Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Le arti decorative acquistano nel Cinquecento un inedito risalto. L’oreficeria, la maiolica, l’arte vetraria e quella dei metalli, la glittica e l’arte tessile hanno propri sviluppi ma dialogano tra loro e con le arti maggiori, in reciproco scambio. Pur essendo il Cinquecento il secolo durante il quale si fa strada una volontà discriminatrice del lavoro artigianale da quello artistico, le arti decorative sono amate, collezionate e promuovono l’universalizzazione del gusto moderno in Europa.
Il successo delle arti applicate nel Cinquecento
Nel panorama artistico cinquecentesco le arti decorative hanno un ruolo di grande importanza. Grazie alla loro rapida circolazione esse diventano decisive nella diffusione del gusto moderno in Europa. Fondamentale è il ruolo della committenza, religiosa e laica, per la quale vengono prodotti oggetti d’uso quotidiano e oggetti di lusso, che arricchiscono i tesori di molte chiese e diventano parte integrante degli apparati nella corte principesca. Si inventano nuovi oggetti da inserire tra gli arredi, si elaborano nuove forme e si perfezionano le tecniche di produzione. Rilevante è il fenomeno del collezionismo, che non porta solo alla raccolta di preziosi pezzi antichi, ma anche alla promozione di nuove manifatture. La considerazione di cui le arti applicate godono nel Cinquecento è documentata anche da numerosi studi per arredi e suppellettili dovuti ai maestri più illustri dell’epoca. Nel 1514 Raffaello disegna cartoni per i dieci arazzi destinati alla Cappella Sistina e, a Firenze, Pontormo, Bachiacca, Salviati e Vasari preparano quelli per gli ambienti rinnovati di Palazzo Vecchio, su commissione di Cosimo I de’ Medici. Nel 1526 Lorenzo Lotto fornisce cartoni per le tarsie degli stalli del coro di Santa Maria Maggiore a Bergamo, poi eseguite da Giovan Battista Capoferri. Numerosi sono gli studi per argenterie e suppellettile approntati da Giulio Romano per Federico II Gonzaga, e i disegni per oreficerie e gioiellerie firmati da Albrecht Dürer e Hans Holbein.
Anche nel caso in cui non intervengano artisti famosi, i repertori decorativi sono aggiornati su quelli della pittura, della scultura e dell’architettura, in larga parte assimilati attraverso la mediazione dell’incisione e la diffusione del libro a stampa. L’orefice, il maiolicaro, il maestro vetraio, infatti, si ispirano nelle iconografie ai soggetti di moda e nelle forme ai canoni architettonici allora trionfanti, trovando fonte diretta nelle stampe e nelle xilografie, molto diffuse già agli inizi del secolo, come le notissime stampe sciolte di Marcantonio Raimondi. Si compie così quella internazionalizzazione delle arti tipica del XVI secolo.
Prestiti significativi sono quelli che avvengono tra le arti minori stesse, in un reciproco scambio di motivi, forme e materiali, come accade tra la maiolica o il vetro dipinto e la miniatura, tra le tipologie metalliche e quelle in terracotta o in vetro, tra i tessuti e la gioielleria. Da un punto di vista stilistico, l’evoluzione delle arti applicate nel Cinquecento riflette, seppure con i dovuti ritardi nei centri minori, gli sviluppi del classicismo in pittura e scultura.All’inizio del secolo infatti è ancora il gusto rinascimentale per l’armonia delle strutture, la fine e sobria eleganza della linea che tende a sottolineare la forma, nel rispetto per le proporzioni, a caratterizzare ogni manifattura: il disegno di un oggetto è guidato da una visione logica, simile a quella che sta alla base dell’architettura classicheggiante dell’epoca. Ma già a partire dagli anni Trenta le arti applicate si aprono alla maniera moderna, dialogano con essa, ne diventano strumento privilegiato di diffusione fino alla fine del secolo. La nuova poetica infatti, spiccatamente formalistica, trova perfetta adesione nelle linee e nei materiali, più svariati, che si utilizzano per foggiare oggetti elaboratissimi, veri virtuosismi tecnici, realizzati per trovare spazio in quei forzieri che furono le Wunderkammer dei principi cinquecenteschi. Complessità dell’invenzione, forme elaborate, allusioni criptiche, simbologie nella decorazione, abilità dell’artigiano: sono questi i caratteri che si riflettono nelle tecniche e nella varietà morfologica e decorativa degli oggetti creati, manufatti che rappresentano simbolicamente la congiunzione, cara all’età del manierismo, fra arte e natura.
Il dibattito teorico
Se, da un lato, unità e dignità delle arti – presupposti delle poetiche precedenti – continuano a essere riconosciute anche nel corso del XVI secolo, come dimostra la stessa produzione manifatturiera, altro corso sembra invece seguire il dibattito teorico che si sviluppa a partire dalla metà del secolo. Risale infatti agli ultimi decenni del Cinquecento la discriminazione del tutto teorica che porterà alla separazione dell’arte dal mestiere artistico e al declassamento dell’artigiano, prima in Italia, quindi in Europa.
Nel dibattito sulla "maggioranza delle arti", sostenuto da Benedetto Varchi intorno alla metà del secolo, si possono già individuare i primi segnali di questo atteggiamento. Altri teorici, come Paolo Pino e Ludovico Dolce, decretando la superiorità della pittura, definiscono "tutte l’arti mecaniche" arti "per partecipazione", perché ammesse "a partecipare" della facoltà propria del pittore: il disegno.
Nel 1567 Vincenzo Danti contrappone la "nobiltà" delle tre arti maggiori, che esprimono valori permanenti, alla "necessità" di tutte le altre, che, al contrario, vengono svilite come effimere. Successivamente, come nel trattato di Romano Alberti del 1585, si diffonde l’idea che l’opera d’arte è tale perché prodotta dallo spirito, non già dalle mani, con la conseguente svalutazione del momento artigianale, tecnico e funzionale, rispetto a quello spirituale, ideativo e inventivo.Le nuove accademie del disegno diventano gli strumenti di questo processo di scissione. Al loro interno si discute e si insegna l’arte con prevalente intento teorico e con la volontà di sostituire le accademie alle precedenti organizzazioni, le vecchie botteghe e le corporazioni degli artisti, dove l’arte veniva trasmessa come mestiere. A operare una progressiva discriminazione fra i diversi episodi artistici concorre anche la concezione profana e laica dell’arte, propria dell’età moderna e dell’ideologia borghese. Se nel Medioevo la gerarchia tra arti manuali e arti liberali voleva solo segnare passi successivi nel percorso di avvicinamento alla contemplazione di Dio, questa gerarchia diventa ora motivo di discriminazione di classe: l’architettura, la scultura e la pittura si innalzano a prodotti capaci di garantire un grande potere celebrativo ai committenti; un gioiello è creato per essere esclusivamente un ornamento bello, dal significato astrologico, apotropaico ed ermetico. Nel corso del Cinquecento l’unità delle arti, che aveva caratterizzato i secoli precedenti, sembra infrangersi, per lasciar posto a una loro distinzione gerarchica.
Una declassificazione consapevole delle arti minori, comunque, non giunge a maturazione prima degli anni Ottanta.
Vasari stesso nella Introduzione alle tre arti del disegno, premessa alle Vite nelle redazioni del 1550 e del 1568, illustra l’arte delle medaglie, dei cammei, la pittura su pietra, le tarsie, il niello e l’incisione, gli smalti e il cesello, senza alcuna distinzione di qualità, né gerarchia di grado, soffermandosi anche sulla scelta dei materiali e sull’accurata descrizione dei procedimenti tecnici.
Per tutto il secolo non mancano interventi che sottolineano la validità e la dignità delle arti applicate. Paracelso, ad esempio, propugna una visione unitaria delle arti e dei mestieri e Agricola nel 1563, con il trattato De l’arte dei metalli , insiste sulla dignità della tecnica e della "meccanicità".
Intorno al 1556-1557 Cipriano Piccolpasso lascia il più esauriente trattato sull’arte ceramica, Li tre libri dell’arte del vasaio, e nel 1568 Benvenuto Cellini pubblica un Trattato dell’oreficeria, difendendo l’importanza di questi mestieri. Essi ritornano, assieme a molti altri, ne La piazza universale di tutte le arti del mondo, glossario redatto da Tomaso Garzoni di Bagnacavallo nel 1585. Chiude la serie di questi interventi la Storia delle pietre, del 1590, composta da Agostino del Riccio che, a proposito del cristallo di rocca, scrive: "Non è guari tempo [...] il Gran Duca Francesco fece venir più maestri di vetri, et in particolar quei che lavorano i cristalli, et messe questa laudevol usanza nella Città di Firenze".
Mecenati e collezionisti
Che nel Cinquecento le arti applicate continuino a godere di grande fortuna lo dimostrano le importanti commissioni effettuate durante il secolo e i più svariati manufatti, andati a incrementare raccolte prestigiose, che testimoniano un eclettico, febbrile collezionismo di corte.Primi mecenati e raffinati collezionisti di arti minori sono i Medici a Firenze. Ristabilito il potere, Cosimo I ricostituisce il tesoro di Lorenzo il Magnifico, aumenta la collezione e destina ambienti a contenerla. Gli inventari documentano enormi quantità di oggetti preziosi antichi e moderni: tra il 1544 e il 1551 sono registrati acquisti di alcune centinaia di esemplari di maioliche e porcellane cinesi particolarmente amate dal duca e da subito fatte imitare presso le manifatture di corte. Tra i metalli emergono bronzetti e medaglie, gioie e una quantità di strabilianti pezzi d’oreficeria; numerosi anche i manufatti in vetro veneziano e in cristallo.
La passione di Cosimo per le pietre dure lo porta a promuovere la rinascita della glittica e a creare a Firenze un vero e proprio circolo di incisori. Ne sono esempio il cammeo che ritrae Cosimo I e la sua famiglia, opera di Giovanni Antonio de’ Rossi, datato tra il 1557 e il 1562, a lungo descritto da Vasari, e l’intaglio in corniola con il ritratto di fra’ Girolamo Savonarola, inciso all’inizio del ‘500 da Giovanni delle Corniole e acquistato da Cosimo nel 1565. Lo stesso duca apre anche una manifattura di arazzi che, dalla metà del secolo, resterà attiva per ben due secoli. Nel 1545 si trasferisce a Firenze l’arazziere fiammingo Giovanni Rost e Cosimo I, potendo contare su un’équipe di pittori altamente dotati come Pontormo, Salviati e Vasari, che forniscono cartoni, fa realizzare la famosa serie di arazzi per Palazzo Vecchio. L’interesse per le pietre dure e i marmi colorati diventa primario per il figlio di Cosimo I, Francesco, che nel 1572 chiama a Firenze Ambrogio e Stefano Caroni, due intagliatori di Milano, e favorisce la nascita dell’Opificio delle pietre dure, sottraendo così il monopolio in tale campo alle officine milanesi.
Raffinato collezionista di oggetti in pietre dure fu anche l’imperatore Rodolfo II, presso la cui corte, alla fine del secolo, lavorarono gli incisori e intagliatori milanesi Gasparo e Ottavio Miseroni, diffusori a Praga delle elaborate forme manieristiche, come appare nella Tazza di giada con montatura in oro oggi al Kunsthistorisches Museum di Vienna.
Di non minor valore è la raccolta posseduta dai Farnese, poi confluita a Capodimonte. La collezione farnesiana di arti decorative, che nel Cinquecento riceve impulso da papa Paolo III Farnese e dal nipote Alessandro, spicca per i numerosi cristalli di rocca incisi a figure o motivi ornamentali. Al servizio di Alessandro Farnese, infatti, vi è l’intagliatore Giovanni Bernardi, che realizza gran parte di queste preziosità. Pezzo unico nella collezione è la nota Cassetta Farnese voluta da Alessandro probabilmente come reliquiario, eseguita in argento dorato e cristalli di rocca incisi in parte su disegni di Perin del Vaga (1546 e 1561). Ma il nucleo più cospicuo della collezione farnesiana resta la raccolta di bronzetti: dei 250 esemplari giunti a noi, un numero elevato è costituito da pezzi cinquecenteschi di varia provenienza e fattura eterogenea, a indicare un interesse sconfinato e senza pregiudizi.
L’oreficeria
Rispetto ai secoli precedenti l’oreficeria cinquecentesca è caratterizzata da un forte aumento della produzione e da diverse tipologie di oggetti, purtroppo conservatisi in minima parte. Gli oggetti superstiti, le testimonianze documentarie e grafiche, la lettura degli statuti redatti in forma di vera e propria legislazione nelle diverse città, restituiscono testimonianze di un’arte vivace, fiorente, ricercata. Ed è in Italia, la più ricca di orafi, intagliatori di pietre dure e di gioiellieri, che si elaborano le prime oreficerie moderne, a partire dai centri di Firenze, Venezia, Milano.Concettualmente e tradizionalmente legata all’arte sacra, la storia dell’oreficeria nel Cinquecento è segnata, nella sua evoluzione e caratterizzazione stilistica, dallo stretto legame che trattiene con l’ambiente aristocratico della corte principesca. Se infatti resta ampiamente testimoniata un’incessante produzione sacra, con funzione in primo luogo liturgica, recenti studi documentari dimostrano che, già all’inizio del secolo XVI, la produzione prevalente è soprattutto laica.
Gli inventari di bottega attestano e descrivono la realizzazione di arredi domestici e da pompa in svariate tipologie, anche a carattere seriale: oreficerie per abiti come "coppette" (i nostri bottoni), "coppelle" per decorare i tessuti, ornamenti da collo, da testa e ancora oggetti magici, come bezoar e corni di unicorno, stoviglie da parata, ma anche stuzzicadenti, stuzzicaorecchi e "trastulli da bambino". Non mancano le suppellettili che costituiscono i corredi domestici, con caratteristiche esclusivamente funzionali, quali brocche, bacili, boccali, vasellame da cucina.È a partire dal Cinquecento infatti, nel momento in cui aumenta la quantità di metallo, così come il ceto medio che lo utilizza, che si assiste alla diversificazione dell’attività orafa: orafi sono solo coloro che producono alta oreficeria con uso di pietre preziose, mentre si definiscono argentieri coloro che realizzano per la maggior parte oggetti d’uso quotidiano; tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento si crea anche la figura specializzata del gioielliere. Esemplare è il caso di Firenze dove, dopo l’ascesa al potere di Cosimo I, viene incentivata la separazione tra la produzione delle botteghe, destinata agli usi più comuni e aperta al mercato, e quella creata per la corte granducale, nelle botteghe in Galleria, alla cui direzione artistica sovrintende di volta in volta un artista o una personalità di spicco appositamente designata.
Per la storia dell’oreficeria sacra nel Cinquecento è determinante, a partire dalla seconda metà del secolo, il movimento controriformista. Nel 1577 Carlo Borromeo, vescovo di Milano, pubblica i libri Instructionum fabricae et supellectilis ecclesiasticae libri duo, approvati dal papa e adottati come testo normativo dalla Chiesa. Egli detta una serie di disposizioni per la realizzazione di suppellettili necessarie a ogni tipo di edificio religioso e di celebrazione liturgica: definisce le misure, i materiali e la forma di ogni oggetto dell’arredo sacro, delineandolo secondo il criterio della funzionalità e della gerarchia. Il rinnovamento dell’oreficeria sacra lungo il corso del secolo è dunque pressoché impercettibile a livello strutturale, più graduale invece a livello stilistico, in adesione al classicismo rinascimentale fin dall’inizio del secolo, a partire dai centri propulsori.
Ma è la produzione a destinazione profana a testimoniare un dialogo ininterrotto con le arti maggiori, in aggiornamento costante sulle novità stilistiche introdotte dalla pittura e dalla scultura negli anni Trenta del Cinquecento, e documentato dal coinvolgimento di artisti di fama che firmano disegni preparatori e bozzetti. In Italia, Giulio Romano realizza numerosi studi per il duca di Mantova, tra cui il Bacile raffigurante un vortice d’acqua (1542 ca.) e il Cofanetto a forma di tartaruga oggi a Chatsworth, la Brocca a forma di delfino e la Cintura d’oro.
Altrettanto noto è il disegno di Bernardo Buontalenti, artista presso la corte medicea, per il Fiasco con catena realizzato dall’orafo Jacopo Bilyvert nel 1583. All’estero lasciano disegni per suppellettili o gioielli Albrecht Dürer e Hans Holbein, di cui ricordiamo quello per una Coppa in oro, smalti e pietre preziose, realizzata nel 1536 per Jane Seymour, terza moglie di Enrico VIII, oggi a Oxford presso l’Ashmolean Museum. Decisivi per la diffusione del gusto e l’unità stilistica dell’Europa cinquecentesca sono i disegni che circolano di corte in corte, grazie agli spostamenti di artisti, come Hans Holbein che dalla Svizzera si reca a Londra, e Benvenuto Cellini che da Roma passa a Parigi.
Ed è proprio l’attività orafa di Benvenuto Cellini, documentata nell’unica opera sicuramente autografa, la Saliera (1540-1543) oggi al Kunsthistorisches Museum di Vienna, a rappresentare massimamente questa produzione d’élite, simbolo del nuovo linguaggio moderno, aulico, raffinato e ricercato, di cui diviene uno dei principali strumenti di divulgazione. Capolavoro di oreficeria, esempio insigne dell’arte scultorea dell’eccentrico artista e della grande abilità nel rendere anche in figure di piccolo formato le complesse e dinamiche attitudini manieriste, la Saliera è documento vivo della ricchezza di accessori d’argento e d’oro che decoravano le tavole dei re e dei nobili di tutta Europa, come sappiamo da resoconti contemporanei. Commissionata all’artista da re Francesco I di Francia, l’opera richiede mille monete d’oro fino per essere portata a compimento. È Cellini stesso a descrivere l’oggetto e la sua complessa realizzazione nel Trattato dell’oreficeria: l’oggetto, munito di due contenitori separati per il pepe e il sale, poteva essere spostato sulla tavola grazie a quattro sfere d’avorio incassate nella base d’ebano. Cellini vi rappresenta i due elementi del sale, prodotto dal mare, e del pepe, prodotto dalla terra, con le relative divinità classiche, Nettuno che ha in mano il tridente e Anfitrite una cornucopia. Le due figure, elegantissime nella resa stilistica, sono collocate su di una base arricchita da altre figure a smalto, raffiguranti i venti e le parti del giorno. La ricercatezza della simbologia e del tema allegorico, unitamente alla straordinaria varietà materica con cui è realizzato il manufatto e alla raffinatezza della sua esecuzione, sono elementi che illustrano la partecipazione dell’artista al clima culturale di Fontainebleau. La finezza artigianale di ogni dettaglio, che a Cellini derivava dalla sua formazione presso le botteghe di orafi quali Michelangelo di Viviano, Antonio di Sandro, Francesco Salimbeni e Giovan Battista Sogliani, rimarrà elemento caratterizzante della sua successiva attività scultorea in bronzo per la Firenze di Cosimo I. Attribuita a Cellini è la Tazza Rospigliosi, degli anni Cinquanta del secolo, oggi al Metropolitan Museum di New York: pur nell’incertezza dell’autografia, l’oggetto è esempio di un gusto oramai imperante, quello manierista, che ricava da un elemento naturale, in questo caso una conchiglia sorretta da animali marini, un originale e prezioso arredo.
Venezia, invece, continua a essere nota per la tecnica della filigrana, l’ opus veneticum, ancora largamente applicata nel XVI secolo, accanto al niello.
I bronzetti
La storia del bronzetto, che ha nel Cinquecento la massima fioritura grazie all’opera di importanti maestri, è legata al recupero della civiltà classica operato dal Rinascimento italiano. Il desiderio di far rivivere questa forma d’arte con intenti intellettuali si manifesta in un primo momento nella raccolta di sculture archeologiche e in seguito nella creazione di copie fedeli di pezzi antichi. Il rinnovato interesse per il bronzetto diventa presto una moda: numerosissime sono le statuette antiche replicate e non si esita ad arrivare alla loro contraffazione più o meno onesta. Alcune botteghe italiane, come quelle di Padova, sono specializzate nella produzione di questi oggetti, spesso anche ricoperti di una finta patina archeologica e che ancor’oggi crea notevoli difficoltà attributive.
Le prime richieste di pezzi in bronzo di ridotte dimensioni, per arredamento o collezione, risalgono alla fine del XV secolo e proseguono per tutto il XVI. Intorno alla metà del Cinquecento il bronzetto è prevalentemente destinato alle collezioni principesche e assume un carattere elitario e di prestigio. I primi committenti e raccoglitori sono i Medici, ma anche i Farnese e i Gonzaga hanno collezioni di rilievo. È solo alla fine del secolo, per intervento della Controriforma, che il bronzetto assume la funzione di oggetto utile alla devozione privata. I maggiori centri di produzione di statuette in bronzo continuano a essere Siena, Firenze e Padova, eredi della riscoperta da parte di Donatello degli aspetti tecnici, stilistici e tematici che erano stati tipici della bronzistica ellenistico-romana.
In particolare, la vastissima produzione padovana di bronzetti costituisce un notevole veicolo di diffusione della cultura rinascimentale in Europa. Esponente di spicco dell’ambiente umanistico padovano è Andrea Briosco detto il Riccio, che produce una gran quantità di bronzi classicheggianti, molti dei quali destinati a un uso pratico: la capacità inesauribile e fantastica di trasformare in bronzetti oggetti come calamai, lampade, candelieri e saliere rende la sua produzione originale e inconfondibile. Le sue opere – come il Pastore con una capra, l’Abbondanza, il Satiro seduto e il Pan che molti studiosi considerano la più bella scultura piccola in bronzo – sono caratterizzate da un forte uso del solco, che porta ad un modellato mosso e molto chiaroscurato, e da una interpretazione dell’antico patetica ed espressionistica di marca ellenistica.L’ultima fase del Briosco incontra grande favore a Venezia, dove lavorano Tullio e Antonio Lombardo, Alessandro Lepardi e il Maestro dell’altare Barbarigo. Ma, rispetto a quella padovana, la bronzistica veneziana presenta un modellato più sensibile ai valori di superficie e di luminosità e una raffinata, talvolta elegiaca, interpretazione dell’antico. Il raggio di influenza delle tendenze classiche di Padova e Venezia percorre anche l’area lombardo-veneta-emiliana.
A Mantova un gran numero di statuette su modelli antichi viene commissionato dai Gonzaga a Pier Jacopo Alari Bonacolsi detto l’Antico, le cui migliori fusioni si conservano al Kunsthistorisches Museum di Vienna e nella collezione Thyssen-Bornemisza. Alcuni pezzi dello scultore entrano nella collezione Farnese, come la Venus felix, la Venere inginocchiata, la statuetta di Meleagro, parzialmente dorata, l’Apollo Belvedere e l’Ercole con la clava.
Il passaggio alla vasariana "maniera moderna" è attuato da Jacopo Sansovino, la cui produzione di bronzetti è nota dopo il suo arrivo a Venezia nel 1527: di sicura attribuzione sono il Giove al Kunsthistorisches Museum e il Cristo portacroce del Museo Estense di Modena.
Tiziano Aspetti e Niccolò Roccatagliata sono i maggiori maestri veneti della seconda metà del Cinquecento, con i quali si inaugura una felice formula stilistica, che a una linea di contorno fluida e sinuosa unisce un ricco e cromatico chiaroscuro.
Maestro indiscusso nel campo delle statuette in bronzo fiorentine del XVI secolo è Giambologna, noto in quest’ambito soprattutto per il Mercurio di cui possediamo molte repliche e varianti: l’artista realizza una prima versione, oggi al Museo Civico di Bologna, durante il suo soggiorno nella città, tra il 1563 e il 1564; una seconda versione è conservata al Kunsthistorisches Museum di Vienna e una terza appartiene alla collezione Farnese, oggi al Museo di Capodimonte, entrambe eseguite tra il 1575 e il 1578. Il Mercurio di grandi dimensioni, conservato al Museo del Bargello a Firenze, può, a ragione, essere servito da modello alle diverse repliche. Lo stile del Giambologna, volto ad una ricerca di eleganza, grazia, artificio e rapidità tipicamente manierista, si diffonde proprio grazie alle statuette in bronzo che hanno un’incalcolabile influenza sul gusto europeo.
La maiolica
Nei primissimi anni del Cinquecento, nelle botteghe maiolicare, al concetto lineare e coloristico del motivo ornamentale si affianca il desiderio di una rappresentazione narrativa che presto porta all’affermarsi di un nuovo corso della pittura su maiolica: la decorazione ad "istoriato". Lo slancio creativo che pervade i maiolicari è motivato dal desiderio di adeguarsi al nuovo spirito che già va maturando in altre forme di arte applicata come la glittica e la pittura su vetro, anche sotto la pressione di una committenza ansiosa di manifestare la propria cultura e l’erudita frequentazione di testi letterari.
I mezzi per una più complessa ornamentazione vengono dalle nuove conquiste coloristiche e, ancora una volta, dall’arte della stampa che facilita la diffusione delle immagini. Nelle botteghe dei decoratori circolano testi letterari classici illustrati, come il Sogno di Polifilo o le Metamorfosi di Ovidio, edizioni sacre della Bibbia, stampe di Dürer, di Schongauer e di Marcantonio Raimondi. Nelle "istorie" dipinte su maiolica ricorrono quindi iconografie desunte da Raffaello e Michelangelo, dai quali i maiolicari si lasciano influenzare anche stilisticamente.
L’adesione al modello non insiste mai su una calligrafica e passiva rispondenza, ma cerca sempre di salvare l’autonomia e la specificità della redazione ceramistica. Di fronte al mutare degli orientamenti della cultura figurativa, dal 1530 in poi i maiolicari mostrano una notevole capacità di aggiornare i repertori dell’ "istoriato", come risulta evidente dai manufatti dei principali centri ceramici propulsori: Faenza, Cafaggiolo, Casteldurante, Urbino, Siena, Deruta, Forlì, Pesaro.In ambito faentino le botteghe dei Pirotti, dei Bergantini, dei Manara introducono il nuovo uso di dipingere le "historie" su smalto blu grigiastro, predisponendo gli sfondi con una maiolica azzurrina, detta anche "berettina", e facendo vivere le forme secondo leggi tecnico-cromatiche proprie all’arte ceramica. Il felice accordo dell’azzurro, arricchito nella parte figurata dal giallo, dall’arancio e dal verde, costituisce per le botteghe di Faenza una caratteristica che avrà echi ovunque.
A Casteldurante raccoglie i modi faentini Nicola Pellipario, pittore di numerosi servizi da tavola, divulgatore dell’ornato a grottesche e della decorazione figurata nella serie cosiddetta delle "belle donne": coppe nelle quali è raffigurato un busto femminile, su fondo turchino, con un nastro che reca il nome della effigiata e l’indicazione "Bella". Le coppe, che riprendono un uso già proprio dei vasai ateniesi del V secolo, secondo un gusto umanistico, hanno immediato successo e larga diffusione. L’iconografia raffaellesca ispira l’artista più noto della maolica cinquecentesca italiana, Francesco Xanto Avelli di Rovigo, che giunge a Urbino intorno al 1530 e vi firma opere fino al 1534. Egli utilizza con originalità i repertori raffaelleschi, inserendoli in composizioni contaminate anche da altre fonti.Nella seconda metà del secolo è Urbino a continuare la tradizione degli ornati istoriati a piena tavolozza, affiancati dalle fantasie raffaellesche. Con l’arte di Orazio, la scuola urbinate raggiunge il culmine del virtuosismo per la perfezione di esecuzione e la brillantezza nei colori, facilmente riscontrabile nei manufatti prodotti dalla sua bottega e da molte altre che ne sono influenzate.
Faenza invece mostra di perpetuare caratteri propri. Intorno alla metà del secolo le botteghe faentine si propongono di elaborare per la prima volta un linguaggio della pittura su maiolica: al contemporaneo "istoriato policromo" contrappongono l’"istoriato compendiario", che inaugura un nuovo corso nella decorazione compendiata e su fondo di smalto bianco. Le "maioliche bianche e polite", come le definisce nel 1585 Tommaso Gazzoni ne La Piazza Universale, incontrano subito uno strepitoso successo. Innumerevoli sono le fonti documentarie e letterarie dell’epoca che ricordano l’ingresso dei "bianchi" nella storia delle arti quasi come una rivoluzione che, sin dalla metà del Cinquecento, "tirò a sè gli occhi di tutta l’Europa" e decretò il momento più significativo dell’intera vicenda ceramistica del Cinquecento. Vasari riconosce che le maioliche di Faenza ora sono "con poche pitture e quelle nel mezzo o intorno, ma vaghe e gentili affatto"; il primo trattatista ceramologo, Cipriano Piccolpasso, nel suo I tre Libri dell’Arte del Vasai (1556-57), elogia con enfasi il nuovo stile, a smalto grosso, coprente, bianco e tavolozza limitata al turchino, al giallo e all’arancio. Da documenti d’archivio ed esemplari datati sappiamo che già nel 1540 la bottega di Francesco Mezzarisa, maiolicaro faentino, produce oggetti in ceramica bianca, così come quella di Virgiliotto Calamelli, l’altro grande artista che la città vanta. Accanto a forme semplici ben presto se ne creano altre ispirate ad originali metallici, d’oro, d’argento, spesso con sagomature complesse, baccellature, applicazioni plastiche figurate, quali sfingi, arpie, serpenti contorti in funzione di manici.
La grande richiesta e la potenza di produzione delle botteghe fan sì che i "bianchi" raggiungano presto i centri anche al di là delle Alpi: la Francia – dove si diffonde il nome di faïence ad indicare la ceramica in senso lato – l’Olanda e l’Inghilterra. Così, prima della generale diffusione del gusto per le monocromie turchine, generato dall’importazione di porcellane cinesi e dalla loro imitazione nei centri nordici, in particolare Delft, la maiolica italiana e la fantasia creatrice di Faenza attraggono produttori e committenti di ogni regione d’Europa.
L’arte vetraria
La conoscenza dell’arte vetraria è spesso ostacolata dall’inevitabile carenza di oggetti, che per la fragilità del materiale si sono perduti nel tempo, e dalla conseguente difficoltà di collegare nomi di artisti a oggetti precisi, anche per la frequente assenza di firme o sigle su quelli fortunatamente giunti fino a noi.
Nella prima metà del Cinquecento è di nuovo un centro italiano, Murano, ad avere il primato nell’arte vetraria, sia per qualità che per invenzione. Molte sono le testimonianze iconografiche ricorrenti nelle tele di Leandro Bassano, Paris Bordone e Veronese che mostrano oggetti da tavola, recipienti, calici ma anche ampolle d’uso liturgico e reliquiari, realizzati secondo caratteristiche proprie alla produzione locale.
La principale conquista, l’invenzione che rende Murano celebre in tutto il mondo è il vetro incolore che i "fiolai" (così sono detti negli inventari dell’epoca i vetrai muranesi) amano chiamare "cristallo", ottenuto al principio del Cinquecento con una particolare ricetta e una accurata decolorazione. La nuova scoperta veneziana è accompagnata da una assoluta perfezione formale e dall’abbandono di ogni mezzo meccanico; nelle fornaci muranesi si lavora con pochi strumenti, soffiando nella tradizionale canna e tutt’al più ricorrendo a stampi per ottenere determinati effetti. Il vetro veneziano è caratterizzato dall’anonimato più assoluto: nessun maestro vetraio, al contrario di quanto avveniva ad esempio nelle Fiandre o in Boemia, usa siglare la propria opera e quindi non è possibile attribuire nessuno degli pochi oggetti pervenuti.
Il Cinquecento è un secolo di grande espansione per i vetrai veneziani, che non esportano solo manufatti in Italia e nei paesi stranieri ma cominciano essi stessi a spostarsi di corte in corte: la Repubblica, malgrado veti severissimi, non riesce a impedire l’uscita di maestranze e con esse dei segreti del mestiere, che giungono presto in molti centri italiani ed europei. La diffusione delle forme muranesi raggiunge le città venete limitrofe, Bologna, i centri toscani e Altare – che in Italia è forse il maggior centro dopo Murano – e arriva a toccare la Spagna e l’Olanda, la Svezia, la Danimarca e l’Inghilterra.