Il Rinascimento. La stampa e la diffusione del sapere scientifico
La stampa e la diffusione del sapere scientifico
Nelle aggiunte alla prima edizione della Chronica medievale di Riccobaldo di Ferrara, pubblicata a Roma nel 1474 dal tipografo Giovanni Filippo de Lignamine, la notizia della scoperta della stampa tipografica a Magonza da parte di un certo Johann Gutenberg di Strasburgo ‒ così è chiamato ‒ è inserita tra la convocazione della Dieta di Mantova nel 1458 e l'inizio dei lavori congressuali nel settembre del 1459. In questa Dieta i rappresentanti della cristianità s'impegnarono nella progettazione di una nuova crociata contro i Turchi, fortemente voluta dal nuovo papa Pio II (l'umanista Enea Silvio Piccolomini), il quale riferisce in una lettera al cardinale Juan de Carvajal del 12 marzo 1455 di aver visto in vendita a Francoforte fascicoli sciolti di una Bibbia non scritta a mano ma stampata in ben duecento esemplari. Secondo le aggiunte alla cronaca di Riccobaldo, trecento furono gli esemplari stampati da Gutenberg in un solo 'colpo' grazie alla recente invenzione tedesca, incomparabilmente più rapida ed efficace di quanto si potesse non soltanto fare ma neppure immaginare utilizzando unicamente la copiatura a mano.
Alla diffusione della notizia tenne dietro, con maggiore lentezza, il propagarsi della nuova arte in altre città; prima in Germania, poi, una decina d'anni dopo la scoperta, anche in Italia grazie all'arrivo a Subiaco dei due chierici tedeschi Arnold Pannartz e Conrad Sweynheym, che vi stamparono la grammatica di Donato, il De oratore di Cicerone e, con la data del 1465, le Divinae institutiones di Lattanzio.
Prima dell'invenzione della stampa tipografica erano già note le procedure di punzonatura e di stampaggio, applicate non soltanto presso le zecche per la fabbricazione in serie di monete, ma anche nella produzione di immagini sciolte e di libri silografici con l'impressione lasciata sul foglio da forme di legno intagliate e inchiostrate. Johann Gutenberg di Magonza scoprì e mise a punto procedure meccaniche che presero il posto della mano dei copisti; non voleva infatti trasformare il libro, ma ridurre, semplicemente, i tempi di produzione. Prima e dopo le operazioni di stampa il libro, scritto ‒ si diceva con orgoglio tutto artigianale ‒ non con calami o con penne ma con lettere di stagno e di piombo, avrebbe seguito tutte le altre fasi di lavorazione contemplate nella tradizionale confezione dei codici: preparazione della carta, piegatura e cucitura dei fascicoli, rubricazione, eventuale miniatura, fino alla legatura finale secondo i gusti, il censo e il ceto sociale dell'acquirente.
Alla metà del XV sec., quando cominciarono a circolare i primi libri stampati, la produzione libraria aveva da molto tempo abbandonato le celle dei monasteri e la penombra dei chiostri per radicarsi, sempre più profondamente, nel tessuto culturale e produttivo delle città europee. L'arte di fabbricare codici aveva col trascorrere del tempo allargato il proprio pubblico; agli uomini di chiesa, di ogni ordine e grado, si erano ben presto aggiunti i docenti delle università e i loro allievi che, divenuti giuristi, medici e notai, non avrebbero smesso di ricorrere all'autorità e all'ausilio dei testi scritti. La rinascita e la rilettura degli autori antichi impresse un'ulteriore accelerazione alla circolazione nel tessuto urbano di libri, alla cui produzione non si dedicavano solamente amanuensi di professione, ma una turba di copisti che scrivevano per sé, per conto di cartolai o di altri committenti. Infine, la crescita in quantità e qualità dei tradizionali insegnamenti delle arti cosiddette liberali, ma soprattutto la diffusione di opere in lingua volgare, portatrici di un sapere nato dalle pratiche del vivere e del comunicare quotidiano in ambito civile, religioso e professionale, estesero la schiera di quanti anche ai piani bassi delle residenze nobiliari, nelle case e nelle botteghe di mercanti e di artigiani avevano modo di acquisire una buona familiarità con la scrittura, con la lettura o, per lo meno, con l'ascolto di testi composti e trasmessi per rispondere alle esigenze pratiche di una vita sociale sempre più complessa.
Nei secoli che precedettero l'affermazione della stampa tipografica i testi che trattavano gli argomenti che noi oggi assegniamo, forse con eccessiva disinvoltura, alla sfera delle produzioni di argomento tecnico e scientifico erano distribuiti lungo tutta la gamma delle tipologie librarie allora in circolazione, dai manoscritti miniati e di ampio formato delle biblioteche monastiche o di quelle signorili ai codici più rispettosi della correttezza che dell'eleganza a uso di studenti e docenti, fino ai libri confezionati senza alcuna pretesa per avviare un numero sempre maggiore di individui all'apprendimento dei primi rudimenti dello scrivere, del leggere e del far di conto o per rispondere alle esigenze pratiche di un artigianato e di un'attività mercantile in costante ascesa.
Le caratteristiche formali della produzione libraria, pur essendo strettamente funzionali, secondo un'usanza diffusa, ai contenuti specifici del codice, rispecchiavano soprattutto lo status sociale dei committenti, la qualità del pubblico cui erano indirizzati i testi e la natura dei luoghi e dei siti deputati alla loro conservazione e alla loro fruizione. All'interno della composita famiglia dei manoscritti di argomento tecnico e scientifico si possono pertanto incontrare tutte le tipologie librarie allora in uso, dal magnifico codice marciano della Naturalis historia di Plinio, scritto e miniato attorno al 1480 per Giovanni Pico della Mirandola, al cosiddetto Manoscritto veneziano della British Library, una raccolta di ricette e di considerazioni sulla pittura, sui colori, sulla miniatura, sulle incisioni, sulle vetrate, sulla pratica medica, sulla farmacopea e sull'alchimia, messa insieme da uno studente inglese che alla metà del XV sec. percorse gran parte dell'Italia centrosettentrionale tra Venezia, Ferrara, Bologna e Milano, prima di avviarsi, col suo manoscritto, sulle strade che lo avrebbero riportato nei paesi nordici.
Alla vigilia della piena affermazione dell'arte tipografica (per alcune aree disciplinari non prima degli anni Ottanta del XV sec.) assistiamo nelle città e presso le corti italiane a un grande aumento della circolazione di manoscritti. Accanto al rifiorire e al diffondersi delle opere dell'Antichità, non più filtrate esclusivamente attraverso la tradizione medievale, si fanno ben presto strada contributi originali di contemporanei che, dialogando con gli Antichi, affrontano in ogni campo temi e problemi a volte di impellente attualità, dagli argomenti legati alla sensibilità principalmente filologica e letteraria dei primi umanisti si passa ben presto ai campi limitrofi (un esempio tra tutti ci viene dalla vasta produzione di Leon Battista Alberti in bilico tra suggestioni letterarie e interessi artistici, tra attività pratica e ricerca teorica) per approdare infine, quando ormai avevano cominciato a gemere i torchi, agli altri settori della conoscenza, anche a quelli che traevano i loro fondamenti e la loro stessa legittimazione più dalle quotidiane attività artigianali e commerciali che dai testi degli Antichi. La stessa tradizione dei libri di abaco si andava sempre più arricchendo e diffondendo non solamente in area toscana o veneta ma anche altrove, proponendo nuove soluzioni a problemi vecchi e nuovi.
L'invenzione della stampa fu, prima di ogni altra cosa, la scoperta di un nuovo modo, tutto meccanico, di scrivere. La scrittura era rimasta per secoli, anzi per millenni, una delle attività dell'uomo più direttamente connesse sia alla regia della mente sia all'abilità della mano; talvolta, terminata l'opera di copiatura, gli amanuensi annotavano: "la mano scrive ma tutto il corpo si affatica". Era un'arte in cui si esaltava principalmente la perizia culturale e operativa dello scriba, anche se una parte, sia pure secondaria e di complemento, era da attribuire alla qualità degli strumenti, a carta, penne e calamaio. Di artis scriptoriae peritia ci parlano già, raccogliendo l'eco di una tradizione secolare, i manoscritti monastici del X secolo. La scrittura, insomma, per quanto relegata in origine, soprattutto nell'immaginario di chi ne era escluso, in una concezione sacrale delle relazioni interpersonali, già agli albori della nuova Europa cominciava ad apparire nella sua interezza un artificium, il prodotto dell'ingegno e della perizia degli uomini.
Del resto, pur essendo l'attività che più delle altre poteva coniugarsi, per i monaci, con la lectio divina e con la preghiera, la scrittura, quando abbandonò i chiostri per porsi al servizio degli studi universitari e della vita cittadina, subì l'accelerazione impressa ai tempi di produzione dalle nuove esigenze culturali e mercantili, e accentuò ulteriormente la propria dimensione artigianale e produttiva, pur non perdendo quel quarto di nobiltà che le veniva dall'essere finalizzata alla costruzione degli strumenti della comunicazione intellettuale. Ciò apparve evidente sia nel cosiddetto 'sistema delle pecie', in cui gli esemplari erano smembrati in più pezzi allo scopo di affrettarne la copiatura e, al contempo, garantirne la fedeltà testuale, sia soprattutto nelle botteghe scrittorie sorte sotto la guida di abili cartolai in molte città italiane a partire almeno dal XIV secolo. Per l'eccellenza dei prodotti e per il livello sociale e culturale dei suoi ricchi committenti, emerse e si affermò a Firenze la celeberrima bottega di Vespasiano da Bisticci, sul cui modello ne nacquero, anche se con minori pretese, un po' ovunque fin quasi alla fine del Quattrocento, allorché scomparvero o finirono per trasformarsi nei nuovi centri della produzione e del commercio del libro stampato.
Gutenberg con la sua invenzione rispondeva in modo totalmente nuovo alle esigenze poste da una circolazione libraria in costante aumento. Egli intervenne non tanto nella distribuzione del lavoro o nell'aumento del numero dei copisti, ma nella struttura stessa della sequenza di scrittura, non considerandola più un organismo unitario, continuo e dinamico, ma l'esito di una serie di singole operazioni da analizzare, scomporre e quasi da anatomizzare nelle loro parti elementari; il testo fu così scomposto nelle pagine; la pagina nelle linee; la linea nelle parole; la parola nelle lettere; la lettera nei suoi singoli tratti. La ricomposizione delle parti, in fasi successive e con procedure non più strettamente manuali, avrebbe ridato vita unitaria e dinamica alla lettera, alla parola, alla pagina e al testo. Era un nuovo modo, da tecnico, di guardare alla scrittura non più come a un organismo in movimento, ma come a una sorta di macchina da smontare e da ricostruire diversamente, mirando all'esito finale di garantirle quell'unità e quel dinamismo che da secoli le era conferito dalla mano nello scorrere sul foglio.
Il successo degli esperimenti portati avanti per molti anni da Gutenberg fu raggiunto grazie al concorso simultaneo di una miriade di procedure e di innovazioni tecnologiche, anche minute, messe a punto in diversi settori delle attività artigianali del tempo, dalla preparazione degli inchiostri fino alla satinatura dei fogli già stampati. In breve, furono tre le aree produttive in cui si articolò l'intero processo tipografico: la fonderia, la composizione e la stampa vera e propria.
Mentre la stampa xilografica nasceva dall'impressione lasciata sul foglio da una tavola di legno intagliata con l'immagine in rilievo e inchiostrata, la stampa tipografica ebbe la sua origine grazie agli sviluppi che aveva conosciuto l'arte della fusione e della produzione di leghe metalliche. Erano già noti i risultati che si potevano ottenere nella realizzazione di grandi quantità di monete ricorrendo non alla punzonatura ma alla fusione. Gutenberg, combinando fra loro punzonatura e fusione, giunse alla produzione di migliaia di caratteri, anche minuti, tutti perfettamente identici tra loro. Un punzone di metallo resistente, con una lettera incisa in rilievo su una estremità, era battuto su una matrice di metallo più dolce, generalmente di rame, che riceveva l'impronta della lettera non più in rilievo ma in cavo. Si potevano preparare in tal modo tante matrici quante erano le lettere dell'alfabeto e gli altri segni da riprodurre con la stampa. In quest'arte divenne celeberrimo, tra Quattrocento e Cinquecento, Francesco Griffo da Bologna, che incise i punzoni di caratteri tondi e corsivi per Aldo Manuzio e per Gershom Soncino. La matrice, a sua volta, era posta all'estremità di una cavità in forma di parallelepipedo di un piccolo stampo entro cui era colato il metallo fuso, in modo tale che, una volta scostata la matrice e riaperto lo stampo, si potessero ottenere migliaia di caratteri perfettamente identici l'uno all'altro, e tali da essere allineati e serrati tra loro per dare vita alle parole, alle righe e alle pagine di piombo su cui imprimere il foglio.
Il compositore, a differenza dell'incisore dei punzoni e del fonditore di caratteri che si affacciavano soltanto allora sul mondo del libro, era la figura che più di ogni altra raccoglieva l'eredità lasciata dal copista, nel senso che alla sua mano e alla sua abilità era affidato il compito di copiare, per così dire, l'esemplare, accostando tra di loro i singoli caratteri per riprodurre i testi nella nuova pagina di piombo. Lavoro reso più arduo dal fatto che, mentre il copista scriveva le pagine una dopo l'altra, in base all'esatta sequenza del testo, il compositore procedeva invece secondo la sequenza, discontinua e a salti, con cui esse dovevano essere poste sotto il torchio; la necessità infatti di stampare con lo stesso colpo di barra tutte le pagine di una medesima facciata comportava, per esempio, che in ogni fascicolo fossero stampate contemporaneamente e col medesimo colpo di barra, la prima e l'ultima pagina, la quale pertanto doveva essere composta prima delle altre pagine interne. Tutto ciò fece sì che anche il testo in tipografia non fosse concepito come una sequenza ordinata e unitaria di contenuti, ma come una struttura composita, da disarticolare in pagine separate, stampate in tempi diversi; esse avrebbero ritrovato la loro originaria unità logica soltanto nella ricomposizione finale dei fascicoli. I primi tipografi incontrarono non pochi problemi, soprattutto nella stampa dei libri di piccolo formato, in cui questo processo di disarticolazione del testo era maggiormente accentuato; solamente tra la fine del XV sec. e gli inizi del XVI furono messe a punto procedure standardizzate che si diffusero ben presto in tutta Europa e rimasero in uso, senza variazioni di rilievo, fino ai primi anni del XIX secolo.
La stampa costituiva la terza e ultima fase di produzione nell'officina tipografica, dal momento che la quarta fase, cioè l'assemblaggio delle carte e dei fascicoli, la loro cucitura e la legatura del libro, si svolgeva presso le botteghe dei cartolai o dei librai, spesso a molte miglia di distanza dalla stamperia. Per circa quattro secoli i libri furono stampati sotto torchi in legno, azionando a mano una barra che, grazie a una vite continua, spingeva con il suo piano di pressione il foglio sulla forma costituita dalle pagine di piombo precedentemente inchiostrate a mano.
Il torchio era infatti costituito da due strutture lignee, una verticale e l'altra orizzontale, ciascuna con parti fisse e mobili. La struttura verticale era formata da due ritti, generalmente fissati alle pareti e al soffitto con putrelle, entro cui una vite continua, azionata da una barra, premeva verso il basso un piano orizzontale, detto platina. La struttura orizzontale era invece costituita da una sorta di robusto tavolo su cui scorreva un carro trainato, su due guide metalliche, da una manovella; esso portava la forma delle pagine di piombo inchiostrate e il foglio da stampare. Le due strutture erano incastrate l'una dentro l'altra in modo da costituire un'unica macchina. Almeno due erano gli addetti al torchio: il tiratore che inchiostrava le forme di piombo, vi poneva sopra il foglio e tirava il carro sotto la platina e il battitore che, azionando la barra, premeva con forza la platina sul foglio da stampare già steso sulla forma di piombo. Per ovviare all'impossibilità di distribuire una pressione forte e uniforme su ampie superfici con torchi di legno, si giunse ben presto a far avanzare sotto la platina il foglio di stampa in due tempi, in modo che il battitore ne stampasse, separatamente, la prima e la seconda metà con due diversi colpi di barra.
Questi furono gli strumenti e il modo di lavorare che, nelle loro caratteristiche essenziali, furono approntati da Gutenberg fin dai primi anni della stampa, anche se soltanto dopo alcune generazioni, di fatto ai primi del Cinquecento, ebbe termine la fase più propriamente sperimentale con la definitiva affermazione di procedure identiche e ben codificate, in Germania come in Italia e negli altri paesi europei. Fu allora che il libro a stampa, ormai completamente rinnovato nella sua configurazione grafica rispetto al codice manoscritto, divenne per chiunque il libro per antonomasia, in grado di rispondere anche alle aspettative dei clienti più esigenti, lasciando ai manoscritti aree di diffusione marginali, secondarie e, in alcuni casi, clandestine.
Nel giro di pochi decenni il libro, non più scritto a mano ma stampato, ha subito una profonda metamorfosi che l'ha portato ad assumere una nuova fisionomia e a essere percepito in modo diverso; non più come il frutto del paziente e tradizionale lavoro di copiatura, che aveva negli antichi scriptoria la sua cuna, ma piuttosto come il modello di un modo di produrre in cui l'uomo si avvale di strumenti, di macchine e di procedure che, pur simulando l'azione diretta delle sue mani, raggiungono livelli di perfezione e di rapidità che a esse non sono consentiti.
Il libro diviene in tal modo il testimone più accreditato dei tempi nuovi e si fa veicolo, nella sua stessa configurazione materiale, della diffusione e dell'affermazione del saper fare ma, soprattutto, del saper concepire e progettare che gli hanno dato l'attuale configurazione grafica e testuale. Infatti, l'invenzione della stampa tipografica è stata possibile proprio perché Gutenberg e i suoi primi seguaci hanno saputo servirsi di procedimenti tecnici e mentali diversi, ne hanno approntati di nuovi attinenti a settori fino ad allora considerati distanti e li hanno orientati, seguendo una linea di sviluppo coerente e unitaria, alla nascita di un manufatto tecnologico che, durante le complesse e diversificate fasi di produzione, ha trovato la sua naturale coerenza e unità, non tanto negli strumenti effettivamente approntati (per esempio, punzoni, inchiostri, torchio di legno, carta da stampa, ecc.), quanto piuttosto in un fatto mentale e concettuale, cioè nel progetto tipografico ed editoriale che ne è alla base e ne costituisce la solida anima operativa.
Per questo le procedure di scrittura meccanica restano, più ancora di quelle manuali, una prerogativa della mente, nella misura in cui il tipografo (il prototipo e l'eponimo, da Marshall McLuhan in poi, dell'homo typographicus dei sociologi) ha acquisito e praticato i modelli concettuali e operativi dell'Età moderna e ha messo a disposizione degli uomini di lettere e di scienza tutte le potenzialità espressive della prima tecnologia della comunicazione di massa, impensabile fino ad allora e rimasta dominatrice incontrastata per secoli. La nuova tecnologia ha trasformato la bottega del tipografo in un luogo bivalente, frequentato da operai e da tecnici ma anche da Erasmo, da Lutero e ben presto da Vesalio, da Copernico e da quanti hanno seguito questi ultimi sulle vie delle scoperte scientifiche.
La metamorfosi del libro a stampa non è infatti estranea a quell'insieme di fattori che hanno aperto le porte alla maniera moderna ‒ astratta e analitica ‒ di concepire il lavoro; vi hanno contribuito sia il modello organizzativo adottato nelle varie fasi di produzione, dalla fusione dei caratteri all'assemblaggio dei fascicoli, sia soprattutto l'immagine e la fisionomia del manufatto, per forza di cose divenuto, agli inizi del Cinquecento, radicalmente diverso dal codice manoscritto nel disegno delle lettere alfabetiche, nella conformazione delle pagine, nella struttura del testo e, infine, nelle modalità stesse della sua circolazione in centinaia di esemplari. Agli occhi dei contemporanei esso ha finito così per perdere i significati allegorici che prefiguravano realtà eterne, ed è diventato, invece, un modello tecnologico di riferimento nello scoprire e nel concepire lo spazio, ormai quasi senza confini, riservato all'azione dell'uomo, cioè al suo contributo creativo nell'addomesticare le asprezze della Natura e nell'approntare strumenti e manufatti in grado di migliorare la qualità di questa esistenza terrena e renderla, in tal modo, più umana e sopportabile.
La stampa tipografica ha ormai completamente affrancato il libro dai tradizionali modi di produrre propri delle maestranze medievali, lo ha staccato dalla mano dell'uomo e lo ha liberato dall'alone mistico e sacrale che lo aveva accompagnato per secoli, quando, ancora in forma di rotolo, era stato uno dei segni dell'Apocalisse, e quando, lungo tutto il Medioevo, il codice manoscritto era divenuto uno dei più abusati simboli di ogni concezione esoterica del mondo. Grazie alla stampa tipografica il libro è stato trasformato nel prodotto più raffinato e diffuso di un modo, tutto artificiale e terreno, di concepire il lavoro dell'uomo, trasferendo anche la sua capacità di testimonianza allegorica dall'antico al nuovo, dal cielo alla Terra, quale immagine di un Universo non più magico o sacrale, ma pienamente circoscrivibile entro i confini dell'azione e della mente umana. Galileo Galilei e gli uomini della sua generazione fanno riferimento nei loro scritti proprio a questa nuova percezione del libro stampato, portatore di un modello organizzativo e tecnologico di intervento che dalla seconda metà del Quattrocento aveva cominciato a prefigurare e ad aprire la strada alle procedure, alla mentalità e al modo di guardare alle cose e all'Universo propri del sapere scientifico.
Un'esplicita testimonianza in questo senso ci viene, agli inizi del Cinquecento, da Sigismondo Fanti, architetto e ingegnere, che, pur proclamandosi il minimo tra gli homini scientifici, pubblicò un trattato sul modo di scrivere e di fabbricare ogni specie di lettere (De modo scribendi fabricandique omnium litterarum species, 1514) in cui voleva far sopravvivere anche dopo l'invenzione della stampa l'antica armonia della scrittura manoscritta, ponendola però sotto l'insegna della matematica e della geometria. Intendeva cioè affrancarla dalle incertezze e dalla precarietà dello scorrere della mano, determinando con esattezza la forma e la misura delle lettere, ormai trasformate in una sorta di fabrica, i cui elementi, non più lasciati all'estro e all'abilità del copista, erano scritti, anzi disegnati, ciascuno secondo la propria ratio, cioè nel rispetto di precisi calcoli proporzionali. Sigismondo Fanti, in altre parole, nel trasmettere alle nuove generazioni dell'età tipografica l'antica sapienza della scrittura a mano, ha soppresso quanto ancora di misterioso e di sconosciuto la legava al fluire della mano e dello spirito dell'uomo ed è approdato a una illustrazione dei modi di fabbricare le lettere dell'alfabeto ispirata sia ai principî geometrici e astratti degli homini scientifici, sia, contemporaneamente, ai procedimenti produttivi messi in opera nella fabbricazione dei punzoni e dei caratteri di piombo. Giova osservare che questo incontro non casuale tra mentalità scientifica e procedure tipografiche costituisce un'ulteriore prova del fatto che le tecnologie e i modelli operativi e concettuali che hanno accompagnato la nascita della stampa possono essere iscritti, per usare ancora un'immagine tipografica, tra gli incunabula della scienza.
Le innovazioni della stampa interessarono non soltanto il libro quale manufatto, ma anche la sua dimensione testuale. Nei primi decenni, e in aree periferiche per molto tempo ancora, vediamo riproposta nei libri stampati la medesima struttura organizzativa propria di quelli manoscritti: incipit, testo, explicit, con un eventuale apparato di dediche, prefazioni, glosse o commenti. Non poteva del resto avvenire diversamente. Si notano però ben presto alcuni cambiamenti, connessi in genere al fatto che nella configurazione a stampa il testo non costituisce un unicum, ma è l'esponente di una famiglia di centinaia di esemplari. Si assiste così alla nascita del frontespizio, che rende espliciti e palesi i connotati anagrafici (autore, titolo, tipografo, luogo e anno di stampa) delle edizioni e consente loro di essere più facilmente individuate tra le centinaia e migliaia di libri che affollano gli scaffali delle botteghe librarie e delle biblioteche. Inoltre, col passare del tempo, la stampa ha imposto una ristrutturazione nel modo stesso di presentare i testi, intervenendo non solamente sulla lingua e sul sistema dei segni di abbreviazione e d'interpunzione, ma su tutto l'apparato editoriale e sul corredo grafico per rispondere alle diversificate esigenze di comprensione e di lettura di un pubblico vastissimo, dalla fisionomia intellettuale sempre più sfumata e sfuggente.
Pur restando, infine, la pubblicazione un atto di natura squisitamente giuridica grazie al quale un'opera è messa in circolazione dall'autore, dal dedicatario o da altra persona, con il beneplacito delle autorità e con la consegna di alcuni esemplari per la censura o per le biblioteche nazionali, il fatto di essere affidata non più a un libro manoscritto in un limitato numero di copie, ma a uno stampato in centinaia di esemplari, fece sì che il complesso itinerario tipografico fosse percepito, ai fini della pubblicazione e della distribuzione, come l'evento fondamentale, tanto che opera stampata finì ben presto per significare, tout court, opera pubblicata; d'altronde, la data di pubblicazione coincideva nella quasi totalità dei casi con quella, registrata nel colophon, di chiusura del libro in tipografia.
Per accedere alla pubblicazione a stampa un'opera doveva dunque, da allora, entrare in un lungo processo produttivo che trasformava il manoscritto in un manufatto tecnologico. Ciò fece allontanare dalla pubblicazione e da una più ampia diffusione tutte le opere, già compiute in forma manoscritta, che non potevano ottemperare agli onerosi impegni finanziari imposti dalla stampa tipografica, poiché i forti investimenti, in mancanza di munifiche donazioni, erano ricompensati soltanto da un elevato numero di esemplari venduti in tempi abbastanza brevi. Per questo le prime opere a essere stampate furono quelle che avevano un pubblico ben definito e sufficientemente ampio, come per esempio quelle di argomento religioso (dalla Bibbia di Gutenberg alle opere dei Padri della Chiesa e via di seguito), quelle degli insegnamenti universitari di diritto, filosofia, arti e medicina, o quelle delle scuole di grammatica.
Le nuove esigenze grafiche, produttive e finanziarie imposero una forte selezione anche alle opere scientifiche che si apprestavano a entrare in tipografia, indipendentemente dalle loro effettive qualità intrinseche; alcune vi approdarono fin dai primi tempi della stampa, altre tardarono ancora diversi decenni; altre furono pubblicate, in sede storiografica, soltanto in tempi a noi vicini; altre infine non giunsero mai in tipografia, rivolgendosi forse più a una stretta cerchia di committenti che a migliaia di lettori. Gli scritti di Leonardo da Vinci, per esempio, facevano parte di quella schiera di manoscritti che, come il cosiddetto Manoscritto veneziano sopra menzionato, erano nati per stare con il loro autore o per circolare in una cerchia ristrettissima di dotti; forse, per ragioni grafiche e testuali, non erano neppure destinati, così come sono giunti a noi, alla pubblicazione e alla diffusione manoscritta. Un livello di formalizzazione testuale pienamente compiuta raggiunse, invece, il manoscritto De prospectiva pingendi di Piero della Francesca, che ebbe una discreta diffusione manoscritta, ma giunse alla stampa solamente attraverso la disinvolta mediazione del suo concittadino Luca Pacioli, che si servì pure, nel disegno dei poliedri, dell'arte di Leonardo. Una ricca tradizione manoscritta e una felice circolazione a stampa arrise al trattato e alle ingegnose macchine del De re militari di Roberto Valturio, stampato per la prima volta nella città di Verona, in latino nel 1472 e nella versione volgare nel 1483.
Una panoramica generale delle opere scientifiche edite nel primo secolo della stampa e attualmente conservate nelle nostre biblioteche ci è stata offerta, nel 1963, da Arnold C. Klebs con la pubblicazione del catalogo degli Incunabula scientifica et medica. Le opere che, secondo la sua registrazione, videro la luce nel XV sec. furono 1060, di cui 578 furono stampate una sola volta; delle rimanenti 482 opere, 153 ebbero due edizioni, 180 da tre a cinque, un centinaio da 6 a 10, 36 da 11 a 20, e 14 furono stampate in più di venti edizioni. Il numero totale delle edizioni scientifiche oggi note oltrepassa dunque le tremila unità; esse costituiscono appena la nona parte degli incunaboli giunti fino a noi che, secondo il recente censimento curato dalla British Library, si aggirano attorno alle 27.500 unità.
Tre erano i livelli di circolazione che, con una semplificazione un po' arbitraria, si possono individuare nel panorama generale delle edizioni di argomento scientifico: uno alto, in cui si incontravano soprattutto opere a uso dei dotti e degli studi universitari; uno basso, con i testi dai quali si imparava a far di conto e si apprendevano i primi rudimenti delle discipline utili alla vita quotidiana e alle attività artigianali e mercantili; uno intermedio che, pur tra interferenze e sovrapposizioni con gli altri due livelli, si estendeva su un'ampia area grigia frequentata soprattutto da raccolte, da trattati, da summe, da fascicoli, da tavole e da opuscoli ispirati, da una parte, agli insegnamenti degli Antichi e alla tradizione universitaria, e rivolti, sul versante opposto, alle infinite sfaccettature delle pratiche professionali contemporanee.
La più eloquente testimonianza sui testi di medicina e di scienze naturali, che verso la fine del XV sec. costituivano il corpus tradizionale dell'insegnamento universitario e del più alto livello di circolazione, ci è offerta dalla celebre illustrazione del Fasciculus medicinae di Johannes de Ketham stampato in latino a Venezia dai fratelli De Gregori nel 1491 e riproposto in volgare e con l'aggiunta di testi e xilografie nel 1494. Nella grande xilografia in folio l'umanista Pietro da Montagnana, mediatore culturale tra passato e presente, ha al suo fianco, aperta sul leggio, la Naturalis historia di Plinio; sullo scaffale alle sue spalle sono collocati Aristotele, Ippocrate e Galeno assieme ad Avicenna, Aliabate, Rhazes, Mesue e ad Averroè; mentre su un tavolo sono adagiati tre libri rispettivamente di Pietro d'Abano, di Isaac Israeli e di Avenzoar. Scorrendo i cataloghi degli incunaboli si possono aggiungere a essi altri autori che hanno contribuito ad alimentare gli interessi per la conoscenza della Natura e dei suoi segreti sia nell'insegnamento sia, di conseguenza, nella produzione tipografica, da Boezio, passando per Alberto Magno, fino alla tradizione più recente, qui rappresentata in modo esemplare da Pietro d'Abano.
Mentre queste opere cominciarono ad apparire a stampa in tempi relativamente alti (la Naturalis historia di Plinio fu stampata per la prima volta a Venezia da Giovanni da Spira nel 1469), soltanto più tardi entrarono in tipografia gli scritti che servivano ad apprendere le prime nozioni di aritmetica e geometria; ma la cautela in questi casi è d'obbligo trattandosi di edizioni con un altissimo coefficiente di deperibilità, destinate cioè a sparire senza lasciar tracce, una volta assolto il loro compito di insegnare a far di conto a più di una generazione di giovinetti. Il più antico libro d'abaco a stampa vide la luce a Treviso nel 1478, con un incipit derivato, direttamente, dalla tradizione manoscritta: Incommincia una practica molto bona et utile: a ciaschaduno chi vuole uxare larte dela merchadanzia, chiamata vulgarmente larte de labbacho. Il più fortunato dei libri d'abaco tra XV e XVI sec. fu però La nobel opera de arithmethica di Pietro Borghi, apparsa in prima edizione a Venezia nel 1484.
Accanto ai testi religiosi, le prime opere a essere stampate in Italia furono, nell'età e nella culla dell'Umanesimo, quelle degli autori classici. Tuttavia, dal momento che le edizioni a stampa non si rivolgevano a una stretta cerchia di committenti ma a centinaia di lettori, assunse ben presto grande rilievo la figura del correttore di tipografia che, sempre più di frequente, oltre a farsi garante dell'autenticità e della esattezza dei testi, ne svelava i significati e i contenuti ricorrendo a tutte le risorse messe a sua disposizione dal nuovo e complesso apparato editoriale, con dediche, prefazioni, commenti, annotazioni e, in alcuni casi, con contributi complementari di altri autori antichi ma anche moderni, che ormai cominciavano ad affollare le tipografie.
La Naturalis historia fu filtrata e consegnata ai contemporanei dalle numerose edizioni approntate tra XV e XVI sec., dalle Castigationes Plinianae di Ermolao Barbaro e dal De Plinii ... in medicina erroribus di Niccolò Leoniceno, pubblicate rispettivamente a Roma e a Venezia nel 1492, nonché da quanti, nei più disparati settori delle arti e delle scienze della Natura, fecero ricorso alle sue pagine per interpretare e dare una veste dotta, se non proprio scientifica, alle scoperte e alle invenzioni dei tempi recenti. Sia Francesco Mario Grapaldo nel De partibus aedium (Parma, Ugoleto, 1499) sia Polidoro Vergilio nel De inventoribus rerum (Venezia, Penzio, 1499) scrissero sulla produzione e sulla tipologia della carta di lino e di canapa ricorrendo al linguaggio e ai modelli espositivi della narrazione pliniana dedicata al papiro egiziano, nonostante sapessero molto bene che la carta di stracci era stata introdotta in Europa da appena due secoli ed era un prodotto completamente diverso e nuovo. Vi era, infatti, la convinzione che il sapere degli Antichi fosse il miglior viatico alla conoscenza del presente e offrisse, per lo meno, le categorie mentali più adatte alla sua interpretazione, non soltanto nelle lettere ma anche nelle vicende umane, nelle attività artigianali, negli eventi e nei fenomeni della Natura.
Il passaggio all'Età moderna, com'è noto, ebbe inizio in concomitanza con il recupero del pensiero degli Antichi, sia latini sia greci, diffuso in tutta l'Europa grazie alle edizioni a stampa, che furono fatte in gran copia tra la fine del Quattrocento e nel corso del Cinquecento. Da questo punto di vista, anche il moderno pensiero scientifico dovette pagare il suo tributo all'Umanesimo; infatti la nascita e la crescita delle diverse discipline in cui esso si manifestò avvenne generalmente non per un netto rifiuto dei testi del passato, quanto piuttosto a partire sia dalla inventariazione degli errori, non più testuali ma sostanziali, riscontrati nelle opere della tradizione classica e medievale, sia dalla meditazione di quanto in essi appariva ancora vivo e vitale; l'anatomia di Andrea Vesalio, per esempio, pur annotando le incongruenze di Galeno, ne segue l'intera struttura testuale. Fu allora che i curatori editoriali si trasformarono, quasi naturalmente, da correttori dei testi in revisori dei loro contenuti, prestando sempre maggiore attenzione alle verità comprovate dalle moderne osservazioni sulla vita e sul mondo circostante.
Infatti, l'aumento delle opere a stampa, ormai restituite alla loro limpidezza originale nelle officine di Aldo Manuzio e dei suoi epigoni a Venezia, a Basilea e altrove, fu tale che la lettura privata e personale poteva apparire una continuazione, nel proprio studiolo, delle pubbliche lectiones impartite nelle scuole. Sul versante della produzione intellettuale questo fenomeno, non nuovo ma sorprendente per la capillarità della sua diffusione, fece sì che ormai la sede deputata all'analisi e alla revisione critica dei testi, nonché alla nascita di nuove opere, si estendesse dalle aule delle università e dalle accademie alle stesse officine tipografiche, in cui le opere assumevano quella concreta configurazione editoriale con la quale si presentavano al pubblico dei lettori sparsi in tutte le città europee.
Dalla emendatio dei testi da parte degli umanisti si passò, dunque, alla individuazione delle incongruenze degli autori antichi e medievali, per concludere poi, in sede ormai pienamente creativa e contemporanea, con la proposta di nuove verità e di nuove opere; è questo un percorso testuale ed editoriale che ritorna, quasi immutato, in tutti i settori disciplinari, dalla geometria all'astronomia, dalla medicina all'anatomia, dai libri di curiosità all'architettura. Già s'è detto dei contributi di Ermolao Barbaro alla conoscenza di Plinio, ma anche delle letture critiche che ne fecero Niccolò Leoniceno, Francesco Mario Grapaldo e Polidoro Vergilio. A essi si potrebbero aggiungere tutti coloro (sono tantissimi!) che, nel primo secolo della stampa fin quasi a tutto il Cinquecento, hanno in qualche modo affrontato argomenti di interesse tecnico e scientifico, approdando con le loro opere in tipografia, da Luca Pacioli, a Federico Commandino per Euclide; da Giorgio Valla, da fra Giovanni Giocondo fino alla collaborazione tra Daniele Barbaro e Andrea Palladio per il Vitruvio stampato a Venezia da Francesco Marcolini nel 1556.
Più complesso appare il percorso della tradizione e dell'editoria medica, nate dalla diversa commistione di autori greci e arabi, antichi e medievali, e rimaste per lungo tempo in bilico tra la lectio universitaria e la pratica professionale. Il Fasciculus medicinae, per esempio, pubblicato in veste editoriale dotta, e l'Articella, edizione universitaria per eccellenza, diffusa anche in volgare e in piccolo formato per la pratica medica, furono preceduti e seguiti dai testi della medicina greca e araba in traduzione latina. Questi ultimi rivestirono un ruolo dominante per tutto il XV sec. e per buona parte del secolo seguente, affollando le aule universitarie e le botteghe dei librai. L'editio princeps dell'intero corpus di Ippocrate tradotto dal greco in latino da Marco Fabio Calvo, il quale aveva curato anche una versione in volgare del De architectura di Vitruvio dietro insistente richiesta di Raffaello, fu stampata a Roma da Francesco Calvo nel 1525; in quel medesimo anno nell'officina veneziana degli eredi di Aldo Manuzio vide la luce l'editio princeps in lingua greca delle opere di Galeno, seguita, nel 1526, dall'editio princeps in lingua greca di quelle di Ippocrate. Fu proprio a ridosso di questa restituzione critica che ebbe inizio la stagione moderna della medicina, i cui primi frutti cominciarono a essere raccolti in tipografia con il De humani corporis fabrica di Andrea Vesalio (Basilea, Johannes Oporinus, 1543) e il De contagione et contagiosis morbis et curatione di Girolamo Fracastoro (Venezia, Lucantonio Giunta, 1546).
La conoscenza del cielo e dell'Universo, nell'Antichità e durante tutto il Medioevo, era strettamente connessa, non meno della medicina, sia allo studio della matematica sia alle vicende umane e al loro divenire quotidiano. In tipografia conobbero per molto tempo una fortuna editoriale incontrastata sia il De sphaera mundi di Giovanni di Sacrobosco (John of Holywood), sulla breccia da oltre duecento anni, sia gli scritti dei più accreditati docenti universitari del XV sec., tra i quali si distinse Giovanni Regiomontano (Johann Müller di Königsberg) autore, tra l'altro, di un Kalendarium pubblicato nel 1476 a Venezia in latino e in volgare da Bernard Maler, Erhard Ratdolt e Peter Löslein, con il primo frontespizio a stampa. Ebbero tuttavia un grande successo anche i prognostici compilati spesso in lingua volgare per un pubblico più vasto e stampati in gran numero in città grandi e piccole. Anche gli scritti degli Antichi ebbero una parte rilevante nella produzione tipografica. In un primo momento essi furono noti e diffusi attraverso la mediazione della tradizione araba e medievale, come, per esempio, l'Almagesto di Tolomeo, che aveva ereditato da questa perfino il titolo; anche la sua Geografia fu conosciuta dal XV sec. in poi soprattutto grazie alle numerose edizioni a stampa e agli aggiornamenti che se ne fecero a partire dal 1476 (mentre la prima edizione stampata dell'Almagesto risale al 1515). Come in altri settori del sapere, anche nella conoscenza del cielo e della Terra il nuovo si staccò a fatica e lentamente dal vecchio, come ci mostra il De revolutionibus (Norimberga, Johannes Petreius, 1543) di Niccolò Copernico il quale, nel far compiere i primi passi alla sua teoria radicalmente alternativa a quella tolemaica, seguì un percorso espositivo in cui la disposizione della materia ricalcava le forme e le strutture testuali dell'opera tolemaica stessa.
A partire dagli inizi del Cinquecento la gran quantità di opere emendate e ampiamente diffuse con la stampa, contribuì a facilitare e a rendere estremamente familiare un'approfondita conoscenza degli autori classici presso le nuove generazioni. Fu quello il momento in cui, senza timori reverenziali, i testi degli Antichi e della tradizione araba e medievale cominciarono a essere sistematicamente confrontati tra loro e con quanto emergeva dalle nuove osservazioni che i Moderni andavano facendo sulla Natura circostante, sulla Terra e sugli astri, dando risposte nuove a problemi antichi, e aprendo la strada a nuove proposte di ricerca nell'astronomia, nella medicina, nelle scienze della Natura, nelle matematiche, nelle arti della ceramica e in quella dell'estrazione dei metalli. Le nuove ipotesi, le scoperte, le invenzioni e ogni altro ritrovato finirono poi, a loro volta, per approdare in tipografia, passaggio ormai obbligato di ogni comunicazione tecnica e scientifica interessata ad allargare il suo raggio d'azione al di là degli amplissimi confini delle relazioni personali ed epistolari, a tutti i paesi europei e a quanti, a qualsiasi titolo e in qualsiasi sede, fossero interessati al progredire del sapere e delle arti.
In pieno XVI sec., la stampa si trovò dunque a svolgere la duplice funzione di veicolo del sapere antico e di punto d'approdo di quello moderno, imprimendo una forte accelerazione all'intero processo di comunicazione e di elaborazione del pensiero scientifico, favorendo la circolazione e il confronto delle conoscenze, sia di quelle recepite dal passato sia di quelle più innovative, affiancando da questo punto di vista il lavoro che si andava svolgendo nelle università, nelle accademie, presso le corti o nelle stesse botteghe artigiane. Ciò fu particolarmente vero in quei settori che più degli altri avevano bisogno di trasmettere con illustrazioni, con carte o con mappe gli esiti delle indagini; Tycho Brahe fece fronte alle proprie esigenze di riproduzione impiantando nel 1584 una tipografia privata a Uraniborg; Andrea Vesalio invece ricorse, per la preparazione delle xilografie, alle maestranze e alla tradizione artistica di Venezia e, per la stampa, a Johann Herpst di Basilea, che si faceva chiamare secondo l'uso umanistico del tempo Johannes Oporinus, professore di greco e uno dei più affermati tipografi europei dopo il declino dell'officina veneziana di Aldo Manuzio.
L'invenzione della stampa tipografica non fu un fenomeno isolato, ma fu preceduta e accompagnata nel suo sorgere dalla scoperta e dall'esercizio della stampa xilografica, in cui tavole di legno erano intagliate in modo da lasciare in rilievo i tratti delle figure e delle parole da inchiostrare e da riprodurre in centinaia di copie; a volte i fogli stampati potevano essere cuciti in fascicoli e dare origine a libri veri e propri, come le cosiddette Biblia pauperum con scene della Sacra Scrittura, di cui ci sono giunti fortunosamente alcuni esemplari. A Firenze, nel 1477, fu per la prima volta introdotta nei libri, con disegni di Sandro Botticelli, l'illustrazione a stampa con tavole non di legno ma di metallo, generalmente di rame, nelle quali l'immagine era incisa a incavo e non in rilievo. La stampa calcografica, com'era chiamata, non conobbe però agli inizi, fino alla metà del XVI sec., il successo della xilografia, che aveva l'indubbio ed indiscusso vantaggio di presentare in rilievo le parti da stampare, in modo tale da integrarsi perfettamente con le tecniche di inchiostrazione e di pressione della tipografia. Per le tavole in rame, invece, fu messo a punto il torchio calcografico con modalità di inchiostrazione e di riproduzione diverse e separate da quelle tipografiche; le stampe sciolte di origine calcografica dominarono incontrastate per secoli il mondo della riproduzione delle opere d'arte, dai maestri del Rinascimento fino all'Ottocento, quando furono scoperte le nuove procedure di riproduzione litografica e fotografica.
Illustrazioni, figure, tavole, diagrammi, segni e simboli di varia natura hanno sempre arricchito i codici manoscritti di scienze e arti durante tutto il Medioevo, ed erano spesso copiati in modo pedissequo non diversamente dai testi con i quali erano tramandati. Nei primi libri a stampa erano lasciati spazi vuoti o ampi margini per disegni e illustrazioni, come nell'esemplare della Naturalis historia di Plinio stampato a Parma nel 1481 da Andrea Portilia, reso più vivo ed elegante da una bellissima sequenza di piante, fiori, frutti, animali, pesci e uccelli, tutti con il loro nome vicino scritto a mano. Quando però le illustrazioni o i disegni non costituivano solamente un arricchimento esterno del testo ma ne erano parte integrante o complementare, da esibire a tutti i lettori senza dover passare per la costosa bottega del miniatore, si faceva ricorso alla stampa xilografica oppure, come nella Geografia di Francesco Bellingeri (Firenze, Niccolò Tedesco, 1482) a tavole calcografiche. Il primo libro di argomento tecnico con illustrazioni xilografiche fu il De re militari di Roberto Valturio (Verona, Giovanni di Nicolò, 1472); in esso, però, furono lasciati in bianco gli spazi dei titoli, delle rubriche e delle iniziali. Del resto soltanto ai primi del Cinquecento la produzione di tutte le parti del libro (testo, illustrazioni, rubriche e iniziali) fu affidata rispettivamente alla stampa tipografica e a quella xilografica o calcografica.
La riproducibilità in centinaia di copie delle immagini e delle figure, oltre che del testo, era del resto essenziale alla comunicazione del pensiero scientifico; sarebbe quasi impossibile comprendere l'impatto che tra XV e XVI sec. ebbero le edizioni a stampa sulla ricerca e sulla stessa sperimentazione in ogni ramo dello scibile, qualora le privassimo degli apparati illustrativi. La conoscenza della Natura, nei suoi segreti più riposti ma anche nella percezione visiva e nell'idea stessa che se ne forma la mente, trovò nelle immagini xilografiche e calcografiche un valido antidoto agli erbari e ai bestiari medievali, nonché un potente veicolo di comunicazione accanto ai primi tentativi di classificazione e di descrizione analitica delle piante, degli animali, dell'ambiente fisico, dei mari e delle terre vicine e lontane.
Alla creazione dell'immaginario scientifico dell'Età moderna diedero dunque un contributo decisivo le illustrazioni che accompagnarono le opere di Leonhart Fuchs e quelle di Konrad von Gesner, ma soprattutto le vaste rassegne xilografiche di animali, di piante e del mondo inanimato di Ulisse Aldrovandi, apparse a stampa prima e dopo la sua morte avvenuta nel 1605. Le circa trecento xilografie del De re metallica libri XII di Agricola, pubblicato per la prima volta a Basilea presso Hieronymus Froben e Nikolaus Episcopius nel 1556, non soltanto ebbero un ruolo determinante nella fortuna dell'opera, ma contribuirono anche a fondarne la valenza scientifica. D'altronde le rappresentazioni della Terra e del cielo, fin dalle prime carte in rame, disegnate da Taddeo Crivelli, della Cosmographia tolemaica (Bologna, Domenico Lapi, 1477), avevano innestato un processo di comunicazione visiva su larga scala che, di pari passo con le scoperte geografiche e astronomiche, grazie anche all'affinamento degli strumenti e delle procedure matematiche di misurazione e di riproduzione, avrebbe portato alla produzione delle superbe edizioni cartografiche e astronomiche del XVI e del XVII secolo.
La radicale trasformazione dell'immagine scientifica dell'Universo fu accompagnata, in parallelo, dai progressi compiuti nella conoscenza e nella rappresentazione del corpo umano; le tavole anatomiche del Fasciculus medicinae, pubblicate a Venezia alla fine del XV sec., sembrano eleganti esercizi di retorica se confrontate con le xilografie delle Tabulae anatomicae di Andrea Vesalio del 1538, e soprattutto con quelle del suo trattato De humani corporis fabrica. Le illustrazioni di quest'ultima edizione, stampata a Basilea da Johannes Oporinus nel 1543, sono da alcuni ritenute, almeno in parte, di Jan Steven van Calcar che aveva già collaborato alle Tabulae del 1538, ma vanno forse attribuite, con maggiori probabilità, ad artisti anonimi che hanno operato sotto la guida diretta dell'autore; furono, in ogni modo, disegnate e incise a Venezia nel 1542, prima di essere inviate a Basilea per essere stampate assieme al testo e costituire, con esso, un unico canale di comunicazione in cui le parole e le figure dovevano illuminarsi a vicenda. La prima edizione fu tirata, sembra, in più di tremila esemplari. Anche la scelta del dotto stampatore di Basilea, che da allora per circa venticinque anni avrebbe dominato la scena tipografica europea, mirava a garantire, come gli scrisse Andrea Vesalio, l'esattezza di questa corrispondenza, mettendo così la perfezione e l'eleganza della sua perizia tipografica e della sua cultura al servizio del nuovo sapere scientifico.
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