Il saeculum: l’elefante nella stanza
Ritornare alle lezioni tenute al Warburg Institute nel 1958 su Il conflitto tra paganesimo e cristianesimo nel quarto secolo significa ritornare a una Gran Bretagna (a dire il vero, a un’Europa) immobile sul ciglio delle ombre profonde della tirannia e della guerra. Era il mondo postbellico, già predisposto alla successiva, dilagante ombra della Guerra fredda. Le parole di apertura del discorso di Herbert Bloch The Pagan Revival in the West at the End of the Fourth Century erano chiare:
San Bernardo di Chiaravalle dice: «Habet mundus iste noctes suas et non paucas» (questo nostro mondo ha le sue notti, e non sono poche). Anche noi siamo passati per quasi mezzo secolo attraverso un periodo di oscurità e ancora adesso non sappiamo se la quiete presente finirà in una nuova aurora o se è soltanto un’altra ὕποπτος ἀνοϰωχή – per usare le parole di Tucidide – del tipo di quella che abbiamo conosciuto fra il 1918 e il 19391.
Il conflitto era nell’aria. Era tempo di rivedere il conflitto tra cristianesimo e paganesimo. Come Bloch disse chiaramente: «In tempi come questi, però, diventa più facile capire periodi ad essi simili, in cui antichi valori e tradizioni si disintegrano […] non c’è stato nessun momento di rottura più importante di quello che segna la fine del mondo antico e il conflitto finale tra paganesimo e cristianesimo»2.
E conflitto fu. La parola ‘scontro’ ricorse frequentemente. Arnaldo Momigliano evocò le impetuose energie dispiegate dai cristiani nel creare, per se stessi e a discapito dell’Impero romano, una «Civitas Dei – una nuova comunità di uomini per gli uomini»3. Con elettrizzante buonsenso, Hugo Jones dimostrò come il «trionfo del cristianesimo» fu agevolato da cambiamenti sociali che scossero le fondamenta ultime dell’Ancien Régime romano4. Henri Irénée Marrou mise a nudo la lotta interiore di Sinesio di Cirene: «abbiamo un caso tipico di ciò che Arnold Toynbee ci ha insegnato a chiamare “scisma dell’anima”»5.
Soltanto il marxista Edward Arthur Thompson disse, con il suo usuale buonsenso grisaille, che, per quanto concerne le relazioni tra il cristianesimo e i barbari del Nord, non vi fu né conflitto né vittoria. La storia del cristianesimo tra i barbari cominciò solo con «il passaggio dalla vita selvaggia della Barbaria alla socialità della Romania»6.
Intorno al Mediterraneo era però opinione comune che un conflitto ci fosse stato e che ciascuno dei protagonisti in questo conflitto avesse giocato il proprio ruolo attivamente. Tale opinione era basata su un testo che fu parte della narrativa principale della storia europea sin dal XIX secolo, secondo cui i cristiani erano particolarmente agguerriti e i loro vescovi vigorosi: «Sapevano dire all’uomo colto e ignorante come doveva comportarsi»7. E, ovviamente, nessuno lo fece meglio di Sant’Ambrogio, il quale «gettò nella lotta tutto il peso della sua forte e intrepida personalità»8.
È necessario ricordare che nel 1958 Ambrogio aveva una rilevanza pari a quella di un ‘peso massimo’. Si è dovuto attendere trentasei anni (quindi sino al 1994) per avere l’agile ‘peso leggero’ presentato da Neil McLynn nel suo Ambrose of Milan. Church and Court in a Christian Capital9. I pagani, invece, non avevano la stessa minacciosa potenza dei loro avversari. Loro erano gentiluomini: «in linea di massima la loro posizione era ispirata a criteri di obiettività e di generosità»10.
Il destino del liberalismo in un’età dominata da ideologi e prepotenti, per quanto ne sappiamo, scatenò la paura nei confronti degli ultimi pagani. Come gli amabili dodi, erano creature destinate all’estinzione. Ma, prima di svanire, fecero quello che si presumeva avrebbe fatto, secondo gli scritti della grande narrativa della civilizzazione europea: salvarono i classici11. Copiarono i manoscritti. Non spesero tempo, per quanto è dato sapere, nella preghiera – fosse questa rivolta Dio o agli dei.
Nell’istituto che porta il nome di Aby Warburg, tra le lezioni tenute, era difficile trovare una eco del paganesimo visto come un perpetuo promemoria delle forze oscure dell’anima indomate da secoli di cristianesimo – così come è riassunto da una voce dell’indice del discorso di Ernst Gombrich intitolato Aby Warburg. An Intellectual Biography: «Paganesimo: si veda follia, mito, mentalità primitiva»12.
In effetti, i principali protagonisti ricevettero i complimenti per aver avuto così poco a che fare con tali elementi oscuri13. Ciò non è peraltro sorprendente, considerato che gran parte della religione tardoromana era come un mondo fatto comparire dal nulla, che Alphons Augustinus Barb descrive nel suo The Survival of the Magical Arts, nella tarda antichità: «il cumulo, sincretistico e corrotto, dei rifiuti delle religioni morte o moribonde di tutto il mondo antico raggiunse l’altezza di una montagna»14.
Il conflitto terminò così, come era giusto che fosse, tra gentiluomini attorniati dai loro libri. Così ha concluso Herbert Bloch: «Gli ultimi romani, però, non lasciarono la scena della storia senza aver dato un contributo destinato a durare […]. Essi destinarono un’attenzione speciale alla conservazione della letteratura latina»15.
Ancor prima che i partecipanti e i loro eroi lasciassero la scena, una nuova generazione di vivaci servi di scena la invasero. In una decina d’anni rimossero dal palco quasi tutti gli oggetti su cui il dramma si era basato. Nel 1961, si cominciò a pensare che gli ultimi pagani di Roma potrebbero aver prestato maggiore attenzione alle loro mogli cristiane, ai parenti acquisiti e a quegli interscambi sociali sommessi che hanno fatto la histoire de moeurs in ogni periodo storico16. Ci furono solo occasionali momenti di tensione, provocati dall’intervento di imperatori lontani e amplificati oltre misura dagli stridenti testi cristiani.
Nel 1964 il ‘circolo di Simmaco’ fu sciolto17. Nel 1966 Macrobio fu spostato una generazione indietro rispetto al mondo di Pretestato e Nicomaco Flaviano18. Nel 1968, l’autore della Historia Augusta si rivelò essere un «grammaticus disonesto»19. Il poema cristiano anonimo attribuibile con sicurezza ai giorni burrascosi di Nicomaco Flaviano, nel 394, fu più volte ridatato: nel 1960 fece un balzo al 408; è stato poi spostato lontano sino al 431 per essere infine fissato al 384, grazie alle scoperte di François Dolbeau e all’erudizione di Lellia Cracco Ruggini20. Per quanto riguarda il famoso conflitto intorno all’Altare della Vittoria, i recenti articoli di Charlotte Roueché21 e soprattutto quello di Rita Lizzi Testa22 hanno dimostrato che la questione centrale nella Relatio III di Simmaco non aveva niente a che fare con l’altare di per sé, e ancora meno con la statua alata che si librava al di sopra di esso.
E così la storia procede. Il conflitto tra cristiani e pagani a Roma è stato mantenuto nell’insolita e stretta morsa di una narrativa dominante. Come dice Rita Lizzi Testa, questo approccio ha fatto in modo che «tendessimo ad enfatizzare le situazioni contingenti e ad investirle di significati assoluti»23. Ogni volta che la situazione contingente viene spogliata dell’inquietante sovraccarico di significato che le è stato assegnato per sostenere le narrative convenzionali sulla fine del paganesimo, gli studiosi tirano un sospiro di sollievo. Ciascuno di questi articoli è una boccata di puro ossigeno, inalato con gratitudine in un’atmosfera ancora pesante di false certezze.
Detto ciò, come si dovrebbe allora affrontare il conflitto? È necessario capire se questo possa ancora essere un concetto in uso, poiché non è chiaro se sia ancora possibile isolare il conflitto tra paganesimo e cristianesimo in qualità di motore principale e privilegiato del cambiamento negli ultimi secoli del mondo antico. Esso fu un fattore tra i tanti. È necessario allora rileggere le fonti e trovare un modello teoretico che permetta di ricostruire più accuratamente fino a che punto questo conflitto abbia influito sul mondo tardoantico romano nel suo complesso.
Alcuni suggerimenti provengono dall’esperienza storica moderna. Nel 1997 due scienziati sociali (uno russo e uno finlandese) pubblicarono un articolo nel giornale russo Voprosy Filosofii. Era intitolato Believers, Atheists and Others: the Evolution of Russian Religious Feeling. L’articolo prendeva in esame i risultati di una serie di sondaggi di pubblica opinione sull’approccio alla religione nella decade che seguì la Perestroïca di Gorbachev – la rivoluzione costantiniana del nostro tempo. I risultati meritano alcune considerazioni, poiché non dimostrano l’improvvisa, trionfante risorgenza della religione ortodossa, conseguente alla caduta del comunismo, che tanti religiosi avevano sostenuto. Essi dimostrano piuttosto che le due categorie considerate – atei e ortodossi (ciascuna consciamente abbracciata dagli informatori, e sempre in netta contrapposizione tra loro) – rimasero stabili. Nessuna, in nessun caso, era prossima alla maggioranza. Entrambe erano al 25% nel 1987, e queste proporzioni non cambiarono per tutta la durata del decennio. I mutamenti reali ci furono nel restante 50%. Coloro che risposero ai primi sondaggi si accontentavano di offrire, con la tipica prudenza slavonica, termini vaghi come «indeciso», «in cerca» o «agnostico». Ma alla fine del decennio, quest’area moderata era sbocciata in una fiduciosa profusione di culti new age, astrologia, lettura della mano e protestantesimo evangelico. Inoltre, le risposte della fascia intermedia si distinguevano per vigore e sicurezza, se comparate con le più sfumate antitesi invocate, gli uni contro gli altri, da fedeli ortodossi e atei24.
È necessario quindi cogliere parte del fervore e del colore di un mondo non del tutto abbandonato alle due marcate categorie di pagano e cristiano. Sull’argomento, dal 1958 a oggi, sono stati fatti passi da gigante. È noto che, accanto al paganesimo e al cristianesimo, c’è un elefante nella stanza: il saeculum. Si è cominciato a comprendere l’ingente vigore di una grande società imperiale, in cui i ritmi di vita pubblica, il fermento civico aperto a tutte le classi e la condivisione della cultura dell’alta società hanno spesso spinto tanto il cristianesimo quanto il paganesimo verso i margini.
La questione non è legata soltanto alla dimensione di questo elefante: è l’antico sangue caldo che scorre ancora nelle sue vene. Nel IV e nel V secolo, il saeculum poteva ancora dotare di una suffusa numinosità – di ciò che Edward Shils ha giustamente definito come un senso di «maestosa centralità»25 – fenomeni tanto diversi tra loro come il cerimoniale della corte, il ruggito forte del Circo Massimo, la danza deliziosa delle stagioni nel mosaico di recente scoperta in via d’Azeglio a Ravenna, o il ricco raccolto dei cinquant’anni di scoperte archeologiche dei mosaici mitologici mediorientali, confluito nel brillante libro di Glen Bowersock, Mosaics as History26.
La risposta alla domanda che Henri Irénée Marrou ha posto un anno prima della conferenza al Warburg, nel 1957: «Civitas Dei, civitas terrena, num tertium quid?»27 è sempre più prossima. Per dirla brevemente: negli ultimi cinquant’anni si è scoperto tanto del tertium quid. Si è scoperto, tra le due nette categorie di pagani e cristiani, un solido terreno interposto, inondato di una radiosità tutta propria.
Detto ciò, è comunque necessario fare spazio al conflitto. Per trovarlo, bisogna sapere dove mettere l’elefante sulla mappa della società tardoromana. Sostanzialmente non è d’aiuto notare che i codici comuni, a Roma come altrove, sia a Est che a Ovest, che tendevano a spingere le identità religiose verso uno dei due margini, erano solitamente cristallizzati intorno alle classi alte28, le quali esibivano il sorriso minacciosamente sereno del potere e della ricchezza. La disciplina che imposero non era osservata in tutti i luoghi, in tutti i periodi e tra tutte le classi: smantellare la nozione di conflitto tra pagani e cristiani nell’alta società romana è una conquista degli studi moderni. E questo potrebbe significare che si è cercato il conflitto proprio nelle aree della società tardoromana dove più difficilmente si sarebbe potuto trovare.
Inoltre, è necessaria una sociologia più sfaccettata del tardo Impero. Il recente studio realizzato dall’autore di questo contributo sui problemi della ricchezza e della povertà induce a pensare che negli ultimi cinquant’anni gli studiosi siano stati inconsciamente devoti a una visione eccessivamente ‘aristocratizzata’ della società tardoantica. Essi cercano le figure dei senatori romani ovunque, spesso non riuscendo a vedere piccoli grandi uomini, la cui proliferazione in ogni provincia dell’Impero è una delle caratteristiche più manifeste del rimodellamento della società romana a cui Arnold Hugh Martin Jones aveva prestato attenzione già nel pioneristico discorso del 1958.
Gli esperti non hanno neanche seguito tanto risolutamente quanto avrebbero dovuto l’osservazione di Jones secondo cui «La forza principale del cristianesimo stava nei ceti bassi e medi delle città, nei lavoratori manuali e nei piccoli impiegati, nei negozianti e nei commercianti»29. Questi mediocres erano più numerosi e avevano più voce in capitolo negli affari delle loro città e dei loro villaggi di quanto si pensasse tempo addietro30.
È necessario porsi un’ulteriore domanda di fondo: perché le società che danno l’impressione di aver posseduto rimedi e metodi reali di coesione sembrano optare, a volte, per identità più taglienti, così che è possibile percepire un fruscio nuovo, quasi elettrico, nella loro atmosfera? Il caso del Brasile è particolarmente significativo. Qui la notevole diffusione del protestantesimo evangelico ha distrutto, in molti circoli, il precedente consenso instauratosi tra il cattolicesimo e gli altri culti, come il candomblé e le varie forme della religione new age. Questo consenso ha preso il nome di cortejâo, «cordiale»: un codice di condotta ideato per «evitare scontri […] e affermazioni esclusive di identità». E che lo fa in termini chiari: «Il mito della cordialità brasiliana […] assegna un valore alle relazioni di prossimità tra coloro che sono diversi e con status ineguali: capi e schiavi, bianchi e neri, cattolici e fedeli delle religioni africane»31. Il cortejâo era legato a consolidate nozioni di deferenza in una società gerarchica. La sua metafora sociale di base era «prossimità tra coloro che sono diversi e di status ineguale».
In alcune parti del mondo tardoantico, la deferenza era una rigorosa scuola di tolleranza, ma non sempre funzionava. Basti solo leggere i saggi raccolti da Johannes Hahn sotto il titolo From the Temple to the Church. Destruction and Renewal of Local Cultic Topography in Late Antiquity per rendersi conto della varietà della mappa del conflitto pagano-cristiano. Problemi legati a nuovi patronati affermati e a vecchie deferenze negate emergono come variabili cruciali nelle diverse tracce di violenza presenti sulla mappa. La retorica di Shenute di Atripe, intento a disonorare il cittadino notabile ed ex duca di Tebaide di fronte alla congregazione cristiana nella chiesa di Panopolis (pubblicato da Stephen van Emmel)32 e l’agghiacciante maniera con cui Teofilo, patriarca di Alessandria, portò via il controllo dei mezzi con cui i leader tradizionali gestivano la città, sulla scia della distruzione del Serapeo (come descritto da Johannes Hahn), restituiscono un mondo considerevolmente più allarmante della Roma che si conosceva nel 195833. Peraltro chi, nel 1958, avrebbe potuto immaginare la competizione triangolare tra cristiani, ebrei e pagani che si ritrova nell’Afrodisia del V secolo studiata da Angelos Chaniotis34? È necessario un modello per l’intera società, per come è cambiata incessantemente nei secoli, per rendere giustizia alle reali dimensioni dei momenti di conflitto tra pagani e cristiani e al loro esatto posto sulla mappa sociale del mondo tardo romano.
In conclusione, per usare le parole di un Altmeister, William Lowther Clarke, autore di Saint Basil the Great: a Study in Monasticism del 1913: «Proprio in questo sta la fascinazione della storia: chi la studia si sente contrastato da forze troppo potenti per essere misurate da qualsiasi strumento alla sua portata»35. O, come diceva il nostro Simmaco: «Uno itinere non potest perveniri ad tam grande secretum» (Non si può giungere per un’unica via a un segreto così sublime)36.
1 H. Bloch, The Pagan Revival in the West at the End of the Fourth Century, in The Conflict Between Paganism and Christianity in the Fourth Century, ed. by A. Momigliano, Oxford 1963, p. 193 (trad. it. La rinascita pagana in Occidente alla fine del secolo IV, in Il conflitto tra paganesimo e cristianesimo nel secolo IV, Torino 1968, p. 201).
2 Ibidem.
3 A. Momigliano, Introduzione, in Il conflitto tra paganesimo e cristianesimo, cit., p. 10.
4 A.H.M. Jones, Lo sfondo sociale della lotta tra paganesimo e cristianesimo, in Il conflitto tra paganesimo e cristianesimo, cit., pp. 39-42.
5 H.I. Marrou, Sinesio di Cirene e il neoplatonismo alessandrino, in Il conflitto tra paganesimo e cristianesimo, cit., p. 143.
6 E.A. Thompson, Il cristianesimo e i barbari del Nord, in Il conflitto tra paganesimo e cristianesimo, cit., p. 88.
7 A. Momigliano, Introduzione, cit., p. 13.
8 Ibidem.
9 N. McLynn, Ambrose of Milan. Church and Court in a Christian Capital, Berkeley 1994.
10 A. Momigliano, Storiografia pagana e cristiana nel secolo IV d.C., in Il conflitto tra paganesimo e cristianesimo, cit., p. 106. Nel testo inglese l’autore utilizza le parole «generous and fair-minded liberalism» [N.d.T].
11 Ivi, p. 109.
12 E. Gombrich, Aby Warburg. An Intellectual Biography, London 1970.
13 H.I. Marrou, Sinesio di Cirene, cit., p. 152.
14 A.A. Barb, La sopravvivenza delle arti magiche, in Il conflitto tra paganesimo e cristianesimo, cit., p. 117.
15 H. Bloch, La rinascita pagana in Occidente alla fine del secolo IV, in Il conflitto tra paganesimo e cristianesimo, cit., p. 220.
16 P. Brown, Aspects of the Christianization of the Roman Aristocracy, in Journal of Roman Studies, 51 (1961), pp. 1-11.
17 Al. Cameron, The Roman Friends of Ammianus, in Journal of Roman Studies, 54 (1964), pp. 15-28.
18 Id., The Date and Identity of Macrobius, in Journal of Roman Studies, 56 (1966), pp. 25-38.
19 R. Syme, Ammianus and the Historia Augusta, Oxford 1968, p. 103.
20 L. Cracco Ruggini, Il paganesimo romano tra religione e politica (384-394): per una reinterpretazione del Carmen contra paganos, Roma 1979; F. Dolbeau, Damase, le Carmen contra paganos et Hériger de Lobbes, in Revue des études augustiniennes, 27 (1981), pp. 38-43.
21 C. Roueché, The Image of Victory. New Evidence from Ephesus, in Travaux et Memoires, 14 (2002), pp. 527-546.
22 R. Lizzi Testa, Christian Emperors, Vestal Virgins and Priestly Colleges: Reconsidering the End of Paganism, in Antiquité Tardive, 15 (2007), pp. 251-252.
23 Ivi, p. 253.
24 K. Kaariainen, D.E. Furman, Veruiushschie, ateisti I prochie (evoliutsiia rossiiskoi religiozhnosti), in Voprosy filosofii, 6 (1997), pp. 35-52, in partic. 37-39.
25 E. Shils, Center and Periphery. Studies in Macrosociology, Chicago 1975, p. 257.
26 J.R. Curran, Pagan City and Christian Capital. Rome in the Fourth Century, Oxford 2000; M.G. Maioli, Il complesso archeologico di Via d’Azeglio a Ravenna, in Corso di cultura sull’arte ravvenate e bizantina, 41 (1994), pp. 45-61; G.W. Bowersock, Mosaics as History. The Near East from Late Antiquity to Islam, Cambridge 2006.
27 H.I. Marrou, Civitas Dei, civitas terrena, num tertium quid?, in Studia Patristica, 2 (1957), pp. 342-350.
28 P. Brown, Power and Persuasion in Late Antiquity. Towards a Christian Empire, Madison (WI), 1992, pp. 35-70.
29 A.H.M. Jones, Lo sfondo sociale della lotta, in Il conflitto tra paganesimo e cristianesimo, cit., p. 27.
30 P. Brown, The Study of Elites in Late Antiquity, in Arethusa, 33 (2000), pp. 321-346, in partic. 338-345.
31 P. Birman, M. Pereira Leite, Whatever Happened to What Used to be the Largest Catholic Country in the World?, in Daedalus, 129 (2000), p. 273.
32 S. van Emmel, Shenoute of Atripe and the Christian Destruction of Temples in Egypt: Rhetoric and Reality, in From Temple to Church. Destruction and Renewal of Local Cultic Topography in Late Antiquity, ed. by J. Hahn, S. van Emmel, U. Gotter, Leiden 2008, pp. 161-201.
33 J. Hahn, The conversion of Cult Statues: the Destruction of the Serapeum in 392 A.D. and the Transformation of Alexandria into a «Christ loving» city, in From Temple to Church, cit., pp. 243-273.
34 A. Chaniotis, The Conversion of the Temple of Aphrodite at Aphrodisias in Context, in From Temple to Church, cit., pp. 243-273.
35 W.K. Lowther Clarke, Saint Basil the Great. A Study in Monasticism, Cambridge 1913, p. 14.
36 Symm., rel. 3,10, trad. it. D. Vera, Commento storico alla «Relationes» di Quinto Aurelio Simmaco, Pisa 1981, p. 392.