Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Fra Seicento e Settecento la gastronomia francese rivoluziona i gusti tradizionali del Medioevo e del Rinascimento, elaborando un nuovo modello di cucina non più basato sull’idea dell’artificio e sui contrasti di sapori, ma su nuovi principi quali la naturalità, la delicatezza e la separazione dei sapori. Mentre il modello francese si impone, altre vie – in particolare quella regionale – si affacciano timidamente in Italia.
Il secolo della Francia
Una vera e propria rivoluzione dei gusti e delle tecniche di cucina, preparata negli ultimi decenni del Seicento, esplode nel Settecento in Europa. Il luogo cruciale è la Francia, anzi Parigi, capitale europea della politica e della cultura, centro di un potere assoluto che non manca di coinvolgere l’ambito della gastronomia, disegnando anche in questo campo un imperialismo culturale destinato a rafforzarsi nei secoli successivi e tuttora sostanzialmente in auge, nonostante alcuni segni di incertezza che ne stanno incrinando il primato. Il nome di riferimento è quello di Menon, probabile autore del testo La cuisinière bourgeoise, vero best- seller tra i ricettari di cucina dell’epoca, pubblicato la prima volta nel 1746 e poi più volte ristampato.
Ma dietro a Menon c’è il Cuisinier royal et bourgeois di Massialot (1691) e prima ancora L’art de bien traiter di un non identificato L.S.R. (1674). Su questi testi si fonda la tradizione gastronomica francese nei suoi tratti caratteristici, tuttora riconoscibili.
La “natura” dei cibi
“La zuppa di cavolo deve sapere di cavolo, il porro di porro, la rapa di rapa”: così scrive Bonnefons, un cuoco francese del XVII secolo. Un’affermazione dall’apparenza innocente che invece racchiude tutto il senso della rivoluzione avvenuta nei gusti e nelle pratiche di cucina tra Sei e Settecento. Fino ad allora, l’arte del cuoco era stata pensata soprattutto come un artificio, come un’opera di creazione destinata a modificare la natura dei vegetali e delle carni, il sapore, la consistenza, la forma e il colore che “naturalmente” erano propri di ciascun prodotto. A ciò mirava la diffusa abitudine di sovrapporre e moltiplicare cotture diverse: lessare e poi arrostire, friggere e poi mettere in umido, o magari tutte queste cose assieme. Allo stesso scopo mirava l’impiego massiccio delle spezie che stravolgevano il sapore delle vivande e l’uso sistematico di coloranti (zafferano o uovo per il giallo, riso e latte di mandorla per il bianco, erbe per il verde, cannella per il beige, bacche selvatiche per il rosa o per il blu ecc.) che evidenzia, nella cucina medievale e rinascimentale, una vera ossessione per l’aspetto cromatico delle vivande. Di fronte a una tradizione come questa, rivendicare il rispetto per l’aspetto e per i sapori “naturali” di un prodotto costituisce un totale rovesciamento delle regole; se vogliamo, è la riproposizione sul piano gastronomico del mito della Natura, così centrale nella cultura illuminista.
Parola d’ordine: separare
La nozione di artificio che dava il tono alle pratiche di cucina medievali e rinascimentali (rimaste in auge, fuori dal contesto francese, ancora a lungo nel XVIII secolo e oltre) si inquadrava in una prospettiva di tipo globalizzante che mirava ad annullare le diversità, a “temperare” e confondere gli estremi in una sorta di equilibrio ideale che li contenesse tutti. Dietro tale prospettiva culinaria scorgiamo i dettami della scienza medica che individuava come proprio ideale dietetico il punto centrale di equilibrio in cui le distanze si componevano e gli eccessi di “umori” (caldo o freddo, umido o secco) si compensavano a vicenda. Di qui la diversificazione dei modi di cottura (con o senza acqua ecc.), l’accostamento di certe salse a particolari tipi di carni, l’abbinamento di questa a quella vivanda: tutte tecniche destinate a comporre in unità i più diversi ingredienti e i più svariati sapori, intesi a loro volta come manifestazione sensoriale della “natura” degli alimenti. È in questa prospettiva culturale e scientifica che si pone la mescolanza dei sapori (agro, dolce, piccante, salato ecc.), caratteristica forse decisiva del gusto premoderno.
L’indicazione di Bonnefons acquista ora il suo senso più compiuto: rispettare l’autonomia dei sapori significa distinguerli, separarli. Infatti, la cucina francese del Sei-Settecento opera per la prima volta consapevolmente un progetto di separazione dei sapori che alla lunga modificherà le strutture del gusto e la stessa struttura del pasto: se il dolce va separato dall’agro e dal salato, bisognerà trovargli un posto tutto “suo” nel sistema di consumo. Non casualmente, perciò, si sviluppa un’arte della pasticceria come branca a sé della cultura gastronomica e il dessert conquista un suo posto specifico al termine dell’azione conviviale.
L’abbandono delle spezie
L’uso delle spezie viene progressivamente abbandonato nella cucina settecentesca, un po’ perché tali prodotti (divenuti più ampiamente disponibili dopo i viaggi oltreoceano) non fungono più da status symbol, un po’ perché la nuova filosofia culinaria tende a emarginare tutto ciò che snatura il sapore originario dei cibi, come è appunto il caso delle spezie. Al loro posto cominciano a essere impiegati aromi più semplici, erbe profumate di produzione locale, verdure delicate come i funghi o gli asparagi.
In questa rinnovata attenzione alle erbe e alle verdure è forse da riconoscere il più significativo apporto dato dalla tradizione italiana alla cucina francese: fin dal Medioevo infatti, pur in un contesto culturale che assegnava decisamente il primo posto alle carni, i cibi vegetali (non necessariamente “poveri”) paiono avere nella gastronomia del nostro Paese un ruolo piuttosto significativo, diversamente da quanto accade oltralpe. Soprattutto fra Quattro e Cinquecento nei testi gastronomici italiani si accentua l’attenzione verso i vegetali e di questo (più che di improbabili insegnamenti di cuochi italiani giunti alla corte di Francia al seguito di Caterina de’ Medici: una leggenda divenuta ormai luogo comune) i cuochi francesi del Seicento seppero fare tesoro.
La vittoria dei grassi
Ad accentuare i sapori delicati della nuova cucina – culturalmente appropriati all’intellighenzia borghese e nobiliare della società settecentesca, ma che sarebbero apparsi quasi una provocazione per i carnivori aristocratici di qualche tempo prima – concorre in maniera decisiva l’impiego dei grassi, come nuovo ingrediente delle salse di accompagnamento. Maionesi, bernesi, olandesi ecc. nascono allora su una base di burro (o di olio, nelle regioni francesi e italiane di tradizione olivicola) che modifica radicalmente la loro struttura rispetto agli antecedenti medievali e rinascimentali. Le salse “antiche” erano infatti magre, senza olio né burro, basate su una combinazione di ingredienti acidi (vino, aceto, agresto, succo di agrumi) e piccanti (spezie) tenuti insieme da mollica, fegato e uova; la loro intensità di sapori era inversamente proporzionale alla consistenza. Le nuove salse, grasse e delicate, segnano l’inizio di un’altra storia.
L’Italia delle regioni
Mentre la cucina francese si definisce come cucina nazionale e si impone come modello all’Europa, la cucina italiana vive una stagione apparentemente dimessa, caratterizzata dalla subalternità al modello francese e dall’accentuarsi della dimensione localistica della cucina. Esemplare di tale situazione è un’opera anonima pubblicata a Torino nel 1766, Il cuoco piemontese perfezionato a Parigi, che denuncia fin dal titolo la volontà di “accreditarsi” vantando un’aggiornata conoscenza della “moda” francese. Ma forse è soprattutto la “piemontesità” a meritare risalto, poiché nei decenni a venire sarà proprio la dimensione regionale a definire gli ambiti di interesse gastronomico: La cuciniera piemontese (1771), La cuoca cremonese (1794) e Il cuoco maceratese (1794) sono alcuni titoli significativi, mentre Il cuoco galante di Vincenzo Corrado (1773) non fa mistero del suo accento napoletano e il monumentale Apicio moderno di Francesco Leonardi (1709) raccoglie e confronta differenti tradizioni di diverse città e regioni italiane. La via all’Artusi è segnata, ed è soprattutto in questa direzione – diversa sia dall’universalismo medievale, sia dal nazionalismo francese – che la cucina italiana troverà ben presto una sua peculiare dimensione creativa.