Il ritratto romano repubblicano tra memorie familiari e rappresentazione sociale
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Quello del ritratto è un genere che caratterizza in modo del tutto peculiare l’arte romana: frutto di esigenze comunicative e autorappresentative e di un modo di concepire la vita pubblica che sono spiccatamente romani, trova compiuta forma espressiva in un originale linguaggio alla cui definizione hanno dato un sostanziale contributo, dopo la conquista romana del Mediterraneo orientale, gli artisti greci al servizio dei nuovi dominatori.
Nel 168 a.C. giungono a Roma i mille ostaggi greci della fazione antiromana della Lega achea, tra i quali il futuro storico Polibio. Attento a tutto ciò che distingueva la cultura romana dai costumi ellenici, Polibio ci ha trasmesso, nella sua opera storica (Storie, VI, 53), una preziosa descrizione del rituale funerario del patriziato romano, nel quale un ruolo particolare assumevano le imagines maiorum, ovvero le maschere funerarie in cera degli antenati, ricavate dai volti dei personaggi defunti più illustri di ogni gens. Polibio racconta dunque che le immagini dei defunti venivano conservate nel luogo più visibile della casa patrizia (cioè l’atrium), chiuse in reliquiari, dai quali venivano estratte in occasioni particolari, come il funerale di qualche illustre membro della famiglia; durante la processione funebre venivano fatte indossare a persone somiglianti per statura e struttura fisica, che assumevano tutti i segni distintivi delle cariche politiche e delle onorificenze che gli antenati da loro impersonati avevano raggiunto in vita: dalle toghe praetextae, peculiari alla pretura e al consolato, ai fasci, ai littori, alle sedie curuli.
Lo spettacolo doveva essere impressionante: e Polibio ne sottolinea il forte impatto emotivo sul pubblico e il profondo valore educativo per le giovani generazioni. In questa forma di culto ancestrale è possibile individuare un legame con il ruolo che le figure degli antenati rivestivano già nella cultura etrusco-italica, e di cui si riconosce una esemplare manifestazione nelle statue degli antenati che coronavano il tetto della residenza aristocratica di Murlo, nel senese (VI secolo a.C.); ma occorre sottolineare anche il profondo significato magico-sacrale di una forma di rappresentazione, come quella esemplificata dall’imago, che ha un rapporto diretto, fisico, con il volto rappresentato, e che per questo trascende la funzione iconica, assumendo un carattere di sostituzione, di “doppio” della persona assente, il cui ruolo è stato centrale per l’affermazione pubblica, il successo e il prestigio della famiglia. Il possesso e l’ostentazione delle maschere degli antenati a Roma è regolato giuridicamente dallo ius imaginum, il cui carattere di gelosa esclusività patrizia è dimostrato dagli aspetti particolarmente restrittivi assunti dalla norma in momenti di reazione aristocratica, come in età sillana. Lo stretto rapporto esistente tra nobilitas, magistratura e imagines maiorum è ben espresso nelle parole che Sallustio (La guerra giugurtina, LXXXV, 25) mette in bocca a Gaio Mario, quando questi individua la causa del disprezzo che i patrizi ostentano nei suoi confronti nell’assenza di imagines di antenati nella propria casa. Esso emerge inoltre da un brano in cui Seneca fa capire come sia considerato segno di antica nobiltà avere l’atrio di casa pieno di immagini ancestrali affumicate dal trascorrere dei secoli (Lettere a Lucilio, XLIV, 5).
Nell’Urbe tardorepubblicana, l’ostentazione del proprio illustre albero genealogico assume un deciso significato politico-propagandistico: in un momento, come questo, di forte antagonismo politico, di lotta di fazioni e di correnti, di rivendicazioni, alludere per immagini al ruolo prestigioso rivestito per generazioni dalla propria gens nella vita pubblica significa affermare implicitamente la propria virtus, la propria onestà, la propria affidabilità, sfruttando la gloria riflessa degli antenati. Per questo i Tresviri monetales, cioè i magistrati responsabili della zecca, ai quali è interdetto fino all’età cesariana l’inserimento di immagini di viventi (e quindi delle proprie) nei conii delle monete, introducono nella produzione numismatica le immagini dei propri antenati, che in alcuni casi sembrano effettivamente riprodotte a partire da maschere funerarie. Su questi conii il significato politico-propagandistico attribuito a determinate figure del passato repubblicano poteva essere compreso appieno soltanto da chi ne conoscesse perfettamente le imprese, ma un generale messaggio di affidabilità e di prestigio poteva essere recepito ad un livello assai ampio, riverberandosi sui discendenti e agevolandone in qualche modo la carriera politica.
All’uso delle imagines maiorum è stata ricondotta la particolare fioritura della ritrattistica repubblicana, le cui origini hanno costituito una delle questioni più ampiamente dibattute della storia dell’arte antica tra XIX e XX secolo. Nella diretta derivazione dalle maschere funerarie veniva in passato riconosciuta la causa dell’“effetto cartografico”, risultante dalla esasperata resa dei segni dell’età, che caratterizza una determinata tipologia di ritratto romano repubblicano, quella cosiddetta realistica, che costituisce certo uno degli aspetti più peculiari ed impressionanti della cultura figurativa romana.
Ma più che per postulare una filiazione diretta, in favore della quale non si conoscono prove decisive, l’uso delle imagines e il filone realistico del ritratto tardorepubblicano possono essere accostati per il loro comune valore di segni rivelatori di un interesse del tutto particolare nei confronti dell’individuo, della sua vita, del suo carattere e del suo ruolo all’interno della famiglia, della società e della vita politica. Dietro ai volti duri e indisponenti del patrizio del Museo Torlonia, del togato del Museo Chiaramonti o del vecchio di Osimo non c’è un naturalismo fotografico, una naïveté senza filtri: ma c’è anzi una ben indirizzata scelta, politica e di casta. L’insistenza compiaciuta nella resa delle rughe, delle borse sotto gli occhi, della flaccidezza della pelle, è una spia del valore particolare che all’età e all’esperienza viene attribuito nella società romana, e che anzi costituisce uno dei fondamenti della costituzione repubblicana, che prevede limiti minimi di età per l’accesso alle principali cariche pubbliche; e la durezza dello sguardo, la rigidità della posa, la piega amara delle labbra sono indirizzate a rappresentare i segni esteriori di una vita austera, laboriosa e priva di mollezze, di un orgoglioso sentimento di appartenenza di classe, di una concezione dei doveri dell’uomo pubblico incentrata sulla fermezza, che può trasformarsi, all’occorrenza, in spietatezza. Non può meravigliare, dunque, che il filone realistico della ritrattistica repubblicana tocchi l’apice in età sillana, proprio nel momento di più forte e orgogliosa rivendicazione delle proprie prerogative da parte del patriziato romano.
Sono gli artisti greci che lavorano a Roma e in altre località dell’impero, eredi di una tradizione artistica e iconografica, quella ellenistica, che comprendeva anche l’interesse per l’introspezione psicologica dei singoli (soprattutto sovrani o filosofi) e l’attenzione iperrealistica nella rappresentazione di individui socialmente marginali (il vecchio pescatore, la vecchia ubriacona), a tradurre l’esigenza di caratterizzazione individuale espressa dai committenti romani nelle forme del ritratto realistico: un genere artistico che in Grecia non aveva mai interessato gli esponenti del ceto medio, dai quali era privilegiato un tipo di rappresentazione che glissava sugli aspetti spiccatamente individuali in favore di segni che connotassero l’esponente della comunità e la sua adesione a ideali e regole condivisi. A partire dalla prima età imperiale il realismo diventerà l’indirizzo prevalente della ritrattistica funeraria delle classi subalterne, e in particolare dei liberti: i monumenti funebri che costeggiano le strade di uscita dalla città, a Roma come in provincia, costituiscono uno status symbol economico e sociale, e chi ha raggiunto il successo tentando l’arrampicata sociale intende essere inconfondibilmente riconosciuto, insieme ai propri cari, sulla tomba che di quel successo è il segno tangibile.
L’interesse nei confronti dell’individualità che il ritratto come forma artistica rende esplicito era presente da tempo all’interno della cultura figurativa romana in ambito pubblico: le fonti letterarie ricordano, già per la fine del V secolo a.C. e in maniera sempre crescente per il periodo successivo alla metà del IV secolo a.C., la presenza nell’Urbe di statue, erette in luoghi pubblici, che rappresentano personaggi esemplari della storia e del mito romani (per esempio, Muzio Scevola e Clelia, ma anche Quinto Marcio Tremulo, vincitore sui Sanniti nel 306 a.C.).
Se per i protagonisti della più antica storia repubblicana si tratta certo di ritratti di ricostruzione (quella particolare tipologia di ritratto in cui, per dirla con Plinio il Vecchio, Nat. hist., XXXV, 9, il desiderio dà forma a visi non tramandati di grandi uomini del passato), per figure più recenti, che hanno ottenuto l’onore di una statua pubblica in virtù dei servigi resi allo stato, è naturale pensare ad un ritratto di tipo fisionomico. Un esempio di queste statue onorarie è certo il cosiddetto Bruto Capitolino, il celeberrimo busto bronzeo scoperto nel Cinquecento e immediatamente associato alla figura del primo console della repubblica romana. In esso, l’attenzione per il dettaglio fisionomico e la tendenza veristica si stemperano in una resa espressiva che presenta forti punti di contatto con la ritrattistica ellenistica legata alle figure degli oratori e dei filosofi, in particolare con la nota statua-ritratto di Demostene, eretta ad Atene nel 280/279 a.C.: per sobrietà e decorum il modello ritrattistico ellenistico del filosofo-oratore doveva essere reputato particolarmente adatto per personaggi che si volevano presentare come exempla virtutis, campioni del lealismo repubblicano e del senso del dovere. Il Bruto Capitolino faceva probabilmente parte in origine di una statua equestre, che è appunto una delle forme che la statua onoraria può assumere nella Roma repubblicana; una forma più comune è quella della statua pedestre togata, che in alcuni casi poteva essere eretta su colonna (il modello della statua onoraria su colonna subirà poi una ripresa del tutto particolare nella Colonna Traiana).
Di queste statue onorarie togate è un esempio la statua bronzea del cosiddetto Arringatore del Trasimeno (80 a.C. ca.), rinvenuta nei pressi di Perugia e pertinente ad un uomo politico di origine etrusca, come dimostra il suo nome, Avile Metils (documentato dall’iscrizione etrusca incisa sull’orlo della toga), ma che si mostra orgogliosamente nei panni e nelle funzioni di un cittadino romano.
Il genere di statua onoraria testé descritta (le cui caratteristiche e la cui collocazione appaiono sottoposte a rigide regole atte a non turbare l’isonomia repubblicana e a prevenire l’emergere di personalismi) non può certo bastare a soddisfare le tendenze autocelebrative e politicamente agonistiche di una élite dirigenziale che tende sempre più all’affermazione personale in un quadro politico turbolento e in rapida metamorfosi quale quello tardorepubblicano: il contatto sempre più stretto con la cultura ellenistica, l’introduzione a Roma di opere d’arte razziate nelle città greche, l’arrivo nell’Urbe di artisti greci che si mettono a servizio degli uomini pubblici più ambiziosi provocano una profonda trasformazione nel modo di vivere e di presentarsi dell’aristocrazia romana. E questa trasformazione si riverbera anche nella ritrattistica, attraverso la creazione di un nuovo tipo di statua onoraria, che sposa la nudità eroica delle statue degli dèi e degli eroi di età classica e tardoclassica, già ripresa per le statue-ritratto dei dinasti ellenistici, con teste-ritratto di tendenza, in molti casi, decisamente realistica.
Queste sono, probabilmente, le statue “achillee” cui fa riferimento Plinio (Nat. hist., XXXIV, 18), e di cui è possibile riconoscere degli esempi in opere celebri: ad esempio, il dinasta in bronzo del Museo delle Terme, che riprende il tipo lisippeo di Alessandro Magno con la lancia e nel quale è forse da riconoscere, secondo l’interessante proposta di Paolo Moreno, Tito Quinzio Flaminino, il generale filelleno (console nel 198 a.C.) che nel 196 a.C. proclama nel corso dei Giochi istmici di Corinto la restituzione ai Greci dell’antica libertà; la statua dal teatro di Cassino nella quale Filippo Coarelli riconosce un ritratto del grande erudito e letterato Marco Terenzio Varrone; e il Generale di Tivoli, databile negli anni intorno al 70 a.C. Tra i primi esempi del genere vanno segnalate le statue del cosiddetto Pseudo-Atleta e di Ofellio Fero, rinvenute entrambe a Delo, l’isola delle Cicladi che nel 166 a.C. riceve da Roma lo status di porto franco, diventando così un fiorente centro di traffici, dove vivono molti commercianti e uomini d’affari italici. Alcune delle statue-ritratto rinvenute a Delo, attribuibili ad artisti greci, rappresentano sicuramente degli italici, e mostrano il ruolo svolto dall’isola nella definizione del ritratto romano, fungendo da punto di incontro tra le esigenze autorappresentative dei romani e l’abilità degli scultori greci. L’accostamento brutale di un volto realistico, spesso tutt’altro che attraente e giovanile, a un corpo nudo, possente e vigoroso, ha fatto spesso giudicare queste statue come il risultato della rozzezza con cui i conquistatori romani si erano impossessati dei modelli dell’arte greca: in realtà in queste opere è possibile leggere un chiaro intento di autoaffermazione politico-propagandistica, che deve all’inizio aver suscitato riprovazione negli ambienti più conservatori, ma che certo (e forse in parte proprio in virtù della sua aura scandalosa) non ha mancato di esercitare l’effetto voluto sul pubblico, che poteva vedere queste statue nei luoghi pubblici, accanto alle più modeste statue onorarie togate di tipo tradizionale che raffiguravano personaggi del passato o contemporanei.
L’ambiziosa élite tardorepubblicana che tenta di imporre la propria leadership carismatica e personalistica nell’Urbe trova un modello figurativo di particolare suggestione nei ritratti dei dinasti ellenistici (nei quali la nudità eroica alludeva a doti sovrumane e all’assimilazione del dinasta a un dio) e nella ritrattistica di Alessandro Magno. Alcune caratteristiche del ritratto del Macedone, quali la capigliatura abbondante con un ciuffo rialzato sulla fronte (anastolé) e l’attitudine ispirata resa, nel tipo ritrattistico creato da Lisippo con uno sguardo umido e la testa inclinata verso sinistra (Plutarco, Vita di Alessandro, IV, 1-2) vengono inserite nella produzione ritrattistica romana con risultati a volte sconcertanti, come nel noto ritratto di Gneo Pompeo Magno – che si richiamava appunto ad Alessandro come proprio modello di vita –, oggi a Copenhagen, databile tra il 60 e il 50 a.C. circa, in cui un ciuffo ribaldo di capelli corona un volto ben poco eroico e ispirato. Ma anche quando non si giunge a impossessarsi degli elementi peculiari dell’iconografia del Macedone, le tendenze patetiche dell’arte ellenistica possono sposarsi alle tendenze realistiche del ritratto repubblicano, ammorbidendole e posponendo la resa esasperata del mero dettaglio fisionomico all’introspezione psicologica.
In questo ritratto di tipo “patetico”, pur mantenendo un forte interesse per la resa della fisionomia del singolo, la celebrazione dell’individualità trascende dai segni dell’età e della durezza caratteriale per lasciar trasparire altre virtù: la concreta intelligenza che caratterizza il bel ritratto di Cicerone, di cui sono note diverse copie di un prototipo creato intorno al 50 a.C., l’ironica superiorità intellettuale e aristocratica comunicata dai diversi tipi ritrattistici di Cesare, la riflessività introspettiva del cosiddetto Melanconico del Museo Archeologico di Venezia (in passato identificato con Silla). La medesima commistione tra pathos ed elementi realistici caratterizza i primi ritratti noti di Ottaviano, databili negli anni intorno al 40 a.C.: dopo la vittoria di Azio, dopo l’assunzione del titolo di Augusto, il complesso Bildprogramm di natura comunicativa e propagandistica che compatta le manifestazioni artistiche di età augustea in una direzione ben precisa, formula su basi nuove anche la ritrattistica, dando origine al filone del ritratto imperiale.
La grande maggioranza dei ritratti a noi noti è in marmo: si tratta spesso di copie da originali in bronzo, andati quasi completamente perduti, tranne in alcuni casi particolarmente fortunati (come il Bruto Capitolino o la testa da San Giovanni Lipioni oggi alla Bibliothèque Nationale di Parigi), per il bisogno di metalli che ne impose la fusione tra età tardoantica e Medioevo. Ma è la statuaria in bronzo l’arte che Plinio definisce humanissima (Nat. hist., XXXIV, 89): e in bronzo sono, nella Roma repubblicana, sia le statue onorarie pubbliche che i ritratti di ambito privato, come dimostra anche la nonchalance con cui il cosiddetto Togato Barberini sorregge, senza sforzo apparente, due busti dei suoi antenati (probabilmente il padre e il nonno), evidentemente immaginati in un materiale più leggero del marmo in cui è realizzata la statua.
Il busto è una forma peculiare alla ritrattistica romana, mentre è ignoto all’arte greca, che concepisce il corpo umano come un insieme organico: una forma come quella del busto affonda le proprie radici nella preminenza riconosciuta alla testa come elemento portatore di vitalità e di individualità, concezione riconoscibile nell’arte etrusca e nell’arte celtica. L’eterogeneità di tendenze espressive e di forme che caratterizza il ritratto repubblicano connota anche i supporti e le tecniche di realizzazione: oltre al marmo e al bronzo, già ricordati, è possibile citare la terracotta, i cammei e le gemme con ritratti in miniatura. Assai diffusi, soprattutto in ambito privato, sono anche i ritratti dipinti, come possiamo supporre sulla base delle fonti letterarie: della qualità del ritratto pittorico di età romana forniscono testimonianza i pochi esemplari di età imperiale conservati negli affreschi delle case pompeiane, come la cosiddetta Saffo dalla grazia un po’ manierata o lo spaurito Terentius Neo con la moglie; e soprattutto la staordinaria carrellata dei ritratti su tavola lignea dalla regione del Fayyum in Egitto, destinati ad essere inseriti all’interno delle mummie, e conservatisi grazie alle peculiari condizioni climatiche del sito.