Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il romanzo spagnolo vive nel Seicento il momento di massimo fulgore. Nel quadro dell’evoluzione del romanzo picaresco e della novella cortesana, a fronte del testo fondamentale e illuminante del Don Chisciotte cervantino stanno altri due celebri classici: la Vida del Buscón (Il trafficone o Il pitocco), di Francisco de Quevedo e Il criticone, di Baltasar Gracián.
Il declino del romanzo picaresco
Nel “secolo d’oro”, la prosa narrativa deve sottomettersi a una rigida precettistica di stampo aristotelico che, se in certe espressioni estreme giunge al punto di metterne in discussione il diritto di esistenza, in generale la obbliga a perseguire un fine morale ed esclude così una narrativa di mero divertimento.
I lettori secenteschi, d’altro canto, divengono via via più esigenti, sia dal punto di vista quantitativo, sia da quello della qualità. Nel XVII secolo, inoltre, si assiste in Spagna a una forte urbanizzazione, a seguito della quale si forma una classe media che si presenta, per molti aspetti, simile a quella borghesia che sta lentamente affermandosi in altri Paesi europei.
Il pubblico urbano, che spesso è lo stesso che assiste estasiato alle brillanti commedie di Lope de Vega, è avido di storie avventurose, complicate e galanti che gli consentano di trascendere una piatta e monotona quotidianità, stuzzicando magari un certo desiderio di ascesa sociale.
Schiacciato sotto il peso dell’angusto aristotelismo sopra ricordato (che gli impone, fra l’altro, una nozione di verosimiglianza la quale implica necessariamente una visione selettiva e castigata della realtà), il romanzo picaresco è condannato a un graduale, ma inevitabile, declino. Del resto, una società come quella della Spagna secentesca, che si va sempre più ripiegando in un conformismo benpensante, non avrebbe più potuto apprezzare la crudezza, le stramberie e il pessimismo di fondo del genere picaresco più autentico.
In un paese in cui ogni gloria e ogni speranza stanno oramai tramontando, il pubblico sente l’esigenza di rifugiarsi in una letteratura più rassicurante, in grado di fornire certezze e consolazione.
Il trafficone di Quevedo
Nell’ambito del genere picaresco, la Vida del Buscón (conosciuta anche come Il trafficoneo Il pitocco) occupa un posto particolare. Quevedo la scrive intorno ai ventitré anni e in seguito non produrrà altre prose del genere. Il picaro protagonista narra in prima persona la sua vita, partendo dalla sua nascita a Segovia. Figlio di un barbiere ladro e di una madre mezzana e fattucchiera, egli descrive in modo vivido e colorito i suoi studi (compiuti prima presso un terribile precettore, poi all’Università di Alcalá), l’amicizia con Don Diego (da cui dovrà poi separarsi), la cattiveria sadica dei suoi compagni, la furfantesca esperienza madrilena, l’amicizia con Don Toribio, i due tentativi di matrimonio falliti, l’avventura con la troupe di comici e, infine, la partenza da Siviglia per l’America in cerca di un domani più sereno.
Pur scrivendo un romanzo picaresco, Quevedo non vi inserisce sostanzialmente quella critica sociale che, per contro, aveva raggiunto toni rabbiosi e sdegnati nei romanzi del secolo precedente (soprattutto nel Lazarillo de Tormès). Invero, Quevedo in quest’opera si limita a canzonare in qualche caso i reietti e gli umili, e rifugge totalmente da problematiche complesse o compromettenti.
La Vida del Buscón è soprattutto un gioco intellettualistico, un capolavoro di vivacità creativa e di grazia verbale; più che una generosa rappresentazione della realtà, esso è una sequela di virtuosismi concettuali e di castelli intellettuali di metafore e iperboli; il lettore non può fare a meno di partecipare a tanto mirabolante festa dell’ingegno, in cui personaggi e situazioni vengono anatomizzati e ricomposti secondo una logica inusuale e sconcertante, ma precisa e rigorosa.
Il criticone di Gracián
Il criticone di Baltasar Gracián è senza dubbio la sua opera di più ampio respiro. Il coltissimo gesuita intende comporre un libro che offra agli uomini una solida guida morale, mostrando, fra l’altro, i pericoli che li minacciano, le virtù che li proteggono e la possibilità effettiva che si prospetta loro di conseguire la felicità.
Disingannato conoscitore della miseria umana, Gracián aspira a migliorare con i suoi scritti il carattere e i costumi dei contemporanei: tutte le sue opere, infatti, abbondano di sentenze, consigli e alti modelli degni di essere imitati (si veda in particolare il suo Oracolo manuale e arte di prudenza).
Baltasar Gracián
Come esser veri uomini
Oracolo manuale e arte di prudenza
1. Tutto ormai è giunto a piena maturità, e occorre abilità somma per poter essere veramente uomini
Si richiedon più cose oggi per un solo savio di quante ne occorressero anticamente per sette; e ci vuole più abilità per trattare con un solo uomo in questi nostri tempi, che non per avere che fare con un popolo intero in passato.
2. Genio ed ingegno
Sono i due perni che consentono alle doti umane di mettersi in mostra. L’uno senza l’altro non è che mezza felicità. Non basta essere intelligenti; occorre essere geniali. È infelicità degna solo di uno sciocco, quella di errare la vocazione nello stato sociale, nell’impiego, nella scelta della regione e delle amicizie.
3. Mantenere in dubbio gli altri intorno alle proprie qualità
La meraviglia che suscita la novità è ciò che fa stimare il successo. Giocare a gioco scoperto non procura né utile né piacere. Se uno non scopre subito le sue carte, lascia gli altri in sospeso; e ciò soprattutto là dove la sublimità della mèta porge esca all’universale aspettazione. In tal modo ci si circonda di mistero, e quello stesso arcano provoca l’altrui venerazione. Ma anche quando ci si scopre, si deve rifuggire dall’eccessiva semplicità; e allo stesso modo nel tratto non si deve consentire a tutti l’accesso alla propria intimità. Il silenzio prudente e cauto è il santuario della saggezza. Una risoluzione scelta apertamente non è mai stata tenuta in gran conto; anzi, si offre alla censura altrui e, se avesse a riuscire infausta, sarebbe biasimevole doppiamente. Si imiti dunque il mistero che circonda la provvidenza divina, e così faremo star tutti all’erta e nell’incertezza.
4. Il sapere e il valore concorrono entrambi a dar grandezza
Sono due grandi doti e rendono immortali: uno vale tanto quanto sa, e il sapiente può tutto. Un uomo privo di istruzione è un mondo al buio. Consiglio e forza; occhi e mani: senza valore, la sapienza è sterile.
5. Far dipendere gli altri da sé
Non è colui che ne dora il simulacro, che lo innalza alla divinità; bensì colui che lo adora. L’uomo sagace preferisce veder gli altri che han bisogno di lui, piuttosto che vedersene ringraziato. L’aver fede nella gratitudine vile significa derubare la speranza nobile: questa ha sempre buona memoria, mentre quella è facile all’oblìo. Più utile si ritrae dall’altrui dipendenza che dalla cortesia; chi si è dissetato ed è sazio, volge le spalle alla sorgente, e l’arancia spremuta cade dal vassoio d’oro in mezzo al fango. Finita che sia la dipendenza, finisce anche la gratitudine, e con essa la stima. Sia dunque ammaestramento dell’esperienza, e da porre tra i più importanti, il tenerla viva senza soddisfarla del tutto, facendo sì che abbia sempre bisogno di noi anche il signore incoronato. Ma non si deve tuttavia giungere all’eccesso di tacere per indur gli altri in errore, né rendere incurabili i mali altrui per il proprio profitto.
B. Gracián, Oracolo manuale e arte di prudenza, trad. it.di A. Gasparetti, Milano, TEA, 1991
Il criticone, romanzo simbolico di ispirazione araba, si compone di tre parti (cui corrispondono le tre età della vita umana) ed è una vera e propria epopea dell’esistenza. Nella prima parte dell’opera, Critilo (l’uomo saggio), che ha fatto naufragio presso le coste di Sant’Elena, è salvato da un giovanissimo selvaggio cui darà il nome di Andrenio (l’uomo naturale). Critilo gli insegna a parlare e gli fornisce un’educazione completa. Si recano poi in Spagna, ove Andrenio si lascia trasportare dagli istinti e viene tosto corretto dalla razionalità del suo mentore: a Madrid, infatti, l’astuta Falsirena inganna Andrenio e Critilo lo cautela contro la malizia delle donne.
Nella seconda parte del romanzo, i due protagonisti salgono sul monte dell’età matura, abitato da uomini riflessivi e studiosi con i quali si intrattengono piacevolmente. Si dirigono quindi verso la Francia, ove incontrano la ninfa delle Belle Arti e della Letteratura, il che offre una valida occasione per dare un giudizio (peraltro equilibrato) sui maggiori scrittori spagnoli contemporanei. Dopo aver criticato gli ipocriti, essi vanno poi alla casa dei folli, nella quale vedono rappresentata tutta quanta l’umanità.
Nella terza e ultima parte del romanzo, i due si recano a Roma, dove osservano la ruota del tempo, la fragilità della vita umana e la morte. Raggiungono infine l’isola dell’immortalità, cui si può pervenire soltanto attraverso il sentiero della virtù e del valore. Come sempre, anche in quest’opera lo stile di Gracián si presenta agile, preciso, tagliente e denso di concetti e di immagini.
Altri esempi del genere picaresco
Di fatto, il genere picaresco resta ampiamente coltivato durante tutto il Seicento, anche se, come si è detto dianzi, seguendo precetti e modelli assai diversi da quelli del secolo precedente.
Francisco López de Ubeda scrive La picara Giustina, un romanzo che pone (abbastanza arditamente, per la verità) al centro di una vicenda tipicamente picaresca una protagonista femminile. Nell’opera, del tutto priva di rivendicazioni sociali, l’autore lascia fluire la propria svagata e brillante immaginazione.
Una posizione del tutto particolare nella letteratura picaresca occupa poi La figlia di Celestina del novellista e commediografo Alonso Jerónimo Salas Barbadillo; in effetti, la personalità della protagonista, Elena, si distacca nettamente da quella consueta dell’eroe picaresco: mentre questo è visto come martire di una società ingiusta, la figlia di Celestina si mostra baldanzosa, aggressiva e, quando necessario, implacabile fino all’omicidio.
Più che da quei miseri avanzi sociali che sono i picari, personaggi di questo tipo discendono, più o meno direttamente, dalla terribile maliarda Celestina, indimenticabile protagonista dell’omonima, celeberrima, commedia cinquecentesca.
L’opera secentesca più vicina allo spirito picaresco autentico è, comunque, la seconda parte del Lazarillo di Juan de Luna. Il protagonista del racconto ne possiede tutti i requisiti necessari: è un fantoccio sbalzato qua e là da un destino infausto e spietato.
Mentre le autobiografie degli avventurieri del secolo (quali, per esempio, Jerónimo de Pasamonte, Alonso de Contreras e Diego Duque de Estrada) risentono fortemente dell’influsso del romanzo picaresco, la novella cortesana, invece, nella maggior parte dei casi se ne distacca in maniera decisa.
Materia di questo genere narrativo, infatti, non sono soltanto le rocambolesche avventure di poveri reietti, ma altresì storie d’amore, d’orrore e di sangue; inoltre, esse sono destinate a un pubblico scelto cui gli scrittori intendono offrire un’immagine positiva e idealizzata del divenire sociale contemporaneo.
Antonio de Eslava, Juan de Pina e Mara de Zayas y Sotomayor, sempre ispirandosi ai grandi novellieri italiani e spagnoli dei secoli precedenti, sono gli autori che compongono le prose più convincenti e originali; oltre a una certa aristocraticità di fondo, peculiarità comuni a molte di queste agili narrazioni sono una gioiosa minuzia descrittiva, un’aggraziata leggerezza di tono e un impegno morale mai rigido o pedante.