Il Risorgimento e i problemi del paese
Italia 2011. Le celebrazioni per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia colgono un paese stanco, e a tratti demoralizzato, che si interroga sui suoi problemi dell’oggi cercando affannosamente nel passato una risposta, che chiarisca la radice, oscura, dei suoi mali. Vi è nella virulenza con cui viene attaccata la versione ufficiale dell’unificazione qualcosa di più di un intento francamente revisionista della storia patria. Proprio come vi è nel tentativo di distruggere il fondamento mitico della grande narrazione nazionale qualcosa di più di una giusta e necessaria istanza demistificante. Allo sforzo di delineare l’unificazione italiana come un processo innaturale e artificioso, costrittivo del libero dispiegarsi delle autonomie locali, ha fatto riscontro, infatti, il tentativo, specularmente opposto, di rileggere il 1860 come una conquista del Nord sul Sud del paese. Il risultato non è tanto una visione del passato comune come un percorso di rilettura critica, libera dai condizionamenti di una vulgata usurata, quanto piuttosto lo sforzo insistito di delineare una nuova narrazione mitica: quella dell’esistenza di due o tre Italie sin dall’inizio inconciliabili tra loro e messe insieme da un’insensata forzatura politica; o quella di una violenta usurpazione del patrimonio, morale prima ancora che materiale, del Meridione del paese.
I problemi del presente vengono così caricati tutti insieme sulle spalle fragili di un momento aurorale, considerato come l’origine della malattia italica: l’8 settembre 1943, ritenuto ieri (a torto) il giorno della ‘morte della patria’; il 17 marzo 1861, pensato oggi (a torto) come la radice epocale dei guasti che ci ritroviamo. Si tratta di una riduzione drammatica della complessità del percorso intrapreso dalla comunità nazionale per un secolo e mezzo, fino al nostro tempo. Come se tutti i giorni, i mesi, gli anni che ci separano da queste date fatidiche fossero passati invano, come momenti ininfluenti.
Credo invece sia necessario distinguere passato e presente: ciò che proviene dai giganteschi sommovimenti dell’epoca presente non può essere affrontato con una chiave assai limitata come quella identitaria e in una prospettiva interamente interna a un percorso, a un ‘ideario’ nazionale. I discorsi sui sentimenti di appartenenza, sul bisogno di riconoscimento, sugli stereotipi nazionali, sul costume italico, non sono affatto irrilevanti ma non sono neppure la chiave di tutte le porte. Anche perché, com’è stato notato, grazie alla diffusione della lingua, al servizio militare, alla scolarizzazione, e poi soprattutto alla televisione, noi siamo oggi più italiani di ieri, più italiani che nel 1911, più che nel 1961. Per cui non resta che raccogliere l’appello di Marc Lazar a non fare dell’Italia l’unico focolaio del malaise democratico, ma un paese che si confronta con sfide molto simili, anche se non proprio identiche, a quelle affrontate da altre democrazie europee. Si tratta, tra l’altro, di quell’apertura e interconnessione senza precedenti dei mercati (e degli Stati) che chiamiamo globalizzazione; delle difficoltà acute nella tenuta del regime sociale, il welfare, che ha contrassegnato ‘il secolo breve’; di trasformazioni profonde nel sistema produttivo, con l’emergere di una nuova centralità dell’economia della conoscenza e col trionfo del virtuale; di enormi spostamenti di individui dal Sud al Nord del mondo; di un tortuoso percorso verso la democrazia che interessa tanti paesi che non l’avevano prima sperimentata.
E questo insieme di tendenze e tensioni si avverte – a volte drammaticamente – anche in Italia, proprio come altrove.
Se questo è vero, occorre allora resistere alla tentazione di rileggere il percorso nazionale come una sommatoria rivelatrice essenzialmente degli elementi irrisolti o inadeguati della comunità nazionale, quelli che non le avrebbero mai permesso di essere ‘un paese normale’ e che rischierebbero di continuare a non permetterglielo. Prendiamo, per esempio, il dato originario, così tanto discusso, di un paese stretto tra particolarismi (‘le cento città’) e universalismi (la presenza della Chiesa cattolica). Possiamo davvero oggi leggere questa condizione nazionale, a lungo ritenuta la causa prima della debolezza del processo di state building/nation building, come una tabe, una pericolosa malattia degenerativa e non anche come una straordinaria opportunità in un mondo globalizzante e localizzante o, come usa dire, glocale?
Anche sull’aspetto più evidente di crisi del paese, vale a dire l’inadeguatezza del sistema politico a indicare prospettive credibili di risoluzione dei principali problemi della comunità italiana, la chiave storica può essere utilizzata in due modi. Si può vedere nella cosiddetta seconda repubblica l’estenuazione dei mali atavici di un paese irrisolto perché aridamente cinico e moralmente avariato, da cui deriva necessariamente una classe dirigente trasformista e tendenzialmente senza principi, pronta al compromesso e senza visione del futuro. Oppure si può leggere questa fase come la difficile (e per alcuni aspetti non compiuta) uscita da un sistema politico bloccato dalla Guerra fredda e in cui, oltre alla conventio ad excludendum nei confronti della maggiore forza politica di opposizione, erano messe in pratica variegate politiche di esclusione (e di autoesclusione), nei confronti di minoranze che si ponevano perciò fuori dalla politica legittima in quanto forze, come si usava dire, ‘extraparlamentari’. Con le conseguenze del caso, tra cui la più macroscopica è stata l’irruzione degli ‘anni di piombo’. Da questo punto di vista bisogna pur riconoscere nella tanto vituperata seconda repubblica la tendenziale scomparsa di quella che è stata una caratteristica costante del sistema politico italiano sin dall’Unità, vale a dire la tendenza all’esclusione di sezioni più o meno rappresentative dell’arco delle forze politiche.
Adottare una prospettiva di questo tipo non significa arrendersi a una sirena consolatoria; significa usare il passato come termine di confronto dei nostri problemi e dei nostri successi, ma tenendo a mente la distinzione tra i mali antichi e quelli più recenti, una distinzione di cui abbiamo bisogno per non cadere in una logica necessitante che ci farebbe diversi e lontani dal cuore pulsante della civiltà occidentale. Anche i 150 anni dall’Unità possono essere un’occasione per riflettere sull’esperienza italiana come paese, come nazione e come Stato. Ma solo a patto di sapere distinguere passato e presente.
L’8 settembre e la ‘morte della patria’
L’espressione ‘morte della patria’, che si deve a Ernesto Galli della Loggia, fa riferimento al presunto declino del sentimento nazionale italiano seguito all’armistizio dell’8 settembre 1943, che sancì la disastrosa sconfitta dell’Italia nel conflitto contro gli Alleati e l’inizio di un periodo di divisione del paese in due Stati (il regno del Sud e la Repubblica sociale italiana) e di guerra civile che si estrinsecò soprattutto nella parte settentrionale del paese. In realtà, l’indebolimento (peraltro meno pronunciato di quel che poteva apparire all’epoca) del nazionalismo è stato un’esperienza comune a quasi tutti gli Stati dell’Europa continentale che hanno affrontato l’esperienza della sconfitta militare e/o dell’occupazione straniera. Esso è stato inoltre, almeno per certi versi, una ‘precondizione’ al formarsi, sia pure in maniera incerta, di una comunità europea, come mostrano non solo i casi italiano, francese e tedesco ma anche, per fare un solo altro esempio, quello del Portogallo, il cui ingresso nella Comunità economica europea è avvenuto solamente dopo le sconfitte nelle guerre di decolonizzazione, combattute, e perse, in varie regioni dell’Africa negli anni Sessanta e Settanta.
Gli italiani: dall’Unità a oggi
Un tema di cui poco si è parlato nel corso della discussione che ha accompagnato i festeggiamenti per il 150° anniversario dell’unificazione italiana riguarda l’evoluzione dell’economia del paese dopo il 1861 e il suo impatto sul benessere degli abitanti della penisola. Quest’ultimo è aumentato straordinariamente, come dimostrano indirettamente ma in maniera inequivocabile i dati sull’aspettativa di vita (passata da poco meno di 30 a oltre 80 anni) e sulla mortalità infantile (scesa dal 25 al 5%), sull’altezza media (quella delle reclute era di 1,62 m nel 1861 e superava 1,70 m cento anni dopo) e sull’analfabetismo (caduto dal 70 al 12%), nonché il puro e semplice fatto che oggi un italiano ha una disponibilità di calorie seconda solo a quella di uno statunitense, mentre 150 anni fa garantirsi un pasto adeguato rappresentava per molti un problema di difficile soluzione.
Restano naturalmente differenze anche forti tra le varie regioni, la cui entità e distribuzione sono tuttavia anch’esse mutate notevolmente (anche in virtù del maggiore collegamento tra esse): basti pensare che nell’Italia risorgimentale l’alfabetizzazione oscillava tra l’11% della Sicilia e il 46% della Lombardia, mentre il Veneto era più povero di Campania e Puglia.
Dal non expedit alla conventio ad excludendum
La sostanziale esclusione dal gioco politico di frazioni non irrilevanti del paese è un fenomeno che ha avuto luogo in vari momenti della storia dell’Italia unita. A fine Ottocento, il non expedit papale tagliò fuori i cattolici dalla partecipazione alla vita politica, situazione questa rimasta sostanzialmente immutata fino al patto Gentiloni (1912) e poi alla nascita del Partito popolare italiano (1919). Nel secondo dopoguerra, motivi di schieramento internazionale preclusero l’accesso al governo al Partito comunista italiano (e per un certo periodo anche a quello socialista) nonostante i successi elettorali riportati da quest’ultimo, mentre partiti e movimenti di destra – monarchici e missini, poi confluiti nel Movimento sociale italiano-Destra nazionale – furono esclusi a causa della loro estraneità a quello che veniva definito come ‘arco costituzionale’, l’insieme cioè delle forze politiche che avevano contribuito a scrivere la Carta costituzionale tuttora in vigore. Solo il crollo del sistema politico della prima repubblica ha aperto, a partire dalla metà degli anni Novanta, la strada del governo e degli incarichi istituzionali anche agli esponenti di queste due culture politiche.