Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il romanzo picaresco racconta le peripezie dei picari, giovani furfanti che vivono sulle strade della Spagna tra Cinquecento e Seicento. Nasce con il Lazarillo de Tormes e fiorisce nella prima metà del Seicento, per poi lasciare un seguito nel romanzo francese, inglese e tedesco fino al Settecento.
Il picaro
Pícaro è parola spagnola che indica un bambino o un adolescente che vive di espedienti sulle strade della Spagna del Cinquecento e del Seicento, servitore di mutevoli padroni e furfantello, sguattero e facchino. Le sue origini sono umili o indegne, i suoi legami familiari sono interrotti ed egli vive spinto dal bisogno e inseguendo l’occasione.
Il picaro ha origine nella storia, ma il suo tipo è creato dall’arte. Nato alle lettere intorno al 1552 con il Lazarillo de Tormes, si fissa nella coscienza del pubblico nel 1599 con il Guzmán de Alfarache e per mezzo secolo anima una ricca narrativa che ne completa la fisionomia. Il picaro è tale anche in quanto racconta retrospettivamente la propria storia, dal buen puerto di una raggiunta sicurezza economica o dalla coscienza superiore di un’intervenuta conversione, e ne lega gli episodi in una narrazione che spesso assume la forma fittizia dell’autobiografia. Quanto al termine che lo designa, la sua etimologia è incerta e la sua storia è recente: attestato dalla metà del Cinquecento, si diffonde nell’ultimo terzo del secolo ed è assunto nel romanzo dal Guzmán de Alfarache.
Il libro
Anonimo
I consigli del cieco
Lazarillo de Tormes
Uscimmo da Salamanca e, arrivando al ponte, c’è all’imboccatura un animale di pietra che ha forma come di toro, e il cieco mi ordinò di avvicinarmi all’animale e, quando mi fui avvicinato, mi disse: “Lázaro, appoggia l’orecchio a questo toro e ci sentirai dentro un gran rumore”. Io, ingenuamente, ce l’appoggiai, credendo che fosse come diceva. E come s’accorse che avevo la testa vicino alla pietra, strinse forte il pugno e mi fece dare una gran zuccata contro quel diavolo di toro, che il dolore della cornata mi durò più di tre giorni, e mi disse: “Impara, sciocco, che il garzone del cieco deve saperne una più del diavolo!”. E rise molto dello scherzo. Mi parve che in quell’istante mi fossi risvegliato dall’ingenuità in cui me ne stavo addormentato come un bambino. Dissi tra me: “Costui dice il vero, mi conviene aprire gli occhi e stare attento, dato che sono solo, e pensare ad arrangiarmi”. Ci mettemmo in cammino e in pochissimi giorni il cieco mi insegnò il suo gergo. E siccome mi vedeva di intelligenza vivace, se ne rallegrava molto e diceva: “Oro e argento non te ne posso dare, ma di consigli per vivere te ne darò molti”. E fu così che fu lui, dopo Dio, a darmi la vita e, pur essendo cieco, mi illuminò e mi ammaestrò al mestiere di vivere. Mi soffermo a raccontare a Vossignoria queste sciocchezze per mostrare che gran virtù sia che gli uomini che stanno in basso sappiano innalzarsi e che gran vizio sia il lasciarsi abbassare quando si sta in alto.
Lazarillo de Tormes, trad. it. di F. Ballerio, Madrid, Edición de Francisco Rico, Cátedra, Letras Hispanicas, 1987
La vita di Lazarillo del Tormes (La vida de Lazarillo de Tormes, y de sus fortunas y adversidades) viene pubblicata nel 1552 o nel 1553 a Burgos, ad Alcalá e ad Anversa. Nel 1559 viene inserita nel Catalogo dei libri proibiti, ma la sua circolazione continua clandestinamente e nel 1573 il Sant’Uffizio ne autorizza una riedizione purgata. Il pubblico del Lazarillo cresce rapidamente, tanto che un personaggio del Don Chisciotte di Cervantes, Ginés de Pasamonte, per vantarsi proprio col Quixote del futuro successo delle proprie memorie, afferma che esse saranno “un colpo per il Lazarillo de Tormes e per tutti quanti gli altri che si sono scritti o si scriveranno in questo genere”. Nel corso del Seicento si registrano traduzioni e adattamenti in Inghilterra, in Francia e in Germania. In seguito, la fortuna dell’opera, come quella del romanzo picaresco in generale, è influenzata dai mutamenti di paradigma del romanzo europeo, ma ancora nel Novecento Vidiadhar S. Naipaul troverà nel Lazarillo una delle sue prime e più significative esperienze di lettura (Leggere e scrivere, 2000).
La vita di Lazarillo appare adespota e nessuna delle ipotesi avanzate sull’identità del suo autore è ritenuta conclusiva. L’occultamento del nome dell’autore sembra comunque funzionale all’illusione mimetica, poiché il racconto, che rielabora anche materiali della tradizione folclorica, ha la forma di una lettera autobiografica che il protagonista, Lázaro de Tormes, scrive a “Vossignoria” per raccontargli il proprio caso: dopo una vita di peripezie, Lázaro è divenuto banditore in Toledo con l’aiuto dell’arciprete di San Salvatore, che inoltre lo ha sposato a una sua serva. Si intende però che la donna è anche l’amante dell’arciprete e che Lázaro storna le insinuazioni di cui è oggetto per conservare, con le corna, la pace e la sicurezza finalmente raggiunte. Il racconto della sua vita, in sette capitoli che dalla nascita, all’inizio del Cinquecento, risalgono al presente del caso e della scrittura, è la storia del picaro Lázaro, che di padrone in padrone impara a vivere di espedienti in una società ipocrita e brutale, dove il bisogno e la sopraffazione sono le sole forze che regolino i rapporti tra gli uomini.
Ecco dunque il paradosso del Lazarillo: secondo le intenzioni dichiarate nel prologo, il racconto dovrebbe mostrare come un uomo di umili origini possa innalzarsi a una migliore condizione in virtù delle sue abilità e del suo vigore – dovrebbe essere cioè un exemplum morale a sostegno di un’idea diffusa nel Rinascimento –, ma ciò che di fatto lascia emergere è la radicale immoralità della società degli uomini. La condizione del picaro, emarginato e quindi estraneo a qualsiasi trama di rapporti morali, ma insieme ammesso alla vita privata dei suoi padroni (Michail Bachtin, Le forme del tempo e del cronotopo nel romanzo, 1937-1938), diviene strumento di tacita demistificazione, mentre lo stesso susseguirsi delle sue avventure, nota Thomas Pavel (1941-), contribuisce a rappresentare l’inesauribile ostilità del mondo con cui egli deve confrontarsi (Il romanzo alla ricerca di se stesso. Saggio di morfologia storica, 2002).
Nella prospettiva del picaro sulla società, secondo Francisco Rico, si coglierebbe anche la novità letteraria del Lazarillo: il punto di vista dal basso di Lázaro, assunto coerentemente a informare l’intera narrazione, non porterebbe a quella riduzione al comico che la teoria tradizionale degli stili avrebbe imposto a così umile personaggio, ma a una rappresentazione seria della sua esperienza. Per questo, e per il fatto che il lettore si trova a leggere un racconto in prosa che è finzione e che però pone “una costante esigenza di verosimiglianza”, il Lazarillo sarebbe “l’atto di nascita del romanzo realista” (Il romanzo picaresco e il punto di vista, 1969 e 1989).
Altre interpretazioni sono state formulate – Marcel Bataillon (1895-1977), per esempio, ritiene che Lázaro esemplifichi la soddisfazione dello stultus felice nella sua stultitia (Erasmo y el erasmismo, 1977) –, ma certo la novità dell’opera non può essere negata. Anche le ascendenze letterarie più o meno evidenti, a cominciare dall’Asino d’oro di Apuleio, e l’eco di generi retorici di sicura tradizione umanistica, come la lettera autobiografica faceta, contribuiscono infatti a una narrazione dove preminenti sono quelle esigenze di verosimiglianza, storicità e rappresentazione dell’uomo nella sua individualità che saranno proprie del romanzo europeo dei secoli successivi.
Istituzione, fioritura e declino del genere
Con la Prima parte della vita del picaro Guzmán de Alfarache (Primera parte de la vida del pícaro Guzmán de Alfarache, 1599) e poi con la sua Seconda parte (Segunda parte, 1604), Mateo Alemán (1547-?) sceglie per il suo personaggio il nome di picaro e così sancisce la cittadinanza letteraria del tipo e l’istituzione del genere nella coscienza del pubblico, che accoglie l’opera con favore.
Come Lázaro prima di lui, Guzmán narra la propria storia quando ormai si è ritirato dalla vita picaresca, non però perché abbia raggiunto una condizione più fortunata, ma perché le galere lo hanno accolto dopo anni di viaggi, furti, raggiri, facchinaggio, buffoneria, mendicità, ruffianeria, matrimoni e peripezie attraverso Spagna e Italia. Galeotto, Guzmán si pente dei suoi peccati e racconta la propria vita. Alla ripetizione del modello lazarilliano dell’autobiografia fittizia, tuttavia, egli aggiunge la variazione di una serie di discursos intercalati che illustrano il valore moralmente esemplare degli eventi.
Il Guzmán ci offre la storia di una coscienza sempre lacerata che perviene al pentimento. Da una parte, la consapevolezza dell’immoralità della sua vita di picaro è subito presente a Guzmán e non lo abbandona mai, tanto che Rico, evocando la teologia agostiniana, vede in lui il tipo del delinquente predestinato alla salvezza (Il romanzo picaresco e il punto di vista, 1969 e 1989); dall’altra, la sua vicenda esemplifica la tesi, affermata dal concilio di Trento, che la fede senza le opere non basti alla salvezza: per ritenersi salvo, egli deve pentirsi e condurre vita onesta.
L’opera può quindi essere colta nel nuovo clima controriformistico, ma il puro piacere del racconto che emerge a tratti e la rappresentazione di una società dominata dalla miseria e dalla sopraffazione, come già nel Lazarillo, non consentono di ridurla a semplice propaganda tridentina. Inoltre, un certo realismo psicologico della forma autobiografica e la rinnovata assunzione del punto di vista del picaro la collocano con il Lazarillo sulla via del romanzo europeo.
Dopo il Guzmán, il picaresco diventa una forma ripetibile: già nel 1605 appare il Libro de entretenimientos de la pícara Justina, attribuito a Francisco López de Úbeda, nel quale la protagonista si vanta di essere picara per nascita, per convinzione e senza i soprassalti di coscienza del suo modello Guzmán. Poi, tra il 1620 e il 1626, si succedono il Lazarillo de Manzanares di Juan Cortés de Tolosa (1590 - dopo il 1640); una Segunda parte del Lazarillo de Tormes di Juan de Luna (XVI-XVII sec.); tre nuove edizioni del Lazarillo; Alonso, mozo de muchos amos di Jerónimo de Alcalá Yáñez (1571-1632); la Varia fortuna del soldado Píndaro di Gonzalo de Céspedes y Meneses (1585 ca. - 1638); e La vida del Buscón, llamado don Pablos di Francisco Gómez de Quevedo y Villegas. Queste opere segnano la fioritura del genere, ma riusano le strutture narrative dei due capostipiti – la forma autobiografica, il susseguirsi delle peripezie – senza la stessa serietà della rappresentazione e senza la stessa coerenza del punto di vista. Quevedo costituisce un’eccezione per il virtuosismo stilistico del suo Buscón, ma retrocede al paradigma che relegava gli umili al registro comico e non si cura del carattere del suo personaggio.
Il pubblico non cessa tuttavia di interessarsi al romanzo picaresco e gli anni Trenta e Quaranta del secolo registrano ancora le opere di Alonso de Castillo y Solórzano, la Vida de don Gregorio Guadaña di Antonio Enríquez Gómez e infine, nel 1646, La vida y hechos de Estebanillo González, hombre de buen humor, composta por el mismo.
L’Estebanillo, che forse dobbiamo al malaghegno Gabriel de la Vega (XVII sec.), racconta di un personaggio storicamente esistito e lo rappresenta come picaro e infimo buffone al seguito dell’esercito imperiale nella guerra dei Trent’Anni (1618-1648). Essa conclude la stagione del romanzo picaresco, ma già ibrida il genere attingendo alla letteratura del Siglo de Oro, al modello dell’autobiografia del soldato e soprattutto alla tradizione della letteratura buffonesca. Tra il 1599 della prima parte del Guzmán e il 1646 dell’Estebanillo, peraltro, altre opere avevano già accolto elementi picareschi in un corpo di diversa natura: è il caso per esempio della novella Rinconete y Cortadillo (1604) di Cervantes. Se dunque il romanzo picaresco in senso stretto si esaurisce alla metà del secolo, il picaresco si è già trasformato in una categoria che può valere anche per opere dove elementi diversi si uniscano a quelli caratteristici del genere, o dove il protagonista non risponda interamente al tipo storico-letterario del picaro spagnolo.
Il picaresco oltre i picari
Se picaresco è un romanzo che infila episodi avventurosi della vita di un protagonista di incerta posizione sociale, magari impegnato in un viaggio o in una ricerca, possiamo chiamare picareschi diversi romanzi scritti in Francia, Germania e Inghilterra nel Seicento e nel Settecento.
Il francese Charles Sorel narra le vicende del suo personaggio Francion, tra il picaresco e il libertino, nella Vraie Histoire comique de Francion (1623-1633). Il celebre comico Scarron si muove tra la burla, la commedia e il picaresco nel Roman comique (1651-1658), incompiuto ma di straordinario successo. E Hans Jakob Christoffel von Grimmelshausen porta il picaresco in Germania con il suo Simplicius Simplicissimus (1668; Continuatio nel 1669). Orfano e trovatello, buffone, soldato e brigante, Simplicius viaggia dalla Germania a Parigi e dai Balcani alla Russia all’Oceano Indiano. Il basso continuo di un desiderio ascetico di pace perdura sotto i rovesci di una fortuna sempre mutevole, ma solo alla fine della storia si realizza in romitaggio, mentre l’opera oscilla tra azione convulsa, satira sociale e meditazione religiosa e tra realismo e allegoria.
Nel Settecento Alain-René Lesage torna alla Spagna del Seicento – ma la scena sociale rappresenta la Francia dell’autore – con la sua fortunata Storia di Gil Blas (Histoire de Gil Blas de Santillane, Parigi, 1715-35), che racconta le peripezie di Gil Blas dall’abbandono della natia Oviedo fino alla quiete raggiunta nel castello di Lirias, con la sua sposa Dorothée, dopo anni vissuti tra i bassifondi e la corte di Madrid.
Daniel Defoe prosegue la tradizione picaresca in Inghilterra con Moll Flanders (The Fortunes and Misfortunes of the famous Moll Flanders, 1722), che già nel titolo dichiara l’elemento narrativo delle inesauribili peripezie, e con Lady Roxana (1724). Le protagoniste di Defoe, ladre, cortigiane e variamente delinquenti ma infine pentite, esemplificano secondo Pavel il tipo del picaro guzmaniano, che sente la propria distanza da un ideale morale e che alla fine della propria vita raggiunge quell’ideale tramite il pentimento (Il romanzo alla ricerca di se stesso. Saggio di morfologia storica, 2002). Non così picaresche sono invece la nascita e le occupazioni del Roderick Random (1748) e del Peregrine Pickle (1751) dei romanzi eponimi dello scozzese Tobias Smollett, dove non mancano però i rovesci e le disavventure prima dell’esito felice, e del Tom Jones (1749) di Henry Fielding, il cui successo è misurato dalle 10.000 copie vendute già nei primi nove mesi dalla pubblicazione. Anche qui il protagonista raggiunge la saggezza incarnata dal padre adottivo Allworthy, e il matrimonio con “the lovely and virtuous Sophia”, solo dopo alterne vicende, ma la sua fisionomia morale e sociale è ormai lontanissima da quella di Lázaro o di Guzmán. Il picaresco si intreccia dunque al romanzo di formazione, mentre la società borghese ha consegnato al passato l’antico regime della Spagna cinquecentesca. Il picaresco sopravvive come categoria narrativa non esclusiva ancora in opere diverse come l’Huckleberry Finn (1885) di Mark Twain o le Avventure di Augie March (1953) di Saul Bellow, ma il corso della storia volge altrove. Se la figura del picaro deve sopravvivere, è forse oltre i confini d’Europa che possiamo cercarne gli eredi, nella voce di Naipaul, nel Birahima (Allah non è mica obbligato, 2000) di Ahmadou Kourouma (1927-2003) e in tutta quella narrativa postcoloniale che racconta di un mondo dove i bambini e gli adolescenti sono spesso abbandonati alla loro incerta fortuna.