Il Rinascimento. Magia e astrologia
Magia e astrologia
All'inizio del 1586 la Bolla Coeli et terrae di Sisto V proclamava solennemente che l'uomo non può presumere di elevarsi alla conoscenza degli eventi futuri, riservata esclusivamente a Dio, al cui solo sguardo ogni cosa è "nuda e aperta". In questo modo la Bolla metteva al bando ogni genere di divinazione e lasciava all'astrologia il dubbio onore di aprire l'elenco delle dottrine illecite e superstiziose, di cui tracciava un quadro pittoresco e impressionante. Posta sullo stesso piano del lancio delle sorti o delle evocazioni del demonio negli specchi e nelle caraffe piene d'acqua, l'astrologia è condannata come uno dei prodotti più deleteri della superbia dell'uomo, il quale, anziché ergersi con la propria mente verso conoscenze troppo alte per i suoi limiti, dovrebbe temere e, prostrato a terra (humi stratus), riverire l'immensità della maestà divina. Il documento papale, evidenziando esclusivamente l'aspetto divinatorio dell'astrologia e attribuendo ogni pratica magica all'intervento dei demoni, sanciva il tramonto di una stagione in cui le dottrine occulte avevano goduto della più ampia diffusione e fioritura, non soltanto a livello popolare ma soprattutto presso i dotti e le università, le corti dei papi e dei prìncipi.
Nel XX sec., una volta superati, seppure a fatica, imbarazzi e pregiudizi storiografici che le liquidavano sotto la generica e frettolosa etichetta di superstizioni, retaggio di mentalità immature e irrazionali, le dottrine occulte rinascimentali hanno suscitato una crescente attenzione da parte degli storici. Nel diventare un oggetto legittimo di ricerca, esse hanno anzi dato luogo a un ampio e variegato dibattito riguardante il loro status, il ruolo giocato all'interno della cultura dell'epoca, i rapporti di affinità e di contrasto con altri settori del sapere, i contesti filosofici a cui facevano riferimento.
A partire dagli anni Venti del Novecento vedono la luce gli otto grossi volumi della A history of magic and experimental science di Lynn Thorndike. Nonostante taluni presupposti interpretativi troppo schematici, la monumentale opera metteva a disposizione un repertorio vastissimo di materiali, ancora oggi insuperato. Grazie all'accezione estremamente ampia in cui era intesa la nozione di magia a partire dall'Antichità per giungere alle soglie del XVIII sec., gli studi di Thorndike mostravano la diffusione e l'esuberante fioritura di questi testi, dedicando ai soli autori del Cinquecento i ponderosi volumi V e VI.
Ai primi anni Cinquanta risalgono i saggi in cui Eugenio Garin, affrontando i temi della magia e dell'astrologia rinascimentali, richiamava l'attenzione sull'importanza del ruolo giocato dalla visione ermetica del Cosmo e dell'uomo ‒ rilanciata dai testi di Marsilio Ficino e di Giovanni Pico della Mirandola ‒ nel consumare la feconda rottura con l'epoca precedente. All'immagine ermetica di un Universo vivente ("Universo tutto vivo, tutto fatto di nascoste corrispondenze, di occulte simpatie […] che è tutto un rifrangersi di segni, dotati di un senso riposto, dove ogni cosa, ogni ente, ogni forza è quasi una voce non ancora intesa", Garin 1980, p. 142 e segg.) corrisponde la nuova immagine dell'uomo che, nell'esordio della famosa orazione di Pico della Mirandola è detto, con parole riprese dall'ermetico Asclepius, "grande miracolo […] degno d'onore e di venerazione"; a differenza di ogni altra creatura, l'uomo non è costretto entro i confini di un'essenza specifica e fissa, ma si configura come centro di attività e di libertà. Secondo Garin, il recupero dell'immagine ermetica del Cosmo e dell'uomo consentì il riscatto della magia e dell'astrologia. Riemergendo alla luce della cultura dal sottosuolo in cui erano state confinate nel Medioevo e riconquistando una nuova dignità, queste due discipline riproponevano "una ricca gamma di motivi condannati e respinti", che, purificati e ripensati, svelavano ora tutta la loro fecondità; e non soltanto questo, giacché esse inserirono nei quadri concettuali dell'epoca quei valori vitalistici che, uniti al nuovo ruolo attivo dell'uomo, contribuirono a scardinare il "ferrigno castello concettuale" dell'epoca precedente, ad abbattere le impalcature intellettive dell'Universo medievale, "tutto conchiuso, astorico, definito" (ibidem, pp. 144, 148, 156).
Queste pagine che risalgono ad anni ormai lontani propongono spunti che saranno in seguito ripresi, sviluppati, precisati o messi in discussione. Di particolare fecondità si riveleranno le riflessioni sul nuovo ruolo attivo e pratico dell'uomo-mago, che, conoscendo i più riposti legami e affinità della Natura, è in grado di inserirsi nel gioco delle forze naturali per trasformarle e utilizzarle. Si vedrà in seguito come una tale concezione delle finalità operative di un sapere non più solamente astratto e contemplativo sembri per certi aspetti preludere alla concezione moderna della scienza intesa come potenza. In un libro famoso su Francis Bacon, Paolo Rossi indagava con finezza il complesso passaggio "dalla magia alla scienza", non mancando però di sottolineare anche le differenze fra i due tipi di sapere. Pur respingendo la datata e insostenibile concezione illuministica e positivistica "di una marcia trionfale del sapere scientifico attraverso le tenebre e le superstizioni della magia"; pur consapevole che "i bordi di quell'incredibile e bellissimo arazzo che fu tessuto nell'età del Rinascimento da maghi e alchimisti si sovrappongono in più punti al tessuto della scienza e della tecnica moderne", egli insiste anche sulla necessità di distinguere "tra i fili e i colori di quell'arazzo" e non manca di soffermarsi a precisare tutte le differenze che distinguono e separano la magia naturale dalla nuova scienza. L'ibrida mescolanza di misticismo e sperimentalismo del sapere magico, il suo carattere iniziatico, ritualistico e segreto, l'aggirarsi del mago all'interno di un mondo chiuso e che non tollera smentite, tutto questo fa parte di una mentalità e di un atteggiamento che viene a porsi in un radicale, definitivo contrasto con il carattere collaborativo e pubblico della nuova scienza (Rossi 1989, p. 28 e segg.).
L'importanza della visione ermetica dell'uomo e del Cosmo, con tutte le ripercussioni che comporta sul piano religioso, filosofico, magico-astrologico, e sui nuovi rapporti che si vengono a instaurare fra i diversi aspetti dell'esperienza umana, costituisce il nucleo teorico degli studi che Frances Yates ha dedicato alla cultura rinascimentale. Come l'autrice stessa ci rivela nella presentazione del suo libro più famoso e fortunato, Giordano Bruno e la tradizione ermetica (1968), le difficoltà e i dubbi che le rendevano ardua, dopo anni di studio, un'autentica comprensione di quest'autore, si erano sciolti all'improvviso con l'individuazione di quella prospettiva ermetica, che le era apparsa come la chiave di lettura più persuasiva non soltanto per la comprensione di Bruno, ma anche per quella di ampie zone della cultura rinascimentale. Il comprensibile entusiasmo per la novità della prospettiva adottata può aver portato in qualche caso la studiosa a un'interpretazione unilaterale ed esclusiva della proteiforme cultura di questo periodo, ma è fuor di dubbio che i suoi studi rappresentino un importante e originale arricchimento nella storiografia filosofica rinascimentale. Se si è d'accordo nel valutare la peculiarità di un'epoca alla luce della sua concezione dell'uomo, del Cosmo e dei loro rapporti, secondo la Yates è indubbio che l'uomo rinascimentale, ancor più che un umanista o un filosofo o uno scienziato, si può caratterizzare come un mago. Tale era il sapiente, capace di entrare in contatto con la rete di forze magiche di cui è costituito il Cosmo per poterle non solamente conoscere, ma anche utilizzare e manipolare nel modo più conveniente; è proprio questo uomo-mago, interprete ed espressione del neoplatonismo riveduto e corretto in senso ermetico, a costituire l'antenato diretto dello scienziato del XVII secolo.
Nella sua opera di rivalutazione dell'ermetismo, la Yates sottolinea la necessità di abbandonare il preconcetto secondo cui la scoperta di influenze ermetiche in grandi figure del Rinascimento porta a diminuire la loro importanza. Difendendosi giustamente dall'accusa di aver voluto dare 'un'interpretazione reazionaria' di Bruno, le preme piuttosto sottolineare la continuità e la rilevanza di una tradizione, che, mediante passaggi successivi e uno sviluppo graduale, giunge alle soglie della scienza. Se in Francis Bacon confluiscono alcune tipiche istanze magiche ‒ la scienza come potenza capace di agire sulla Natura e trasformarla; la visione dell'uomo come essere capace di gestire tale potere ‒ a suo parere anche autori quali John Dee o Robert Fludd potrebbero rivelare, a uno studio più approfondito, aspetti non privi di interesse propriamente scientifico.
È senza dubbio superfluo sottolineare la radicalità della svolta della scienza moderna, segnata fortemente dal passaggio dal mondo percepito come grande animale al mondo come congegno meccanico, retto da leggi uniformi e rigorose. è peraltro importante ricordare come l'immagine organicistica di un mondo dotato di vita e sensibilità comporti una concezione della Natura e del sapere totalizzante e unitaria. Entro tale concezione la parte è sempre pensata in rapporto al tutto, e l'umano sforzo di comprensione del reale si concentra nel rintracciare i modi del dispiegarsi dell'unità nella molteplicità, che a sua volta a quell'unità originaria sempre è collegata e rinvia. L'immagine meccanicistica, invece, mette capo a una fondazione autonoma dei vari ambiti del sapere, retti da propri metodi, criteri e norme.
Se il passaggio è decisivo e i due tipi di sapere, magico e scientifico, si collocano entro e fanno riferimento a visioni del mondo molto diverse, è però anche vero che una determinata visione del mondo non nasce dal nulla né si estingue di colpo. Non è pertanto privo di interesse ricercare passaggi, convivenze e persistenze, e richiamare l'attenzione, sia pur brevemente, su figure e aspetti significativi della storia delle dottrine magiche e astrologiche rinascimentali, in quanto il rinvio a taluni nodi teorici può risultare utile a chiarire il ruolo di queste dottrine nella cultura dell'epoca e a evidenziare eventuali affinità e contrasti con altri settori del sapere, soprattutto con la filosofia naturale. In ogni caso, senza preoccuparsi troppo di verificare il loro grado di compatibilità oppure di conflitto e lontananza dalla scienza, forse è più utile, prendendo atto della loro ampia diffusione, proporsi di conoscerle in modo meno superficiale e generico. A questo proposito si può senz'altro affermare che i frutti più seri e concreti di questi nuovi interessi, più che dibattiti talora mal impostati e sterili, sono senza dubbio da individuare nelle edizioni e traduzioni di testi fondamentali per comprendere tali questioni.
Il punto di partenza e di riferimento della magia naturale del Rinascimento è individuato, a ragione, nel De vita di Marsilio Ficino, che si compone di tre trattati, scritti in tempi diversi (gli ultimi due a dieci anni di distanza dal primo), ma riunificati e dati alle stampe nel 1489 in un unico volume. Nel dedicare la propria opera a Lorenzo de' Medici, l'autore dichiara che, dopo essersi occupato della salute delle anime, grazie alle traduzioni delle opere di Platone e alla composizione della Theologia platonica de immortalitate animorum, da buon medico e figlio di medico, intende adesso trattare della salute dei corpi, specificando subito che questi opuscoli sono diretti a una particolare categoria di lettori, e precisamente a coloro che si dedicano agli studi. Se il primo e il secondo trattato si propongono di offrire consigli idonei a conseguire, rispettivamente, una vita sana e una vita lunga, il terzo, intitolato De vita coelitus comparanda (Come ottenere la vita dal cielo), intende suggerire i rimedi atti a conseguire e potenziare tali risultati grazie ai doni celesti. Come l'autore esemplifica, egli ha aggiunto il terzo opuscolo "per far sì che, come dalla vite ai tralci, così dal corpo stesso del mondo, che è vivo, si propagasse nel nostro corpo, come in un suo membro una vita più vigorosa" (De vita, Proemio, ed. Tarabochia Canavero, p. 95). Il discorso è rivolto agli studiosi, in quanto il genere di vita che essi conducono ‒ che comporta affaticamento mentale, mancanza di un'adeguata attività fisica, intensità di concentrazione, isolamento dai comuni rapporti sociali ‒ risulta bisognoso di particolari cure e attenzioni. Gli influssi di Saturno che presiedono agli uomini di lettere sono caratterizzati, infatti, da una radicale ambivalenza, nel senso che se da un lato risultano indispensabili per favorire le più alte attività del pensiero, dall'altro tendono a produrre effetti indesiderati, primo fra tutti l'eccesso di bile nera o melanconia. La prolungata attività mentale, raffreddando e disseccando il cervello, provoca un'eccessiva esalazione degli spiriti, i sottilissimi vapori che, originati dal sangue ed elaborati dal cuore, ascesi al cervello presiedono a ogni attività sensitiva e di conseguenza razionale. Per compiere nel migliore dei modi le proprie funzioni, gli spiriti dovrebbero essere chiari, tenui, puri, ma il loro eccessivo consumo fa sì che il sangue che resta diventi "denso, secco e nero" e se lo spirito s'intossica di melanconia, l'animo diventa "mesto e timoroso, dal momento che le tenebre interiori riempiono di tristezza e di terrore l'animo molto più di quelle esterne" (ibidem, I, 4, p. 103). È necessario che la bile nera rimanga entro determinate proporzioni perché possa favorire l'ingegno, anziché danneggiarlo e renderlo furioso ‒ e già un famoso passo dei Problemata pseudoaristotelici aveva rilevato la connessione della melanconia con la genialità e il furore profetico, ma anche con la follia ‒ e Ficino si prodiga per suggerire gli accorgimenti atti a conseguire questo fine. Mette in guardia da tutto ciò che dissecca o intristisce e che costituisca abitudini e pratiche a suo dire deleterie, come il coito, il vino, lo studio notturno o determinati cibi e passioni, consigliando invece tutto quanto contribuisce a contrastare la secchezza e la freddezza della bile nera, compresi, oltre a cibi adeguati, anche profumi, suoni, canti e quanto può rasserenare l'animo, come "il guardare frequentemente l'acqua nitida, i colori verde e rosso, l'aver familiarità con i giardini e i boschi, il passeggiare dolcemente lungo i fiumi e per i prati fioriti" o "l'assidua familiarità con uomini d'animo gentile" (ibidem, I, 10, pp. 118-119). Ficino paragona la vita a una lampada, la cui fiamma deve bruciare in modo regolare, evitando che si consumi per l'estinzione o l'eccesso di ciò che l'alimenta, e i rimedi suggeriti insistono sulla qualità dei cibi, la moderazione, l'equilibrio, la pulizia, la purezza dell'aria respirata, e soprattutto sulla necessità dell'esposizione alla luce: "sotto l'ombra ci copriamo di torpore, di muffa e di ruggine. Viviamo sotto il sole, alla luce" (ibidem, II, 4, p. 141).
Poiché anche i vecchi sono sotto l'influsso di Saturno, anch'essi dovranno stare in guardia dai pericoli della bile nera e compensarne gli effetti nefasti. Se la deplorazione degli ingannevoli allettamenti di Venere, nemica di Saturno, risulta prevedibile, più sorprendente, in un testo così stilizzato e sorvegliato, appare il consiglio di rinvigorire la "pianta umana", quando "subito dopo il decimo e talvolta dopo il nono settenario" tende a inaridirsi, ricorrendo a latte e sangue umani, con un fuggevole ma inquietante cenno alle vampiresche consuetudini delle streghe:
questo albero umano deve essere bagnato con giovanile liquido umano, per far sì che riprenda vigore. Scegli dunque una giovane donna sana, formosa, lieta, di complessione temperata, e succhiane avidamente il latte quando la luna è crescente […]. È una opinione comune e antica che certe vecchie saghe, che volgarmente sono chiamate anche streghe, succhiano il sangue degli infanti, per ringiovanire nelle forze. Perché anche i nostri vecchi, privati di ogni altro rimedio, non possono succhiare il sangue di un giovinetto? Di un giovinetto consenziente, dico, sano, lieto, di complessione temperata, che abbia sangue ottimo e forse troppo abbondante. Ne succhino dunque, come le sanguisughe, una o due once da una vena del braccio sinistro appena aperta […]. (ibidem, II, 11, pp. 156-157)
Ma è il terzo e ultimo trattato del De vita che si presenta come il più significativo, in quanto la già curiosa terapia medica di Ficino viene ad acquistare un carattere specificamente magico e astrale. Se nelle pagine precedenti il fine di aiutare i nati sotto Saturno a conseguire una vita più lunga e più serena si manteneva entro i confini della Natura elementare, nel Libro III il discorso si dilata fino a coinvolgere il Cosmo intero. Le cure volte a rendere lo spirito maggiormente puro e agile perché eserciti nella maniera più appropriata possibile le funzioni di mediazione fra anima e corpo, fra sensitività e discorso razionale, hanno ora lo scopo di potenziarne le qualità naturali creando le condizioni perché esso stabilisca un rapporto vantaggioso con lo spirito universale, veicolo dei doni dell'anima del mondo.
Già Plotino, in passi molto suggestivi della IV Enneade (cap. 32), aveva delineato l'immagine di un Universo come di "un vivente unitario, che abbraccia i viventi tutti che son nel suo interno ed è dotato di un'anima unitaria diffusa su tutte le sue parti". In tale prospettiva, ogni singola cosa è sì una parte distinta da una propria individualità, ma al tempo stesso è collegata e partecipe della vita comune. Fra le cose esistono pertanto sia vincoli coesivi generali, in virtù del collegamento fra le parti e il tutto, sia specifici vincoli di affinità e di simpatia fra cose simili, che sono tali in quanto soggiacciono alle medesime influenze, e possono essere collegate anche se non sono contigue. D'altra parte, non deve sorprendere che fra le cose s'instaurino anche rapporti di contrasto e di opposizione; in quanto singole e differenziate, esse tendono infatti al proprio vantaggio individuale e possono esercitare su quelle avvertite come ostili un'azione distruttiva, come "il fuoco che passa, inaridendo, o come bestie enormi, correndo, travolgono oppure calpestano animali minori". Tuttavia, da un punto di vista globale ogni cosa contribuisce all'armonia generale e ad attuare, seppure in forme diverse, la vita unitaria del tutto, che si nutre e si realizza grazie al formarsi e al disfarsi di ogni creatura.
Entro questo contesto, la magia è possibile in quanto s'inserisce in una Natura che non è una casa inanimata, ma è tutta percorsa da attrazioni e repulsioni. Il mago è colui che, conoscendo le simpatie e i contrasti, e in genere la qualità dei vincoli, è in grado di agire su di loro e di collegare cose simili, come l'agricoltore sposa gli olmi alle viti.
Se Plotino esortava l'uomo a emanciparsi dagli allettamenti sensibili e passionali per concentrarsi sulla propria razionalità e volgersi alla contemplazione intellettualm del mondo superiore, Ficino, in virtù della rilettura ermetica dei testi neoplatonici, opera una piena riabilitazione della Natura-maga; così, l'uomo non si sente più prigioniero della Natura, come di una Circe allettatrice, ma può attivarne e incrementarne le energie vitali a proprio beneficio. Già in significativi passi del giovanile commento al Simposio platonico Marsilio evidenziava i nessi fra amore, magia e Natura. Nel cap. X dell'Orazione sesta, alla questione del perché Diotima, fra le altre prerogative, attribuisca ad Amore anche quella di mago, risponde sottolineando le affinità fra amore e magia nel far riferimento al comune animale del mondo e ripropone il paragone dell'agricoltore.
Ma perché si chiama l'amore mago? Perché tutta la forza della magica consiste nello amore; l'opera della magica è uno certo tiramento dell'una cosa dall'altra per similitudine di natura. Le parti di questo mondo come membri d'uno animale dependendo tutte da uno Auctore, si connectono insieme per comunione di natura, e però come in noi nel cervello, polmone, cuore, fegato e gli altri membri, traggono l'uno dall'altro qualche cosa, e scambievolmente si favoreggiano, e alla passione dell'uno compatisce l'altro, così i membri di questo grande animale, cioè tutti e corpi del mondo, intra loro concatenati, accattano intra loro e prestansi loro nature. Per questa comune parentela nasce amore comune, da tale amore nasce el comune tiramento, e questa è la vera magica […]. Adunque l'opere della magica sono opere della Natura e l'arte è ministra; perché l'arte quando s'avede che in qualche parte non è intera convenientia tra le nature, supplisce a questo in tempi debiti per certi vapori, qualità, numeri, figure, così come nell'agricoltura la Natura parturisce le biade, e l'arte aiut'a preparare la materia. (El libro dell'amore, ed. Niccoli, pp. 144-145)
Persuaso di questa profonda solidarietà fra uomo e Cosmo, nel De vita coelitus comparanda Ficino si propone di fornire istruzioni e suggerimenti perché l'uomo, con il ricorso a 'esche' opportune, sia in grado di catturare le energie astrali capaci di incrementare i valori vitali e di contrapporsi a quelli oscuri e negativi; grazie a erbe, animali, pietre, colori, sapori, canti che abbiano determinate affinità con gli influssi di un certo pianeta sarà possibile ottenere i suoi doni. Il fine più generale e autentico della sua terapia astrale consiste nel fare in modo che lo spirito umano, adeguatamente purificato e reso il più possibile celeste e solare, riesca a stabilire un contatto più intenso e benefico con lo 'spirito' del mondo, prodotto dall'Anima del mondo e per mezzo del quale ogni cosa è generata; corpo sottilissimo, al limite fra anima e corpo, esso "è presente e attivo ovunque in ogni cosa, autore prossimo di ogni generazione e di ogni moto" e "per sua natura è tutto splendente e caldo e umido e vivificante"; a questo spirito fa riferimento Virgilio in un famoso passo del Libro VI (vv. 726-727) dell'Eneide: spiritus intus alit totamque infusa per artus / mens agitat molem et magno se corpore miscet (De vita, III, 3, p. 198).
Se per sua natura il nostro spirito è affine a quello cosmico, esso potrà diventare ancora più affine e solare grazie all'impiego di arti umane e naturali; oltre a una dieta adatta:
gioveranno anche un movimento frequente e leggero e un opportuno riposo e un'aria mite e serena e lontana ugualmente dal caldo eccessivo e dal gelo, e soprattutto un animo lieto. Ancora, non sarà solare se non sarà caldo, sottile e luminoso. Lo renderai sottile e luminoso, se eviterai le cose tristi, dense e oscure; se userai internamente ed esternamente cose luminose e liete; se riuscirai a prendere su di te molta luce di giorno e di notte; se allontanerai le sozzure, l'ozio e il torpore; ed in primo luogo eviterai le tenebre. (ibidem, III, 4, p. 200)
Così preparato esso sarà in grado di assorbire e accogliere in maggior quantità lo spirito universale, che è poi il vero scopo che Ficino intende conseguire, come afferma nel capitolo più famoso dell'opuscolo, in cui è celebrata liricamente la vita dell'animale mondano e l'uomo è esortato ad accordarsi con i moti e i ritmi della vita universale.
A questo tendono invero tutte queste nostre osservazioni, a che il nostro spirito, preparato e purificato secondo le regole con mezzi naturali, per mezzo dei raggi delle stelle opportunamente ricevuti accolga in sé quanto è più possibile dello spirito stesso della vita del mondo. La vita del mondo in verità, che è insita in tutte le cose, si propaga in modo evidente nelle erbe e negli alberi, che sono quasi i peli e i capelli del suo corpo. Cova inoltre nelle pietre e nei metalli, come nei denti e nelle ossa. È diffusa anche nelle conchiglie viventi, attaccata alla terra e alle pietre. […] Questa vita […] infine vivifica quanto più è possibile i corpi celesti, che sono quasi il capo o il cuore o gli occhi del mondo […]. Pertanto presso il movimento dell'acqua splendente, od anche dell'aria serena e del fuoco un po' distante e del Cielo raccoglierai il movimento della vita del mondo, se anche tu stesso ti muoverai lievemente e quasi in modo simile, facendo alcuni giri secondo le tue forze, evitando la vertigine, percorrendo con lo sguardo le cose celesti, e rivolgendo ad esse la mente. (ibidem, III, 11, pp. 220-221)
Alla magia naturale sono dedicate alcune pagine molto significative di uno dei testi più famosi del primo Rinascimento, l'orazione De hominis dignitate di Giovanni Pico della Mirandola. Lo scritto nasceva come discorso introduttivo a quella pubblica discussione, aperta a tutti i dotti del tempo, che, negli auspici del giovane e brillante conte della Mirandola, avrebbe dovuto aver luogo a Roma all'inizio del 1487; suo scopo era dibattere i contenuti delle 900 tesi (Conclusiones philosophicae, cabalisticae et theologicae) da lui attentamente elaborate sulla base dell'intera tradizione filosofica, teologica e sapienziale.
Nelle pagine dell'orazione l'autore propone una distinzione (che si richiama da vicino alle prime due delle 26 tesi dedicate all'argomento e che diventerà topica nel dibattito rinascimentale) fra una magia che, ricorrendo all'opera demonica, risulta esecrabile e da condannare, e una magia lecita, che è il perfetto compimento della filosofia naturale (naturalis philosophiae absoluta consummatio). Le due magie sono distinte radicalmente da una serie di nette e ripetute contrapposizioni. La prima, che meglio si deve chiamare 'goezia', è la più ingannevole e vana delle dottrine; praticata in modo segreto e nelle tenebre, è sempre stata disdegnata dai filosofi. La vera magia, al contrario, ha ottenuto il consenso da parte dei sapienti e dei saggi, e, in quanto parte più alta e più degna della filosofia, è stata sempre ricercata e praticata con gloria; filosofi come Pitagora e Platone hanno intrapreso lunghi viaggi pur di apprenderla e insigni studiosi, greci, arabi e latini, l'hanno esercitata con onore. Le tesi terza e quarta affermano che essa è la parte pratica, e la più nobile, della scienza naturale.
Per meglio precisare il suo pensiero, Pico si richiama a Plotino, ricordandone la definizione del mago come "ministro e non artefice della Natura"; se la cattiva magia non è né arte né scienza, quella filosofica non compie miracoli, ma si pone al servizio della Natura, facendo emergere "dai suoi oscuri recessi le virtù sparse e seminate nel mondo dalla bontà di Dio". In quanto conosce l'armonia e i legami di simpatia che collegano le cose, essa è capace, "adottando per ogni singola cosa la naturale e appropriata seduzione", di portare alla luce "i prodigi nascosti nei recessi del mondo, nel seno della Natura, nei depositi misteriosi di Dio", e Pico conclude con il paragone plotiniano dell'agricoltore: "come il contadino marita gli olmi alle viti, così il mago la Terra al Cielo, ossia gli elementi inferiori con le facoltà e le virtù degli elementi superiori" (De hominis dignitate, ed. Garin, pp. 152-153). La quinta tesi ribadiva che "non c'è nessuna virtù in Cielo e sulla Terra che il mago non sia in grado di attuare e di unire"; la tredicesima, in modo conciso e icastico, affermava: magica operari non est aliud quam maritare mundum. Nell'Apologia, che Pico dovette stendere per difendere le tesi giudicate sospette da una commissione di teologi nominata da papa Innocenzo VIII, egli ribadirà il carattere naturale della magia, scienza che "presuppone la conoscenza esatta e compiuta di tutte le cose naturali", le cui operazioni consistono nell'attuare e unire le virtù naturali e i cui effetti mirabili derivano dalla loro corretta applicazione.
Anche Ficino, a conclusione dei libri De vita, scriverà un'Apologia, per difendersi da polemiche e critiche, nella quale ribadiva la piena compatibilità fra religione, medicina e astrologia, e la liceità di potenziare i benefici dei rimedi proposti con adeguati influssi celesti. Egli si mostra alquanto reticente soltanto riguardo a uno dei punti più controversi affrontati con una certa ampiezza nel terzo opuscolo, la tormentosa questione delle immagini o talismani, cioè se sia possibile, oltre che lecito, seguendo determinati rituali, catturare e includere gli influssi celesti in pietre e oggetti predisposti a tal fine grazie all'incisione di caratteri, figure, lettere. Riguardo a tale delicata questione, in cui sembra avvertirsi più fortemente il legame fra la nuova magia e la tradizione magica medievale ‒ la fonte cui Ficino ricorre a questo proposito è il manuale magico noto come Picatrix, opera di un autore arabo del XIII sec. diffuso in traduzione latina ‒ l'autore afferma di essersi limitato a descrivere le immagini, sospendendo l'assenso nei confronti della loro efficacia. Quindi, a sua volta, passa a distinguere due generi di magia, la profana, che si fonda sul culto dei demoni, che è da respingere, e la naturale, che è legittima e degna di lode, in quanto "per mezzo di cose naturali raccoglie i benefici celesti per la buona salute dei corpi". Se anche nel Vangelo i sapienti che guidati dalla stella andarono ad adorare Cristo sono chiamati magi, non si deve temere il nome di mago, "che non indica un uomo malevolo e un incantatore, ma sapiente e sacerdote", e, ancora una volta, per spiegarne il ruolo e le attività, si ricorre al paragone con l'agricoltore: "come l'agricoltore, per procurare da vivere agli uomini, prepara il campo tenendo conto del clima, così quel sapiente, quel sacerdote, per la salute degli uomini, regola e adatta le cose inferiori del mondo a quelle superiori". Nelle battute conclusive Ficino ribadisce in modo eloquente che il mondo è tutto animato, dicendo che il cielo celebra le nozze con la Terra sua moglie grazie ai raggi stellari ("la illumina per ogni dove con i soli raggi delle stelle, che sono come i suoi occhi; illuminandola la feconda e genera i viventi", De vita, Apologia 1, pp. 298, 300), e poiché "nulla è più ampio del Cielo, nulla è più pieno di vita" (ibidem, p. 303) esorta l'uomo ad abbandonare le preoccupazioni e a vivere con spirito lieto, accogliendo e partecipando dell'ampiezza e della luce celeste.
Indubbie affinità collegano la concezione della magia naturale di Ficino e di Pico, anche se non mancano differenze e intonazioni diverse. Il riferimento alla cabala e alla tradizione ebraica da parte di Pico, infatti, non si limita a configurarsi come una semplice integrazione al suo già multiforme panorama culturale; esso conferisce piuttosto nuovi accenti anche alla magia naturale, che, accostata alla cabala, diviene uno dei gradini della scala di Giacobbe, venendo a inserirsi nel laborioso itinerario di iniziazione che porta alla verità divina. La settima e l'ottava delle conclusioni magiche fanno riferimento ai miracoli di Cristo, e la nona, una delle più audaci e ambigue, e che la commissione papale annovererà fra le tredici censurabili, afferma che nulla est scientia quae nos magis certificet de divinitate Christi quam magia et cabala (non vi è alcuna scienza che ci assicuri della divinità di Cristo più della magia e della cabala).
Le strade dei due filosofi divergono invece nettamente per quanto riguarda l'astrologia. Alla fine della sua breve vita, fra il 1493 e il 1494, Pico scrive i dodici libri delle Disputationes adversus astrologiam divinatricem, che, rimasti manoscritti fino alla sua morte ed editi a cura del nipote Giovanni Francesco soltanto nel 1496, costituiscono il più ampio repertorio di argomentazioni antiastrologiche, cui anche nei tempi successivi attingeranno gli oppositori dell'arte. L'attacco contro l'astrologia è così duro e a tutto campo, e il rifiuto delle dottrine dei Caldei, cui lui pure era stato sensibile in gioventù, così drastico, che l'opera è stata vista come frutto del suo avvicinarsi, negli ultimi anni di vita, alle posizioni del Savonarola. È questa la tesi di Lucio Bellanti, il medico e astrologo senese che nell'opera De astrologica veritate replicherà con estrema durezza alle argomentazioni sostenute da Pico; oltre ad accusarlo d'incompetenza e di malafede, sosterrà che le ragioni del repentino e incomprensibile voltafaccia andavano ricercate nelle pressioni e nelle motivazioni politico-ideologiche del frate domenicano, irritato dalle previsioni astrologiche sull'avvento di un falso profeta che circolavano già da molti anni.
Il testo delle Disputationes ‒ le quali, a quanto ci informa il nipote Giovan Francesco, avrebbero dovuto essere il primo di una serie di trattati volti a confutare ogni genere di superstizione ‒ è ponderoso, ricco di riferimenti eruditi riferiti all'intera letteratura disponibile sull'argomento, in qualche caso prolisso e più retorico-polemico che filosofico. Il massiccio cumulo di argomentazioni converge verso l'unico obiettivo di mostrare come la sedicente scienza degli astri e le sue arroganti pretese divinatorie risultino del tutto prive di fondamento razionale e, in ogni caso, moralmente inaccettabili e teologicamente dannose.
I primi due libri hanno una funzione introduttiva e si propongono di mostrare ‒ in verità tendendo più all'accumulo di spunti polemici che a una corretta informazione ‒ come tale dottrina sia stata disprezzata e condannata dai filosofi, dai padri della Chiesa e dai testi sacri, nonché messa al bando dalle leggi civili e canoniche, e risulti in ogni caso tanto inutile quanto nociva.
Con il terzo libro si entra nel vivo della questione, in quanto vi si denuncia l'inconsistenza filosofica della dottrina, confutando quel principio generale che, pur variamente articolato, sta alla radice delle dottrine astrologiche, vale a dire che il cielo sia causa prossima degli eventi sublunari. Il cielo, in quanto causa universale e uniforme, può soltanto dare luogo a una causazione universale e non certo alla varietà degli eventi del mondo sublunare, la cui specificità dovrà essere messa in relazione con la molteplicità delle cause prossime. Il cielo poi agisce solamente in virtù del moto delle sfere e della luce, alla cui diffusione consegue il calore, e su questi temi Pico si sofferma in una bella pagina dagli echi neoplatonici: la luce "è la più eccelsa qualità dei corpi e il grado primo di vita della natura corporea", e "prepara e dispone alla vita il corpo capace di vivere". Alla luce consegue un calore celeste "efficacissimo e sommamente salutare, che penetra tutto, riscalda tutto, ordina tutto"; e ancora: "La forza di questo tanto benefico calore noi osserviamo in tutto il mondo corruttibile, sia negli esseri embrionali che in quelli compiuti, sia nei non viventi che nei viventi; contiene infatti e conserva gli elementi, come loro luogo e loro forma e quasi loro artefice, tutto avvolgendo, ma ovunque diffondendosi intimamente" (Disputationes, III, 4, ed. Garin, I, p. 197). Pico non si stanca di ribadire i molteplici errori degli astrologi che sono quasi sempre in disaccordo fra di loro, equivocano e fraintendono le dottrine degli altri, sono spesso ignoranti e incoerenti. Nel far questo egli non intende certo, come pure altri faranno, distinguere la falsità degli interpreti dalla verità dell'arte; quest'ultima è condannata integralmente e per sé stessa, per le sue connaturate implicazioni divinatorie. Gli astrologi, infatti, "sottopongono al Cielo molte cose che non ne dipendono", e che, se anche ne dipendessero, non potrebbero "essere da loro previste come essi credono" (ibidem, I, I, p. 89). Quanto a ciò che dipende dal cielo, Pico afferma che non gli si deve attribuire né troppo né troppo poco; le cose che non bisogna sottoporgli sono l'anima e la mente, che, in quanto parti più nobili del Creato, nella scala dell'essere risultano superiori al cielo, che è pur sempre di natura fisica. Ma non si deve commettere neppure l'errore opposto e avere un'opinione così bassa del cielo da ricorrere a esso per spiegare caratteristiche corporee, tendenze e inclinazioni che trovano invece la loro spiegazione nelle cause prossime, come il clima, l'ambiente, le abitudini. Se l'unico elemento grande dell'uomo è l'anima, e se essa è superiore al cielo, tutto il resto è talmente irrilevante da non "meritare come causa il Cielo"; a questo proposito Pico osserva da lontano, con sguardo distaccato e disincantato, le vicende terrene degli uomini, che se confrontate con l'immensità celeste gli paiono irrilevanti e vane, come a noi pare privo di senso e d'importanza l'affannarsi di un:
nero formicaio, nel quale vi sono alcune formiche superiori alle altre per forza e per grandezza; e vi sono vittorie, guerre, paci, doveri, fatiche, miseria e ricchezza, tutte cose che a noi che guardiamo appaiono esigue e senza differenza, un nulla; così questi nostri corpiccioli, le nostre vicende, i nostri re, le nostre provincie, le guerre, i patti, le nozze, sono un nulla dinanzi al Cielo al cui confronto tutta la Terra, di cui gli uomini si contendono una particella col ferro e col fuoco, è un sol punto. Non è perciò tale la grandezza delle cose terrene da non poter avere altra causa oltre il Cielo. (ibidem, III, 27, I, p. 417)
Se anche le imprese e le glorie ritenute straordinarie dagli uomini, ma che in realtà risultano irrilevanti rispetto al tutto, non meritano di essere attribuite al cielo, a maggior ragione non dobbiamo "attribuire alle stelle i nostri errori e […] accusare il Cielo delle nostre colpe". A questo proposito egli nega con decisione la dottrina, sostenuta anche da Tommaso d'Aquino, secondo la quale le stelle influiscono solamente sulla parte sensibile e corporea, inducendo propensioni che la parte razionale può sempre vincere e contrastare, soluzione questa che consentiva di ammettere il parziale condizionamento celeste senza pregiudicare la libertà e la responsabilità della scelta.
Secondo Pico, le inclinazioni malvagie e disoneste non possono in nessun modo dipendere dagli astri; le cause naturali, e in particolar modo quelle che dipendono più direttamente dal cielo, espressione fedele delle leggi divine, non possono trasmettere propensioni al male e al peccato, al pari di cattivi servitori e ministri; ciò turberebbe profondamente l'ordine della Natura: "E che è mai infine quest'ordine della Natura, questo consenso, questo saggio disegno, se le cose che la ragione naturale non vorrebbe fossero fatte, cerca poi in ogni modo che vengan compiute da quelle che della Natura sono parti grandi, potenti, ottime, principali?" (ibidem, IV, 9, I, p. 481). Pico, inoltre, prende decisamente le distanze da quegli aspetti dell'astrologia i quali, più che occuparsi degli individui, delle loro caratteristiche e dei loro destini, intendono collegare a determinate coordinate astrali grandi eventi collettivi, quali terremoti, pestilenze, guerre, mutazioni climatiche, ma anche il sorgere e il tramontare delle civiltà. Con particolare asprezza è condannata la dottrina delle grandi congiunzioni, elaborata dagli autori arabi, e in particolare da Albumasar (fabulosissimus), ma diffusa anche in ambienti ebraici e cristiani; essa collegava alle congiunzioni di Giove e Saturno nei diversi segni, e al loro trapasso di trigono in trigono (vale a dire il loro verificarsi, secondo precise scansioni temporali, nei segni di fuoco o di terra o d'aria o d'acqua), anche l'avvento delle religioni e le loro caratteristiche. Secondo Pico, nessuna religione dipende dalle stelle, e tanto meno quella cristiana, che non è causata né significata da alcun evento naturale.
Pico accentua la separazione fra Natura e 'Sopranatura' per contrapporre con forza l'eccezionalità dell'evento miracoloso e la naturalità; non esita ad affermare che attribuire a cause naturali i miracoli e gli eventi che trascendono la Natura è ancor peggio che negarli, e manifesta tutto il suo dissenso agli autori che avevano tentato di leggere la storia alla luce delle stelle, compreso l'autorevolissimo cardinale Pietro d'Ailly (1350-1420), che si era sforzato di conciliare storia, teologia e astrologia. Secondo Pico, non soltanto non è possibile, ma è empio e da condannare il ricorso a cause naturali e astrali per interpretare eventi miracolosi verificatisi nel passato quali il diluvio, la comparsa della stella alla nascita di Cristo o l'eclisse di Sole alla sua morte; altrettanto empio è il prevedere eventi escatologici quali la venuta dell'Anticristo o quella del Messia da parte degli Ebrei, dal momento che quanto avviene per volontà e intervento divino trascende radicalmente ogni ordine naturale.
Nell'immagine del Cosmo proposta da Marsilio Ficino prevaleva, in virtù della circolazione della vita e dello spirito, la solidarietà fra cielo e Terra, e ciò consentiva l'integrazione della parte al tutto, e la possibilità per l'uomo di partecipare in modo consapevole e attivo alla vita dell'organismo cosmico, grazie alla conoscenza dei suoi vincoli e mediante opportune pratiche volte a raffinare e ad assimilare il proprio spirito a quello celeste.
Nell'ultimo Pico sembra invece prevalere l'intento di sottolineare fortemente la distanza che separa il cielo dalla Terra e la precisa consapevolezza che essa non può certo venire colmata dalla pseudoscienza degli astrologi; questi infatti proiettano nel puro, terso specchio dei cieli il groviglio confuso delle vicende umane e poi, proprio come quei ciarlatani che possono esibire al loro sprovveduto pubblico soltanto quanto hanno prima destramente occultato, leggono nei cieli quello che loro stessi vi hanno posto. Nel proemio alle Disputationes, molto abile e retorico, Pico intende mettere a nudo gli aspetti emotivi e passionali dell'astrologia, consapevole che essi fanno parte delle sue capacità seduttive, e che risultano tanto più insidiosi quanto più occultati e travestiti. L'astrologia è ingannevole e pericolosa, proprio perché "avendo la follia in seno e alimentandola nel profondo, ostenta l'aspetto e l'abito della sapienza"; se la si guarda da lontano e come "attraverso una grata", si è attratti dalla sua bellezza, mentre, se la si esamina da vicino, "la si vede come un'ombra o una larva e, in piena luce, si detesta l'inganno delle tenebre". Nel momento in cui sottolinea la distanza, la separatezza e la purezza del vero cielo divino, denuncia l'ingannevole sostituzione a esso di un falso cielo tutto umano.
Essa mostra da lungi il Cielo e i pianeti, sì che facilmente si crede alla possibilità di prevedere tutto con assoluta sicurezza in uno specchio tanto limpido ed elevato. Ma, se si osserva con più cura, si vede tosto che lo specchio è troppo alto perché le immagini delle cose terrene possano arrivare fin lassù, troppo splendente perché il suo fulgore non accechi la nostra debolezza. Se si guarda più da vicino, si nota che sul suo manto sono intessute effigi mostruose invece di quelle celesti, che le stelle sono trasformate in animali, che il Cielo è pieno di fiabe, che anzi non è il vero Cielo fatto da Dio, ma un Cielo falso, foggiato dagli astrologi. (ibidem, Proemio, I, p. 43)
La complessa polemica di Pico si alimenta di molteplici tematiche e si articola in diversi livelli e punti di vista; in ogni caso, pare indubbio che, mentre respinge ogni equivoca connessione fra cielo e Terra per recuperare una più corretta prospettiva aristotelica, la denuncia dei limiti e delle false promesse dell'astrologia si collega strettamente a profonde istanze morali e religiose. Come è stato sottolineato, la sua opera in diversi punti si configura più come una requisitoria, ora indignata ora irridente, che come una pacata confutazione basata su argomentazioni razionali.
Se è difficile stabilire fino a che punto cogliesse nel segno Lucio Bellanti nell'individuare la figura di Savonarola dietro la denuncia pichiana, è certo comunque che il frate domenicano si affretta a dare alle stampe un Tractato contra li astrologi, per rendere accessibili alle masse, in traduzione italiana e in forma estremamente semplificata, talune delle argomentazioni delle troppo difficili e dotte Disputationes. Nel presentare l'operetta, l'autore rileva la pericolosità dell'astrologia giudiziaria, sottolineando che essa non soltanto è contraria alla fede e alla Scrittura, ma è "tutta vana" e non ha in sé "alcuna solidità, né è degna del nome di scienzia o di arte, ma più tosto di fallacia umana e superstizione diabolica". La polemica antiastrologica è così dura che il domenicano Tommaso Buoninsegni, nel dare alle stampe, nel tardo Cinquecento, la traduzione latina dell'operetta savonaroliana, la farà precedere da un'ampia introduzione, in cui cerca di correggere il tiro e di smussare le punte più intransigenti della polemica; il discorso era riportato entro la linea che si ricollegava a Tommaso d'Aquino, il quale ammetteva gli influssi stellari sulle inclinazioni e sulle propensioni corporee.
Il nipote di Pico, Giovan Francesco, a sua volta acceso savonaroliano, accoglierà le argomentazioni dello zio nel Libro V del De rerum praenotione, mentre nel De veris calamitatum causis nostrorum tempororum attaccava duramente le posizioni di Agostino Nifo (1473-1546). Quest'ultimo, in un opuscolo volto a indagare le cause delle numerose sciagure ‒ pestilenze, morti di prìncipi, stragi, carestie ‒ che si erano abbattute sull'Italia alla fine del secolo, le aveva messe in relazione all'infittirsi di tipici aspetti celesti, quali eclissi, comete e congiunzioni, proclamando d'ispirarsi a Tolomeo, che, oltre a essere un ottimo astronomo, è detto 'principe degli astrologi' per avere congiunto scienza degli astri e filosofia naturale. Ostile a qualsiasi connessione fra calamità e posizioni celesti, Giovanni Francesco ribadisce invece che sola e vera causa delle sciagure è la provvidenza divina, che con esse intende punire gli uomini dei loro peccati.
La polemica antiastrologica viene pertanto a radicarsi su un terreno tutto teologico e, come in Savonarola, è soprattutto volta a preservare il livello soprannaturale della profezia e degli altri carismi dal pericolo di contaminazioni profane e dalla possibile erosione di spiegazioni naturalistiche.
La visione più lucida e rigorosa dei problemi teorici riguardanti i prodigi, gli oracoli, gli influssi astrali è offerta dal De naturalium effectuum causis sive de incantationibus di Pietro Pomponazzi. Noto con il titolo più breve di De incantationibus, il testo, scritto nel 1520, godette durante la vita dell'autore di una circolazione manoscritta sotterranea, e vide la luce solamente nelle stampe postume di Basilea (1556, 1567), a cura di Guglielmo Grataroli, un medico italiano passato al calvinismo. L'intento centrale dell'opera, che le conferisce unità, spessore e coerenza, è quello di provare come i fatti considerati prodigiosi possano trovare un'adeguata spiegazione razionale nell'ambito della Natura, senza bisogno di far ricorso ad angeli e a demoni.
Tale impostazione consente di muoversi entro le coordinate della filosofia peripatetica, che non ammette entità astratte se non le intelligenze che presiedono al movimento delle sfere celesti. Aristotele, in realtà, non ha espressamente affrontato simili questioni (forse perché, vista la loro delicatezza, temeva di incorrere in qualche persecuzione, ma si può anche pensare che gli eventuali testi da lui scritti in merito siano stati distrutti da chi riteneva che risultassero pericolosi per la religione); malgrado ciò, Pomponazzi si cimenta nel compito, della cui novità e arditezza è pienamente consapevole, di spiegare gli eventi considerati straordinari alla luce di principî deducibili dai testi aristotelici.
L'occasione di meditare su questa parte della filosofia naturale gli è offerta da un amico medico, che gli riferisce, sollecitando la sua opinione, di talune guarigioni portentose ottenute da un incantatore con il ricorso soltanto a parole e formule, nonché della capacità di costui di far muovere un setaccio e di far apparire immagini in una bacinella d'acqua. Il De incantationibus, che risulta di lettura assai ostica in quanto è un incalzante susseguirsi di sottili argomentazioni a favore o contro le soluzioni che via via sono proposte, si configura come uno straordinario repertorio di fatti prodigiosi ricavati da una tradizione molto ampia, che attinge da filosofi e storici classici quali Plinio il Vecchio, Plutarco, Valerio Massimo, Svetonio, e da autori medievali, quali Avicenna, l'Alberto Magno del citatissimo De mineralibus et lapidibus, Tommaso; non mancano importanti riferimenti al platonico Ficino.
Pomponazzi raramente solleva dei dubbi nei confronti della verisimiglianza dei fatti ricordati, anche di quelli più improbabili; se è lecito pensare che taluni episodi non debbano essere creduti alla lettera in quanto favole poetiche o volgari trucchi, nella maggior parte dei casi ci troviamo di fronte a fatti tramandati da autori degni di fede e che pertanto necessitano di una comprensione adeguata. Per offrire spiegazioni che si mantengano entro i confini della Natura, Pomponazzi si appella a diversi tipi di argomentazione, ricordando innanzi tutto le proprietà di erbe, pietre, animali usati in medicina. Si tratta soprattutto di proprietà occulte, che, pur non risultando né visibili né spiegabili, producono effetti innegabili e sconcertanti per chi non le conosce; a questo proposito sono ricordati, oltre all'attrazione del ferro da parte di un magnete, altri classici esempi: la remora, capace di arrestare pesanti imbarcazioni sospinte dai venti e dai remi; la torpedine, che induce paralisi anche senza contatto diretto; il basilisco, che infetta tutta l'aria intorno; il lauro, che può scacciare i fulmini, così come esistono anche erbe efficaci nell'indurre o placare piogge, tempeste e grandinate.
Fin da questo primo livello di spiegazione, Pomponazzi non manca di sottolineare come proprio grazie alla conoscenza e all'utilizzazione di virtù occulte, ma pur sempre naturali, taluni tendano ad approfittare della 'ingenuità' popolare, facendo credere alle persone non istruite di ottenere risultati prodigiosi grazie all'intervento di angeli e demoni. D'altra parte, è anche vero che le persone rozze e ignoranti, non riuscendo a farsi una ragione di operazioni per loro non comprensibili, hanno sospettato di magia e anche di necromanzia filosofi come Pietro d'Abano e Cecco d'Ascoli, e l'autore non manca a questo proposito di rilevare come, al contrario, molti altri, che sono stati creduti santi, con ogni probabilità furono solamente degli scellerati (De incantationibus, 4, 1).
Prosegue quindi ricordando la posizione intermedia dell'uomo tra il livello animale, inferiore, e quello, superiore, divino, e la sua partecipazione, sia pure in misura e proporzioni differenziate, alle qualità di entrambi i livelli ("per questo l'uomo è detto 'piccolo mondo', poiché tutta la Natura, tanto degli esseri superiori quanto degli inferiori, è compresa nella natura umana", ibidem, 2, 4, p. 24). In virtù di tale ruolo, pare del tutto legittimo ammettere che anche in alcuni individui particolari si ritrovino, proprio come in talune erbe, animali e pietre, specifiche virtù, efficaci in determinati casi e per precise finalità. Anche a questo proposito sono ricordati esempi topici, come quei due giovinetti di cui parla Alberto Magno, capaci di aprire le porte chiuse uno col lato destro, l'altro con quello sinistro del corpo, o le capacità curative delle malattie della milza possedute dall'alluce di Pirro. Sono presenti anche riferimenti alle virtù taumaturgiche degli imperatori romani o del re cristianissimo, all'abilità degli Psilli e dei Marsi di maneggiare serpenti e guarirne i morsi velenosi, anche se onestamente è ricordato il recente caso di un modenese che, pur trattando i rettili "come la chioccia i pulcini", era morto di una morte dolorosissima in seguito a un morso di particolare virulenza.
Un'ulteriore, importante possibilità di spiegazione del prodigioso va ricercata nei poteri dell'immaginazione e delle passioni che ne conseguono. Pomponazzi cita passi di Aristotele e di Avicenna volti a provare "l'obbedienza della Natura ai pensieri" e afferma come determinate situazioni possano indurre modificazioni nel comportamento e anche nel corpo (quando, per esempio, le galline vincono i galli in combattimento, tendono a comportarsi come i maschi, alzano le creste e talora crescono loro persino gli speroni). Egli si sofferma in particolare proprio sulle dottrine del medico arabo, che sottolineavano i poteri dell'anima sul corpo; queste sono reinterpretate in una prospettiva più fisica, supponendo che tali poteri non derivino dal semplice e immediato comando dell'anima, bensì dall'emissione di vapori da parte di chi agisce che inducono alterazioni su chi patisce. Inoltre, è riportato un lungo passo del Libro XIII della Theologia platonica, nel quale Ficino si sofferma a descrivere le alterazioni fisiche indotte dall'immaginazione e dai quattro affetti più forti: il desiderio, il piacere, la repulsione e il dolore. Quando sono di particolare intensità, essi fanno tremare, impallidire, arrossire; il solo ricordo può provocare nausea e vertigine, la compassione induce sofferenza, e talora, per un eccesso di gioia o di dolore, può anche sopravvenire la morte. Tutto ciò prova come "la natura del corpo sia del tutto sottomessa ai moti dell'anima"; se già la tradizione medica proclamava che la fiducia nel medico da parte del paziente costituiva un fattore fondamentale per la guarigione, la rigorosa applicazione di simili principî può portare però a conseguenze sconcertanti, come, per esempio, che le estasi o le stigmate dei santi siano prodotte dall'intensità dell'immaginazione. Un passo successivo è poi costituito dalla possibilità che passioni di particolare forza possano indurre effetti transitivi, cioè imprimere alterazioni anche su altri; l'esempio classico è quello delle voglie impresse nel corpo del nascituro dal desiderio della madre, ma si ammette anche che uno sguardo carico di odio e di malvagità possa avere effetti nocivi, sempre a causa dell'emissione di sottilissimi vapori ed esalazioni, soprattutto sulle persone più delicate come i bambini.
Pur ribadendo a più riprese che i miracoli cristiani fanno eccezione, in quanto dipendono dal diretto intervento divino e da cause che oltrepassano la Natura, Pomponazzi è pienamente consapevole della possibile ostilità dei teologi nei confronti di questo sistematico processo di naturalizzazione del prodigioso; esso sconfina infatti nell'empietà, quando si afferma, a proposito delle reliquie dei santi, che, essendo in gioco l'immaginazione dei credenti e i supposti poteri delle reliquie stesse, ossa di cani credute ossa di santi produrrebbero gli stessi effetti.
Un simile processo non si arresta neppure di fronte alla comparsa delle religioni, spiegata con precisi riferimenti agli aspetti astrali. Sullo sfondo di tutto il trattato è presente l'influsso trasmesso dai corpi celesti, che si configurano come cause seconde e strumenti di cui si serve la prima causalità divina, non potendo istituire, nella sua perfezione, rapporti e contatti diretti col mondo sublunare. Esso acquista particolare rilievo proprio per spiegare grandi fenomeni collettivi e soprattutto l'avvento di nuove religioni; queste, comportando mutamenti grandissimi di riti e di costumi, sono accompagnate da segni prodigiosi e dalla comparsa di uomini capaci di operare cose miracolose, come "indurre e rimuovere le piogge, le grandini, i terremoti e cose simili, governare i venti e i mari, guarire molte specie di dolori, svelare segreti, predire il futuro e ricordare il passato" (De incantationibus, 12, 8, p. 187). L'apparato miracolistico-profetico, che accompagna gli esordi di una nuova religione, per un certo periodo va crescendo d'intensità, per poi attenuarsi col tempo e quindi estinguersi del tutto; anche le religioni infatti, come ogni altra formazione e organismo, percorrono le varie tappe del ciclo vitale e rientrano nell'implacabile, eterna legge della vicissitudine. A questo proposito Pomponazzi non esita a sottolineare la crisi del cristianesimo del suo tempo, l'affievolirsi e il venir meno dei carismi degli inizi: "Adesso nella nostra religione tutte le cose vengono meno, i miracoli cessano, se non finti e simulati; in effetti sembra essere vicina la fine" (ibidem, 12, 8, p. 189).
Nel trattare della causalità astrale, Pomponazzi non può evitare di affrontare problematiche alquanto complesse e delicate, come quella riguardante i limiti della libertà dell'uomo rispetto al condizionamento celeste o quella sul ruolo degli astri nell'originare il male e il peccato. Pur riconoscendo il forte peso dell'influsso astrale, egli salva, entro margini assai ristretti, la libertà del volere umano e, riguardo alla seconda, drammatica questione, tende a relativizzare quello che gli uomini considerano male e a inserirlo in una visione globale dell'Universo, la cui bellezza e perfezione si manifesta e realizza proprio nella varietà e nella diversità. Vero male è soltanto quello di colpa, cioè il peccato, che consegue alle scelte dell'uomo; dunque sbagliano quanti accusano gli astrologi di far dipendere ogni male dalla coazione delle stelle. Pomponazzi esprime quindi un giudizio molto duro su Pico a cui allude senza citarlo esplicitamente; nel suo libro non c'è niente "se non arroganza e petulanza, niente di buono oltre una forma ornata" (ibidem, 12, 5, p. 177) ed egli o ha frainteso le dottrine astrologiche o le ha volutamente denigrate, probabilmente a causa, come taluni hanno suggerito, della regia occulta di Savonarola.
Agli influssi stellari sono ricondotti anche altri molteplici fenomeni prodigiosi o di difficile comprensione, come presagi, divinazioni, oracoli, apparizioni e perfino metamorfosi. Se Pomponazzi è propenso a credere che la trasformazione dei compagni di Ulisse in animali per opera di Circe sia da intendere in modo metaforico, e cioè che gli uomini abbrutiti si comportano come bestie, non esclude a priori che simili trasformazioni possano aver luogo veramente, visto che sarebbero state accertate, per esempio, mutazioni di piante in pietre. Significativo risulta poi il suo curioso insistere su un recente episodio, sulla cui spiegazione ritorna a più riprese nel corso del testo; l'apparizione dell'immagine di san Celestino, patrono de L'Aquila, nei cieli prima ingombri di nuvole e poi improvvisamente rasserenati della città, in seguito alle preghiere collettive dei fedeli. L'evento trova la sua spiegazione nell'influsso celeste, coadiuvato dall'umidità dell'aria e dall'intensità del desiderio espresso nelle preghiere, le quali però ‒ tiene a specificare Pomponazzi ‒ non possono in modo alcuno commuovere la rigorosa impassibilità delle intelligenze celesti, pur potendo concorrere come mezzo idoneo al realizzarsi dell'evento.
L'atteggiamento razionale e naturalistico di Pomponazzi non si propone di sgombrare la Natura dai prodigi che l'affollano, bensì di offrire spiegazioni che facciano a meno dell'influenza di angeli e demoni, anche perché è proprio sul terreno di presunti interventi di tali entità che si può innestare la frode e l'inganno sacerdotale, lo sfruttamento dell'ignoranza dei semplici a fini politici. Ogni evento è ricondotto a un rigoroso ordine naturale, che si realizza grazie ai moti celesti, fedeli ministri ed esecutori della causalità divina ("Dio infatti ordina e dispone tutte le cose in modo ordinato e soave e infonde in esse una legge eterna che è impossibile eludere", ibidem, 10, 2, p. 98) che non esclude, ma piuttosto ingloba e spiega i fatti prodigiosi.
Gli autori e i testi sopra ricordati costituiscono taluni dei più significativi, anche se talora non espliciti, punti di riferimento teorici della ricchissima letteratura magico-astrologica del 1500; il devastante attacco di Pico contro l'astrologia, se da un lato non mancherà di fornire argomenti ai successivi polemisti, dall'altro non sortirà l'effetto di annullare l'astrologia, i seguaci della quale risponderanno alla sfida affinando le proprie armi.
Alle coordinate neoplatoniche ed ermetiche di Ficino e di Pico s'ispira Agrippa di Nettesheim, autore del De occulta philosophia, un'enciclopedia magica alla quale attingeranno molti autori successivi. Fin dalla prima stesura del testo, che risale al 1510 ed è dedicata e inviata manoscritta all'abate Tritemio, grande cultore di dottrine occulte, con il quale Agrippa si era intrattenuto a discutere su questi argomenti l'inverno precedente, l'autore appena ventitreenne enuncia il proprio programma di restaurazione dell'antica vera magia. Tenuta in alta considerazione presso i filosofi e i sapienti antichi, considerata un tempo come il fastigio del sapere, essa aveva poi conosciuto un lungo periodo di decadenza, suscitando crescenti sospetti e andando quindi incontro alla condanna da parte delle leggi e dei teologi; ciò era accaduto perché con il trascorrere del tempo la vera magia era stata sfigurata e corrotta dall'intrusione di intollerabili superstizioni dalle quali egli s'impegna a liberarla e purificarla. Gli echi di Ficino e Pico sono pienamente riconoscibili fin dalle prime pagine, quando, a proposito del mago, si afferma che presso i dotti questo nome non sta a significare "un malefico, né un superstizioso, né un demoniaco, bensì un sapiente e sacerdote e profeta"; maghe furono le Sibille, che predissero l'avvento di Cristo e magi i sapienti orientali che vennero ad adorarlo alla sua nascita. La magia è pertanto definita come la dottrina:
che abbraccia la contemplazione più profonda delle cose più segrete, la potenza, la qualità, la sostanza, la virtù e la conoscenza di tutta la Natura, e c'insegna in quale modo le cose differiscono e si accordano fra loro, producendo i propri mirabili effetti con l'unire le virtù delle cose mediante la loro applicazione alle cose stesse o a quelle passive convenienti, con l'accoppiare e sposare (copulans atque maritans) le cose inferiori alle doti e alle virtù di quelle superiori; scienza perfettissima ed eccelsa, essa è la filosofia più alta e più santa, essa è la perfezione estrema di tutta la filosofia più nobile (totius nobilissimae philosophiae absoluta consummatio). (De occulta philosophia, I, 2, ed. Perrone Compagni, p. 86)
Il De occulta philosophia è suddiviso in tre libri, che corrispondono ai tre livelli della realtà in cui risulta operativa la magia nei suoi vari aspetti: il mondo elementare, cui si applica la magia fisica o naturale, utilizzando le virtù degli elementi; quello celeste, regno della magia matematica, che conosce e utilizza i poteri degli astri, delle immagini celesti e dei numeri; quello sopraceleste e divino, dove opera una magia religiosa e cerimoniale, che, mediante processi di purificazione e di ascesi, tende ad andare oltre il livello naturale per conseguire una piena dignificatio dell'uomo. L'opera ha carattere compilativo ed erudito, in quanto raccoglie e offre al lettore tutti i possibili materiali su questi argomenti, ricavati da fonti classiche e medievali, da autori greco-romani, ma anche dalla tradizione ebraica, sulle orme di Pico e di Reuchlin, il grande studioso tedesco d'inizio secolo dei testi cabalistici. Tali materiali di varia provenienza sono organizzati entro un quadro di riferimento neoplatonico ed ermetico, che conferisce una sistemazione teorica più coerente e unitaria alla ricca messe di dati e alle sparse notazioni presenti in un autore come Alberto Magno, molto citato per il De mineralibus, ma soprattutto per l'opera spuria De mirabilibus mundi; in tali opere la ricca casistica di dati ricavati dagli experimenta si accompagnava a riferimenti, ancora vaghi e generici, ai principî della similitudo e della simpatia ed è degno di nota che Alberto Magno facesse già cenno alla virtus immutandi res di cui era dotata l'anima umana, capace di operare e modificare passioni e stati d'animo. È ugualmente interessante ricordare, a proposito degli experimenta, che il teologo spagnolo Pedro García, uno dei giudici delle Conclusiones di Pico, nel replicare all'Apologia scritta dal conte in difesa delle tesi condannate o sospette, individuava l'aspetto manchevole della magia proprio nel fatto di avere a che fare con il livello sperimentale e pratico della conoscenza, mentre la vera scienza sarebbe pura conoscenza speculativa; Thorndike avrebbe sottolineato questo passo, per mostrare come, alla fine del XV sec., gli albori del metodo sperimentale andassero ricercati più nell'ambito della magia in quanto conoscenza pratica a contatto con gli elementi reali, che non in quello dell'astratta scienza naturale, chiusa in un ambito esclusivamente teorico.
L'edizione definitiva dell'opera di Agrippa vedrà la luce solamente nel 1533, a più di vent'anni di distanza dalla sua prima stesura, con consistenti aggiunte che ne raddoppieranno la mole e che non costituiscono una mera amplificazione quantitativa, ma contribuiscono a una ridefinizione e a un nuovo orientamento del sapere magico all'interno di una visione che va approfondendo le tematiche della tradizione cabalistica, mutuate soprattutto dal De harmonia mundi totius di Francesco Giorgio Veneto. Ciò comporta l'accentuazione di motivi religiosi, soprattutto connessi con le tematiche del ritorno all'unità divina e l'individuazione delle modalità atte a conseguire i livelli più alti dell'ascesi intellettuale. Tale nuovo orientamento, nel quale la magia naturale è inclusa in una visione di più ampio respiro religioso, consente di attenuare il paradosso e quello che è stato chiamato il 'dilemma di Agrippa', vale a dire il contrasto, a un primo sguardo stridente, fra l'opera magica e il De incertitudine et vanitate scientiarum che, pur vedendo la luce negli stessi anni, si configura come un attacco scettico contro ogni forma di sapere, compreso quello occulto.
Se il quadro teorico cui fa riferimento Agrippa è quello neoplatonico ed ermetico di Ficino e Pico, Gerolamo Cardano s'ispira invece, in senso lato, alla filosofia naturale di Aristotele, che pur è criticato e corretto in molti punti, e alle linee indicate da Pomponazzi. Medico e filosofo milanese, egli è autore di numerosissime opere, che nella raccolta curata a metà del 1600 dal medico francese Charles Spon occupano ben dieci volumi in folio. Oltre a essere autore di una straordinaria autobiografia, nella quale le vicende della propria vita ‒ le sofferenze, e prima fra tutte quella, irreparabile, della condanna a morte del figlio accusato di uxoricidio, ma anche le soddisfazioni, i viaggi, gli studi ‒ si compongono a delineare un autoritratto di grande sincerità e suggestione, egli affronta pressoché ogni campo del sapere, dalla matematica all'astronomia, dall'astrologia alla medicina alla filosofia naturale. Le opere più significative dedicate a quest'ultima sono il De rerum varietate e il De subtilitate, che vedono la luce a metà del secolo, e conoscono subito un'ampia diffusione, testimoniata dalle numerose edizioni e dalle traduzioni, ma che suscitano ben presto anche vivaci polemiche, sia da parte di filosofi ligi a una rigorosa ortodossia aristotelica, come Giulio Cesare Scaligero, sia da parte delle autorità ecclesiastiche. Molti degli esemplari delle due opere conservati nelle biblioteche mostrano, in numerose pagine e in interi capitoli rabbiosamente lacerati, strappati, cancellati, i segni della brutalità e del furore degli interventi censori.
I due testi si presentano come vere e proprie enciclopedie, nelle quali episodi e dati tradizionali si affiancano ad aneddoti ricavati dall'esperienza personale dell'autore e soprattutto dalla sua pratica di medico, ed è interessante rilevare come, accanto alle fonti classiche e medievali, si faccia spesso riferimento anche alle recenti cronache dei viaggiatori del nuovo mondo, non risparmiando dure critiche per la violenza e le distruzioni della conquista spagnola. Nelle due opere l'autore passa in rassegna con insaziabile curiosità e profonda ammirazione tutti i possibili aspetti della Natura, mostrando speciale attenzione per quelli più rari e inconsueti, per i quali si rende necessaria una particolare finezza d'indagine, la subtilitas. Nell'esuberanza creatrice della Natura si esprime e realizza, in modi e forme differenziate, l'unità del principio divino, e per Cardano l'aspetto più alto dell'uomo consiste proprio nella sua capacità di cogliere il rapporto fra la semplicità del principio unitario e la molteplicità (varietas) delle sue espressioni nel mondo naturale. Varietà che non è confusione o caso, ma espressione di un'unità e di un ordine, che vanno colti, appunto, con acume e sottigliezza, per ricostruire le connessioni, le analogie e le simpatie fra le varie parti del mondo, che, secondo un paragone topico, risultano fra di loro connesse e "compazienti" come le membra del corpo umano. Tali principî consentiranno la comprensione e la spiegazione di fatti che non sono stati affrontati né da Aristotele né da coloro che si proclamano suoi seguaci, ma che in verità, gonfi di presunzione e smaniosi più di apparire dotti che di esserlo davvero, si mantengono entro un orizzonte limitato di conoscenze consuete, scontate e banali.
In questa Natura gremita di mirabilia, nella quale i prodotti più curiosi dell'arte umana si accompagnano ai fatti rari e strani ‒ dalle guarigioni prodigiose agli incantesimi, dagli oracoli ai sogni, dalle apparizioni ai vari generi di 'mostri', i quali più che errori della Natura sono manifestazioni della sua esuberante fecondità ‒, tutto contribuisce a esprimere la bellezza, l'ordine, la vitalità inesauribile della Natura stessa, che si compiace di un continuo, mutevole ludus. Una Natura tutta percorsa da segni e ostenta, dal momento che la spiegazione naturale di prodigi e miracula non esaurisce o annulla la loro portata di significazione, in quanto la connessione fra gli eventi naturali può risalire a comuni cause superiori e generali. Le comete possono significare la morte dei prìncipi non certo perché ne sono la causa, ma perché entrambi i fatti dipendono da cause generali comuni, che da un lato provocano le apparizioni celesti, dall'altro colpiscono le fragili complessioni dei prìncipi.
Un punto alquanto delicato riguarda l'esistenza dei demoni e il loro eventuale ruolo negli eventi prodigiosi. Se la filosofia aristotelica non li ammette, e se Cardano, al pari e in modo anche più esplicito di Pomponazzi, è del tutto consapevole della possibile intrusione di inganni che approfittano della credulità popolare, egli esita a espellerli del tutto dall'orizzonte naturale; confessa tuttavia onestamente di non averne mai fatto esperienza diretta, al contrario del padre, che si compiaceva di narrare apparizioni e personali consuetudini con creature soprannaturali. Taluni episodi narrati dalle fonti gli paiono difficili da confutare, per la probità intellettuale e la credibilità di chi li riferisce, anche se non viene meno l'attitudine a distinguere le fabulae dai racconti degni di fede, e frequentemente critica gli storici che hanno ornato le loro narrazioni con aneddoti fantastici. Non risparmia, per esempio, Giovan Francesco Pico, il quale riferendo come veri gli assurdi, vergognosi episodi di lunghe convivenze di anziani sacerdoti con demoni femminili, mostra di prestar credito a dicerie popolari e alle più sordide e ridicole finzioni di un neoplatonismo deteriore, e con molto coraggio afferma che anche s. Agostino avrebbe fatto meglio ad astenersi dal narrare come veri episodi del tutto favolosi.
Le esitazioni a proposito dei demoni non impediscono a Cardano di condurre un'analisi quanto mai lucida e acuta, senza alcuna concessione a fattori extranaturali, quando affronta un argomento serio e di drammatica attualità come quello della stregoneria e della persecuzione di quanti erano accusati di compiere delitti e fatti straordinari grazie a un patto, esplicito o implicito, col diavolo. Persecuzione che aveva ricevuto nuovo impulso e piena legittimazione alla fine del secolo precedente, con la Bolla Summis desiderantes affectibus (1484) promulgata da Innocenzo VIII, anche su sollecitazione dei domenicani tedeschi, autori di quel Malleus maleficarum (Martello delle streghe), che nel corso dei decenni successivi andrà progressivamente aumentando di mole, configurandosi come il manuale di riferimento dei processi per stregoneria. Analizzando l'intera questione, Cardano individua con acume i diversi fattori ‒ naturali, medici, sociali ‒ che concorrono a spiegare l'inquietante fenomeno senza bisogno di far ricorso all'intervento demonico. Protagoniste di tale vicende sono perlopiù donne anziane e povere che, vivendo in luoghi appartati e nutrendosi di cibi come erbe e radici, diventano facilmente preda di un eccesso di bile nera e di nefasti umori malinconici, che favoriscono i loro deliri di onnipotenza e le loro allucinazioni di danze, festini, voli notturni. A riprova di tutto ciò, Cardano si compiace di narrare l'episodio di un contadino che, caduto in preda a ossessioni di questo tipo, fu strappato a una fine atroce dal suo compassionevole padrone, che ottenne di prendersene cura per venti giorni; grazie a un'alimentazione a base di uova fresche, vino, brodi grassi e carne in abbondanza, questi riuscì a distoglierlo dalle sue pericolose fantasie e a farlo ridiventare un ottimo cristiano. Cardano non nega che le cosiddette 'streghe' siano spesso vecchie empie, superstiziose, anche pericolose in quanto possono davvero compiere delitti infami, e riconosce come, in ogni caso, non sia prudente affidare bambini piccoli a queste vetulae piene di rancore e di malevolenza; nega però che esse possano compiere le loro imprese, nel bene e nel male, in virtù di quei poteri demonici che esse credono pervicacemente di possedere, convincendo anche i giudici spesso crudeli e rapaci.
Fra le numerose dottrine affrontate da Cardano un ruolo centrale è rivestito dall'astrologia. Come Agrippa si proponeva di recuperare la vera, originaria magia, in modo analogo Cardano intende rilanciare la vera astrologia, depurandola dalle intromissioni superstiziose degli autori arabi, che avevano caricato l'arte di una zavorra di nozioni troppo minute e infondate. Tale recupero si configura come un deciso 'ritorno a Tolomeo', il cui Opus quadripartitum è presentato come il testo principe cui far riferimento e del quale egli stende un ampio e completo commento, intrapreso nella primavera del 1552, all'inizio del grande viaggio verso la Scozia, dove era stato convocato dall'arcivescovo John Hamilton affetto da una grave forma di asma. Il commento a Tolomeo si pone come il coronamento degli interessi astrologici che, coltivati fin dagli anni giovanili, si erano espressi in trattati e in raccolte sempre più fitte di oroscopi, nei quali l'autore già manifestava il proposito di rendere l'astrologia a pieno diritto parte della filosofia naturale, riscattandola dalla superstizione e dalla corruzione in cui era precipitata, soprattutto per colpa di chi diffondeva imposture a fini di lucro. Adottando pienamente il punto di vista di Tolomeo, che aveva sganciato la dottrina delle previsioni astrali dal determinismo della filosofia stoica, per avvicinarla alla filosofia naturale di Aristotele, Cardano ribadisce che essa non è una scienza exquisita, dotata di certezze e rigore assoluti al pari della matematica e dell'astronomia, ma non per questo la si deve considerare come "una superstizione, un vaticinio, magia, vanità, un augurio o un auspicio". Avendo a che fare con la mutevolezza del mondo umano e naturale, essa si configura come un'arte congetturale, che si limita a formulare giudizi probabili su eventi futuri, al pari di altre dottrine quali la medicina, la navigazione, l'agricoltura, la fisiognomica. L'astrologia si basa sul principio fisico degli influssi celesti ‒ evidenti nel caso del Sole e della Luna, e per estensione e analogia attribuibili anche ai pianeti e alle stelle ‒ sui quali Cardano si sofferma a lungo, sia per provarne, con un'abbondante esemplificazione, la realtà, sia per specificare i canali attraverso i quali si propagano e i modi in cui agiscono sugli enti sublunari; nell'opera di Tolomeo essa si configura come un corpus di dottrine e di dati estremamente complesso, che può venire confermato, integrato o corretto da nuovi dati ricavati dall'osservazione. Quanto all'insidioso dilemma sollevato nell'Antichità da Favorino, e non privo di una certa efficacia retorica, secondo cui l'astrologia, anche se fosse vera, sarebbe inutile perché la previsione di eventi negativi aumenta l'angoscia e quella di eventi positivi diminuisce la felicità, esso può esser ribaltato. Non soltanto la previsione aiuta ad accettare la buona e la cattiva sorte con uguale moderazione, ma, quel che più importa, in una prospettiva congetturale e non deterministica, non tutti gli eventi futuri si presentano come necessari e irreversibili, in quanto essi possono essere modificati. Come già osservava Tolomeo, se prevedo che le mie pecore, per l'eccessiva siccità, potrebbero morire di sete, potrò evitare l'evento scavando una grotta o ricercando una sorgente.
Non deterministica, l'astrologia non ha neppure nulla di empio e idolatrico; in essa la conoscenza più difficile, quella del futuro, si coniuga con la contemplazione dei moti celesti e dell'intera machina mundi, nel cui ordine e armonia maggiormente rilucono la divina potenza e sapienza. Non è poi vero che, come accusano gli avversari, tale slancio verso i cieli e il futuro derivi dalla superbia umana, o la faccia aumentare. Al contrario, la contemplazione degli astri acuisce nell'uomo la consapevolezza dei propri limiti e della propria fragilità, come Cardano ricorda in un passo pieno di pathos. Contemplando i cieli:
queste cose verranno alla mente: la memoria dell'eternità, la fragilità della nostra condizione, la vanità dell'ambizione, l'acre ricordo dei delitti. Di qui il disprezzo di una vita così breve, che anche durasse cent'anni, che cosa è mai rispetto all'immensità dell'eternità? Non è forse un punto rispetto al cerchio? Che cosa tutta quanta la felicità umana? Che se qualcuno l'ha provata, sia pure tu, non è forse vento, fumo, sogno? (In ... Quadripartitae constructionis, librum commentaria, f. A 2r)
Cardano sente poi il bisogno di accompagnare la riflessione teorica, con la quale ridefinisce lo status dell'arte, precisandone a un tempo la dignità e i limiti, e difendendola dalle accuse dei calunniatori o dalle pratiche arbitrarie dei cattivi artifices, con un'intensa opera di sperimentazione e di verifica, raccogliendo e dando alle stampe una messe sempre più ricca di natività (oroscopi natali?). Alcune sono molto brevi, altre si estendono per parecchie pagine ‒ come le dodici grandi geniture, fra cui quella dettagliatissima di sé stesso, che accompagnano il commento a Tolomeo. Alcune riguardano personaggi famosi, come, per esempio, papi, prìncipi, letterati, altre trattano di sconosciuti, la cui vita presenta però eventi peculiari che meritano di essere analizzati alla luce delle configurazioni celesti e, in più di un'occasione, l'autore non può fare a meno di compiacersi e di sottolineare la veridicità dell'arte, mostrando la congruenza fra principî teorici e determinati eventi.
Il campo privilegiato di applicazione dell'astrologia è per Cardano quello dell'astrologia genetliaca, e al di là dell'esattezza delle previsioni, questi, come altri oroscopi, rivestono il più alto interesse per lo storico, offrendo materiali e informazioni non facilmente ricavabili da altre fonti. Egli non trascura neppure di soffermarsi sulle cause di eventi generali e di affrontare temi delicati come quello del succedersi delle varie religioni. A questo proposito sente il bisogno d'integrare le notazioni di Tolomeo che, limitandosi alle eclissi e alle comete, gli sembrano insufficienti e troppo scarne, con il ricorso a un'ampia gamma di fattori astrali; non disdegna neppure di recuperare il commento dell'arabo ῾Alī ibn Riḍwān e di reinterpretarne le osservazioni riguardanti le corrispondenze fra le peculiarità delle leges e i caratteri dei pianeti a esse connessi. Ed è in questo contesto, quando cioè tratta di "eventi generalissimi della massima importanza", che egli inserisce nel commento al Quadripartitum il suo oroscopo più famoso e più esecrato, quello di Cristo. Anche se non si trattava veramente di una novità, in quanto ne avevano già parlato Alberto Magno (che citava Albumasar) e il cardinale d'Ailly, la pagina non mancò di suscitare scandalo e di attirare indignate accuse di empietà su colui che aveva osato sottoporre alle stelle il loro creatore. Ma Cardano invita a non confondere l'umano con il divino, precisando che soltanto gli aspetti umani di Cristo sono sottoposti agli influssi stellari, come accade per ogni altra creatura e che, se è una grave eresia negare la sua divinità, risulta altrettanto eretico negarne l'umanità. Ciò non significa che la divinità di Cristo, i suoi miracoli, la promulgazione della sua legge dipendano dalle stelle, ma che Dio ha predisposto le posizioni astrali in modo tale che risultassero adeguate a quella particolare genitura, che si presenta come una sorta di icona e di rappresentazione anticipata di eventi mirabili stabiliti dall'eternità. Compito dell'astrologo è solamente quello di decodificare la genitura, e mostrare la puntuale corrispondenza fra aspetti astrali e vicende terrene di Cristo, sia per quanto riguarda la legge da lui promulgata, che naturaliter è la legge della pietà, della giustizia, della fede, della semplicità, della carità, sia per quanto riguarda le caratteristiche e le vicende dell'uomo: la naturale conoscenza del futuro, l'eloquenza, la precoce sapienza, l'ingegno acutissimo, ma anche il temperamento malinconico, la pelle lentigginosa, la povertà, le insidie, i pericoli, la morte violenta. Una volta lette queste vicende alla luce degli astri e constatata la perfetta congruentia fra astri e fatti, Cardano non può che concludere con un grido di trionfo, per la conferma della veridicità dell'arte, e di sfida contro i suoi detrattori: "coloro che negano la verità dell'arte vedano se ho alterato i tempi, o calcolato male le posizioni degli astri, o cambiato qualcosa nell'esposizione di ciò che stabilisce la dottrina di Tolomeo!" (Commentaria in Quadripartitum, II, 9, in: Opera omnia, V, p. 222).
Negli stessi anni in cui si diffondono i due testi di Cardano, vede la luce la prima edizione in quattro libri (1558) dell'opera di un giovane autore, destinata a un ampio successo: la Magia naturalis del napoletano Giambattista Della Porta, che sarà pubblicata nella sua versione più matura e completa in venti libri a più di trent'anni di distanza (1589).
In entrambe le redazioni, il Libro I riveste una funzione di introduzione generale, ricordando le origini persiane della magia e l'onore da essa goduto presso gli Antichi. Compare anche la consueta distinzione fra una dottrina "nefandissima, la qual è piena di superstizioni, d'incantazioni, e procede per revelazione di demoni", condannata da tutte le leggi in quanto mostra soltanto "cose apparenti e senza stabilità alcuna, imaginazioni e delusioni", e una magia naturale, che non è se non "una consumata cognizione delle cose naturali e una perfetta filosofia". Tale magia ci consente di accedere alla conoscenza delle qualità e delle proprietà più nascoste della Natura, e grazie a questa conoscenza "c'insegna con l'aiuto delle cose naturali, applicate convenevolmente, a far opere, le quali il vulgo chiama miracoli, perciò che superano l'intelletto umano". Le operazioni magiche si mantengono all'interno della Natura, della quale l'arte è ministra. Per assolvere nel modo più conveniente il proprio compito, il mago, oltre a essere un buon filosofo naturale e conoscere le cause, i principî, le qualità delle cose, deve essere medico, astrologo, conoscitore dell'ottica e buon artefice. Egli compie le proprie mirabili operazioni "applicando i debiti agenti a convenevoli pazienti" e Della Porta sottolinea, come altri prima e dopo di lui, che la meraviglia nasce dall'ignoranza delle cause. Più le cause sono nascoste, più certi fatti, rari e insoliti, suscitano stupore e ammirazione; quando poi si scoprono e si rendono palesi le cause "si avilisce l'auttorità". Il mago deve poi disporre di ricchezze personali, per affrontare le spese che comporta l'arte, e deve essere molto attivo e solerte, in quanto "agli oziosi e ignoranti non si manifestano i secreti della Natura".
Riprendendo note immagini di Plotino, il giovane Della Porta afferma che fra cielo e Terra esiste un continuo scambio di virtù e un legame simile a una corda tesa, di cui se è toccato uno degli estremi, anche l'altro non può fare a meno di muoversi e vibrare, e che il ruolo del mago consiste nel collegare in modo adeguato le cose terrene a quelle celesti, proprio come l'agricoltore sposa l'olmo alla vite. Grazie a tale attività, egli "cava i secreti, i quali stavano al tutto rinchiusi nel grembo della Natura e come publico ministro quelle cose che con assiduo ricercare trova vere, acciò che tutti le sappiamo, le mette in publico, sì che infiammati di benivolenza verso l'artiste si sforzano laudare e riverire la sua gran potenza" (De i miracoli et maravigliosi effetti dalla natura prodotti, I, 5, f. 7). Il suo campo di applicazione privilegiato sono le virtù occulte, la cui innegabile efficacia non risulta spiegabile per via razionale; solamente Dio ne conosce le cause, in quanto le ha create, ma agli altri spetta più di utilizzarle e ammirarle che di comprenderle.
Per dilettare il lettore l'autore indugia su un'abbondante esemplificazione, che riprende da una consistente tradizione, e si compiace di elencare stravaganti proprietà di animali e piante, e i rapporti di simpatia e antipatia che si instaurano fra gli esseri naturali. Poiché di questi fatti non è possibile raggiungere una spiegazione razionale, è meglio, dopo aver constatato le più varie attrazioni e repulsioni e le loro pittoresche conseguenze, limitarsi ad affermare che "la Natura si è dilettata di questo grande spettacolo".
Dall'esile operetta giovanile, con un progressivo accumulo di materiali, si giungerà alla redazione matura in venti libri, che conoscerà una popolarità vastissima, ponendosi come una vera e propria enciclopedia di nozioni, consigli e ricette sugli argomenti più vari: dall'agricoltura all'economia domestica, dall'arte trasmutatoria (duramente attaccata) alla cosmetica, dalla gastronomia alle scritture segrete. Nel libro conclusivo (Chaos) trovano posto ritrovati di diverso genere, da quelli più innocenti riguardanti i modi di rendere potabile l'acqua salata agli straordinari effetti indotti dai suoni o al mirabile strumento per sentire da lontano. Altri casi sono più maliziosi e spiritosi; per esempio, come far sì che le donne si tolgano i vestiti o i volti dei convitati appaiano di color nero o di un pallore cadaverico. Altri ancora risultano decisamente più curiosi, come quando si consigliano i modi per cambiare i connotati (oltre alla rapida crescita di barba e capelli, è possibile ottenere gonfiore e alterazione dei lineamenti mediante un rimedio in verità pericoloso come le morsicature delle vespe). Si offre perfino la ricetta per una sorta di curiosa 'macchina della verità' al fine d'individuare un ladro: se si darà da mangiare ai convitati del pane, in cui sia stata incorporata dell'ematite finemente triturata, che è una pietra di natura molto arida, il colpevole, che avrà già le fauci secche per il timore di essere scoperto, non riuscirà assolutamente a deglutirlo.
L'opera che, pur accattivante e gradevole, risulta sostanzialmente priva di originalità nell'impianto teorico e presenta un carattere meramente compilativo riguardo ai contenuti, offre tuttavia più di un motivo d'interesse. In essa infatti s'innesta in modo consistente la tradizione dei cosiddetti 'segreti'. Pur riallacciandosi ad antecedenti medievali, la fortuna moderna di questo genere, che comprendeva ricette, rimedi, consigli di vario tipo, data dalla prima edizione (1555) di una raccolta di circa 350 ritrovati uscita sotto il nome di un misterioso "donno Alessio Piemontese". Il libro ebbe un immediato e straordinario successo editoriale (ci furono una sessantina di edizioni nei vent'anni successivi alla prima edizione, un centinaio fino al cadere del XVII sec.) e a sua volta inaugurò un nuovo genere, con numerosi trattati di questo tipo a opera di diversi autori quali, per esempio, Girolamo Ruscelli, Isabella Cortese, Giovan-ni Battista Zapata, Leonardo Fioravan-ti (74 edizioni complessive fino al cadere del secolo).
È stato calcolato che un terzo circa dei segreti di Alessio riguarda la medicina popolare, offrendo ricette alternative a quelle proposte dalla farmacologia ufficiale; un terzo concerne, in senso ampio, l'economia domestica e un ultimo terzo le più svariate pratiche artigianali ‒ tinture, distillazioni, procedimenti alchemici, operazioni di metallurgia. Le ragioni del successo e dell'enorme diffusione di questo testo e delle sue imitazioni sono state individuate soprattutto nel suo carattere di manuale pratico che offriva consigli su come risolvere problemi della vita quotidiana, come compiere determinate operazioni riguardanti i lavori artigianali, come provvedere ai malanni più comuni; tutte pratiche che rispondevano ai bisogni di una classe media interessata agli aspetti utilitaristici e pratici del sapere più che al suo assetto teorico e astratto.
Nelle pagine di presentazione della sua raccolta il sedicente Alessio indugiava su taluni elementi, che delineavano una sorta di autobiografia e di ritratto ideale, in cui è difficile distinguere gli aspetti veritieri da quelli derivati dalla tradizione, e ai quali si ispireranno i successivi analoghi volumi. Egli alludeva a lunghi viaggi nei paesi più lontani, alla ricerca dei ritrovati più rari ed esotici; alle spese e alle fatiche sostenute per trovarli; all'utilizzazione di ogni genere di fonte, comprese le tradizioni orali e le ricette popolari, confessando di avere attinto i segreti non soltanto dai libri dei dotti letterati, ma "ancora da povere feminelle, da artigiani, da contadini e da ogni sorta di persone". Ricordando poi la morte di un anziano paziente vittima della congiunta vanità del medico ufficiale e del possessore dei segreti, che si era rifiutato di comunicare i suoi rimedi, spiegava la propria decisione di abbandonare l'orgoglioso atteggiamento di possesso esclusivo dei segreti per rivelarli e comunicarli a fini umanitari. Dietro la maschera del misterioso Alessio è perlopiù individuato il letterato veneziano Girolamo Ruscelli, autore di una continuazione della precedente raccolta, intitolata Secreti nuovi, che vide la luce postuma nel 1567 a cura del nipote. Non si esclude comunque del tutto che almeno un primo nucleo dei segreti di Alessio possa venire realmente attribuito a un medico piemontese vissuto nella prima metà del secolo. Nell'importante introduzione l'autore, oltre a rivelare di avere scritto anche i precedenti segreti, parla di un'Accademia segreta, attiva per circa un decennio a partire dai primi anni Quaranta nel Regno di Napoli, probabilmente a Salerno, sotto l'alta protezione del principe Ferrante Sanseverino. Gli affiliati all'Accademia si proponevano di rintracciare e sottoporre a prova il maggior numero di segreti per verificarne l'efficacia. In questa tradizione e nell'attività di questi e analoghi gruppi si può individuare 'l'anello mancante' fra gli experimenta medievali, perlopiù fortuiti, inaspettati e frutto di un'esperienza fondamentalmente privata, e il concetto baconiano di esperimento inteso come "un programma scientifico implicante la comunicazione di risultati sperimentali all'interno della comunità degli scienziati e la collaborativa verifica dei medesimi" (Eamon 1994, p. 9); è importante notare, a questo proposito, il rilievo che nei libri dei segreti rinascimentali rivestono i rapporti e gli scambi con la cultura popolare, la connotazione pratica che vengono acquisendo le conoscenze, i primi tentativi di organizzare in forme collaborative il sapere, e l'esigenza, se non di una vera e propria sperimentazione, di una verifica concreta delle prescrizioni e dei ritrovati.
Della Porta risulta una figura, se non di particolare originalità, senza dubbio emblematica, anche perché nel suo pensiero le istanze del sapere magico coesistono con aspetti che preludono al nuovo pensiero scientifico, come, per esempio, le ricerche sull'ottica e sul magnetismo. Il Libro VII della Magia naturalis è dedicato al magnete, definito "principe delle pietre", nel quale maggiormente riluce la naturae maiestas, e mentre l'autore non manca di elogiare per le sue ricerche in questo campo Paolo Sarpi, conosciuto di persona a Venezia, ha parole molto aspre nei confronti di William Gilbert, il "barbaro inglese" accusato di plagio e di avere attinto a piene mani dai suoi lavori, senza citare la fonte e aggiungendo di suo solamente errori e vanità. È inoltre noto, come, alle prime notizie riguardanti il cannocchiale di Galileo, Della Porta rivendicasse a sé la priorità teorica e pratica dell'invenzione. È anche vero però che ben presto lasciò cadere la polemica, non soltanto perché soddisfatto dell'autorevole riconoscimento dei suoi meriti da parte di Johannes Kepler, ma soprattutto perché consapevole dell'uso diverso che lo scienziato aveva fatto dello strumento e degli straordinari risultati derivati dall'aver rivolto il cannocchiale verso il cielo: valde […] gratulor tam rude et exile meum inventum ad tam ingentes utilitates exaltatum. Con questa osservazione il mago napoletano sembra intuire le differenze fra metodi, risultati e finalità della nuova scienza e quelli delle proprie ricerche, le quali, oltre a offrire consigli utili per un uso pratico, si propongono soprattutto di divertire e stupire lettori e amici con i ritrovati più peregrini. Parlando del magnetismo, per esempio, oltre ai vantaggi per la navigazione, egli pensa subito anche alla possibilità della comunicazione a distanza, supporto di ricerche che si muovono sempre entro l'orizzonte di un'insaziabile curiositas volta a carpire gli aspetti più insoliti degli inesauribili tesori racchiusi nel generoso e fecondo grembo della Natura.
Entro una visione neoplatonica ed ermetica del Cosmo come organismo vivente, le cui parti, in quanto espressioni esterne di un principio interno unitario, risultano collegate da analogie e corrispondenze, percorse da antipatie e simpatie, si viene a innestare la tradizione dei segreti. Questa, in verità, non basta, di per sé, a garantire il passaggio dalla magia alla scienza, e anzi può favorire il recupero di stadi più antichi e tradizionali della magia stessa. Verso la fine dei suoi anni, Della Porta, anziché sviluppare ulteriormente gli aspetti più 'moderni' del suo pensiero, si riallacciò, in modo sconcertante, proprio alla giovanile Magia naturalis, progettando una vasta Taumatologia, che, dedicata all'imperatore Rodolfo II, avrebbe dovuto comprendere 500 segreti che "sono la quinta essenza delle scienze tutte, di utile e di meraviglie grandissime, veramente magnalia Dei", com'egli scrive al cardinale Borromeo. Dell'opera furono compiuti soltanto tre degli undici libri in cui si sarebbe dovuta articolare: il Liber medicus; uno, tuttora inedito, sulle virtù dei numeri, e il Libro V, che, intitolato Criptologia, tratta dei "più nascosti segreti che nel più riposto seno della Natura sepolti sono". Enunciando nel proemio l'intento del libro, l'autore dichiara in linea di principio di voler smascherare le frodi dei demoni, prendendo le distanze dalla tentazione di riferire ai loro poteri i mirabilia, che dipendono invece dalle proprietà occulte di erbe e animali e sono da collegare con gli aspetti più inaccessibili e riposti della Natura. Pur riconoscendo ai demoni la conoscenza dei segreti naturali e la possibilità di comunicarli all'uomo, Della Porta si propone di depurare le pratiche magiche da una ritualità ritenuta superstiziosa e inefficace, per sottrarre alla giurisdizione demonica una vasta zona conoscitiva, e soprattutto operativa. A tale emarginazione dei demoni consegue l'ammissione di un livello occulto della Natura, che consente il recupero di un'ampia messe di rimedi e segreti, attinti sia da fonti dotte che da pratiche popolari. Entro la prospettiva di una Natura non soltanto animata, ma occulta e maga essa stessa, i tentativi di spiegazione più propriamente razionali e naturali possono convivere fianco a fianco con le pratiche più torbide o spregiudicate. Negli stessi anni in cui è affiliato, assieme a Galileo, all'Accademia dei Lincei, Della Porta non disdegna di volgersi all'oscuro mondo delle fattucchiere e delle streghe, rivelando le disgustose ricette dei loro filtri. E se è vero che dice di farlo per esecrarne i procedimenti e proporre adeguati antidoti, quando poi descrive la ricetta dell'"unguento simpatico", perché "due amici possano comunicare scambievolmente da lontano" (segreto molto desiderato dal principe Cesi), troviamo che gli ingredienti non sono poi così diversi; al grasso di maiale e di orso e a una certa quantità di lombrichi, di pietra ematite e di vino rosso vanno infatti aggiunte due once di "sangue umano purgato del flemma e della bile", nonché un'oncia e mezza di "cranio di uomo morto di morte violenta" (Criptologia, II, 13, ed. Belloni Speciale, p. 201). Il mago può fare a meno dei demoni e del loro vano apparato di formule e cerimonie proprio perché è capace di appropriarsi in prima persona del loro repertorio di segreti, e lo smascheramento della frode non mira tanto a mettere a nudo l'illusorietà delle promesse, quanto l'esecrabile vanità dei procedimenti.
Non bisogna poi dimenticare che la tradizione dei segreti, pur con le sue aspirazioni a un sapere utilitaristico e pratico, è caratterizzata da un proprio bagaglio di convenzioni. Viene il sospetto che anche uno dei suoi aspetti considerati fra i più rilevanti ai fini di un avvicinamento al sapere più propriamente scientifico, vale a dire il vantato ricorso alla verifica sperimentale per provare l'efficacia dei rimedi, non vada sempre preso alla lettera e rientri anch'esso in un quadro di riferimento tradizionale. Al pari di altri punti topici enunciati con vivacità da Alessio Piemontese ‒ i viaggi intrapresi in paesi lontani, le spese sostenute, la visita alle biblioteche più inaccessibili, i contatti con gli strati più umili per ricercare segreti sempre nuovi ‒ anche la prova sperimentale sembra più enunciata che realizzata, e in ogni caso sempre volta a confermare i mirabilia della tradizione, mai a smentirli o criticarli. Più di una volta Della Porta fa cenno a personali verifiche di ricette e rimedi. Ma se già sorgono dei dubbi quando dice di aver guarito orzaioli pungendoli con chicchi d'orzo, si resta decisamente perplessi davanti all'affermazione di avere liberato degli indemoniati grazie agli effluvi della peonia, o di aver guarito casi d'impotenza grazie al picchio o alla pica "mangiata arrostita o lessata" o quando riferisce a sé stesso un aneddoto riguardante il rimedio contro i morsi velenosi, che in verità è ripreso da fonti classiche e trascritto alla lettera da Pier Andrea Mattioli e Cardano.
Nell'opera di Della Porta confluiscono tradizioni diverse e coesistono motivi tradizionali e annunci di nuovi interessi; per questo motivo essa esemplifica bene l'intreccio dei percorsi e la complessità dei passaggi di vecchi e nuovi saperi caratteristici di una concezione generale della Natura, dell'uomo e dei loro rapporti che si va modificando. Da un lato, quasi a sottolineare la continuità, non stupisce che i Lincei derivino il loro stesso nome dalla lince che adornava i frontespizi della Magia naturalis, scelta come emblema di un'indagine volta a studiare sia gli aspetti visibili della Natura, sia quelli più segreti e nascosti, in quanto si diceva che il suo sguardo fosse capace di vedere l'esterno e l'interno di tutte le cose (aspicit et inspicit). Dall'altro lato, a sottolineare invece il distacco e la diversità dello sguardo sul mondo, possiamo ricordare due frasi che sembrano richiamarsi e contrapporsi in una sorta di colloquio a distanza. Se Cardano in uno dei suoi Aphorismi astrologici asseriva che "è meglio sapere poco di cose altissime che molto di cose vili" (melius est modicum scire de rebus altissimis quam multum de humillimis), Galileo, in un'osservazione a margine nella quale è indicato il nome di Campanella, considerato l'erede di una tradizione vitalistica rinascimentale da cui egli intende prendere le dovute distanze, ribaltando la prospettiva dichiara: "Io stimo più il trovar un vero, benché di cosa leggiera, che 'l disputar lungamente delle massime questioni senza conseguir verità nessuna" (Le opere, IV, p. 738, n. 2).
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