Il signor quaranta per cento
Matteo Renzi, la sua ascesa e il suo impatto politico e mediatico sull’Italia in recessione visti attraverso la lente d’ingrandimento di uno dei maggiori politologi italiani, ex senatore e accademico dei Lincei.
Il renzismo è tutto meno che una teoria o una ideologia politica. È una pratica, audace, ambiziosa e spesso spregiudicata, non dettata, ma ispirata dalle circostanze e in grado di sfruttarle con prontezza. Il renzismo non ha una visione di lungo periodo della politica italiana e neppure del governo del paese.
Tenendo la barra sui desiderata del suo leader, il renzismo dà una linea e la persegue con tutti gli adattamenti del caso, ogni volta asserendone categoricamente la giustezza e l’opportunità. La persona del leader è quella che fa la differenza, con la sua dichiarazione di metterci la faccia per cambiare verso alle cose. Il renzismo è un prodotto, nient’affatto inevitabile, della politica italiana impregnata dal ventennio berlusconiano. È uno dei prodotti possibili, reso più significativo e più efficace dal suo inserimento nel mancato rinnovamento del centrosinistra, ma anche dall’unica apprezzabile novità della politica del Partito democratico: le primarie (e l’elezione del segretario del partito a opera dei simpatizzanti e dei potenziali elettori). Il renzismo ha una componente di antipolitica e di anticasta curiosa poiché proviene da colui, Mattei Renzi, che è, a tutti gli effetti, un politico di professione fin dalla sua giovane età. Presidente della Provincia di Firenze in quanto margheritino (agli ex-comunisti andava invece attribuita la carica di sindaco della città), poi, attraverso e grazie alle primarie, a sua volta sindaco di Firenze, Renzi ha goduto di una forte popolarità annunciando la necessità della rottamazione per il ceto politico al vertice del Partito democratico. Facendo seguito alle sue parole, con slancio superiore all’incoscienza, ma anche avvantaggiato dai tempi che sembravano propizi, nel novembre-dicembre 2012 ha sfidato il segretario del PD Pierluigi Bersani per la candidatura alla presidenza del Consiglio. Fu sconfitto ma raccolse un’altissima percentuale di voti (quasi il 40), che segnalò il grande scontento dell’elettorato ‘democratico’ nei confronti della leadership del PD.
La pessima campagna elettorale di Bersani nell’inverno 2012-13 e l’altrettanto deplorevole gestione della non-vittoria del PD aprirono nuovi spazi a Matteo Renzi che, dal canto suo, si era tenuto lontano da entrambi gli sviluppi. La nuova opportunità (la ‘fortuna’ offertagli dalle circostanze) successiva alle inevitabili dimissioni di Bersani ha permesso a Renzi di conquistare la segreteria del partito con una percentuale di voti (68) inusuale, nella quale si coagulava tutta l’insoddisfazione dei sostenitori del PD con la speranza di un cambiamento da tempo dovuto.
Facendo leva proprio sulla necessità del cambiamento, il segretario Renzi da un lato proseguiva nell’esaltazione delle sue qualità personali, anatema per tutti coloro che continuano – in parte per convinzione politica e ideologica e in parte, probabilmente maggiore, per ragioni di carriera personale – a porre l’accento sulla ‘ditta’, sull’appartenenza a un progetto collettivo, per quanto obsoleto e sbiadito; dall’altro, si lanciava in un’operazione ugualmente iconoclastica: il ridisegno della Costituzione italiana a partire dalla legge elettorale e dalla trasformazione del Senato. Strada facendo, il renzismo si è definito non soltanto come innovazione, ma anche come modalità di comunicazione, secca, scarna e didascalica attraverso i tweet cari al suo adolescenziale protagonista.
Inutile e fuorviante il paragone con Silvio Berlusconi, homo novus della politica italiana nel 1994, in relazione alle capacità di Renzi di sfruttare lo spazio politico spalancato dalla crisi della ‘ditta’ e alla capacità di soddisfare le attese di cambiamento a lungo represse e in parte, peraltro, già confluite nell’enorme consenso elettorale ottenuto dal Movimento 5 Stelle.
All’insegna del pungolo a un governo, quello guidato dal compagno di partito Enrico Letta, prima rassicurato (#Enricostaisereno), poi disarcionato, la battaglia di Renzi per un cambio di passo ha trovato un’accelerazione insperata e inaspettata con le dimissioni di Letta. Pur senza avere mai nascosto le sue ambizioni di giungere a Palazzo Chigi, sebbene soltanto in seguito a un passaggio di legittimazione elettorale, Renzi ha costruito, sfruttando le circostanze, la sua ascesa a capo del governo, succedendo a Letta il 22 febbraio 2014. La transizione dal renzismo di lotta al renzismo di governo è stata, come nelle intenzioni del leader, fulminea e diretta ad aggredire i problemi italiani. Tanto veloci quanto semplificatrici sono state le riforme elettorali e istituzionali proposte, delle quali tuttora sembra contare di più la loro approvazione a prescindere rispetto a qualsiasi valutazione di appropriatezza e di qualità. Il renzismo non è una pratica orientata ad ascoltare e valorizzare il dissenso. Al contrario, l’esistenza di oppositori – professoroni, intellettuali, burocrati, variamente collocati in un mondo popolato da gufi e rosiconi – consente al leader di ergersi come paladino dell’ottimismo e dell’azione in confronto a coloro che si sarebbero limitati per trent’anni a parlare di riforme senza (sapere/volere) farle.
Il renzismo ha nemici da sconfiggere anche nell’Unione Europea, le cui regole rigorose critica con spirito garibaldino che, però, la maggioranza degli europei, passato il momento della sorpresa di fronte alla giovinezza/gioventù del primo ministro italiano, non ritiene adeguato allo sforzo riformatore («i compiti a casa») richiesto all’Italia. Se il riformismo si definisce con riferimento a un programma relativamente organico di cambiamenti proiettati nel tempo, il renzismo non è riformismo, ma opportunismo occasionale, ovvero valutazione contingente di vantaggi da trarre da politiche che quei vantaggi (come gli 80 euro in busta paga a partire dal maggio 2014) li producano in tempi brevi. Il tanto elevato (40,8%) quanto inaspettato successo alle elezioni europee del PD di Renzi – le ricerche indicano che il contributo personale del leader è stato pari all’incirca al 5% dei voti ottenuti – suggerisce che il renzismo pragmatico può, almeno nell’immediato, avere conseguenze positive. Costretto a correre dalle sue promesse, per reggere il renzismo ha bisogno di punteggiare e puntellare la sua corsa con riforme, una al mese, evidentemente non conseguibili.
Persino troppo rapidamente conquistato il partito, anche grazie ai molti saltatori sul carro del vincitore, il renzismo non sembra del tutto consapevole che il fattore personale non deve schiacciare il fattore organizzativo né può farne a meno. La sua attività di governo continua a essere intessuta di riforme disorganiche alle quali è dato un orizzonte di mille giorni da raggiungere prudenzialmente «passo dopo passo».
L’istituzionalizzazione del renzismo, anche a fronte dei troppi elogiatori interessati e acritici, appare tutto meno che scontata.
Italy in a day
Gabriele Salvatores, sull’esempio di quanto realizzato negli Stati Uniti nel 2010 con Life in a day, ha prodotto il primo film collettivo mai realizzato in Italia. Preceduto da un invito agli italiani a documentare la loro vita nello spazio delle 24 ore del 26 ottobre del 2013, con ogni mezzo a disposizione (telecamere, cellulari, smartphone), Italy in a day è una foto dell’Italia realizzata dagli stessi italiani. Il regista ha selezionato 44.197 video ricevuti pari a 2200 ore di riprese. I 632 video montati con una squadra di selezionatori compongono ora i 75 minuti del film, presentato in anteprima e fuori concorso alla 71ª Mostra del cinema di Venezia.