Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel panorama del cinema d’autore che si afferma in tutta Europa fra la fine degli anni Quaranta e l’esplosione delle nouvelles vagues, uno dei fenomeni in grado di attrarre l’attenzione dei cineasti è senza dubbio la psicanalisi, genericamente intesa. Alcuni registi decidono di utilizzare il cinema prevalentemente per indagare e rappresentare ciò che è per sua stessa natura invisibile, ovvero il funzionamento profondo della psiche umana, l’intreccio di pulsioni e di sensazioni che definiscono il soggetto e la sua percezione della realtà, che si ritiene ecceda la semplice somma "neutra" dei dati oggettivi che compongono il suo mondo.
Il reale irrazionale: Luis Buñuel
Precursore nell’esplorazione – all’interno dell’avanguardia surrealista – delle aree più recondite della vita onirica degli individui con film come Un cane andaluso (Un chien andalou, 1929) e L’età dell’oro (L’Âge d’or, 1930), direttamente proiettati a sovvertire la pretesa di ordine razionale su cui si basa la concezione borghese dell’esistenza attraverso la rappresentazione del caotico substrato pulsionale su cui sono costruite le sue impalcature, lo spagnolo Luis Buñuel deve affrontare un lungo esilio messicano prima di ritornare prepotentemente alla ribalta del cinema internazionale con I figli della violenza (Los olividados, 1949). Il film si pone come una inchiesta di stampo neorealista sulle condizioni di bestiale sopravvivenza dei giovani abitanti delle baraccopoli attorno a Città del Messico, ma in effetti, dietro alla denuncia sociologica della situazione contingente, le numerose sequenze oniriche alludevano alla natura intrinsecamente selvaggia dell’essere umano in quanto tale, da cui derivano i soprusi e i destini tragici che il film racconta, travalicando gli schemi consueti del pietismo paternalistico con cui si era soliti mettere in scena le vite dei disperati.
Altrettanto duro e provocatorio – fra i vari melodrammi messicani – Nazarin (1958), sorta di Vangelo apocrifo sulla vita di un sacerdote che, sulle orme del Cristo, mette insieme una specie di esercito di derelitti solo per farlo naufragare nella tragedia, innamorato com’è del proprio narcisismo di benefattore. Così Viridiana (1961) segna il ritorno in patria del regista ed è una parabola in cui il reale e la soggettività assoluta delle proiezioni fantasmatiche dei protagonisti si sovrappongono e confondono, quasi a dimostrare che la vita degli umani non è altro che il susseguirsi grottesco e ridicolo di una serie di atti mancati e che ogni tentativo di un’autorappresentazione coerente ed eticamente irreprensibile è destinata a infrangersi con l’inattingibilità – a tratti beffarda – del fondo magmatico e inconscio che guida sostanzialmente le azioni degli uomini e delle donne. La carica nichilista dei primi film, l’amore giocoso per gli assunti della psicanalisi freudiana, la polemica ininterrotta contro i riti e i miti della borghesia (intesa come categoria dello spirito che domina l’universo "civilizzato") sono anche al centro di tutti i successivi film di Buñuel, impegnato in una sua personale battaglia iconoclasta, tesa a dimostrare che la realtà – così come siamo soliti interpretarla sulla base delle apparenze – semplicemente non esiste. È l’assunto di film come L’angelo sterminatore ( L’angel exterminador, 1962) su un gruppo di borghesi messicani che, dopo un concerto, è impossibilitato a lasciare il salotto da una forza invisibile e inspiegabile (salvo ritrovarsi in una chiesa dopo la rottura dell’incantesimo), Bella di giorno (Belle de jour, 1967), su una donna dell’alta società che dietro ai modi irreprensibili cela una doppia vita da prostituta, Il fascino discreto della borghesia (Le charme discret de la bourgeoisie, 1972), dove le istituzioni – chiesa, esercito, polizia – sono continuamente ridicolizzati in un gioco al rilancio che sconfina spesso nel puro nonsense del teatro dell’assurdo, fino all’ultimo Quell’oscuro oggetto del desiderio (Cet obscur objet du désir, 1977), graffiante e finale apologo sull’amore e sulla sua natura diabolicamente automatica, appena offuscata da un perverso sistema di simboli, convenzioni, modelli.
Le epifanie dell’inconscio collettivo: Federico Fellini
Sempre nel segno di una concezione della vita (ovvero del presente) come inafferrabile susseguirsi di apparizioni oniriche, dettate da una memoria che confonde e da proiezioni misteriose dei desideri e delle aspirazioni più intime, si è edificato lo statuto autoriale di un altro dei registi che più hanno influito sul cinema internazionale fra gli anni Cinquanta e i Sessanta. Federico Fellini, infatti, già collaboratore di Rossellini fin dai tempi di Paisà (1946), si afferma inizialmente come regista capace di inventare piccoli bozzetti nostalgici e di far risuonare come universale il patetismo insito nelle esistenze minori di personaggi votati alla marginalità (da I vitelloni, 1953, a La strada, 1954, fino a Le notti di Cabiria, 1957). Nel suo più grande successo, La dolce vita (1960), assieme agli scrittori Tullio Pinelli ed Ennio Flaiano, Fellini attinge alla memoria del provinciale per costruire, attraverso una serie di rievocazioni episodiche particolarmente pregnanti, uno straordinario affresco su una Roma lunare e decadente e sulla società di aristocratici e popolani vagamente mostruosi che la abitano e ne incarnano perfettamente lo spirito. Questo tipo di ricerca viene approfondita nel successivo 8 e 1/2 (1963), dove un regista in crisi deve fare i conti con un blocco creativo e con il sovrapporsi di presenze sempre più rarefatte, provenienti dal passato come dal presente, che vanno a comporre come un flusso di coscienza di grande suggestione, destinato a diventare un modello imprescindibile per ogni ulteriore film sul cinema.
In seguito, con Giulietta degli spiriti (1965), Amarcord (1973), Il Casanova di Federico Fellini (1976), il regista precisa in termini propriamente junghiani i termini del suo tentativo di giungere a penetrare i segreti della propria identità individuale e di quella del proprio paese attraverso il recupero e la messa in scena di grandi configurazioni dell’inconscio collettivo. Fra queste emergono l’attitudine regressiva che spinse gli italiani verso una dittatura stupida come quella fascista, oppure la coazione a ripetere e all’autoaffermazione che conduce alle più volgari e alienate manifestazioni della sessualità maschile. Gli stessi temi, assieme a una sempre più amara e caustica descrizione della società italiana contemporanea, ricompaiono in opere allegoriche e crepuscolari come E la nave va (1983), Ginger e Fred (1985) e Intervista (1987). La voce della luna (1990), infine, costituisce una sorta di testamento spirituale, in cui i tipi psicologici che hanno sempre popolato il cinema di Fellini vengono inquadrati nello schema del paese di folli, smemorati e sognatori che abita Il poema dei lunatici di Ermanno Cavazzoni (1947-).
Il senso della vita: Ingmar Bergman
Nessuno più di Ingmar Bergman, tuttavia, ha saputo diventare emblema dell’autorialità europea e di un utilizzo del cinema in chiave filosofica e spirituale, pur restando sempre fedele a dei moduli stilistici di natura teatrale. Erede di una tradizione che risale a Ibsen, Strindberg e al kammerspiel, fino a Viktor Sjöström e Carl Th. Dreyer, Bergman esordisce nel 1945 con un film dal titolo estremamente significativo, Crisi (Kris), dedicato alla ricerca di una madre perduta. Al di là dei travagli familiari, che pure hanno sempre tormentato il regista, figlio "degenere" di un pastore protestante, il suo cinema si sviluppa interamente su un’idea di crisi, che nasce dalla "morte di Dio", intesa come perdita della fede e degli appigli che essa forniva rispetto alla ricerca del senso della vita. Gettati in pasto a un mondo pieno di sofferenze e durezze di cui non si riesce a cogliere la ragione, i suoi eroi devono recuperare dentro se stessi, nel territorio (spesso onirico) dell’immaginazione e della memoria, le coordinate del proprio essere e i motivi per cui l’esistenza valga la pena di essere vissuta. È il caso del protagonista di Il settimo sigillo (Det sjunde inseglet, 1956), crociato che ritorna in una patria sconvolta da guerre, carestie, pestilenze e fanatismi per intraprendere una surreale partita a scacchi con la morte che gli consentirà – pur nell’inevitabile sconfitta – di guadagnare abbastanza tempo per garantire la salvezza a una famiglia di innocenti saltimbanchi. E allo stesso modo, l’anziano professore protagonista di Il posto delle fragole (Smultronstället, 1957), nel percorso che lo conduce a celebrare il proprio giubileo, avrà modo di rivisitare con la memoria tutti i luoghi essenziali della sua vita, arrivando finalmente a percepirne i limiti e i pregi, al di là del cinismo e delle ansie che sembravano averla dominata. Vicende simili – spesso drammatiche e senza soluzioni consolatorie – si ritrovano anche in Persona (1966), Scene da un matrimonio (Scener ur ett äktenskap, 1974) e negli innumerevoli capolavori di una carriera che ha attraversato tutta la seconda metà del Novecento, senza disdegnare neppure incursioni nella farsa.