nuova realtà fa pulsare le vene di ogni uomo»30. Si trovò a Firenze nei mesi in cui Bettino Ricasoli presiedeva il governo provvisorio, quel Ricasoli che rappresenta per la storia d’Italia un fenomeno raro, possibile solo in quegli anni: quello di un intellettuale della ricca borghesia fondiaria ma illuminata, in stretto contatto con la cultura protestante europea, portatore di una limpida visione dei rapporti fra Stato e Chiesa, e che tutto questo lo metteva in gioco nella prassi politica.
Di ritorno a Londra, nel suo rapporto alla Missionary Society, Arthur scrisse: «L’Italia può essere considerata una terra particolare, dove l’antica superstizione della gente è stata fortemente indebolita, uno spirito di ricerca si è largamente risvegliato, e dove l’istruzione unita ad una sana guida nelle buone vie del Signore sarà di inestimabile valore»31. Una frase che riassume tutto: obbiettivi e strategie che saranno effettivamente perseguiti, equivoci che procureranno delusioni, convinzioni che produrranno successi. Non è difficile immaginare che effetto abbia fatto il suo libro negli ambienti anglosassoni già pronti per tante ragioni a emozionarsi per l’Italia.
Tra il 1860 e il 1861 furono mandati in Italia due ‘missionari’, Richard Green e Henry J. Piggott. Il primo dovette ripartire poco dopo per ragioni di salute; il secondo, che aveva accettato l’incarico ben conoscendo la difficoltà dell’impresa («dobbiamo asservirci alla Provvidenza, e cambiare passo dopo passo, esattamente come Dio sembra indicarci la strada»), vi si impegnò con tutto se stesso («se scelgo l’Italia come luogo di lavoro, la scelgo per tutta la vita»). E così fu, in effetti; era un uomo giovane quando arrivò, aveva trent’anni, e vi rimase fino alla morte nel 1917. La sua lunghissima militanza segnò la storia della Chiesa evangelica metodista in Italia per la robusta visione strategica che lo animava, e che fu l’origine dei suoi successi e anche dei suoi fallimenti. Per lui era necessario da un lato che l’Italia ricevesse finalmente una predicazione del «vero» evangelo (quello biblico, cioè) per potersi liberare della superstizione e della depravazione «mondana» della Chiesa di Roma («questo paese è stato lo scenario del grande potere anti-cristiano»); dall’altro, ciò doveva avvenire con strumenti indigeni, e in un’ottica interdenominazionale (di tutte le Chiese protestanti, cioè) e finanche interconfessionale.
La sua idea di «Chiesa Riformata nazionale», se era diversa dalle speranze di una riforma cattolica (coltivate in altri ambienti, soprattutto cattolici, ma anche protestanti), certo puntava all’obiettivo di una generale trasformazione del cristianesimo in Italia; a questo fine bisognava mettere da parte qualunque interesse denominazionale, per aiutare invece «gli italiani a formare una Chiesa Riformata nazionale, senza tentare neppure di far proseliti al metodismo»32. Ci provò, infatti; ma la collaborazione con tutte quelle piccole o piccolissime anime di cui era fatto il resto del protestantesimo in Italia era difficile, e alla fine impossibile. Anche lui dovette cedere, e nel 1868 le chiese che erano già nate dal suo lavoro si riunirono appunto sotto il nome di Chiesa evangelica metodista in Italia. Il che non impedì che lo spirito del metodismo ‘wesleyano’ (termine usato per distinguere questo, di origine inglese, da quello di origine americana di cui parleremo più avanti) rimanesse sostanzialmente unitario e collaborativo nei confronti delle altre Chiese evangeliche, e in politica moderato. Per i sudditi della monarchia britannica tutta la rivoluzione religiosa doveva svolgersi nel quadro della preservazione dell’ordine costituzionale: «Il Socialismo e la miscredenza sono i due peggiori estremi opposti eretti dalla tirannia e dal bigottismo. Possiamo solo sperare e pregare che il giovane Regno d’Italia, una volta liberato da quest’ultimo, non cada nella prima»33.
Seguendo gli intendimenti di Henry James Piggott, la Chiesa evangelica metodista si sviluppò pienamente italiana, prima nel Nord, poi anche nel Sud. Piggott, consapevole della specificità del Mezzogiorno (elemento che depone a favore del suo acume), progettò un distretto separato, e inviò a Napoli un collega che lo aveva raggiunto, e che rimase anche lui fino all’emeritazione a servizio della missione italiana. Thomas Jones, arrivato a Napoli nel 1863, per un certo tempo collaborò con i ‘liberi’ napoletani (tra gli altri il magistrato Vincenzo Albarella D’Afflitto, anche lui reduce da un breve esilio londinese nel quale aveva collaborato con «L’Eco di Savonarola», massone, attivo democratico, aveva con altri fondato una Associazione libera evangelica dei cristiani di Napoli; ma le iniziative degli evangelici erano numerose, e non irrilevanti anche sul piano sociale e politico per mezzo di associazioni di mutuo soccorso e società operaie34). Ma era inevitabile che non potesse durare: la formazione rigorosamente wesleyana di Jones (salvezza per grazia in un quadro ‘arminiano’ che sottolineava il ‘metodico’ impegno personale verso la santificazione) non poteva trovarsi con l’entusiasmo radical-libertario dei ‘liberi’ (e, del resto, neanche con l’impianto calvinista dei valdesi).
Con un atteggiamento tuttavia irenico nei confronti di queste altre anime del protestantesimo italiano, Jones (come prima Piggott a Milano) fece fruttuosi viaggi missionari in tutto il Sud, aprendo, come al solito, chiese e scuole. Napoli fu un esempio del suo successo, se nel corso degli anni (in particolare dopo che la Conferenza metodista britannica riunita a Manchester nel 1874 ebbe stanziato i fondi per la costruzione di un nuovo tempio), la sua comunità fu in grado di reggere un complesso lavoro fatto di scuole (per ragazzi, per ragazze, serali per adulti, di lingue, tecniche) di una «Chiesa Militare» (destinata all’assistenza materiale e spirituale dei soldati di stanza nella città, attività che fu svolta anche altrove, a Roma soprattutto); di un circolo culturale (intitolato a Galeazzo Caracciolo, evangelico napoletano del Cinquecento) assai noto in città, nel quale intervennero molti personaggi della cultura napoletana; di un settimanale destinato a tutto il Sud, «La civiltà evangelica» (un nome scelto non a caso, nella città dove, nel 1850, aveva visto la luce «La civiltà cattolica»; mentre al Nord si pubblicava prima «Il museo cristiano» e poi «Il corriere evangelico»); di una Società di mutuo soccorso e di una «Missione cittadina», un lavoro diaconale a servizio dei poveri che produsse grandi sforzi non solo durante le calamità ricorrenti (terremoto, epidemie di colera e di tifo) ma anche nella vita quotidiana di una città tormentata da un degrado e un sottosviluppo inimmaginabili. Iniziative analoghe si ebbero anche al Nord e nel Centro, e non sempre in condizioni radicalmente diverse.
Alla Chiesa evangelica metodista in Italia si unirono diversi personaggi, in vario modo significativi. Innanzitutto un drappello di ex frati ed ex preti, perché i metodisti avevano contatti con gli ambienti cattolici in cui si discuteva di una riforma interna alla Chiesa di Roma, e dunque a un certo punto alcuni di essi facevano il grande passo e diventavano evangelici; un ruolo decisivo aveva, in questo, la possibilità di accedere direttamente alla Bibbia. È il caso, per esempio, di Pietro Taglialatela, che arrivò a contatto con i metodisti quando già da tempo aveva abbandonato il sacerdozio, aveva tentato di seguire Garibaldi, era stato docente di filosofia all’università. Poi aveva aperto una sua scuola a Napoli, situata molto vicino a quell’Associazione Evangelica di Albarella D’Afflitto, molto attiva in dibattiti affollatissimi ai quali anche lui partecipava, e dove incontrò i metodisti. La scoperta della Bibbia, usata non più come pezza d’appoggio di dottrine teologiche ma come fonte viva di ispirazione cristiana, funzionò come una boccata d’aria fresca dopo le angustie della scolastica (dalla quale, peraltro, si era già prima sganciato per un’adesione, temporanea ma molto sentita, al pensiero di Gioberti). Taglialatela divenne prima un laico impegnato (secondo una tradizione tipica del metodismo, dove il laicato veniva formato teologicamente ad un discreto livello, poi coinvolto nel lavoro e nella gestione della chiesa e promosso in molte funzioni, accanto a quelle dei pastori); infine, dopo un corso di studi teologici, fu pastore prima della Chiesa evangelica metodista, poi, dopo un breve servizio nella Chiesa libera35, della Chiesa metodista episcopale.
Questi spostamenti da una denominazione all’altra non furono infrequenti, a dimostrazione di un dato imprescindibile per tutto il protestantesimo: che la «libertà dei cristiani», il diritto-dovere di analizzare personalmente la Scrittura e le dottrine, insomma il sacerdozio universale, produce inevitabilmente una frammentazione continua e una proliferazione di chiese. Tuttavia, per la stessa ragione, questi passaggi o queste distinzioni non riguardano i principi essenziali della fede, ma piuttosto le scelte per viverla, o tutt’al più – sul versante teologico – preferenze ecclesiologiche. E infatti molto difficilmente la compresenza di tante denominazioni produce esclusione (avvenne nel caso dei darbysti, ma fu appunto l’esempio di un movimento dichiaratamente settario). Al contrario, a dispetto di pur roventi polemiche che accompagnano la loro storia e nelle quali si appassionano moltissimo, i protestanti – soprattutto italiani – considerano le loro differenze una ricchezza da mettere a frutto, come dimostra, per esempio, la collaborazione di quasi tutte le chiese in una Federazione delle Chiese evangeliche in Italia (Fcei) che dal 1967 fornisce strumenti e servizi comuni (materiali per scuole domenicali e catechismi; trasmissioni televisive; attività per gli immigrati ecc.), oppure, dal 1993, la pubblicazione di un solo settimanale delle Chiese battiste e valdo-metodiste, «Riforma», e ancor più significativa, la condivisione della Facoltà valdese di teologia come unico istituto di formazione dei pastori.
Per tornare alla seconda metà dell’Ottocento e ai metodisti wesleyani: a lungo andare la bella strategia di Piggott e Jones mostrò i suoi limiti. Perseguire a tutti i costi la ‘italianità’ della loro Chiesa aveva avuto un senso durante il processo unitario; dopo, produsse una certa asfissia:
«Dall’Italia del tardo Ottocento c’era da cavare pochino assai sul piano del pensiero filosofico-religioso, o della ricerca storica sul cristianesimo e degli studi paleo o neo-testamentari. C’era solo il desolante vuoto dell’anticlericalimo verboso da una parte, e quello dei poveri cervelli della Civiltà Cattolica e dei seminari diocesani dall’altra. Tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento il metodismo britannico ebbe una fase di rinnovata vitalità grazie ad uno stretto rapporto col movimento dei lavoratori e con la lotta politica della sinistra liberale prima e laburista poi. Ma del cammino dei metodisti britannici, dagli entusiasmi per Gladstone a quelli per il Labour Party, non si trova traccia nei giornaletti wesleyani in Italia»36.
Senza sfuggire del tutto alla verbosità e a qualche confusione teorica, fu piuttosto l’altra ala del metodismo in Italia, quella che si formò per la missione inviata dagli Stati Uniti, a esprimere dalle sue fila un diverso modello di impegno civile e politico.
Intanto, nel 1861, gli entusiasmi dei britannici per le sorti di un’Italia evangelica – e di un evangelismo italiano – erano ancora ben fondate. Lord Shaftesbury poteva dire al convegno annuale della Società Biblica Britannica e Forestiera: «Dall’ultimo nostro incontro, a Dio è piaciuto di benedire la nostra Società con ogni tipo di successo. Egli ha aperto il Regno d’Italia»37.
Agli sforzi della Società biblica britannica e forestiera si stava per aprire, non solo l’Italia del 1861, ma addirittura la Roma del 20 settembre 1870. Materialmente, attraverso la breccia di Porta Pia, subito appresso ai bersaglieri entrarono gli evangelici (a meno che non si voglia giudicare quell’apertura come suggerito da una famosa battuta, e cioè che di là sarebbero piuttosto passati, nell’altra direzione, i preti, per occupare l’Italia). Secondo un noto racconto testimoniato da alcune stampe, le Bibbie tradotte in italiano fecero la loro ricomparsa nella Città eterna, dopo la sventurata occasione della Repubblica del 1849, a bordo di un piccolo carretto trainato da una cane e guidato da un ‘colportore’, una specie di avanguardia dell’opera di evangelizzazione. Buona parte delle comunità evangeliche di tutta Italia erano state fondate da questi umili personaggi, che viaggiavano anche per lunghi periodi allo scopo di distribuire Bibbie, spiegare a chi si accostava a prenderle i rudimenti della fede evangelica, restare magari, per qualche tempo, in una ‘stazione’ dove il raccolto di anime sembrasse promettente, e poi ripartire assicurando al gruppetto di ‘simpatizzanti’ che si era formato il prossimo arrivo di un ‘evangelista’, o magari addirittura di un ‘pastore’. I colportori non erano particolarmente istruiti, se non per il fatto che, in un paese a grande maggioranza analfabeta, sapevano leggere e sapevano argomentare bene la loro fede.
La tradizione vuole che il cane del carretto pieno di Bibbie si chiamasse Pio IX. Qualcuno ha interpretato la scelta del nome come un esempio di volgare beffa anticlericale; io credo che lo humour del colportore fosse più fondato teologicamente di una semplice beffa: non si trattava di affermare che il papa era un cane, ma che, almeno sotto le spoglie di un cane, c’era ormai a Roma un Pio IX che distribuiva Bibbie.
Perché la Bibbia è sempre, per tutti questi evangelici, di qualunque estrazione denominazionale, l’unica cosa che veramente conti, la prima cosa da offrire, la prima da imparare, l’unica cui obbedire. In verità, la riforma religiosa del popolo italiano si sarebbe giocata, secondo loro, sulla capacità di rifiutare fortiter altre autorità oltre (o magari contro) la Bibbia. Tutte le distinzioni e i rifiuti nei confronti del cattolicesimo, si concentravano in questo: chi ha l’autorità nella Chiesa? Per gli evangelici non v’era dubbio che l’autorità risiedesse nella ‘sola’ Scrittura. Il Risveglio si era prodotto in tutto il mondo protestante dal momento che la Scrittura aveva ritrovato il suo posto al centro della vita spirituale e della teologia. E non è questo il luogo per dimostrare un fatto che risulterebbe evidente dall’analisi di molte vicende, personali e di gruppo, del mondo evangelico: vale a dire che fondare nella Bibbia l’unica autorità aveva prodotto libertà quanta e più ne avesse prodotta fondarla nella ragione. E non possiamo qui far altro che dare per scontate le ragioni teoriche dei risvolti che tale acquisita libertà avrebbe avuto sul piano della presenza evangelica nelle vicende storiche e politiche. La parossistica polemica anticattolica che caratterizzò la maggior parte dell’evangelismo italiano (e non solo) aveva il suo fondamento ultimo nel sacerdozio universale, che non era un’astratta dottrina, ma un profondo sentimento della vocazione e della responsabilità personale. Dall’incrollabile certezza che ciascuno deve giudicare e decidere in materia di dottrina senza poter delegare tal giudizio ad altri, era disceso immancabilmente il corollario che ciascuno deve render conto alla sua coscienza delle decisioni da prendere in ogni aspetto della vita, e su questa impalcatura si erano sviluppate le società delle nazioni protestanti.
E dunque, quale poteva essere il giudizio su Porta Pia da parte degli evangelici americani, dopo che le guardie pontificie, al ritorno del papa, ebbero distrutto le Bibbie stampate durante la Repubblica? Avevano avuto una conferma della frase pronunciata nel 1847 dal loro ambasciatore a Torino, Perkins-Marsch, quando ancora si sperava in Pio IX: «In nome del cielo, non credete in un papa liberale! È una contraddizione in termini, un’impossibilità»38. Ora, mandato via il papa, sembrava spalancarsi finalmente un’epoca nuova.
Per gli evangelici italiani
«l’arrivo dei primi colportori di Bibbie nella città dei Papi era la pagina finale di un romanzo di avventure, durato quanto tutto il Risorgimento stesso: il romanzo della penetrazione della Bibbia fra gli italiani, a dispetto delle proibizioni ecclesiastiche, dell’accanita ostitlità dei governi reazionari della Penisola e dell’occhiuta vigilianza delle loro polizie»39.
Adesso si trattava di cominciare il vero lavoro, e di vederne finalmente gli immancabili frutti in una riforma italiana. Per i loro fratelli d’oltreoceano, poi, era difficile scindere ragioni puramente religiose da altre culturali, politiche, finanche economiche. Ciò era vero soprattutto per i membri della Chiesa metodista, ormai una vera potenza negli Stati Uniti che conoscevano un tumultuoso sviluppo dopo la Guerra civile, e custode – non da sola, ma nemmeno in posizione secondaria – dello «spirito del cristianesimo», ovviamente protestante, che quello sviluppo aveva permesso, e ne garantiva la continuità.
«L’arrivo in America di milioni di “papisti” dall’Irlanda, l’Italia, la Polonia, l’Austria-Ungheria rompeva la compattezza della nazione. Importava negli Stati Uniti costumi affatto diversi da quelli tradizionali. Ne metteva in pericolo il livello morale e quindi la prosperità stessa. Per salvare il genuino spirito americano, e il sacrosanto bussiness, occorreva sconfiggere il papismo nel suo covo romano»40.
Non sarebbe giusto badare solo alla loro cura degli interessi materiali, però. Perché non si dovrebbe credere all’intenzione ideale di chi stese la dichiarazione programmatica della Christian Alliance, già nel 1842?
«In questo momento i destini di una grande parte della razza umana dipendono dalle condizioni dell’Italia. L’impero che il pontefice romano tiene nel mondo del pensiero e della fede, è legato da intima alleanza, offensiva e difensiva, con sistemi secolari di malgoverno. Una rivoluzione intellettuale e morale in Italia, emancipando quivi le masse e stabilendo il grande principio della libertà religiosa nel popolo, sarebbe sentito ovunque si estende l’influenza di Roma»41.
La Christian Alliance aveva appena preso il posto di una American Philo-Italian Society fondata a Philadelphia nel 1839 con lo scopo di promuovere l’evangelizzazione tra gli italiani. Trent’anni dopo, l’obbiettivo era più che mai di attualità.
La storia della Chiesa metodista episcopale d’Italia (fondata con questo nome nel 1874 a Bologna, dopo quattro anni di evangelizzazione condotta da Leroy Monroe Vernon, che aveva già prodotto chiese a Milano, Firenze, Roma, Bologna, Ravenna, Forlì, Prato, Brescello, ed era ancora in espansione) fu caratterizzata da scelte diverse da quella dei ‘wesleyani’, anche se i due sovrintendenti, Vernon e Piggott, si intesero bene fin dall’inizio, e anzi sperarono per un certo tempo di poter fondere le due iniziative. Ma la dipendenza economica e organizzativa da Inghilterra e America, e dai rispettivi comitati, rese irrealizzabile un simile progetto; tuttavia le due Chiese lavorarono parallelamente, affiancate da quelle delle missioni battiste (britanniche prima, dal 1863, americane poi, dal 1870, alle quali si era aggiunta una Chiesa battista ‘indipendente’ con sede a La Spezia). Il contributo del battismo alla storia dell’evangelismo in Italia fu molto importante; non c’è qui spazio per darne conto, ma solo per nominare due dei prodotti più incisivi del loro lavoro nei primi decenni del XIX secolo, e cioè il periodico «Bylichnis» e il settimanale «Conscientia»: due strumenti che fecero dialogare l’evangelismo italiano con la cultura del paese42.
Tutte queste Chiese andavano stabilizzando il loro lavoro in un’Italia che stava cambiando così velocemente, che già la Roma del 1870 era molto diversa dalla Firenze nella quale si erano concentrati i primi sforzi dei valdesi emancipati:
«Firenze evangelica voleva dire tutta una tradizione risorgimentale risalente a Sismondi e Viesseux; voleva dire una trama di rapporti con Ginevra risalente al primo Ottocento ed una teoria di ombre solenni: Lambruschini e Mayer, il conte Guicciardini e Montanelli, L’Eco di Savonarola e Ricasoli; voleva dire un legame altrettanto tradizionale con l’Inghilterra vittoriana. A Roma tradizioni di questo genere non esistevano: a Roma c’era stato il papa-re fino al 1870 e se c’era una tradizione che anche gli evangelici potessero sentire propria era la tradizione della Repubblica di Mazzini del 1849, dei garibaldini di Mentana e del 20 settembre 1870»43.
Né si trattava solo di una differenza tra due città; al contrario, era la prospettiva politica a essere ormai cambiata. Con una frase famosa – e assai discutibile – si potrebbe dire che ormai l’Italia era fatta, e – se non gli ‘italiani’ – restava da fare però la convivenza di costoro dentro uno Stato con classi dirigenti, istituzioni, burocrazia, leggi da concordare. Tutto da costruire, ma anche tutto da negoziare. Se il protestantesimo italiano era nato «in uno stesso parto» col Risorgimento, ora che l’Italia era una, che cosa sarebbe diventato quel protestantesimo? La terra di missione che si era aperta dinanzi alla buona volontà di un Piggott, di un Jones – la terra in cui bisognava portare il «puro» evangelo perché finalmente si attuasse una riforma religiosa che partisse dal basso – adesso mostrava davvero la disponibilità, finito il potere temporale del papato, a liberarsi anche del potere spirituale del cattolicesimo? Per qualche tempo gli evangelici lo credettero; o, almeno, lavorarono ancora alacremente come se quel sogno fosse realizzabile.
Certo, le strategie cambiarono, anche perché ci si dovette adattare non solo a nuove prospettive, ma anche a nuove difficoltà. «Dopo il 1870, le possibilità per gli evangelici italiani di influire sulle sorti della libertà religiosa nel loro paese si ridussero praticamente a zero. Durante tutto il trentennio successivo a Porta Pia, l’intera vicenda della libertà religiosa passò – per così dire – al di sopra della loro testa»44. L’estensione anche al Lazio dello Statuto albertino («La religione cattolica, apostolica romana è la religione ufficiale dello Stato: gli altri culti esistenti nello Stato sono tollerati conformemente alle leggi») stabilizzava il problema a un livello bassissimo, a una tolleranza, commenta Spini, «simile a quella accordata a un male inestirpabile – come la prostituzione. Era ben lungi dal riconoscere la libertà religiosa come un diritto del cittadino»45. La straordinaria novità della fine del potere temporale, avvenuta con modalità tutto sommato non particolarmente drammatiche, avrebbe potuto costituire un’occasione per riconoscere formalmente ciò che di fatto, anche se con ricorrenti inciampi, si verificava ormai da anni: che gli evangelici erano liberi di praticare il loro culto e anche proporlo ai loro concittadini. Se questo non avvenne, se nelle leggi non si espresse chiaramente quel principio di libertà, ciò dipese dal fatto che la classe dirigente liberale sentì subito come assillo pressante la normalizzazione delle relazioni con il papato, con la Chiesa cattolico-romana sparsa nel territorio, con i cittadini che da cattolici parevano insidiare ancora il nuovo Stato. La legge delle Guarentigie sembrò più utile ai liberali italiani che non l’attuazione di un principio giuridico liberale. Così gli evangelici continuavano ad aprire chiese, e scuole, ma sempre con la spada di Damocle di poter essere bloccati; infatti la piccola clausola statutaria «esistenti nello Stato», voleva dire nient’altro che questo: la tolleranza poteva riguardare i valdesi, ma lasciava mano libera contro tutte le altre Chiese che intanto si erano formate; e la clausola «conformemente alle leggi» voleva dire che sui valdesi stessi incombeva la possibile accusa di violare le norme penali che punivano la propaganda anti-cattolica. E del resto il clima ‘alla base’ (parrocchie, sacerdoti, autorità locali, fedeli cattolici a vari livelli sociali) era pessimo; soprusi, angherie varie, violenze erano la norma, e le forze dell’ordine quasi sempre intervenivano a difendere gli aggressori.
Si potrebbe pensare che un problema ancora oggi non del tutto risolto (il regime misto concordato-intese è in se stesso diseguale; per non parlare dei culti che non sono regolati nemmeno con intese) fosse fuori della portata delle classi dirigenti di centocinquant’anni fa. Ma non è così: rispetto agli orientamenti ideali, alla cultura politica, alla cultura tout court degli uomini del Risorgimento, gli anni dell’Unità (a oggi?) segnarono un passo indietro. Finita la questione romana, nasceva la questione cattolica; e l’Italia incubò in quel tempo un problema che continua ancor oggi a farsi sentire.
Qual è il posto della religione nel sistema politico e sociale dell’Italia? È evidente che esso non somiglia a quello di nessun altro paese, non agli Stati Uniti della massima presenza delle religioni dentro una forma di assoluta separazione, ma nemmeno alla Gran Bretagna della laicità più radicale dentro una forma di religione di Stato. E nemmeno a tutti gli altri casi intermedi fra questi due poli, la Francia ‘laicista’, o la Germania pluralista, o perfino la Spagna cattolica. L’Italia repubblicana, dopo la Costituzione e poi dopo la revisione del Concordato, ha ereditato proprio da quel problema risorgimentale una specificità che appare irriducibile a una ‘normalità’. Non è questo il luogo per descrivere come si è evoluta, e dove è arrivata, la ‘questione cattolica’ che si presentò molto presto come tale, appena caduto il potere temporale e divenuta Roma capitale; né si può trattare, qui, delle incertezze e dei timori, da una parte per un’unificazione tenuta sotto scacco dall’assenza di tanti cittadini dalla politica a causa del non expedit e, dall’altra, per la nascita di una nazione avvenuta contro la volontà del papato. Possiamo tutt’al più chiederci quale fu il ruolo (e se ci fu un ruolo) dei protestanti, e anche come essi furono percepiti, da laici e cattolici, all’interno di quella situazione.
In primo luogo essi si trovarono a fronteggiare due avversari46. Innanzitutto un fronte clericale che li considerava (e, soprattutto, chiedeva allo Stato di considerarli) rischiosissimi, che li combatté con tutti i mezzi, leciti e illeciti, facendo leva su quell’ansia di perfezionare con il riconoscimento cattolico l’Unità d’Italia, che indeboliva ogni pur onesta intenzione liberale della classe dirigente. Ci sarebbe da chiedersi, in verità, perché mai quei quattro gatti facessero tanta paura. Come la storia ha dimostrato, essi non rovesciarono il potere della Chiesa di Roma, né l’Italia ebbe mai una Riforma. Possibile che il clero e la curia romana temessero davvero quel pericolo?
È probabile che la fine del potere temporale (prima minacciata, poi avvenuta) si presentasse come un fatto a tal punto sconvolgente, da far perdere di vista i connotati del popolo di cui si temeva l’apostasia, e anche la realtà degli avvenimenti per come di fatto si andavano svolgendo; che non fosse subito evidente, cioè, quanto rinnovato potere – spirituale, ma non solo – avrebbe portato alla Chiesa di Roma la fine di quello temporale.
Ma, per quello che riguarda i protestanti, la determinazione a combatterli si spiega con una più precisa ragione, che non aveva bisogno del grande numero per scatenare la polemica cattolica: essi erano l’avamposto delle democrazie liberali di tradizione non cattolica, la quintessenza di quella modernità, somma di ogni demoniaca sciagura che aveva torturato la società cristiana dalla fine del Medioevo. La verità è che, pochi o molti che fossero, essi pretendevano di rappresentare per il paese un diverso futuro possibile, non solo strettamente religioso, ma anche culturale e ideale. Del resto, non facevano nulla per smentire i loro avversari: troppo spesso linguaggio e anche contenuti della loro predicazione consistevano in un aspro anticlericalismo e anticattolicesimo.
Sull’altro fronte, poi, essi si trovavano davanti una sinistra che faceva dell’ateismo una bandiera, e che non sapeva distinguerli dal cattolicesimo. Molto presto fu chiaro che nel neonato Regno d’Italia «ci sarebbe stato spazio assai per il libero pensiero ateo o deista ma poco ce ne sarebbe stato per un cristianesimo diverso da quello cattolico»47. C’erano bensì i cattolici liberali, che condividevano con i protestanti una certa simpatia per la pietà del Risveglio; ma essi continuarono a sperare in una riforma cattolica, mentre restavano estranei alla teologia della Riforma, che invece era la base confessionale delle principali Chiese evangeliche: valdesi, metodiste, e anche quelle dell’ala più aperta dei ‘liberi’. La tesi di Spini è anzi che proprio la presenza protestante avrebbe impedito ai cattolici «anti-temporalisti, conciliatoristi, riformisti» di impegnarsi in una battaglia sul terreno teologico, per il timore cioè «di apparire contagiati dalla lue protestante»48. E così di fronte a una massiccia avanzata di una nuovaControriforma (consacrazione del Sacro Cuore, dogma dell’Immacolata concezione, riconoscimento delle apparizioni di Lourdes, enciclica Quanta cura e Sillabo, e infine il dogma dell’infallibilità) non ci fu una significativa reazione. Ma viene da chiedersi piuttosto se l’assenza di laici e clero nel dibattito teologico non fosse una conseguenza inevitabile dell’ecclesiologia cattolica. Si pensi al dietrofront che fece un personaggio come Lambruschini, il quale, nonostante il giudizio severo pronunciato sulla Chiesa del suo tempo, al momento cruciale non poté far altro che separare le sue scelte da quelle degli evangelici coi quali aveva pur efficacemente collaborato, perché non poteva pensarsi – né pensare una riforma – fuori del magistero romano. E una controprova potrebbe stare nel modo in cui effettivamente si realizzò, molto tempo dopo, una riforma cattolica, vale a dire il concilio Vaticano II. La straordinaria decisione di coinvolgere tutti i vescovi nella sua preparazione fu un’iniziativa di Giovanni XXIII, da solo, e anche osteggiato; e si trattò, per l’appunto, di un coinvolgimento che riguardava tutti i vertici gerarchici, ma essi soltanto. Né è il caso qui di aprire una riflessione sulle sorti che le innovazioni del concilio (comprese quelle che riguardavano il ruolo del laicato) hanno avuto in seguito, e fino a oggi, se non per dire che il ‘sogno’ dei protestanti aveva, appunto, ben poche possibilità di realizzarsi.
Esso consisteva nella fiducia che la rivoluzione liberale nazionale potesse – e dovesse – essere accompagnata da una riforma etico-religiosa; faceva leva sulla convinzione che ciascuno è libero in Cristo e non dipende da nessun’altra autorità spirituale che quella della Scrittura; proponeva al paese un’etica della responsabilità personale. Il paese era totalmente impreparato a ciascuna di queste cose.
Dovremmo concludere che la responsabilità della ‘fine del sogno’ fu tutta delle circostanze avverse? Certamente no. In primis, i protestanti non seppero valutare queste circostanze, almeno non subito, e questo fu comunque un errore strategico da addebitare a loro e alla loro spiritualità ‘risvegliata’ che, a dispetto di tutto il gran parlare di società italiana, unità della nazione, riscatto del popolo, era assai poco critica nell’analisi storica e politica. Qualche elemento di realismo in più lo introdussero, forse, quei «massonevagelici» che, nella seconda generazione, imboccarono la strada di un rapporto più diretto con la politica, e per questo furono in un altro senso criticati49. Né si può dire che i valdesi non fossero abbastanza realisti nel loro lealismo sabaudo (che più ‘realista’ non si poteva); ma non ne trassero particolare vantaggio, né loro né il loro progetto.
Probabilmente i protestanti italiani avrebbero dovuto rappresentare le istanze di un liberalismo convinto (senza troppi innamoramenti per le estreme), del genere di quello sperimentato – pur con tutti i limiti – nelle società cui si ispiravano: Gran Bretagna, Stati Uniti, Svizzera. Ma qui prevalse lo spirito di frammentazione (non di divisione, ma di frammentazione sì, e quindi di dispersione), per cui le loro già esigue forze avevano sempre meno visibilità; e prevalse anche quell’aspetto particolare dell’individualismo protestante (e della sua ecclesiologia, ovviamente), per il quale nessuno può pretendere di unificare la Chiesa sotto un solo ombrello politico50. Principio saggissimo, bisogna dire, al quale si è adattato perfino il mondo politico cattolico della seconda repubblica; ma con una sostanziale differenza: che i cattolici, in politica, se non hanno un partito di riferimento, hanno pur sempre (e mostrano sovente di gradire) un potente riferimento unitario ‘fuori’, che fa da sponda, da collante, e soprattutto offre visibilità. Niente del genere potevano usare i pochi evangelici, che nell’Italia liberale furono liberali, garibaldini, mazziniani, democratici, socialisti e così via, sperando di essere il sale della terra un po’ dappertutto, e si avviarono a resistere, per coltivare ancora il loro sogno, senza nessun punto di appoggio fuori di loro.
Anche i pochi punti di forza su cui contavano, cioè gli aiuti materiali delle Chiese sorelle all’estero, a un certo punto vennero meno. Questa è un’altra storia, perché riguarda la prima metà del Novecento; ma è importante accennarvi perché, da questa sciagura che si abbatté su di loro (molti pastori furono licenziati, perché gli stipendi non potevano essere pagati; e molti immobili dovettero passare di mano), le piccole Chiese italiane trassero un’occasione per ‘italianizzarsi’ ancora di più, fino alla completa autonomia finanziaria, ma anche ecclesiastica, e – più importante – per ridefinire il progetto strategico e il senso della loro presenza nel paese. Con molte vicende, che sempre seguirono le pieghe delle vicende italiane, gli eredi dell’evangelizzazione risorgimentale operano ancor oggi seguendo sostanzialmente l’ispirazione di allora. La domanda quindi è: che cosa è rimasto di quel ‘sogno’?
Si può partire proprio dal legame con le Chiese evangeliche degli altri paesi, che non fu interrotto neanche quando, con la grande crisi del 1929, alcune missioni furono costrette ad abbandonare il ‘campo di lavoro’ italiano. Esso è rimasto nella forma di fraterne e costanti relazioni, e della partecipazione di ciascuna Chiesa alle grandi organizzazioni internazionali cui ciascuna di esse fa capo storicamente. Se non più avamposto per una battaglia che doveva portare alla conversione dell’Italia, esse sono ancora testimonianza vivente, e si potrebbe dire la prova, che il cristianesimo nel mondo è plurale. Questa testimonianza dovrebbe essere considerata preziosa in un paese a maggioranza cattolica che vive la sua omogeneità nella maniera peggiore possibile: ignorando, e quindi fraintendendo, tutto quello che di cristiano non-cattolico c’è dentro e fuori dei suoi confini (ciò vale per la stampa come per gli studenti di tutti i livelli scolastici e universitari, per i quiz televisivi come per i pur bravi traduttori di testi stranieri o per i doppiaggi cinematografici, e insomma per intellettuali e classi dirigenti, e opinion makers in generale). Quei quattro gatti di protestanti, quelli che prima erano visti come pericolosi, adesso sono semplicemente ignorati. Giustamente, se si guarda al numero; ma molto dissennatamente, se si pensa a come sarebbero utili per comprendere meglio culture e popoli cui pure l’Italia è legata per molti altri vincoli. Certo, convinti di essere una Chiesa e non un’associazione culturale, non è questo che i protestanti italiani identificano con la loro vocazione; tuttavia è il mondo cattolico, o (ancor più, in verità) quello che crede di doversi definire laico, che avrebbe bisogno, attraverso loro, di conoscere meglio la storia del mondo moderno, e soprattutto di avvicinare la Bibbia e le discipline che se ne occupano. E forse quest’ultima cosa potrebbe anche essere ascritta, dai protestanti, fra i compiti della loro vocazione: è vero che oggi non si pensa più – come facevano i missionari del Risorgimento – che la sola lettura della Bibbia miracolosamente possa convertire alla fede; sarebbe difficile negare, però, che un po’ di cultura biblica renderebbe gli italiani più pienamente cittadini del mondo occidentale.
E poi c’è un altro talento degli evangelici, che ha le radici nella sua nascita risorgimentale, e potrebbe essere utile all’Italia. Essi sono riusciti a trasformare una minoranza occitanica più una minoranza nata da missioni straniere, in una componente ‘nazionale’, che ragiona e opera su un campo di lavoro che va dal Piemonte alla Sicilia; e lo fa in termini di solidarietà e coesione. In tempi di spinte particolaristiche, non è un successo da poco; ma, più che un successo, è appunto un talento da mettere a frutto in un paese che è già plurale dal punto di vista religioso, e non lo sa ancora. Le immigrazioni, cresciute esponenzialmente negli ultimi decenni, hanno inserito nel tessuto quotidiano (nelle nostre case al fianco di anziani e donne lavoratrici, nelle scuole frequentate dai nostri figli, dovunque ci sia lavoro e incontro) la presenza di altri credenti, cristiani e non solo, ormai molto numerosi. Invece di attardarsi in ricorrenti dispute (che oltre tutto lasciano il tempo che trovano) per individuare improbabili conflitti tra cosiddetti laici (in realtà, semplicemente agnostici) e cosiddetti credenti (in realtà, semplicemente obbedienti al magistero romano), l’Italia dovrebbe abituarsi a una cultura pluralistica. Le nuove minoranze, per quanto assai più consistenti dei pochi protestanti, non hanno gli strumenti per sollecitare il paese in questa direzione; non hanno cioè né le agenzie attrezzate (a cominciare dalle intese con lo Stato, per finire con istituti associativi, o una stampa sperimentata), né sufficiente storia ‘italiana’ condivisa. I protestanti, invece, sì. Un’interessante discussione che si sviluppò al loro interno negli anni Settanta del secolo scorso, voleva chiarire se essi dovevano intendersi come una minoranza, o come una componente della società italiana. Col tempo e le trasformazioni vissute dal paese, quella discussione si direbbe ormai datata: nessun dubbio che si tratti di una minoranza; essi sono rimasti pochi, e ben lontani dal raggiungere l’obbiettivo dei ‘padri fondatori’ del Risorgimento, di convertire gli italiani all’evangelo. Tuttavia sono una minoranza che può essere utile al paese, proprio in quanto sono stati a lungo – dall’Unità e dalla battaglia che la precedette e la generò, e poi nelle vicende di un secolo e mezzo – una componente autenticamente italiana della società cui appartengono. Il che può ben essere, nei primi decenni del terzo millennio, una testimonianza coerente con l’eredità risorgimentale.
1 G. Gangale, Revival. Saggio sulla storia del protestantesimo in Italia dal Risorgimento ai nostri tempi, Roma 1929, p. 74.
2 Cit. da F. Chiarini, Storia della chiese metodiste in Italia (1176-1532), Torino 1999, p. 12.
3 G. Spini, Risorgimento e protestanti, Milano 19892, p. 154.
4 Per una storia del valdismo fino al secolo XVI, cfr. A. Molnar, Storia dei Valdesi, I, Dalle origini all’adesione alla Riforma, Torino 1974.
5 A. Armand Hugon, Storia dei valdesi, II, Dall’adesione alla Riforma all’Emancipazione (1532-1848), Torino 1974, p. 172.
6 G. Spini, Risorgimento e protestanti, cit., p. 52. A proposito del ruolo di Ginevra per la storia dell’evangelismo italiano, cfr. V. Vinay, Luigi Desanctis e il movimento evangelico fra gli italiani durante il Risorgimento, Torino 1965.
7 J. Milton, On the late Massacre in Piemont, in The Poems of John Milton, New York 19468, pp. 161-162 (nostra traduzione).
8 «[...] et uno in particolare gli disse che havendo sua moglie un bambino in brachio, gli fu estirpato dalle bracchia, getato contro la muraglia et uciso», lettera dell’Avv. Gen. Pastoris a Madama Reale, 6 giugno 1655, cit. in A. Armand Hugon, Le Pasque piemontesi e il Marchese di Pianezza (1655), «Bollettino della Società di studi valdesi», 98, 1955, p. 20.
9 A. Armand Hugon, Storia dei Valdesi, II, cit., p.11.
10 G. Spini, Risorgimento e protestanti, cit., p. 8.
11 Ibidem, p.115.
12 Ibidem, p. 117.
13 Ibidem, p. 118.
14 Sulle Chiese dei Fratelli, si veda D. Maselli, Tra risveglio e millennio. Storia delle Chiese Cristiane dei Fratelli 1836-1886, Torino 1974; Id., Libertà della Parola. Storia delle chiese Cristiane dei Fratelli 1886-1946, Torino 1978.
15 E. Comba, I nostri protestanti, I, Avanti la Riforma, Firenze 1895, pp. VII-VIII.
16 G. Spini, Risorgimento e protestanti, cit., p. 252.
17 Cfr Th. Paul, Nuovo Testamento stampato a Roma il 1849, «Rivista cristiana», 7, 1879, pp. 97-100; V. Vinay, Il Nuovo Testamento della Repubblica Romana 1849, «Protestantesimo», 11, 1956, pp. 5-24; Id., Altre due copie del N. Testamento della Repubblica Romana del 1849, ivi, pp. 80-81; G. Spini, Ancora sul Nuovo Testamento della Repubblica Romana del 1849, ivi, pp. 75-79; V. Vinay, Il Nuovo Testamento della Repubblica Romana 1849. La copia della Biblioteca del Museo Britannico, ivi, 16, 1961, pp. 98-104.
18 G. Spini, Risorgimento e protestanti, cit., p. 251; cfr. anche V. Vinay, Gli evangelici italiani esuli a Londra durante il Risorgimento, Torino 1961.
19 G. Spini, Risorgimento e protestanti, cit., p. 55.
20 A. Armand Hugon, Storia dei valdesi, II, cit., pp. 277-283.
21 Sulla Società biblica cfr. D. Maselli, C. Ghidelli, La Società Biblica Britannica e Forestiera. 200 anni di storia in Italia, Roma 2004.
22 G. Spini, Risorgimento e protestanti, cit., p. 190.
23 Cfr. G. Bouchard, I valdesi e l’Italia. Prospettive di una vocazione, Torino 1988, p. 25.
24 Cfr. G. Spini¸ Italia liberale e protestanti, Torino 2002, p. 88.
25 Ibidem, p. 87.
26 Ibidem, p. 89.
27 Questa espressione, ibidem, p. 89.
28 «La buona novella – Giornale dell’evangelizzazione italiana», 8, 1859, 17, pp. 268-268.
29 Sulla storia della Facoltà valdese, cfr. V. Vinay, Facoltà valdese di teologia (1855-1955), Torre Pellice 1955.
30 F. Chiarini, Storia della chiese metodiste, cit., p. 13.
31 Ibidem, p.18.
32 Ibidem, pp. 40 segg; cfr. anche W.P. Stephens, Le origini britanniche della chiesa metodista italiana, in Il metodismo italiano (1861-1991), a cura di F. Chiarini, Torino 1997, pp. 29-46; Henry James Piggott. Vita e lettere, a cura di T.C. Piggott, T. Durley, Torino 2002.
33 Editoriale del 27 febbraio 1861 del «New Kingdom», in T. Macquiban, L’atteggiamento della stampa metodista britannica verso l’Italia nel periodo precedente il 1862, in Il metodismo italiano, cit., p. 51.
34 Cfr. A. Scirocco, Democrazia e socialismo a Napoli dopo l’Unità (1860-1878), Napoli 1973; V. Carola, Evangelici e democratici a Napoli dal 1860 al 1865, «Bollettino della Società di studi valdesi», 154, 1984, pp. 39-58; R. Ciappa, Le origini del movimento evangelico a Napoli (1860-1862), in Movimenti evangelici in Italia dall’Unità ad oggi. Studi e ricerche, a cura di F. Chiarini, L. Giorgi, Torino 1990, pp. 113-128.
35 Sulla Chiesa libera, cfr. G. Spini, L’evangelo e il berretto frigio. Storia della Chiesa Cristiana Libera in Italia 1870-1904, Torino 1971.
36 G.Spini, Italia liberale, cit., p. 192.
37 T. Macquiban, L’atteggiamento della stampa metodista, cit., p. 54.
38 H.R. Marraro, Il problema religioso del Risorgimento visto dagli americani, «Rassegna storica del Risorgimento italiano», 43, 1956, pp. 463-472; cit. in F. Chiarini, Storia delle chiese metodiste, cit., pp. 61-62.
39 G. Spini, Studi sull’evangelismo italiano tra Otto e Novecento, Torino 1994, p. 87.
40 G. Spini, Il «grand dessein» di William Burt e l’Italia laica, in Il metodismo italiano cit., p. 113. Dello stesso autore e nello stesso volume, si veda anche Profilo storico della presenza metodista in Italia, in Il metodismo italiano, cit., p. 16: «La missione in Italia doveva quindi servire a colpire il “papismo” nel suo stesso cuore ed a liberare gli italiani dalla schiavitù spirituale, portando anch’essi nell’ambito della “civiltà cristiana”».
41 Cfr. G. Spini, Risorgimento e protestanti, cit., p. 214.
42 Per la storia delle Chiese battiste in Italia: D. Maselli, Storia dei battisti italiani 1863-1923, Torino 2003.
43 G. Spini, Italia liberale, cit., p. 155. Questo processo di identificazione con le vicende dell’Italia risorgimentale fu accelerato quando, nel 1903, le due Chiese metodiste si accollarono costi (e personale, e membri) della Chiesa evangelica italiana (già Chiesa Cristiana Libera – quella di Gavazzi), ridotta quasi al fallimento. «Solo la generosità dei metodisti scongiurò una catastrofe. Ciò accentuò ulteriormente il carattere italiano delle chiese metodiste, assai più vicino a tradizioni anticlericali latine che al metodismo britannico o americano», G. Spini, Profilo storico, cit., p. 17.
44 Ibidem, pp.73-74.
45 Ibidem, p. 74.
46 «Gli anni successivi a Porta Pia furono anni di amare delusioni per gli evangelici italiani. Le attese millenaristiche caddero nel vuoto e l’Italia evangelica si trovò stretta fra l’odio furente di un apparato ecclesiastico ancora poderoso e l’indifferenza sprezzante del libero-pensiero», G. Spini, Italia liberale, cit., p. 222.
47 G. Spini, Risorgimento e protestanti, cit., p. 334.
48 Ibidem, p. 371.
49 Il termine «massonevangelismo», coniato da Giuseppe Gangale, è stato ripreso in varie occasioni da Giorgio Spini: «Fu un fenomeno che si sviluppò soprattutto negli ultimi anni dell’Ottocento e nei primi anni del Novecento, ma era già cominciato a spuntare negli anni roventi della questione romana. Il massonismo dei paesi latini e cattolici, pur professando la massima reverenza per le logge britanniche e americane, se ne distaccava per la assai maggiore bellicosità anti-clericale e per i decisi interventi nella politica. Nelle logge italiane, poi, questo pugnace anti-clericalismo faceva tutt’uno con il culto del Risorgimento nazionale e del suo eroe, Giuseppe Garibaldi. La convergenza tra evangelici e massoneria era inevitabile» in Italia liberale, cit., pp. 221-222 passim. «Un po’ tutte le denominazioni evangeliche ebbero rapporti amichevoli con le logge massoniche. Ma più stretti di tutte le ebbero la Chiesa metodista episcopale e il suo soprintendente Burt, nell’ottica di una comune offensiva anti-cattolica», G. Spini, Profilo storico, cit., p. 16. William Burt aveva sostituito Leroy Vernon nel 1889: «Vernon dovette fare le valigie e alla testa della Chiesa Metodista Episcopale in Italia restò Burt, cioè il propugnatore più acceso dell’alleanza tra Evangelo e Massoneria. Da quel momento la Chiesa Metodista Episcopale fu la roccaforte per eccellenza del massonevangelismo e il suo corpo pastorale militò al completo nelle file libero-muratorie», Italia liberale, cit., p. 224. Su massoneria e evangelici in generale, si veda anche A. Comba, Teofilo Gay, pastore e intellettuale, in Il metodismo italiano, cit., pp. 91-107; Id., Valdesi e massoneria. Due minoranze a confronto, Torino 2000. Nel complesso, Spini ha rivalutato (rispetto a Gangale) la funzione della massoneria nel mondo evangelico, pur mettendone in evidenza i limiti: «Il grosso rischio che correva l’Italia evangelica, dopo la fine del Risorgimento, era quello di trovarsi racchiusa – o magari di rinchiudersi con le proprie mani – entro una sacrestia pietista, forse di un impeccabile candore spirituale, ma certo avulsa dalla realtà italiana. Il massonevangelismo, con tutti i suoi ovvi limiti, rappresentò comunque un’uscita degli evangelici dalla sacrestia pietista ed una prima presa di coscienza delle proprie responsabilità di cristiani nei confronti dei loro fratelli italiani, in quanto membri di una società che i cittadini erano chiamati a guidare essi stessi, col voto e con l’opera politica. In loggia i notabili evangelici si trovavano fianco a fianco con democratico-radicali, repubblicani, socialisti. Ciò favorì innegabilmente l’apertura a posizioni cristiano-sociali che si ebbe nell’Italia evangelica dalla fine del secolo XIX in poi. La contropartita di ciò fu in più casi una confusione tra Evangelo cristiano e umanitarismo illuministico», in G. Spini, Italia liberale, cit., pp. 226-227 passim.
50 «Per quanto riguarda i suoi orientamenti politici, l’Italia evangelica, fino dalle sue origini risorgimentali, aveva sempre considerato la dottrina di Vinet della separazione tra Stato e Chiesa come verità indiscutibile. Anzi, aveva dato un’interpretazione estensiva a questa dottrina nel senso di ritenere che la predicazione dell’evangelo dovesse avere a che fare il meno possibile con problemi politici. In politica, ognuno doveva vedersela con la propria coscienza e fare le proprie scelte in piena libertà», G. Spini, Italia di Mussolini e protestanti, Torino 2007, p. 41.