Il Rinascimento. L'impatto delle scoperte geografiche
L'impatto delle scoperte geografiche
I viaggi di esplorazione e di scoperta in cui s'impegnarono in modo più o meno sistematico molti navigatori occidentali coprono assai più di un secolo, dalla prima metà del Quattrocento alla seconda metà del Cinquecento. Nell'arco di questo periodo, gli ultimi anni del XV sec. costituiscono un momento assai particolare, che ebbe un importante impatto conoscitivo, poiché nel breve spazio di un lustro si venne a stabilire il contatto diretto via mare sia con le Indie Orientali sia con quelle Occidentali.
Non si può far a meno tuttavia di sottolineare che, se si verificò allora questa eccezionale circostanza, l'impatto conoscitivo tra il vecchio e il nuovo era iniziato ben prima e si protrasse a lungo poi. Tutto un insieme d'interazioni di svariata natura e di differente portata si accavallarono in questo campo durante il periodo compreso tra il XV e il XVI secolo. Se certe notizie sensazionali fecero il giro del mondo e investirono in pochi mesi i principali centri europei, il processo di ricezione delle novità, di molteplice reazione a esse nonché di una loro sistemazione almeno iniziale fu lento e complesso, come era inevitabile.
In primo luogo va messo in rilievo che nell'insieme delle scoperte, quelle americane ebbero sì una risonanza particolare ma nello stesso tempo esse si trovarono, da un lato, come assorbite nel fenomeno più antico e più vasto riguardante le conoscenze sull'Africa e sull'Asia, e dall'altro lato, si svilupparono per parecchi decenni in episodi successivi di cui ciascuno ebbe un proprio rilievo. La conoscenza del continente americano e degli spazi oceanici che lo contornavano era ancora ben lontana dall'essere compiuta nella seconda metà del XVI sec. (lo sarà solo nel XIX sec.).
Va comunque messo in evidenza innanzi tutto che la capacità degli Europei d'inquadrare scientificamente le conoscenze che si venivano accumulando fu largamente condizionata dalla tendenza a sistemare queste nuove nozioni nel patrimonio del loro sapere antecedente, armonizzandole con il retaggio classico e medievale insito nelle loro visuali.
Si può anzi affermare addirittura che sostanzialmente il Cinquecento fu occupato dal confronto e in parte dallo scontro fra le acquisizioni scientifico-religiose precedenti e la sperimentazione più o meno diretta delle nuove realtà. Questo significa che sul piano scientifico e su quello della percezione medesima tutto quanto si era appreso in precedenza come tutto quello in cui si era creduto resistette fortemente all'innesto dei dati che stavano sopravvenendo. Questi ultimi, durante tutto il XVI sec. ‒ quando non furono travisati o mal assimilati ‒ furono in genere inseriti nel sistema gnoseologico acquisito, dando talora luogo, ma raramente, a elaborazioni originali o che in qualche modo modificassero significativamente quelle tradizionali.
Così ‒ in particolare al di fuori della sfera strettamente geografica ‒ sul piano dell'impatto delle scoperte si dovrà constatare che il sapere scientifico cinquecentesco consistette largamente in un'annessione dialettica delle novità da parte del patrimonio accumulato. Quest'ultimo era, a suo modo, molto organico e vigoroso; ossia, esso non tollerava agevolmente strappi e contestazioni, in virtù della stretta connessione che lo caratterizzava tra capisaldi teologico-filosofici, conoscenze scientifiche e postulati etico-religiosi.
I dati sperimentali e le nozioni tecniche ‒ specialmente se di acquisizione non ancora consolidata ‒ erano autoritariamente ed efficacemente proiettati in una condizione d'inferiorità in quanto considerati non essenziali al vero sapere e ai valori di base della società.
Si può certo dire che in virtù dei ritrovati tecnici e delle conquiste dell'esperienza si realizzò in gran parte il rinnovamento delle scienze oltre che della maggior parte delle prospettive etico-politiche ed economiche, ma questo rinnovamento rimase limitato oltre che timido sino al XVII secolo. Ci si trova, dunque, in presenza di un processo piuttosto vasto e graduale, non meno decisivo del resto per gli sviluppi che seguirono malgrado le sue esitazioni e i freni che lo caratterizzarono; bastò infatti che l'edificio culturale tradizionale cominciasse a mostrare delle crepe perché le fessure iniziali si trasformassero successivamente in falle e in guasti sempre meno riparabili.
Dal punto di vista delle scoperte e delle cognizioni che esse arrecarono si osserverà in primo luogo il significato dell'espressione 'nuovo mondo'. Non si potrà proprio dire che essa fosse di uso corrente per indicare qualsiasi regione prima sconosciuta della cui importanza si fosse consapevoli o che si volesse esaltare. Sta di fatto nondimeno che il ricorso a essa non fu insolito e che probabilmente non fu utilizzata per la prima volta da Alvise da Ca' da Mosto quando qualificò 'altro mondo' i paesi della zona occidentale dell'Africa sino ad allora sconosciuti. 'Nuovo' o 'altro' era più o meno esplicitamente il mondo appena scoperto e quindi sconosciuto quale appariva agli occhi di un viaggiatore occidentale rispetto al mondo suo proprio, ben conosciuto.
Nel periodo compreso fra il Duecento e il Quattrocento gli Europei avevano avuto una serie di esperienze di popoli e di civiltà diversi ‒ in particolare del Vicino e dell'Estremo Oriente ‒ con una percezione assai fluttuante della loro alterità. Lo stesso fenomeno si verificò, anche se in maniera più complessa, a partire da quando gli Europei entrarono in contatto con le terre e con le genti americane, sia pure a un più marcato livello di singolarità.
Questo contatto generò tutta una gamma di reazioni, differenti da un'area geografica all'altra e spesso da zona a zona nell'ambito di una medesima area geografica. Un fenomeno simile era già capitato per i contatti ‒ presto divenuti pressoché abituali e fattisi più estesi soprattutto con il Quattrocento ‒ con le plaghe dell'Africa settentrionale, rispetto a quelli ‒ con i quali i primi avevano poco in comune ‒ stabiliti con le coste occidentali del continente nero, assai meno frequentate; si trattava, in altre parole, di una sorta di 'spostamento' dal noto verso l'ignoto.
A maggior ragione, relativamente all'Asia differenti furono le percezioni ricevute dagli Europei dalle varie genti musulmane del Medio Oriente, dai Mongoli e, spostandosi via via verso est e sud-est, dagli animisti e politeisti indiani e indonesiani, per finire con i Cinesi, dalla ricca spiritualità e dalla meravigliosa struttura statale. Quanto alla nozione di 'frontiera', al di là del concetto di 'frontiera religiosa' riferita alla cristianità ci si trova in presenza d'indicazioni molto labili ed essa è da considerare pressoché sconosciuta nella maggior parte dei casi.
D'altra parte, non vi è una comune misura fra il senso dello 'spazio geografico' proprio di Marco Polo e quello di cui poteva dar prova due secoli dopo Antonio Pigafetta, che fu compagno di Magellano e uno dei superstiti della circumnavigazione del globo.
L'esperienza che gli Europei ebbero degli altri due vecchi e vicini continenti era insomma abbastanza vasta, per quanto ben variegata e spazialmente asimmetrica. Quello che forniva loro una coscienza identitaria, più che la diversità degli altri mondi e delle loro civiltà, era costituito dalla loro appartenenza alla cristianità romana. Di fronte alle realtà islamiche essi provavano più di una remora, al punto di non inoltrarsi spesso in un apprezzamento esplicito di esse, quasi che per loro ciò non fosse né opportuno né conveniente. Gli Occidentali si sentivano assai più a loro agio nell'avvicinare i pagani e gli idolatri, come se nei loro rispetti non ci fosse uno schermo di disagio né un'opposizione inconfessata. È proprio quanto avvenne sin dai primi contatti con gli abitanti delle Antille e poi con le altre genti del continente americano.
Questo significa che, sia pure con riserve talora importanti, al di là delle incontestabili differenze fra i vari popoli, ogni rapporto degli Europei con ciascuno di questi poggiò su una più o meno chiara coscienza o almeno sull'oscura convinzione che sussistesse un'unità fondamentale di tutti gli esseri umani e che qualcosa di essenziale li collegasse. Probabilmente questa disposizione di spirito era condivisa maggiormente dai viaggiatori, dagli esploratori e dai mercanti rispetto agli ecclesiastici. Non va inoltre dimenticato che almeno una porzione significativa di questi ultimi era acquisita da tempo a esigenze missionarie, al convincimento che quanti non erano cristiani potessero divenire tali e quindi membri più o meno a pieno titolo della stessa comunità spirituale fondamentale. I Veneziani, per esempio, in Asia si erano trovati di fronte a una gamma di usi e di costumi così vasta e ricca in ogni senso che gli Iberici o gli altri Occidentali non ne rinvennero nelle Americhe una sostanzialmente comparabile.
Il gioco dialettico fra differenza e similarità che s'instaurò tra le realtà europee conosciute, da un lato, e quelle più o meno esotiche, dall'altro lato, rimase alla base di quasi ogni ampliamento del sapere verificatosi nel corso del Cinquecento. Tale insieme d'interrelazioni rimase, nei tempi che seguirono, il presupposto di pressoché ogni acquisizione scientifica e di ogni sperimentazione, come di ciascuna elaborazione tendenzialmente teorica. Si è abbastanza insistito sul fatto che sotto certi riguardi la percezione delle realtà americane non si distaccò da quella che gli Europei avevano avuto in precedenza ‒ e che stavano continuando ad avere ‒ del mondo asiatico o africano. L'atteggiamento e la disposizione mentale, per esempio, di un Lodovico di Varthema di fronte allo spettacolo offertogli dalle parti più recondite di questi due continenti erano molto simili a quelli dei suoi contemporanei più avvertiti che si trovarono di fronte i popoli e i paesi del nuovo mondo.
Nondimeno ci si deve volgere ora soprattutto a esaminare questo secondo versante ‒ cioè l'interazione tra l'Europa e le Americhe appena scoperte ‒, a rintracciarne i principali aspetti e i maggiori problemi, non senza tenere presenti le osservazioni che abbiamo dovuto premettere. Su tale versante americano, essendo trattato altrove (v. cap. XVI, par. 1) in modo autonomo il rilevante settore geografico, prenderemo in considerazione, in questo capitolo, soprattutto gli aspetti riguardanti la filosofia, le scienze naturali e l'antropologia, rilevando anche le forme di idealizzazione alle quali diede luogo l'impatto di tali scoperte.
Quando, per l'epoca, ci si riferisce alla filosofia, si tocca una zona nevralgica in quanto non si tratta in genere di pura materia speculativa o di elaborazioni metafisiche, ma di convinzioni di fondo attinenti contemporaneamente alle credenze e all'etica, oltre che alle loro ricadute sulla percezione della realtà e, più o meno direttamente, sulla scienza. Proprio partendo dalle strette connessioni già rilevate in seno al patrimonio tradizionale e da quel senso dell'unità dell'umano cui ci si è riferiti, il contatto con le Antille e poi la scoperta progressiva del continente americano suscitarono alcune domande di fondo, qualcuna mentalmente imbarazzante. Il mondo conosciuto era stato popolato, secondo quanto comunemente si riteneva sulla base del racconto biblico, dai discendenti dei tre figli di Noè: i discendenti di Sem in Asia, quelli di Jafet in Europa e quelli di Cam in Africa. Da dove venivano dunque gli Americani e come si poteva salvaguardare l'attendibilità della rivelazione biblica nel caso del loro continente? Erano quesiti che andavano al di là dell'esperienza in quanto le risposte investivano postulati millenari e l'autorità stessa del libro più sacro.
Benché qualche raro ideologo della prima metà del Cinquecento sembrasse propendere a considerare almeno alcuni popoli americani come equiparabili alle bestie, la tendenza generale fu invece quella di ritenerli uomini. Questa fu la posizione della Chiesa cattolica e pressoché di tutti gli ecclesiastici, nonché delle supreme autorità religiose romane e di quelle civili iberiche. Certamente, parecchi coloni spagnoli trattarono spesso gli indigeni proprio come bestie e persino in modo peggiore. Si è perciò potuto affermare che alcune posizioni ideologiche a proposito degli Indios derivavano dall'intento di sostenere gli interessi coloniali e di giustificare tale riprovevole condotta. A simile sospetto si sottrae comunque l'opera del filosofo aristotelico veneto Girolamo Garimberto, autore dei Problemi naturali e morali (1549).
Questo pensatore attirò l'attenzione sul fatto che quella verso l'idolatria, oltre che verso l'errore, era una tendenza naturale nell'uomo e si era manifestata sia nelle Indie Orientali sia in quelle Occidentali. Gli Indios d'America non erano quindi più riprovevoli di tanti altri indigeni e ancor meno meritavano di esser degradati a un livello subumano. Garimberto osservò inoltre che "per l'influenza delle cause superiori" in paesi diversi e fra loro remoti erano emerse "conformità di vita e di costumi". Su un piano concettuale il filosofo ravvisava la radice di simili 'conformità' nell'azione della Natura, propria dei vari popoli e unica in ciascuno. Non bisognava quindi necessariamente attribuire a trasmissioni culturali o a corruzione morale ciò che poteva avere una spiegazione naturale, piuttosto neutra dal punto di vista etico e applicabile a qualsiasi punto del globo. Garimberto, per corroborare la propria tesi, non disdegnò di ricorrere al mito platonico dell'Atlantide che sarebbe in seguito sprofondata nell'oceano omonimo; certe usanze o credenze non attribuibili direttamente alla Natura e proprie degli Indios si erano potute trasmettere attraverso quella terra prima che essa s'inabissasse a causa di un gigantesco terremoto.
Non è detto che le riflessioni del filosofo veneto avessero maggiore diffusione delle molteplici paternità che furono attribuite agli Americani, di volta in volta considerati come discendenti dei Camiti, dei Tartari o addirittura degli Ebrei. Queste spericolate ascendenze avevano comunque un'origine del tutto analoga a quella individuata da Garimberto, ossia la convinzione dell'unicità della specie umana, della quale gli Indios non potevano non far parte. C'era ovviamente chi più di altri voleva salvaguardare il prestigio dell'autorità della Bibbia, ma il ricorso a una 'Natura-Madre' era ormai largamente diffuso nella cultura occidentale, tanto di stampo medievale che di stampo umanistico. Certamente, alcuni fra i più noti pensatori e ideologi cinquecenteschi ‒ basterebbe nominare Acosta ‒ fecero di tutto per mostrare la continuità o la relativa facilità di comunicazione fra i vecchi continenti già conosciuti e il nuovo.
Senza alcun dubbio, le teorie sulle origini degli Americani non avevano una matrice filosofica, e ancor meno scientifica, ma piuttosto una matrice politica. Per quanto fantasiose potessero essere tali teorie, nessuna cultura occidentale e coloniale se ne privò, dalle culture iberiche a quelle anglosassoni, in particolare inglesi e olandesi; nondimeno, le loro implicazioni erano state, sin dall'inizio, anche concettuali, in quanto si trattava di verificare sino a che punto avrebbe saputo reggere la tesi monogenetica di fondo, intesa a ricondurre tutti i popoli a un unico ceppo. Theophrast Bombast, detto Paracelso, si può considerare il primo ad aver sostenuto in diverse opere, dal 1520 in poi, la soluzione poligenetica. Invero, già Aristotele aveva ipotizzato la generazione di esseri viventi ex putri materia e Pietro Pomponazzi, sulle tracce di Avicenna, si era avventurato a prospettare la generazione spontanea dell'uomo. Per Paracelso, se tutti gli uomini derivavano da un solo Dio, non poteva essere provato che tutti provenissero da un unico progenitore. Nel caso degli Americani quel filosofo opinava che, pur essendo in tutto simili agli uomini, fossero privi di anima (che magari avrebbero potuto acquistare per connubio con i cristiani). Precedendo a suo modo e in certa misura Garimberto, egli sostenne che gli Indios erano nati dopo il Diluvio non per atto di Creazione divina ma per l'influsso degli astri sulla materia putrida.
Per quanto sia mancata in Gerolamo Cardano l'affermazione esplicita della possibilità di generazione spontanea dell'uomo, essa era implicita nel suo De subtilitate. Giulio Cesare Scaligero la enunciò apertamente negli Exotericarum exercitationum libri del 1557, come più tardi fece Giordano Bruno nello Spaccio de la bestia trionfante (1584) e nel De innumerabilibus, immenso et infigurabili (1591). Bruno non parlava più di generazione ex putri materia ma affermava che ciascuna varietà umana costituiva una specie a sé stante, senza relazione di parentela con le altre. Così da più parti, e non certo dai pensatori meno eminenti dell'epoca, erano insidiati e addirittura scossi i cardini dei principî teologico-filosofici tradizionali, in più o meno diretta connessione con le scoperte americane. Queste nel Cinquecento non provocarono una vera e propria contestazione delle organiche prospettive di fondo che avevano informato la civiltà occidentale nel corso dei secoli precedenti; tuttavia, tali scoperte vennero a costituire un elemento supplementare e scalzante in seno a un processo culturale che sotto vari aspetti era già in crisi o affetto da una rilevante diminuzione di fiducia e sicurezza nelle proprie fondamenta concettuali e mentali.
Questa azione trasversale, che inconsapevolmente portava a scuotere o a ribaltare le originarie certezze di base, si manifestò in modo abbastanza chiaro, se pur non sistematico, sul versante della filosofia ma non su quello delle scienze naturali o mediche. Nel corso del Cinquecento, in buona parte in virtù delle scoperte americane e di quanto esse furono valorizzate sul piano della conoscenza, si registrano notevoli arricchimenti ma non forme di destabilizzazione del sapere acquisito. È bensì vero che ormai uno degli assunti fondamentali divenne quello di far appello all'esperienza e addirittura, almeno in certi casi, all'esperimento, ma questa istanza, che a più o meno lontana scadenza portava a mettere in questione il sistema scientifico preesistente, rimase largamente equilibrata dall'accettazione quasi totale del sapere elaborato dagli Antichi in questi campi, in primo luogo da Plinio il Vecchio. Le acquisizioni botaniche e zoologiche dei classici continuarono a non esser messe in discussione tranne che marginalmente. Per di più, la singolarità, talora sconvolgente, delle nuove specie vegetali e animali americane fu ricondotta in modo pressoché sistematico ai generi già descritti e propri del continente europeo.
Sul piano della medicina e delle conoscenze affini, probabilmente il contributo maggiore delle scoperte fu recato alla farmacologia. La cultura del vecchio continente era da sempre orientata verso la ricerca dei mezzi terapeutici offerti all'uomo dalla Natura, in particolare nel campo dei vegetali. Si può citare in merito il guaiaco, albero dell'America Centrale, introdotto in Europa nel 1526. Oltre che con il nome latino di lignum vitae, esso fu anche chiamato 'legno santo' o 'legno benedetto' per le sue applicazioni benefiche. Va ricordata in proposito la sifilide, malattia di cui fin dall'inizio fu controversa la trasmissione dagli Indios ai colonizzatori o viceversa. Essa costituì l'oggetto dell'opera largamente diffusa del celebre medico rinascimentale Girolamo Fracastoro, il quale descrisse estesamente e raccomandò il guaiaco per la cura di quel morbo. Anche i viaggi dei Portoghesi in Asia contribuirono alle acquisizioni medicinali dell'epoca, come dimostra la fortunata diffusione in varie lingue degli scritti di García de Orta (Coloquios dos simples e drogas de cousas mediçinais da India, 1563).
Costituì senza alcun dubbio un'esigenza scientifica di primo piano quella di descrivere ciò che era stato osservato di persona piuttosto che pubblicare opere fondate su altre opere. Nondimeno, nel corso del XVI sec. non vi furono in pratica investigatori che si recarono personalmente nel nuovo mondo per inventariarne o classificarne gli esseri. In generale, anche i maggiori cultori di scienze naturali del tempo si basarono nelle loro opere su quello che avevano narrato gli esploratori, i viaggiatori o gli storici. Quasi unico è il caso di Gonzalo Fernandez de Oviedo y Valdés, con il suo Sumario de la natural historia de las Indias, del 1526, nonché con la successiva e incompiuta Historia natural y general de las Indias y Islas y Tierra Firme del Mar océano, uscita a partire dal 1535. Giunto in America nel 1514 e installatosi a Santo Domingo, dove redasse la sua Historia, ne pubblicò la prima parte sulla base di un'esperienza di ben ventidue anni, continuando poi in modo indefesso le sue indagini e le sue descrizioni sino alla morte (1557).
Non s'intende diminuire in alcun modo l'importanza dell'immenso lavoro di Konrad von Gesner, in particolare della sua Historia animalium (1551-1558), per la quale è considerato il fondatore della zoologia moderna. Anche egli si servì, arricchendola, dell'opera di altri; per esempio, il quadrupede americano simile a una grande scimmia da lui denominato haiit o hajjti e raffigurato nelle sue Icones animalium (1560), fu ripreso dall'opera del viaggiatore francese André Thevet. Pure citato da quest'ultimo, benché non rappresentato nelle Icones, è l'heyrat, animale color castagno non molto diverso dal gatto, che si nutre di miele senza uccidere le api. Alcune volte Gesner si limitò a menzionare, senza descriverle né raffigurarle, alcune specie americane come il cativare, di cui mutuò la conoscenza da Giovanni Stadenio.
Senza alcun dubbio il contributo del naturalista zurighese alla conoscenza della fauna americana è stato notevole, tenendo anche conto del fatto che egli ne registrò varie specie a pochi anni dalla loro prima segnalazione. Rispetto all'insieme degli animali da lui enumerati il nucleo di quelli americani rimase senz'altro ristretto, anche se talora egli si azzardò ad alcuni tentativi di classificazione di questi esseri esotici. È il caso del tatus, un quadrupede esistente sia in Guinea sia nel nuovo mondo, che Gesner ravvicina alla specie brasiliana appartenente agli erinacei. Dalla citazione delle sue fonti si apprende che egli mutuò l'immagine del su, di forma mostruosa ‒ già osservato da Thevet ‒, mentre riprese l'aiotochtli della Nuova Spagna da Cardano che non era mai stato oltre oceano. L'opera Les singularitez de la France antarticque del viaggiatore francese costituì la base principale della sua informazione sull'America, avendo Gesner tratto da essa la descrizione dell'ostracion, pesce simile all'aringa e denominato tamouhata dagli indigeni. Oltremodo rare furono le specie americane che il naturalista poté vedere con i propri occhi, come il toucan, citato da Thevet ma del quale ottenne un esemplare dal piemontese Giovanni Ferrerio. Gesner descrisse pure un pesce divoratore capace di mordere anche i pescatori, l'houperon homicida o piranha, di cui dette due immagini diverse nelle sue Icones aquatilium e che tentò di aggregare al genere dei cani.
Lo spagnolo Gonzalo Fernandez de Oviedo y Valdés fornì le prime descrizioni scientifiche degli alberi gommiferi, della pianta del tabacco e di una moltitudine di essenze mediche oltre che di vegetali commestibili. Egli, a buona ragione, può essere considerato il primo descrittore metodico dei fenomeni naturali delle Indie, dei quali fece un punto d'onore e un compito civile offrirne un dettagliato spaccato. La critica delle fonti ebbe in lui un adepto convinto e tenace, sempre fermo nel proposito di dover accertare con ripetuti controlli ciò che non aveva osservato di persona. È pur vero che nella forma espositiva egli si mantenne piuttosto vicino ai 'bestiari' medievali, giacché descrisse animali o piante uno dopo l'altro, senza ricercare affinità genetiche e senza un ordine sicuro. Il fatto è che Oviedo si rivolse a lettori innanzi tutto spagnoli, non a una cerchia di naturalisti, e per tale motivo di ogni genere cominciò con il sottolineare le similitudini con quelli della Spagna, precisando però subito le differenze e mettendo in rilievo le peculiarità delle creature d'oltreoceano; insomma egli procedette dal cognito all'incognito, dal familiare al sorprendente, per approssimazioni successive attraverso affinità generiche e differenze specifiche. Così, egli sostituì un'esperienza sorvegliata agli schemi della fisica scolastica e con tenace cautela pose le prime basi di una nuova scienza naturale 'americana'.
Sotto lo stimolo delle sorprendenti realtà del nuovo mondo si orientò verso classificazioni che suscitavano i problemi della specie e dei generi e quindi delle qualità essenziali rispetto ai caratteri accessori, distaccandosi dai suoi contemporanei per la noncuranza dimostrata nei riguardi di storie straordinarie di animali o di virtù prodigiose di erbe; per tali motivi e per la grande originalità delle conoscenze questo castigliano è da considerare senza dubbio il vessillifero della tendenza del riconoscimento del ruolo rilevante delle scienze naturali nella cultura cinquecentesca.
Oviedo fu animato dall'idea che la Natura nell'insieme era uniforme su tutta la Terra, una nelle Indie come nella Roma di Plinio. Tutto il mondo era l'effetto di un unico atto creatore e l'America non più antica né più nuova del resto. Come le realtà d'oltreoceano 'illustravano' gli stessi testi antichi e li rendevano più credibili, così il nuovo mondo andava incluso nella categoria del conosciuto e considerato senz'altro complementare del vecchio mondo. Questo grande osservatore, che si distinse per la minuziosa lucidità delle sue ricostruzioni naturalistiche, utilizzò spesso il disegno per accrescere l'esattezza del testo e si mostrò attento anche nella resa dei suoni indigeni. Per l'accuratezza delle descrizioni non fu certo inferiore la più tarda e celebre opera del gesuita José de Acosta, la Historia natural y moral de las Indias (1590). Egli si rivelò un ottimo conoscitore della fauna e della flora americane anche quando si trattava di esseri sconosciuti e fu il primo a segnalare l'esistenza di giganteschi fossili animali nel Sudamerica. Acosta si spinse infine al punto di considerare inconciliabile lo stato della fauna del nuovo mondo con la narrazione biblica del Diluvio universale.
La scoperta dell'America, oltre a stimolare notevolmente l'indagine naturalistica e, in parte almeno, la rielaborazione dei principî sui quali essa si era fondata sino ad allora, ebbe anche un forte impatto antropologico. Sino alla spedizione di Cristoforo Colombo tutto quanto un europeo incontrasse negli altri due continenti conosciuti, malgrado la sua incontestabile stranezza o eterogeneità, continuava a essere considerato come appartenente allo stesso mondo e ritenuto pertanto quasi familiare. La percezione delle alterità, in particolare di quelle umane, ne risultava come attutita e in varia misura controbilanciata dalla convinzione dell'unità dell'umano. La scoperta del nuovo mondo innestò un processo differente in quanto fece diventare d'intensa attualità e di assai urgente interesse il confronto fra le realtà europee e quelle americane. Un insieme di fattori culturali, religiosi ed economici creò questo campo di rapporti insoliti nel quale gli Europei si trovarono presi senza che fossero preparati a muovervisi. Tutti, a loro modo, vennero a farne le spese; certo le civiltà americane in maniera più brutale e rapida, ma anche la civiltà europea ne fu incrinata fin dall'inizio.
Senza alcun dubbio colpisce e risalta la particolare e in certo modo straordinaria attenzione sia per la Natura sia, ancor più, per gli abitanti manifestata fin dal principio dai primi scopritori al contatto con le Antille. Alexander von Humboldt osservò addirittura che sin dai primi scambi umani Colombo formulò pressoché tutti i problemi che coinvolsero i rapporti degli Europei con gli Indios durante tutto il Cinquecento. Vi fu innegabilmente nella prolungata e reciproca relazione che ne seguì tutto un insieme di consapevolezze antropologiche che a poco a poco diede luogo a elaborazioni di rilievo. Al di là di tale constatazione non conta meno però osservare quanto gli Europei si palesassero singolarmente sensibili a questa non attesa esperienza, quanto in fondo cominciassero a mostrare di non esser più tanto sicuri di sé stessi e a mano a mano addirittura scossi in profondità da quello che all'origine poteva parere un contatto non prodigioso di per sé. Sebbene si debba tener conto del formarsi di un sapere nettamente antropologico, il senso di questo fenomeno senz'altro assai rilevante e il suo carattere più rivelatore si situano al di là del manifestarsi di tale forma piuttosto nuova di conoscenza. L'impatto della visione dell'umanità americana rivela l'inizio di una palese fragilità interna della civiltà occidentale che, nel breve volgere di un secolo, passò da un atteggiamento implicito e anche esplicito di superiorità a forme di chiara e obiettiva autocritica. Questi sono i due indissolubili aspetti dell'antropologia americana che fu vissuta, sperimentata e, infine, elaborata dagli ambienti dell'Europa atlantica.
È stato affermato con una certa giustezza che, come i conquistadores non giunsero a sostenere la radicale animalità degli Indios, neppure i loro oppositori si mostrarono disposti a riconoscere loro una compiuta condizione umana. Questo riguarda però un certo tipo di rapporti e va rilevato che su altri piani vi furono scambi ricchi e diversi. Le relazioni tra Europei e Americani furono certo largamente di natura coloniale, cioè economico-politica, ma risultarono altresì intessute di riflessi mentali e di dialettica intellettuale. Ben ampia fu la tendenza a considerare piuttosto bestiali le genti presso le quali non si rinvenivano tracce di istituti identici, o almeno sufficientemente simili, a quelli del vecchio mondo. Certamente la forma mentis aristotelica costituì una componente della valutazione europea degli abitanti delle Indie Occidentali. Gli esploratori, in quanto testimoni oculari e conseguentemente ritenuti attendibili, diffusero immagini politicamente grossolane degli Indios e non ne capirono quelle strutture tribali che ancor oggi risultano piuttosto mal comprese. I cosiddetti selvaggi furono, infatti, vituperati o sottovalutati ma altresì esaltati, mitizza-ti e idealizzati e tutto questo non in base a una spassionata antropologia ma in funzione delle visuali e delle intime perplessità rispetto a sé stessi radicate negli Europei e palesatesi in modo manifesto in seguito all'impatto con l'America.
Molto lunga e ricca d'interesse potrebbe essere l'analisi dell'insieme dei sentimenti e degli impulsi espressi in materia dagli Europei nel corso del Cinquecento. Non tentò già Colombo una prima spiegazione analogico-razionalistica dei riti e dei costumi degli Indios? Non vi fu già in lui un rigurgito di memorie bibliche e di mitologie cristiane che sfociò nell'immagine dell'antico giardino dell'Eden di fronte all'eccezionalità della natura antilliana? Già Michele da Cuneo abbozzò nel 1495 una prima spiegazione pararazionale della sodomia indigena. Senza atteggiarsi neppure un momento a missionario, per conoscere meglio le genti incontrate Amerigo Vespucci per ventisette giorni fece vita comune con gli indigeni cannibali, mangiando e dormendo tra loro, osservandoli e interrogandoli. Il navigatore fiorentino ben vide, senza esprimere condanne, che non avevano né leggi né religione, ignoravano la proprietà privata e l'immortalità dell'anima, si sposavano senza formalità e con più di una moglie. L'atteggiamento avvertito e lucido, quasi da naturalista, di Vespucci non fu tuttavia quello più corrente. A contatto con questi Indios, diversamente da quanto era accaduto negli scambi con i vari popoli afro-asiatici, vennero fuori allora i complessi, i tabù e i pregiudizi degli Europei. Questi ultimi, riflettendosi in vario modo in quello specchio, provarono per la prima volta l'impatto di un'umanità percepita come veramente diversa, che induceva all'esame della propria.
Comprendere gli Indios divenne dunque un compito indissolubilmente bifronte, e il sapere antropologico fu dall'inizio forma di consapevolezza critica. Quasi meraviglia che il senso della novità e della singolarità americane sia stato in grado di provocare e di liberare tante resipiscenze o fantasmi. Prestissimo comunque, sin dalla reazione di Pietro Martire che pubblicò i suoi testi dal 1511 in poi, apparve che il dialogo non aveva due ma tre interlocutori: gli Europei, gli Indiani e gli Antichi. Sino alla seconda metà del Cinquecento si pensò che quelle genti esotiche confermassero le tradizioni e i miti greci e romani, e che, d'altra parte, queste tradizioni antiche contribuissero in larga misura ‒ maggiormente di quelle europee contemporanee ‒ a spiegare, con la loro tuttora incontestata autorità, gli usi e i costumi di quelle genti. Già in Pietro Martire l'Antichità fu fatta criterio di verità della natura americana, anche se fu quest'ultima a farsi il più delle volte pietra di paragone delle tradizioni classiche.
Si ripete così il gioco a tre instauratosi contemporaneamente nella sfera delle scienze naturali. Come più volte Oviedo si era avvalso della testimonianza di Plinio per rendere più credibile la realtà esotica che stava descrivendo, così altrove egli avvicinò i feticci dei selvaggi alle figurazioni dei poeti classici. Anche a Pietro Martire le superstizioni indiane avevano ricordato le divinità tutelari degli Antichi; per Oviedo gli Indios bevevano sangue analogamente a quanto avevano fatto i congiurati di Catilina.
Senza alcun dubbio il dialogo non poteva rimanere sempre in equilibrio come in Oviedo, che non stabilì alcuna superiorità né degli Europei né delle genti americane. Tale situazione di stallo non poteva essere duratura, declinando a poco a poco il riferimento agli Antichi e riducendosi il confronto a due interlocutori. L'equo bilanciarsi caratterizzò in parte i primi decenni dell'impatto delle scoperte, durante i quali si manifestarono già aspre e opposte prese di posizione, basti pensare a quelle di Bartolomeo de Las Casas e dei suoi avversari. In seguito, i punti di vista continuarono a divaricarsi e l'antropologia continuò a colorarsi delle tinte rosee o cupe corrispondenti ai vari teorizzatori. Si trattava di una riflessione i cui vari punti di riferimento etnologico rimanevano in apparenza fissi, come se la storia non li sapesse toccare. Si parlava di Greci e Romani, di Sciti, di Tartari e anche di selvaggi americani come se non avessero mai potuto cambiare nel tempo. Di fronte a questi ultimi salì progressivamente l'imbarazzo, non sapendo mettere sullo stesso piano i cannibali, gli Inca o gli Aztechi nonché i Cinesi. Si aprì così il ventaglio delle varie prospettive antropologiche che, sotto l'impatto delle scoperte, scandirono tutto il XVI secolo.
Oltremodo fiero delle gesta dei suoi compatrioti, Oviedo rimase convinto che le imprese dei Castigliani in America fossero superiori a quelle degli Antichi. Di fronte agli Indios, se non cercò scusanti ai loro vizi, si guardò dall'imputare loro colpe o deficienze inesistenti; nel confronto a tre fra questi, gli Spagnoli e gli Antichi, Oviedo accennò a smorzare il prestigio dei Greci e dei Romani e ad attribuire agli indigeni un'indiscutibile dignità spirituale. Contemporaneamente, quando riferì gli atti e i costumi degli Indios, un altro spagnolo, Martin Fernandez de Enciso (1519), lasciò trasparire un misto di simpatia e di cordialità, con una tranquilla certezza della loro umanità e di qualche loro virtù. Testimone oculare, Enciso opinò certo che la loro ingratitudine verso Dio li aveva privati di qualunque capacità oggettiva di avere diritti; nello stesso tempo, egli ebbe nondimeno un'alta stima riguardo alle capacità mentali degli Antilliani, descrisse con minuta cura i loro comportamenti e inoltre fu attento osservatore delle ragioni che essi ne fornivano.
Gli Europei cominciarono a rendersi meglio conto di essere in presenza di un vero e proprio mondo nuovo dopo i viaggi di Vícente Yáñez Pinzon e Juan Diez Solis (1508) e soprattutto dopo la scoperta del Pacifico da parte di Vasco Nuñez de Balboa (1513); subito dopo si verificò la conquista del Messico. Già negli scritti del suo protagonista Hernán Cortés fu celebrata l'alta civiltà degli Aztechi e il loro paese fu considerato alla stregua dell'Europa. Dal canto suo, pur di fronte a popolazioni ben diverse, Antonio Pigafetta, senza manifestare orrore per alcuni loro feroci costumi, si sforzò di giustificarli e fornì anche una spiegazione razionale e suggestiva della loro antropofagia. Posizioni sostanzialmente analoghe assunsero due viaggiatori francesi dopo una prolungata esperienza brasiliana fra il 1555 e il 1558. L'opera Les singularitez de la France antarticque di André Thevet e l'Histoire d'un voyage fait en la terre du Brésil di Jean de Léry ebbero una larga risonanza e un'innegabile influenza non solo sui naturalisti ma anche sulle teorie etnologiche allora correnti.
Durante tutto il Cinquecento, per i contatti divenuti sempre più ampi e frequenti con i popoli, la flora e la fauna degli altri continenti, nella cultura europea ebbe luogo una sorta di processo di livellamento sotto l'egida della categoria del 'naturale', essa stessa in rapida evoluzione. 'Naturale' divenne sempre più sinonimo di 'legittimato a esistere', di 'ugualmente degno di essere', al limite di 'augurabile' e persino di 'esemplare'. Senza costituire un nesso diretto con il loro regime alimentare, i due osservatori francesi appena nominati notarono che gli abitanti del Brasile erano più forti degli Europei, oltre che meno soggetti a malattie. L'esemplarità dei Tupinambu apparve più chiaramente al protestante Jean de Léry (1578), incline non soltanto a criticare ma quasi a mettere in stato di accusa parecchi comportamenti e un certo tono d'insieme del modo di vivere francese. Anche Thevet guardò i Brasiliani con simpatia e comprensione, ma Léry ne tracciò un'immagine più lusinghiera, nello stesso tempo criticando fortemente il livello morale del proprio paese d'origine.
Lo spettacolo offerto dai Tupinambu, oltre a far denunciare i cattivi costumi europei, parve addirittura sufficiente a richiamare già il fantasma del 'buon selvaggio', ampiamente evocato, molto più tardi, da Jean-Jacques Rousseau. Ispiratrice di questo atteggiamento mentale fu proprio l'idea che in quel popolo si rivelasse e brillasse ciò che era più vicino alla Natura e quindi umanamente più autentico; Thevet affermò esplicitamente che esso si uniformava soltanto alle leggi che la Natura gli aveva dato. Pertanto, quegli indigeni finirono per essere considerati come i più vicini nel mondo a un più o meno mitico stato primitivo ritenuto sostanzialmente positivo. Del resto, a Thevet e a Léry venne spontaneo riferire lo spettacolo offerto dai Tupinambu non soltanto alle 'coordinate' dell'immaginata Natura ma anche al profilo fondamentale dell'uomo che, a loro parere, era stato tracciato dagli Antichi. Era questo il segno della forte esigenza, nonché della larga fiducia, che esistessero alcuni caratteri antropologici sostanzialmente comuni a tutti gli uomini, fossero essi barbari oppure civilizzati, infedeli oppure cristiani.
Assai più autolesionista come europeo e nettamente più critico risultò l'atteggiamento del grande moralista francese Michel de Montaigne. Per lui non soltanto gli Americani non erano affatto inferiori agli Europei, ma fra loro si scorgeva una maggiore devozione e osservanza delle leggi, e più spiccati sentimenti di bontà, di liberalità e di franchezza; d'altronde, per l'autore degli Essais non era legittimo giudicare i costumi degli altri popoli alla luce di quelli europei dell'epoca; non vi era nulla di selvaggio nei Brasiliani, neppure il loro cannibalismo rendeva preferibili gli Europei, che li sorpassavano in ogni sorta di barbarie. Montaigne scriveva per sentito dire, ma il matematico e naturalista Thomas Harriot aveva accompagnato Walter Raleigh nella spedizione nordamericana del 1585; per lui gli indigeni, pur sprovvisti delle tecniche, delle scienze e delle arti europee, mettevano in opera anche in questi settori un impegno eccellente.
Così, nel tardo Cinquecento si giunse a sistemazioni antropologiche tese a inquadrare concettualmente tutti i popoli, tenendo in particolare considerazione quelli del nuovo mondo. José de Acosta scelse per questo il criterio del miglior uso della ragione e scaglionò le varie genti su tre gradi di civiltà. In quello più basso rimanevano gli Indios, ignari di leggi, di magistrati e di governo; sopra stavano i Messicani e i Peruviani, che possedevano tutto questo benché fossero privi di scrittura e di filosofia, in vetta si trovavano i Cinesi e i Giapponesi. Nel De veritate religionis christianae (1583) Philippe Du Plessis Mornay scelse un riferimento più fluido e incerto, ossia secondo lui la civiltà si affievoliva a mano a mano che fioriva in zone più lontane dalla Mesopotamia. Il risultato tuttavia era analogo, a Messico e Perù era riconosciuta una certa eccellenza per la loro 'prossimità' all'Estremo Oriente cinese. Infine, Gregorio García, nella sua Origen de los Indios de el Nuevo Mundo (1607) opinò che gli Indios provenissero dall'Asia, ma che il clima americano e gli influssi celesti li avessero fatti degenerare e imbarbarire.
Così, dall'impatto delle scoperte aveva preso l'avvio la via evolutiva che l'etnologia avrebbe seguito e variamente arricchito nei secoli successivi. Lungo questa via l'Europa s'impegnò alternativamente a vantare la propria supremazia e ad autocriticarsi. Questa seconda piega, tanto insolita in genere nelle altre civiltà, era il segno e la conseguenza della lesione interna verificatasi nella coscienza europea. Tale crisi si sarebbe accentuata, sino a persuadere, nel XX sec., vari Europei della loro decadenza, a far provare loro un incongruo senso di colpa, preludio della multirazzialità, come se questa non avesse già prodotto sufficienti dissesti sin dal Cinquecento proprio sul continente americano.
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