Il Rinascimento. Il metodo e l'ordine del sapere
Il metodo e l'ordine del sapere
La ricostruzione del lungo dibattito cinquecentesco sui criteri fondamentali che dovevano ispirare il metodo della ricerca e l'ordine della trasmissione del sapere, nel corso di un'epoca così cruciale per lo sviluppo di tutte le maggiori culture europee, richiede particolare attenzione e cautela. Si tratta, infatti, di un tema assai complesso, nel quale convergono e s'incontrano problemi di varia natura che impegnano chi li affronta a mutare di continuo il proprio approccio e a superare i limiti propri di un'indagine troppo ristretta alla considerazione di particolari ambienti culturali o di contesti disciplinari privilegiati. La necessità di contenere questa esposizione nell'ambito di alcune linee essenziali impedisce di addentrarsi nello studio di testi e documenti pure meritevoli di attenzione, ma che non saranno considerati poiché limitati a episodi troppo particolari. Né, peraltro, sarebbe possibile indagare a fondo i risultati conseguiti dalle diverse proposte metodologiche e didattiche nella pratica reale dell'insegnamento, o il loro vasto e indubbio riflesso sui vari tentativi di elaborazione enciclopedica avanzati, soprattutto, verso la fine del secolo e i primi decenni del Seicento, quasi a conclusione di un lungo tentativo di riorganizzazione e selezione del sapere. Ciononostante, pure uno studio di questo genere potrà mostrare che le discussioni sul metodo degli scrittori cinquecenteschi ebbero una forte incidenza anche su vari autori e testi del secolo seguente. E, del resto, talune ricerche sulla formazione intellettuale di Francis Bacon e importanti indagini sulla presenza delle dottrine ramiste sullo sfondo delle prime meditazioni cartesiane hanno già fornito elementi di grande rilievo per una migliore valutazione dei decisivi dibattiti seicenteschi. Anche senza ricorrere alla rivendicazione di presunti precorrimenti o antecedenti sempre facilmente contestabili, sembra sufficientemente accertato che pure gli sviluppi più avanzati della rivoluzione metodologica, legata ai nomi di Galilei, di Bacon e di Descartes, risultano meglio comprensibili se sono posti correttamente in relazione con un dibattito aperto da oltre un secolo e con le proposte avanzate in un tempo travagliato da crisi, conflitti e trasformazioni profonde che investivano non soltanto gli assetti epistemologici e didattici delle varie discipline, bensì anche gravi e delicati problemi di carattere religioso e politico di cui è facile dimenticare la reale influenza. Una storiografia attenta ai lunghi processi di mutamento può trarre da quelle dispute utili insegnamenti per intendere come la cultura dell'Europa umanistica, ancora assai omogenea, ma già travagliata da contraddizioni, tensioni e fratture crescenti, reagì a un arricchimento dello scibile e alla crescente dissoluzione di un'antica imago mundi, cercando di elaborare degli strumenti che permettessero un primo e generale inventario delle conoscenze umane e chiarissero la natura dei loro procedimenti di 'scoperta' e di 'ordinamento'.
L'analisi di taluni celebri e diffusissimi testi cinquecenteschi conferma che simili problemi assunsero un'importanza davvero centrale in alcuni degli ambienti intellettuali più avanzati dei maggiori paesi europei. Ma il dato forse più importante è che il proposito di fornirne un'adeguata soluzione non fu soltanto caratteristico di personalità o scuole di evidente tradizione umanistica e d'influenza erasmiana, bensì interessò e coinvolse maestri di decisa formazione scolastica, operanti, per esempio, nella Sorbona parigina o nell'Università di Padova. Si trattò, insomma, di un evento culturale di portata europea, connesso spesso alla riforma o alla nascita d'istituzioni educative particolarmente efficaci, come, per citare alcuni esempi più celebri, il Collège Royal, le scuole protestanti tedesche riformate da Melantone, il Gymnasium strasburghese di Johannes Sturm, le università svizzere e inglesi raggiunte dall'insegnamento ramista. Ed è opportuno pure sottolineare che il dibattito sulla methodus e l'ordo, se fu propiziato dal ritorno umanistico dei massimi documenti del sapere filosofico e scientifico classico, rispose, però, in primo luogo, alle necessità di una società in continua evoluzione e delle sue nuove forme di potere, istituzioni politiche e amministrative, norme e costumanze giuridiche che richiedevano una cultura diversa da quella fornita dalle scholae tradizionali. Certo, anche durante i due secoli rinascimentali, le università continuarono a provvedere alla preparazione dei teologi, dei giuristi e dei medici, secondo i curricula ormai canonici, in linea con taluni degli sviluppi più importanti della filosofia e della logica tardo-scolastica. Ma è altrettanto chiaro che, già nella seconda metà del Trecento, a questa cultura se ne contrappose un'altra, fondata sul primato delle discipline filologico-linguistiche, storiche e antiquarie (gli Studia humanitatis), e che mirava a formare un altro tipo di 'intellettuale', ben distinto dalla figura tradizionale del clerc medievale e destinato, spesso, a svolgere funzioni di grande importanza nelle cancellerie degli Stati cittadini repubblicani o nelle 'segreterie' dei domini principeschi o signorili. Non soltanto, il particolare sviluppo di una civiltà che aveva connotati urbani e 'borghesi' sempre più marcati impose pure un inevitabile mutamento dei ruoli e dei caratteri delle professioni intellettuali tradizionali e, cioè, un diverso modo di elaborare e adoperare l'imponente massa di conoscenze giuridiche accumulata da secoli di minuziose esegesi testuali; un'arte medica più legata all'esperienza, meno libresca e che non pretendesse di presentarsi come l'unica scienza della Natura; e, persino, una teologia capace di comprendere la nuova realtà economica e sociale e di rispondere alle esigenze di una profonda inquietudine religiosa, alla vigilia della grande crisi ecclesiale cinquecentesca.
A rendere sempre più urgente e inevitabile la richiesta di un rinnovamento metodologico generale del sapere, largamente influenzato dagli interessi e dai caratteri tipici della cultura umanistica maggiormente diffusa nei vari ambienti intellettuali europei, contribuirono però anche altre circostanze sulle quali è opportuno soffermarsi. In primo luogo, tra la metà del Trecento e gli inizi del Cinquecento, il numero dei colti si accrebbe notevolmente, seguendo l'ascesa sociale dei ceti mercantili e artigiani. Nuove scoperte tecnologiche, come quella della stampa, le cui conseguenze furono determinanti per molti sviluppi della cultura occidentale, vennero ad assommarsi agli effetti di un costante ampliamento delle dimensioni temporali e spaziali dell'esperienza umana. Nacquero o assunsero nuova dignità professioni legate al rapido sviluppo delle artes mechanicae e dell'applicazione pratica delle discipline matematiche e che, in vari modi, prefiguravano già la tipica figura cinquecentesca dell''ingegnero', ma richiedevano una formazione più rapida e concreta di quella affidata ai curricula universitari. Soprattutto, apparvero con sempre maggiori evidenze i limiti del carattere 'enciclopedico' dell'insegnamento delle scholae, fondato sulla minuziosa e sottile esegesi delle grandi auctoritates, ormai poste in discussione dalla riscoperta della straordinaria ricchezza e varietà del sapere filosofico e scientifico dell'Antichità, dal rapido ampliarsi delle conoscenze geografiche culminate nell'approdo di Colombo al 'nuovo mondo', da una crescente capacità di elaborare strumenti e tecniche di osservazione sperimentale e, persino, dalle straordinarie possibilità di 'rappresentazione' delle forme e dei fenomeni naturali fornite dalle arti figurative. Infine, prevalse una concezione più 'critica' del lavoro intellettuale, particolarmente attenta alla continua verifica storica e filologica dei contenuti e dei linguaggi dello scibile. Non a caso, sia l'approccio ai testi e ai documenti della scienza antica, sia i criteri di valutazione di tradizioni e conoscenze più recenti mutarono in modo netto, con il progressivo abbandono della lectio scolastica, delle quaestiones disputatae e delle glossae, che furono sostituite, nelle scuole umanistiche, dalla diretta interpretazione grammaticale e retorica degli autori che assunse, sempre più, il carattere dell'analisi filologica. D'altro canto, la critica della tradizione logica peripatetica, operata da Lorenzo Valla nella sua Repastinatio dialecticae et philosophiae, il suo richiamo alle forme dell'argomentazione 'probabile', affidata a un tipo di 'dialettica' del tutto coincidente con le norme 'naturali' del discorso, e l'insistenza sul valore persuasivo dei procedimenti retorici indussero a considerare l'inventio e la dispositio come criteri di guida sia alla 'scoperta' di nuove conoscenze, sia all''ordinamento' e alla trasmissione di un patrimonio culturale sempre più complesso.
La pur sommaria ricostruzione dell'enciclopedia mentale che s'imponeva all'intelletto di un uomo colto del XVI sec. dimostra, infatti, come la sua esperienza si muovesse entro un fitto intreccio di dottrine, credenze, miti e simboli ormai sedimentati da secoli. La concezione dell'ordine della Natura affidata alle dottrine fisiche dell'aristotelismo scolastico conviveva con la costante presenza delle enciclopedie naturali dell'Antichità e con la diffusione di una filosofia d'ispirazione neoplatonica e le suggestioni ermetiche, astrologiche, magiche e cabalistiche che essa proponeva sull'onda della fortuna europea delle opere di Ficino e di Pico. La formazione umanistica di molti intellettuali non impediva che i loro studi universitari si svolgessero in scuole tuttora assai sensibili alla tradizione averroistica e che i testi scientifici e filosofici dei maestri arabi avessero ancora un ruolo dominante nell'esegesi delle auctoritates fondamentali. Ippocrate, Galeno, Avicenna e Averroè erano ancora gli autori canonici delle facoltà mediche, ove pure era già in atto la silenziosa rivoluzione della scienza anatomica culminata nell'opera di Vesalio e si manifestavano interessi e metodi sperimentali, prima ancora che Paracelso diffondesse i principî alternativi della sua medicina ermetica. Ma, intanto, anche lo studio del corpus aristotelico era condotto con il continuo confronto di una vasta tradizione esegetica, fornita dai commentatori ellenistici e bizantini, arabi, ebrei e latini medievali, ma anche dagli interventi filologici dei traduttori e dei nuovi commentatori umanisti.
Né certo restavano ignote le testimonianze sempre più numerose di ricercatori e sperimentatori 'curiosi', emersi spesso dall'esercizio delle varie arti pratiche e meccaniche, quegli scritti che raccoglievano un coacervo di osservazioni e notizie, al limite tra l'indagine naturalistica, la notazione empirica, il tentativo alchimistico o magico, il resoconto di fenomeni descritti con precisione, ma ancora risolti in spiegazioni fantasiose o mitiche. Inoltre, i trattati di ingegneri e architetti, talvolta esemplati su modelli antichi, ma sempre ricchi di novità si aggiungevano ai ricettari usciti dalle botteghe artigiane e rendevano pubblici i risultati di pratiche operative già coperte dal segreto corporativo. Così strumenti e operazioni considerate persino prodigiose, nuove macchine di pace e di guerra, tecniche per dominare le forze naturali entravano a far parte di un 'teatro del mondo' che stava mutando i propri limiti e confini, sempre meno contenuto nelle vecchie mappe. Perché nuovi popoli, civiltà, costumi e credenze sconosciute, posti al di là degli oceani, sconvolgevano la stessa immagine dell'uomo costruita secondo i modelli della tradizione classica e cristiana. E questo mentre l'immagine dell'Antichità si dilatava nel tempo e, al di là della sapienza dei classici, si delineavano nuovi continenti storici ancora poco esplorati: la 'verità riposta' dei secretiores theologi ebrei, la potenza teurgica dei sacerdoti-maghi di Persia e di Babilonia, le dottrine arcane dei 'gymnosofisti' e dei 'brachmani' indiani, la rivelazione della sapienza egizia, madre di ogni civiltà, che respingeva in uno sterminato passato le origini dell'uomo e del suo sapere. Infine, con l'avanzare del secolo, mentre precipitavano i grandi conflitti politici e si frantumava irreversibilmente l'unità ecclesiale, anche i principî e i fondamenti stessi della tradizione 'romanistica' (e più ancora quelli del diritto feudale e delle 'consuetudini') sarebbero stati sottoposti a una profonda revisione filologica e critica, nello stesso tempo in cui emergevano i nuovi criteri della prassi politica e la violenza delle polemiche controversistiche induceva molti intellettuali a ripercorrere la storia e le ragioni dei grandi dibattiti teologici e a risalire sino alle origini del messaggio evangelico.
Non occorre insistere oltre su queste considerazioni per intendere come l'esperienza culturale della prima metà del secolo fosse giunta a un punto di estrema complessità, ma anche di disordine, oltre il quale sembrava imporsi la necessità di ripristinare un nuovo criterio enciclopedico che ristabilisse l'unità organica dello scibile. Non a caso, già sulla fine del Quattrocento, uno dei maggiori protagonisti della tradizione filologica umanistica, Angelo Poliziano, aveva presentato, nel suo Panepistemon (1492/1493), il progetto di un ordinamento generale di tutte le scienze e le arti, comprese anche quelle più vili che si chiamano serviles; e, in tempi prossimi, un altro maestro umanista, Giorgio Valla, aveva, in un certo modo, realizzato questo programma nel De expetendis et fugiendis rebus opus, una vasta opera che, pubblicata nel 1501 da Aldo Manuzio, ebbe una discreta fortuna, come dimostra anche la sua presenza tra i non molti libri di Leonardo. Ma non v'è dubbio che simili preoccupazioni furono presenti, nel corso del nuovo secolo, a molti uomini di scuola e di cultura che ‒ come scriverà più tardi Montaigne ‒ avvertivano il rischio di un sapere confuso e disorganico, capace, certo, di "riempire la memoria", ma con il risultato di lasciare "l'intelletto vuoto". Non stupisce che, nella letteratura come nell'iconologia simbolica del secolo, emerga spesso un'immagine di grande efficacia metaforica ossia la figura della selva (silva), luogo del caos originario, sostrato disordinato e informe che attende ancora l'opera ordinatrice e 'adornatrice' dell'uomo, usata per esprimere il timore del mare tempestoso o dell'intrico spinoso del sapere, impercorribili senza l'ausilio di nuovi portolani o di sentieri diritti e sicuri.
Sono preoccupazioni, queste, espresse da numerosi umanisti, in scritti sui quali presto torneremo, e che, già oltre la metà del secolo, nel 1562, ispireranno un testo, a suo modo, esemplare, il Proemium reformandae Parisiensis Academiae di Pietro Ramo, dove la proposta di procedimenti logici facili ed essenziali è giustificata con l'esigenza che le scuole forniscano una cultura capace di formare dei dotti utili a sé stessi e alla società. Invero, l'opera dell'autentico dialettico è spesso paragonata a quella del cacciatore che sa inoltrarsi nella silva, per catturare e porre nelle loro sedi o luoghi i principî del sapere e disporne i sentieri e gli accessi più facili. Sarà così possibile trasformare la confusa e oscura dispersione delle conoscenze in un giardino (hortus) ordinato, al cui centro si elevi l'albero delle scienze, ossia il diagramma unitario che dispone, nei suoi vari rami, l'intero sistema gerarchico e unitario delle dottrine e arti umane, specchio di un Universo perfettamente giusto e armonioso. Entro questo schema ‒ che, nel corso del secolo, diverrà sempre più articolato e proliferante, secondo il criterio platonico della dicotomia preludente alla frondosa struttura delle grandi enciclopedie barocche ‒ deve trovare il suo 'luogo' adeguato ogni forma dello scibile ossia una teologia (cattolica o riformata che sia) che riaffermi, comunque, il principio di una suprema finalità del Cosmo: una filosofia che 'concordi' temi platonici e aristotelici nella descrizione dei vari regni della Natura; la scienza dei cieli, presto sottoposta a una rivoluzione radicale, ma ancora aperta alle suggestioni dell'astrologia divinatrice; le dottrine mediche, anch'esse ormai soggette alle più aspre polemiche e contestazioni, sino a suddividersi, talvolta, nei due rami della ars galenica e di quella hermetica; il diritto e la sapienza o prudenza politica che sono già al centro del grande dibattito tra machiavellici e antimachiavellici; l'etica.
Naturalmente, la nuova immagine enciclopedica e sistematica del sapere non trascura le discipline del discorso, si tratti della classica suddivisione delle arti del trivio (grammatica, dialettica e retorica, interpretate alla luce delle discussioni umanistiche), oppure di una più sottile esegesi che le riconduce all'unica philologia; né dimentica i 'prodigi' più consueti delle arti meccaniche o i poteri benefici della magia naturalis. Ma spesso i primi tentativi di costruire imponenti 'teatri del mondo', come quello descritto dal giurista e politique Jean Bodin nell'Universae naturae theatrum (1596), non trascureranno di chiarire, in sede preliminare, quale sia la 'via' (o methodus) chiara, semplice e utile, che ne ha ispirato l'architettura e ha permesso di rendere accessibile a ogni mente la perfetta struttura del Cosmo.
A tali conclusioni (che forse non mancarono d'influenzare pure la giovanile ricerca cartesiana della clarté, volta alla ricostruzione dell'"aurea catena delle scienze") la cultura cinquecentesca pervenne attraverso un lungo cammino di cui si cercherà di delineare i momenti essenziali. Non sarà certo possibile risalire sino alle polemiche umanistiche dei primi decenni del Quattrocento che, del resto, ci rinvierebbero a talune notissime pagine petrarchesche; ma non si potrà, in ogni caso, trascurare un libro che è anche la testimonianza della crescente fortuna europea dello stesso Umanesimo, il De inventione dialectica (1475-1480), opera di un maestro frisone, Rudolf Agricola (Roelof Huysman) che aveva compiuto i suoi studi in Italia e, in particolare, nella Scuola ferrarese di Battista Guarini (Akkerman 1988; Mack 1993). Il motivo ispiratore di questo libro, che godé di una crescente fortuna nei primi decenni del Cinquecento, è, infatti, l'esplicita convinzione che i metodi tipici di formazione e trasmissione del sapere scolastico tradizionale non sono capaci di produrre un efficace e convincente processo di conoscenza, fondato su solide prove argomentative, né di stabilire un ordine che permetta il rapido passaggio dall'una all'altra nozione. Agricola ritiene pertanto che sia necessaria una riforma che riordini e semplifichi la classica trattazione della logica proposta nell'Organon aristotelico, integrandola con il ricorso agli strumenti dell'inventio e della topica retorica, usati per la ricerca degli argomenti e la 'disposizione' efficace del discorso oratorio. Senza dubbio, non ignora alcuni celebri testi umanistici di dialettica e di retorica ‒ come la Dialectica (1470) e i Rhetoricorum libri (1472) del maestro bizantino Giorgio di Trebisonda (Trapezunzio) ‒, che avevano arricchito la dottrina tradizionale d'impostazione ciceroniana con il ricorso alla teoria della methodus, particolarmente elaborata dal retore ellenistico Ermogene di Tarso per chiarire il procedimento che permette di ordinare gli argomenti e le prove in vista del fine perseguito dall'oratio (e che pure Trapezunzio denominava con il termine methodus ricalcato dal greco che gli umanisti scrupolosamente evitavano).
Agricola (che non usa il termine methodus) si riserva dunque di proporre i mutamenti necessari entro la struttura disorganica delle arti scolastiche, in modo da eliminare quei difetti di chiarezza, connessione e processo da nozione a nozione dai quali dipenderebbero gli scarsi progressi di tutte le discipline e le difficoltà stesse dell'insegnamento e dell'affidamento del sapere alla memoria. Gli errori propri della recente logica scolastica, che eccede nelle sottigliezze e in raffinati esercizi formali, si sono, appunto, estesi a tutti gli ambiti del sapere, creando ovunque disordine, oscurità, incertezza e inutile complicazione. Come i giuristi, anche i medici e persino i matematici sono stati contaminati da questi mali; e anche i teologi, che dovrebbero esporre ai fedeli, in modo semplice e chiaro, la parola divina, sono stati attratti da questa inutile ostentazione di vana sottigliezza che condividono con i filosofi incapaci di esporre le loro dottrine con un discorso limpido e convincente. Sicché l'unica via per porre fine alla sterilità e confusione che minaccia tutto lo scibile del suo tempo consiste nel privilegiare la ricerca degli "argomenti per discutere in modo probabile", fornendo così "uno strumento per discernere il vero dal falso, con il cui aiuto e servizio gli artifices possano indagare quale sia la falsità o la verità nelle cose che si propongono" (De inventione dialectica, p. 210).
Non occorre insistere oltre per comprendere come, per l'autore del De inventione dialectica, il punto essenziale sia costituito dalla determinazione di un sistema di loci o tavola dei principî comuni (capita communia), vale a dire di uno schema (di evidente derivazione retorica) di punti essenziali di riferimento che permettano di ordinare in modo efficace, per l'insegnamento o per la pratica delle professioni, le nozioni e principî fondamentali per l'esercizio delle varie arti. Ed è noto che Agricola si richiama, appunto, alle 'topiche' già elaborate da Aristotele, Temistio, Cicerone e Quintiliano, redigendo una tavola dei loci che, in realtà, non è davvero un modello di chiarezza e di precisione. La sua preoccupazione preminente è però la funzione di ammaestramento propria del discorso, il cui scopo consiste sempre nell'"insegnare qualcosa a colui che ascolta" e nell'ottenerne l'assenso (ibidem, pp. 191-192); ma poiché la massima parte delle conoscenze umane riguarda, appunto, ciò che, per sua natura, è disputabile o dubbio, l'umanista è convinto che gli strumenti da lui proposti siano particolarmente adeguati. Non basta, il discorso oltre a essere ordinato, deve essere pure conveniente, in modo da suscitare il diletto del pubblico al quale è rivolto e "trarre a sé la mente di chi ascolta". E ciò significa che occorrerà far ricorso continuamente anche agli 'adornamenti' di cui è maestra l'arte retorica, indispensabile per chiunque debba insegnare (edocere), anche se si dovranno evitare le "usurpazioni dei retori", sempre proclivi a confondere il diletto con il vero insegnamento e l'educazione dei discepoli (ibidem, p. 197).
Il libro di Agricola ebbe subito una sua circolazione e influenza, soprattutto negli ambienti intellettuali fiamminghi e renani, particolarmente sensibili all'esperienza religiosa della devotio moderna, e nelle scuole della congregazione dei Fratelli della vita comune. Ma la sua fortuna fu particolarmente intensa a partire dal 1515, quando fu affidato alla stampa ed ebbe subito numerose edizioni, epitomi e commentari, tra i quali basterà qui ricordare quello steso da Alardo di Amsterdam. E che il De inventione dialectica rispondesse alle esigenze già brevemente accennate lo dimostra non solamente il forte interesse che suscitò nel giovane Erasmo, ma l'insistenza di vari uomini di scuola e di cultura nella ricerca di una nuova via della scoperta (via inveniendi) e dell'insegnamento (via docendi) che favorisse un indottrinamento più rapido ed essenziale e rendesse più facile la scoperta (inventio) di altre conoscenze. Non stupisce che costoro tornassero a leggere quelle opere filosofiche, retoriche e scientifiche dell'Antichità, nelle quali era discusso il problema del metodo della ricerca e dell'insegnamento del sapere, si trattasse del Fedro o del Filebo di Platone, degli Analytica priora e di quei passi della Physica e dell'Etica aristoteliche dedicati all'esame dei procedimenti conoscitivi, oppure dell'Ars parva di Galeno o degli scritti di Ermogene, dove quel termine era usato nell'ambito delle tecniche retoriche. Questi testi fornirono lo sfondo teorico di un lungo e complesso dibattito che impegnò, per buona parte del secolo, sia maestri di formazione e cultura umanistica, sia filosofi e logici di estrazione scolastica, impegnati nell'esegesi di Aristotele o di Galeno, sia matematici coinvolti nella discussione sulla certitudo della loro scienza e sui rapporti tra la dimostrazione aristotelica e l'assiomatica deduttiva di Euclide. Un fatto, comunque, sembra ormai certo: soprattutto a partire dal secondo decennio del Cinquecento, il vocabolo methodus, nel senso appunto di 'via' o procedimento principe per la ricerca o la trasmissione del sapere, entrò sempre più nell'uso specialmente negli ambienti dove era già forte l'influenza del De inventione dialectica. Nel periodo di cui parliamo il termine apparve, nel 1522, nel titolo (Methodus gramatica) di una stampa del Donato, quindi, intorno al 1530, sul frontespizio della Methodus conscribendi epistolas di Christophorus Hegendorff e della Methodus conficiendarum espistolarum di Conrad Celtis. Ed è ben noto che lo stesso Erasmo, sin dal 1519, nella Ratio seu compendium verae theologiae, aveva già parlato della via et methodus che avrebbe dovuto assumere una teologia ricondotta ai suoi veri compiti e liberata dalla litigiosità scolastica, prima di mutarne, nel 1521, il titolo in Ratio seu methodus compendio perveniendi ad veram theologiam. Infine, nel 1530, furono stampati a Parigi, forse per le cure di Johannes Sturm, i quattro volumi delle opere di Ermogene, tra le quali era compreso pure il De methodo gravitatis sive virtute commode dicendi.
Anche in questo caso, l'insistenza su un vocabolo recuperato direttamente dal lessico greco è l'indizio di esigenze che vanno ben al di là dell'attrazione dei grandi modelli classici. E lo dimostrano pure altre opere contemporanee, anch'esse molto fortunate, nelle quali sono espresse opinioni fortemente critiche sullo stato del sapere del tempo e sull'evidente necessità di provvedere a una sua riforma e riordinamento metodico. Nel 1519, l'umanista spagnolo Juan Luis Vives, amico e ammiratore di Erasmo, nel Libro I del suo In Pseudo-Dialecticos, non si limita, infatti, a professare la sua piena concordanza con i propositi di Agricola, bensì dichiara che il rifiuto della dialettica 'barbara' degli scolastici deve dar luogo all'elaborazione di strumenti logici e linguistici, non 'sofistici', validi per lo studio di tutte le arti e, dunque, per le conoscenze fisiche e scientifiche non meno che per quelle etiche e politiche. Occorre, quindi, una sicura via razionale, percorribile sia dai medici, dai filosofi, dai giuristi sia da chi si dedica a tutte le altre attività e professioni intellettuali e che eviti loro di ricadere negli errori del passato. E poiché sa bene che l'accettazione acritica dell'esperienza sensibile, il predominio delle passioni, il rispetto servile delle auctoritates e la sottomissione alle credenze rappresentano i principali nemici del sapere, invita chiunque eserciti un'arte a diffidare della rara certezza delle dimostrazioni analitiche, per affidarsi piuttosto all'argomentazione probabile e utilizzare ampiamente i riferimenti topici forniti, però, più e meglio dalla dialettica che dalla retorica.
Come scriverà, più tardi, nel De tradendis disciplinis, nel De causis corruptarum artium e nel De instrumento probabilitatis liber, i loci svolgono una funzione affine a quella che gli speziali e i cerusici affidano alle etichette poste sopra i loro diversi vasi; e, invero, essi debbono fornire una sorta di inventario ordinato sul quale si fondano le più diverse interrogazioni che permettono di far crescere il sapere.
È chiaro che Vives, al pari di altri autori, attivi negli stessi decenni, come Latomus, Caesarius e Hegendorff, si muove, ma in modo originale, sulla traccia di Agricola, il cui insegnamento era particolarmente operante anche nelle città belghe, dove questo maestro, costretto a vivere lontano dalla Spagna a causa delle persecuzioni religiose e razziali che avevano colpito la sua famiglia, trascorse gran parte della vita. Ma, a breve distanza di tempo, la ricerca della nuova via si rafforzò con un concreto programma di rinnovamento degli studi e delle istituzioni scolastiche nell'attività di un altro umanista che fu anche uno dei massimi protagonisti della Riforma tedesca, Filippo Melantone.
Questo teologo concepì la sua opera di maestro e riformatore delle università germaniche come un servizio a lui imposto per vocazione divina al fine di restaurare la corruzione dilagante nel mondo cristiano sotto il dominio dell''anticristo' romano e di rinsaldare e perfezionare le facoltà concesse da Dio agli uomini nel loro tempo terreno. Si propose così di restituire alla sua luce originaria la ratio umana, offuscata dalla colpa originaria, e di farla nuovamente partecipe di quei 'principî' e 'norme' eterni che regolano l'ordine necessario del mondo creato come la disciplina etica e la convivenza umana retta dalle leggi civili. Tali principî erano stati smarriti per il prevalere di una filosofia barbara e sofistica che ave-va intorbidito la sana dottrina aristotelica originaria e oscurato i praecognita eternamente presenti nella nostra coscienza. Si comprende perché Melantone fosse attratto dalla ricerca di procedimenti semplici ed efficaci di indagine e trasmissione del sapere e dal perseguimento di un metodo, ugualmente adoperabile in tutti gli ambiti del sapere, dalla teologia alle scienze matematiche, dal diritto alla filosofia, dall'etica alla filosofia naturale e alla dottrina medica, e tale da assicurare il miglior fondamento per un tipo di educazione rispettoso del valore delle conoscenze mondane, ma altrettanto deciso nel porre come ultimo fine la suprema celebrazione della gloria Dei. Dedicò così gran parte delle sue cure all'elaborazione di nuovi testi 'manuali' per l'insegnamento nelle università rinnovate dall'esperienza spirituale della religiosità riformata; tra questi privilegiò quelli dedicati alla dialettica e alla retorica, le discipline che considerava la 'chiave' di qualsiasi formazione intellettuale.
Già nella sua prima opera di evidente uso scolastico, i Dialectices libri del 1525, attribuì alla dialettica la dottrina dell'inventio, concepita come il procedimento di scoperta dei criteri di argomentazione propri di ogni disciplina e del suo insegnamento. Ma, soprattutto, la considerò come un'"arte e via per ben insegnare", intesa a "definire, dividere e argomentare" nel modo più chiaro. Senza dubbio, con questa definizione, Melantone aveva ben presente il passo ciceroniano che chiama la dialettica l'arte di ben parlare (ars bene loquendi), sottoposta, però, a una trasformazione di ben insegnare (bene docendi), che ne muta profondamente il significato, in accordo con la netta accentuazione del carattere metodico dell'argomentazione. Né andrà dimenticato che l'umanista già sottolineava l'evidente analogia tra la dialettica e la matematica, ossia tra l'arte del 'ragionare' e quella del 'numerare' che forse non fu ignota neppure a Pietro Ramo. Melantone riteneva, infatti, che come l'ars numerandi presenta i numeri insieme alle loro relazioni razionali, anche la dialettica debba muovere dall'individuazione dei singoli oggetti, per giungere, "quasi enumerando le cause, gli effetti e la parti di ognuno di essi", al riconoscimento delle loro nature, origini, fini e distinzioni, nonché all'accertamento dei loro mutui elementi di accordo o di contrasto (Dialectices libri tres, pp. 5-7). Ciò dovrebbe permettere a chi si trovi dinanzi a ogni questione oscura, incerta o troppo complessa di ricorrere alla consultazione di quei loci, in modo tale da trarre una precisa definizione e, pertanto, anche la corretta nozione di cosa siano, per esempio, la religione, le sue ragioni e cause particolari e se essa consista nell'esteriorità dei riti o, piuttosto, nell'intima disposizione dell'anima. Come Melantone si affrettava a sottolineare, il nome stesso di dialettica, derivato dal greco dialégomai, che i latini traducono con disserere, significa parlare distintamente di qualcosa (distincte aliqua de re dicere), ossia analizzare e spiegare chiaramente il significato di ciascuna cosa e il suo luogo nel sistema delle conoscenze. Sicché era evidente la fondamentale diversità tra la dialettica e la retorica, consistente, appunto, nella scarna ed essenziale brevità del suo discorso che "indica la nuda causa con parole brevi quasi come punti" (ibidem, p. 7). Ma, soprattutto, trattando, nel Libro II, della definizione e della divisione, Melantone insisteva sul particolare valore di questo procedimento analitico, sostenendo che nessuno potrebbe mai costruire un discorso esatto e svolgere ordinatamente le sue definizioni se mescolasse o confondesse l'ordine e la disposizione dei vari elementi già individuati. Per procedere in modo ordinato occorre, infatti, definire, per prima cosa, l'oggetto della propria indagine (il quid sit); ma, ancora prima di definire, il dialettico deve stabilire se la cosa di cui parla è o non è, così come deve essere attento, alla maniera di un anatomista, alle singole 'membra' nelle quali può essere risolto ciascun vocabolo.
Così vicino ad Agricola nel rivendicare il valore dell'inventio argumentorum e della topica, Melantone era, del resto, non meno deciso nel riconoscere l'importanza che spettava al 'giudizio' come criterio che stabilisce la validità formale delle singole argomentazioni e la loro coerenza. Però la sua preoccupazione principale si rivolse ben presto al tema specifico della methodus, considerato come il necessario compimento di tutte le funzioni della dialettica, ossia esprimere, nel modo più chiaro e distinto, tutte le conoscenze alle quali si può pervenire e stabilirne l'ordine più esatto. Questo termine è assente nelle prime edizioni dei Dialectices libri; ma esso già compare almeno sino da quella di Lione del 1537, consacrando, anche nell'ambito delle discussioni logiche cinquecentesche, un uso linguistico destinato a sostituire la parola via, adoperata dagli umanisti del secolo precedente, e a distinguersi dall'altro termine ordo. Certo, le poche pagine destinate a trattare della methodus sono assai più brevi e generiche della particolare sezione dedicatale nel Libro I degli Erotemata dialectices (ed. Bretschneider, XIII). Ma Melantone non soltanto affronta questo tema in significativa connessione con la sua teoria dell'inventio, bensì ne fornisce una definizione che chiarisce subito la funzione che intende affidargli, richiamandosi alla stessa tradizione aristotelica.
Gli antichi chiamano metodo il modo di insegnare esattamente e con ordine secondo i precetti dialettici, e spesso ammoniscono ad applicarci con metodo in qualsiasi affare, controversia o arte, poiché è inevitabile che l'animo vaghi incerto se non è guidato in questo modo. E in qualsivoglia genere insegnano sempre più facilmente coloro che conoscono il metodo di quanti non lo conoscono, sebbene siano ricolmi di ingegno. (Dialectices libri, 1537, p. 119)
Bastano queste parole per intendere che, per il massimo umanista della Riforma, il metodo è, in primo luogo, un criterio generale e fondamentale, valido per ogni forma d'insegnamento che intenda procedere con esattezza e con ordine. È, quindi, una 'via' da seguire nell'esercizio di tutte le discipline e arti, la cui assenza pregiudica la possibilità di un insegnamento e apprendimento efficace. È però ‒ come risulta dalla trattazione ‒ un procedimento da porre in stretta relazione con il sistema dei loci e con l'elaborazione della topica generale pertinente all'inventio. E che, in ogni caso, esso costituisca la guida indispensabile di ogni costruzione e ammaestramento del sapere è confermato poco oltre, quando Melantone esalta Aristotele, anteponendolo a Platone, proprio per il carattere metodico della sua logica e delle sue dottrine. Non soltanto, tutti i modelli ai quali riconosce un valore didattico esemplare (e, cioè, il Liber canonis totius medicinae di Avicenna per le dottrine mediche, le Institutiones oratoriae di Quintiliano per l'arte retorica e l'Epistola ad Romanos di Paolo per la vera dottrina cristiana) hanno sempre una comune ispirazione metodica, evidente nel loro ordine rigoroso, breve, essenziale ed efficace. In effetti, come leggiamo nelle parole che concludono questa rapida trattazione del metodo: "Non vi è alcuna cosa, che possa essere profondamente indagata se il nostro animo non si dà (informet sibi) un certo metodo, da seguire nel pensare, nel cercare e nello spiegare quella determinata cosa" (ibidem).
Melantone rielaborò, sviluppò e approfondì la sua dottrina della methodus, sino agli Erotemata dialectices, pubblicati nel 1547, a conclusione di trent'anni di magistero e d'instancabile attività di riformatore degli studi.
Anche questo manuale, destinato a grande fortuna nel mondo protestante, ma non ignoto neppure a vari intellettuali cattolici, seguiva l'impostazione dei Dialectices libri, arricchendone però ampiamente la materia presentata in forma più organica. L'umanista vi tracciava una tavola dei loci, allo scopo di renderla più adeguata anche alle esigenze delle dispute controversistiche e dei grandi dibattiti teologici del tempo e accentuava ancor più la distinzione e la preminenza della dialettica nei confronti della retorica. Nondimeno, i mutamenti più interessanti concernevano proprio la dottrina del metodo. Un concetto ‒ scriveva ‒ che un tempo aveva indicato una via recta et compendiaria, ma che i dialettici avevano adoperato per significare l'ordine di esposizione più preciso e diretto, secondo la definizione che egli stesso proponeva: "Il metodo è l'abito di colui che sa, o l'arte di procedere (viam faciens) con sicuro discernimento (certa ratione), quell'arte, cioè, di trovare e aprire una via attraverso la confusione, per luoghi impervi e inaccessibili (obsita) per i sensi" (Erotemata dialectices, XIII, col. 573).
E credo che basti la lettura di queste parole per intendere che, nell'ultima versione melantoniana, la methodus non soltanto restava, naturalmente, la via più semplice e facile per l'insegnamento e l'apprendimento, ma era pure il procedimento più adatto per rispondere alle varie quaestiones poste dalla ricerca del sapere e, soprattutto, un abito, scienza o arte (queste parole sono usate come sinonimi) che permetteva di ordinare la confusa selva dell'esperienza e di raccogliere e sistemare, nel modo più organico, tutte le conoscenze.
Gli scritti del Praeceptor Germaniae influirono profondamente sugli umanisti della sua generazione e di quelle immediatamente seguenti, anche se, talvolta, per ragioni di opportunità, il suo nome fu taciuto. E lo dimostra la vasta letteratura sulla dialettica, i suoi procedimenti 'inventivi' e la questione dell'ordine e dell'insegnamento delle scienze e delle arti. Non è questo il luogo opportuno per esaminare, in modo particolareggiato, i non pochi autori e testi che, nel corso degli anni Trenta e Quaranta, s'ispirarono ad Agricola e a Melantone e ne ripresero e diffusero le dottrine. Ma non si potrà ignorare un altro celebre umanista tedesco, Johannes Sturm che, oltre a tutto, fu, per alcuni anni (dal 1529 al 1536), professore al Collège Royal di Parigi, prima di fondare, a Strasburgo, una delle 'nuove' scuole protestanti più rinomate. Della sua personalità di maestro, uomo di lettere e di scienza si sono spesso occupati anche gli storici della Riforma che hanno illustrato sia i rapporti da lui intrattenuti con alcuni dei massimi rappresentanti della cultura umanistica e della vita religiosa del tempo (fu, tra gli altri, corrispondente di Erasmo e di Jacques Le Fèvre d'Étaples, di Calvino, di Bullinger e di Melantone, ma pure di Bembo e di Sadoleto), sia la sua vicinanza alle tendenze più aperte e 'liberali' della Riforma e la sua amicizia con Sébastien Castellion e i suoi seguaci di Basilea. Qui si dovrà, invece, insistere piuttosto sui suoi forti interessi di carattere filologico, linguistico e pedagogico che, del resto, non gli impedivano di possedere una notevole cultura di carattere scientifico (specie nell'ambito delle conoscenze mediche); e occorrerà pure notare che la sua particolare attenzione alle questioni concernenti l'inventio e la methodus non nasceva soltanto dalla sua indubbia familiarità con gli scritti di Ermogene, di Cicerone, di Quintiliano o di altri umanisti, come Valla, Agricola, lo stesso Melantone, ma anche dallo studio di Galeno (in particolare dell'Ars parva, opera così frequentemente discussa da chi si occupava del metodo) e di altri autori classici o contemporanei che avevano già trattato della via e dell'ordine delle scienze. Non stupisce, quindi, che egli accentuasse la funzione metodica di due procedimenti dell'arte dialettica, la 'definizione' e la 'divisione', già particolarmente trattati anche da Melantone, sino a considerarli i fondamenti indispensabili dell'ordinata 'disposizione' e organicità di tutte le dottrine. Del resto, anche una lettura sommaria dei suoi Partitionum dialecticarum libri (editi, in due libri, a Parigi, nel 1539; poi, nel 1543, in tre libri, a Strasburgo, dove furono ristampati, con l'aggiunta di un quarto libro, nel 1560) mostra come Sturm considerasse la dialettica un'arte che insegnava a discutere in modo probabile, mediante il confronto tra gli argomenti opposti, particolarmente utile per determinare i principî delle singole discipline e per "scoprire, giudicare e collocare", nel modo più razionale e conveniente alla natura delle varie arti o scienze, le diverse nozioni da affidare stabilmente alla memoria. Come tutti i lettori del De inventione dialectica, un libro che contribuì a far conoscere agli umanisti parigini, anch'egli anteponeva la trattazione dell'inventio a quelle del 'giudizio' e della 'collocazione' che dovevano presupporla; anzi, il giudizio era, per lui, una sorta di connexio che permette di disporre i termini verbali del discorso nello stesso ordine in cui si trovano le conoscenze reali, in modo tale da far coincidere l'ordo rerum con l'ordo verborum, costituito soltanto dai "simulacri delle cose" (Partitionum dialecticarum libri, 1560, f. 106 v).
Si può, quindi, ben comprendere perché Sturm, agli inizi dei Partitionum dialecticarum libri, proponesse una definizione della logica che insiste, secondo la stessa tradizione aristotelica, sulla distinzione tra l'apodittica (che insegna le più 'forti' argomentazioni e trae le sue conclusioni "da premesse sicure e per niente dubbie, certe e necessarie") e la dialettica che è la "scienza (ratio) di discutere delle cose che sono probabili in ciascuna delle due parti [della contraddizione]" e che pertanto può essere adoperata nei molti casi nei quali non sia possibile procedere per mezzo di dimostrazioni necessarie. È, insomma, un'arte che ‒ come s'è già visto ‒ consiste in inveniendo, iudicando ac collocando; e, pertanto, congiunta alla politezza ed eleganza dell''eloquio', essa ha il compito di scoprire e presentare ordinatamente i principî e, poi, le nozioni proprie di ogni disciplina, confermandole e fissandole durevolmente (ibidem, f. 2r-v). I maestri delle passate generazioni che hanno dimenticato questi criteri, hanno così perduto anche la capacità di elaborare un sistema di esposizione del sapere chiaro e persuasivo e, ciò che più conta, sempre necessario nell'insegnamento.
Anche Sturm, coerentemente a queste asserzioni, attribuisce, quindi, una fondamentale importanza alla 'tavola' dei loci, tra i quali enumera, in primo luogo, il genere, il proprio e la definizione, ossia i luoghi che hanno attinenza con la natura sostanziale e immutabile di ogni cosa, prima di trattare di un quarto che concerne le res adventicias atque fortuitas, cioè le condizioni e i caratteri accidentali. Ma la sua topica comprende pure le categorie aristoteliche, considerate, addirittura, come le fonti di una vasta e ampia classe di loci che "sviluppano, illustrano e confermano" i primi quattro. Per quanto poi riguarda il giudizio o, meglio, la ratiocinatio dialectica, la definizione dell'umanista è netta ed esplicita: si tratta del discorso che ex rebus aut probabilibus aut minus dubiis aut perceptis et affirmatis, id quod dubitatur efficit (ibidem, ff. 101v-102r).
Sturm si occupò della dimostrazione solamente nel Libro III, edito per la prima volta nel 1543, lo stesso anno in cui Pietro Ramo pubblicò le Aristotelicae animadversiones e le Dialecticae partitiones e quattro anni prima degli Erotemata dialectices di Melantone. E qui, trattando, appunto, dell'argomentazione di tipo necessario, rilevò la forte affinità tra questa parte della logica e i procedimenti matematici, mostrando come essa fosse propria di tutte le materie che sono assolutamente immutabili e presupponesse il possesso di praenotiones, principî indimostrabili e assoluti la cui certezza è innata. Nondimeno, tali principî erano soltanto il naturale fondamento di un processo logico i cui strumenti fondamentali erano la definitio e la divisio; anzi, proprio quest'ultima costituiva la 'guida' della definizione, perché individuava la natura e la qualità intrinseche delle cose e mos|rava come si dovesse procedere dal semplice e dal particolare per giungere al complesso e all'universale.
Simili conclusioni spiegano il crescente interesse dello Sturm per la methodus, un tema verso il quale era condotto sia dai suoi interessi per la retorica ermogeniana sia dalla sua conoscenza approfondita di Galeno, di cui fu anche editore. Non a caso, la sua prima trattazione fu affidata proprio ai suoi In partitiones oratorias Ciceronis dialogi quattuor, editi nel 1539, lo stesso anno in cui apparvero i primi due libri delle Dialecticae partitiones. E qui, infatti, si legge una definizione della methodus destinata anch'essa a una notevole fortuna:
Vi è infatti l'arte delle proposizioni e delle conoscenze (comprehensionum) universali (perpetuarum), e la raccolta feconda (copiosa perceptio) dei precetti (spectantium) da osservare per il buon successo dell'arte. Ma nell'eseguire questa raccolta e nell'edificare queste arti si deve percorrere una certa via breve, diritta, si direbbe una scorciatoia, la quale sia semplice, senza ostacoli e diretta; questa via, che è rivolta all'insegnamento e alla trasmissione del sapere, i Greci la chiamano metodo e didascalia. (In partitiones oratorias, p. 2)
Sturm non si ferma però a queste espressioni ancora generiche, ma distingue subito tre diverse vie metodiche, una che procede dalle "cose minime e semplici" (la systasis o ratio), e un'altra che muove dal complesso al semplice (l'analysis o ratio), una terza che divide e distingue le definizioni nelle loro parti (la diaeresis o ratio). Questa ultima via è, appunto, un procedimento notevolmente usato da Cicerone che, non a caso, ha intitolato Partitiones oratoriae una delle sue opere teoriche; è pure il procedimento seguito da Ermogene per distinguere i diversi modelli retorici; e anche Aristotele e Socrate si sono serviti della diaeresis che i medici antichi utilizzavano per l'insegnamento della loro arte. In queste parole sembra abbastanza chiaro il riferimento all'Ars medica di Galeno e ai tre metodi d'insegnamento che vi sono proposti. Tuttavia, nel trattare dell'arte oratoria, Sturm si preoccupa innanzi tutto di sottolinearne il carattere naturalmente persuasivo che è confermato proprio dalla systasis e dal suo valore di prova e conferma.
Quando, invece, si trovò a discutere, nel Libro III delle Dialecticae partitiones, della dimostrazione e del suo carattere scientifico, l'umanista si richiamò piuttosto ad Aristotele e al Timeo platonico (ma aveva certamente presente anche Galeno), per riaffermare la necessità dell'ordo, qui dicitur, quae est ratio et via tradendarum artium et disciplinarum, e stabilire che esso consiste nel passaggio (progressio) appropriato e conveniente a prioribus ad posteriora (f. 202v). Il metodo consisteva in tre diversi procedimenti: l'analysis che segue l'ordine stabilito dal fine teorico o pratico perseguito ed è, perciò, particolarmente valido per determinare le diverse arti e indicarne i fini e i principî; sicché, stabilito che il fine della medicina sia la salute del corpo, il procedimento analitico consisterà nel considerare le azioni, le facoltà e le virtù proprie del corpo, quali siano le membra in cui queste risiedono e, quindi, i vari umori ed elementi che assicurano l'equilibrio e la sanità corporea. Per insegnare l'arte medica occorrerà, invece, seguire un procedimento diverso ossia quello della syntesis che muove, invece, dallo studio degli umori e degli elementi per risalire alle funzioni delle diverse membra e, quindi, delle singole azioni e virtù corporee. Ma a queste due vie si dovrà aggiungere la partitio atque definitio che permette di discernere le proprietà comuni e le differenze, le somiglianze e le dissomiglianze. E poiché la definizione si può raggiungere, anche secondo Sturm, soltanto per mezzo della divisione e della distinzione, sarà necessario distinguere e dividere le varie definizioni per mezzo di altre, muovendo, di grado in grado, sino alle ultime. Al contrario, la compositio permetterà di risalire dalle differenze al genere comune o dalle parti al tutto, compiendo in senso inverso il cammino percorso per mezzo della divisione.
È evidente che Sturm intende delineare in modo distinto le diverse vie dell'indagine e dell'insegnamento, con l'intenzione di mostrare le tecniche logiche necessarie per analizzare i problemi posti dall'indagine scientifica e quelle che sono, invece, richieste per esporre in maniera estremamente chiara una scienza già costituita nel suo ordine organico.
Si rende conto che la methodus tripartita da lui esposta e la dimostrazione rigorosa sono assai diverse tra loro e che la ratio demostrandi deve essere ben distinta dalla ratio docendi. Infatti, richiamandosi all'immagine dell'albero di Porfirio, egli scrive che il procedimento dimostrativo muove dal 'tronco' (il genere), per passare ai rami (le differenze specifiche) per tornare, infine, di nuovo al tronco, laddove il metodo, utilizzando la definizione e la divisione, segue tre diversi ordini, quello centrale costituito dal genere e quelli delle differenze e delle specie. Da buon lettore di Aristotele riconosce, del resto, che mentre i platonici hanno fondato la loro indagine logica sulla divisione, il filosofo, al contrario, le ha invece negato qualsiasi carattere di vera raziocinazione attribuita soltanto al sillogismo. Ma ciò non toglie tuttavia che la divisio sia anch'essa ancilla ac adiutrix della dimostrazione alla quale fornisce elementi essenziali.
Le opere di Melantone e di Sturm contribuirono in maniera decisiva al crescente interesse per questi problemi e alla grande utilizzazione dei sistemi di ordinamento 'topico' delle varie discipline, presto esteso anche alla stessa teologia, secondo l'esempio fornito dai Loci communes melantoniani. Nei decenni tra gli anni Venti e Cinquanta, la costante proliferazione di una vasta letteratura controversistica protestante o cattolica favorì poi il ricorso a tutti gli strumenti della discussione dialettica, bene utilizzati dai lettori 'riformati' dei Dialectices libri, ma altrettanto familiari a uno zelante apologeta cattolico come il cappuccino Franciscus Titelmann. Ma anche una breve analisi dei testi maggiormente diffusi conferma che gli ambienti scolastici e intellettuali protestanti furono più proclivi ad accogliere la nuova dialettica e a rispondere alle esigenze di una semplificazione metodologica del sapere, posta in opera nelle università 'riformate' della Germania e della Svizzera. È però significativo che, col progredire del secolo, taluni aspetti di questa discussione facessero presa anche nel mondo cattolico, sino a filtrare addirittura in alcuni testi gesuitici, particolarmente sensibili all'efficacia degli strumenti didattici e delle 'topiche' che privilegiavano le facoltà mnemoniche e rispondevano ai loro forti interessi enciclopedici.
Sono, questi, segni evidenti di un nuovo atteggiamento intellettuale che stava manifestandosi anche nelle sedi della più forte tradizione scolastica. È vero che, nel 1544, un giovane maestro di un 'collegio' parigino, Pietro Ramo era solennemente condannato dal rettore e dal Senato della Sorbona (e la condanna era confermata dallo stesso sovrano) per aver sostenuto nelle lezioni e affermato nei suoi primi scritti idee che si richiamavano alle polemiche umanistiche contro la logica scolastica e che riprendevano i temi più cari ad Agricola e a Sturm; e pertanto gli veniva imposto il divieto formale di occuparsi di questioni filosofiche, estranee alla sua funzione di modesto insegnante delle artes dicendi. Ma proprio il clamore suscitato dalle sue polemiche e dal dibattito che ne era seguito dimostrava che anche nella grande Sorbona si era ormai aperta un'accesa discussione sui metodi di formazione e trasmissione del sapere.
Ramo era stato un discepolo di Sturm di cui aveva ascoltato le lezioni al Collège Royal che lo avevano avviato alla lettura degli scritti di quell'umanista e allo studio del De inventione dialectica di Agricola. Così, nel 1543, pubblicando la prima edizione delle Aristotelicae animadversiones e delle Dialecticae partitiones o Dialecticae institutiones (più note, nelle successive edizioni, sotto il semplice titolo di Dialectica) non si era limitato a riproporre i luoghi comuni di una polemica, iniziata sin dai tempi del Petrarca, contro i 'barbari' maestri della dialettica scolastica o a far propria la critica di Valla e di Vives sul carattere disordinato, disorganico e non funzionale della stessa logica aristotelica. Si era invece proposto di riformare l'intero corpo delle dottrine dialettiche, seguendo Agricola nella particolare accentuazione del primato dell'inventio e nella richiesta di nuovi criteri di semplicità, brevità ed efficacia didattica.
Anche per lui, come per Rudolf Agricola e Filippo Melantone, il fine della dialettica doveva consistere soprattutto nell'insegnare sia a discutere (disserere), sia a esporre (disceptare); e, pertanto, aveva insistito sulla precedenza della 'scoperta' degli argomenti e dei loci nei confronti di un secondo momento, costituito dall'elaborazione di un discorso continuo formato necessariamente da una catena di argomenti. Da buon umanista aveva pure sostenuto la massima opportunità di andare avanti sempre per la "via più facile e spedita", di cui gli fornivano celebri esempi i testi poetici e retorici dell'Antichità, nei quali si mostrava come dover procedere per passare da conoscenze ad altre conoscenze e da conclusioni ad altre conclusioni. Non basta, le Dialecticae institutiones già proponevano la distinzione di tre diversi gradi nella formazione corretta di ogni discorso, il primo costituito dal semplice sillogismo, il secondo dall'argomentazione o 'catena' di sillogismi, mentre il 'terzo giudizio' consisteva nell'ordinamento organico e compiuto di tutte le nozioni e conclusioni, secondo il criterio platonico della reductio ad unum del sapere. La dialettica è, dunque, la più eccelsa tra le varie arti, perché, nei suoi tre gradi di giudizio, costituisce "una certa arte di tutte le arti" e può giungere a contemplare le forme eterne della sapienza divina e ricondurre a questo fine supremo l'intero ciclo delle dottrine e delle arti. Richiamandosi al mito platonico della caverna, Pietro Ramo poteva in tal modo delineare il processo dialettico che permette all'intelletto umano di liberarsi dalle tenebre dell'ignoranza, per risalire dalle ombre alle vere immagini della verità. Ed era, per lui, evidente che soltanto la dialettica, come "arte di pensare", era in grado di mettere ordine nella selva apparentemente confusa delle idee e delle cose e di tracciare le grandi linee di una nuova enciclopedia capace di ricostruirne l'ordine compiuto e perfetto.
Si tratta di temi che Ramo continuerà a discutere e approfondire nel corso della sua lunga carriera letteraria e didattica e che ispireranno gli sviluppi sempre più complessi della sua concezione della dialettica. Già, nel 1546, in una nuova edizione delle Dialecticae institutiones (apparsa sotto il titolo di Dialectici commentarii e sotto il nome del suo amico Omar Talon), egli tenne conto delle osservazioni critiche dell'umanista portoghese Antonio de Gouveia che aveva identificato il suo 'secondo giudizio' con il procedimento per insegnare le arti chiamato metodo dai Greci; e vi aggiunse, appunto, un intero capitolo sul metodo che completava e chiariva la sua teoria della dispositio o giudizio. Definì la methodus come una "disposizione di molti e buoni argomenti", ma volle distinguere questo "metodo di dottrina" da un altro "metodo di prudenza" da usare per tutte quelle questioni che possono essere risolte soltanto dalla prudenza pratica e dalle sue decisioni, perché non dipendono dall'arte o perizia dialettica. Però il metodo di dottrina consisteva nella "disposizione di vari argomenti dedotti dai principî universali e generali e ricondotti alle parti soggette e singolari"; ed era, pertanto, un procedimento di spiccato carattere didattico che permetteva di "percepire e insegnare più facilmente", affine, appunto, al secondo giudizio. Ramo aggiungeva ancora che il miglior ordinamento delle conoscenze doveva procedere dalle definizioni più universali per giungere, gradatamente, alla risoluzione analitica (distributio) nelle loro singole parti e all'illustrazione ottenuta con il ricorso a esempi ben calzanti (Dialectici commentarii, pp. 83-84). Chiunque intenda insegnare deve, infatti, essere in grado di affrontare un vasto complesso di nozioni, costituito da regole, definizioni, divisioni ed esempi, ognuna delle quali si suppone sia vera ed esatta.
Ma esse, nel loro insieme, si presentano in modo disordinato e confuso, come se fossero scritte su molte tavolette poi mescolate dentro un'urna. Il compito principale del maestro consisteva, perciò, nello stabilire un ordine e una disposizione precisa di quelle nozioni che altrimenti sarebbero rimaste incerte e incomprese. Ora, per raggiungere questo fine, non era certo sufficiente l'inventio che si limita a fornire gli argomenti dai quali sono costituite le singole definizioni; non bastava neppure il sillogismo, essendo già presupposto che tutte le singole proposizioni dell'arte siano vere e provate. Restava, quindi, soltanto il ricorso a una certa dispositionis via che insegni a distinguere i principî e le definizioni più generali da quelle più particolari e singolari e poi a disporle, secondo il criterio della loro maggiore generalità, muovendo dalla definizione propria di ciascuna disciplina o arte, per passare alle sue parti e alle relative definizioni, alle loro distinzioni e divisioni e, infine, alle nozioni più particolari illustrate dagli exempla.
Sulla validità di questo metodo Pietro Ramo non nutriva alcun dubbio. Riconosceva, è vero, che, in certi casi e in talune particolari circostanze, poteva essere più opportuno affidarsi alla prudenza personale del maestro e dell'oratore per dare al sermo l'ordine più conveniente, secondo la particolare natura e condizione del pubblico al quale ci si rivolgeva, degli argomenti trattati e del tempo e del luogo; e poteva, perciò, essere più utile la dissimulazione del procedimento seguito e la reticenza nella distribuzione delle singole parti. Ma se la forza dei 'venti contrari' e delle 'tempeste' che spesso ostacolano il corso naturale del sapere potevano così costringere a 'mutare la vela' e a ricorrere ad altri auxilia, la methodus così proposta restava l'"ottima disposizione delle parole e delle cose"; invenzione quest'ultima piuttosto divina che umana, era l'unico criterio che permettesse di ricostruire, nell'ordine delle scienze e delle arti, la disposizione universale delle cose.
In realtà la proposta e la difesa di un "metodo, unico, certo e definitivo" dovevano diventare gli argomenti dominanti della logica ramista, proprio negli anni in cui Pietro Ramo era coinvolto nelle aspre polemiche con Jacques Charpentier, Joachim Périon e Pierre Galland, e si approfondivano i suoi interessi scientifici, volti in particolare verso le arti matematiche. Nel 1553 rifece completamente e ripubblicò a parte i Libri IX e X delle Aristotelicae animadversiones, inserendovi una più vasta e organica discussione sulla methodus, svolta con il diretto riferimento ai testi di Platone, Aristotele, Galeno e ai commentatori greci e con un evidente richiamo alle dottrine e discussioni del suo tempo. Questi due libri furono in seguito restituiti, senza molte varianti, al loro luogo nel corpo dell'opera, nelle successive edizioni del 1556 e del 1560, mentre le pagine corrispondenti alle cc. 37-76 dell'edizione del 1553, vennero ancora nuovamente pubblicate a parte, nel 1557, sotto il titolo Quod sit unica doctrina instituendae methodus. Ma non basta, nel 1555 e nel 1556, in occasione della edizione in lingua francese e in lingua latina della nuova versione delle sue dottrine dialettiche, Ramo porrà proprio questo tema a compimento della sua proposta di riforma, e mostrerà già di considerarlo il criterio adatto per rinnovare non solamente l'ordinamento e l'insegnamento delle arti del discorso, bensì anche quello delle matematiche, della stessa physica, o filosofia della Natura, e, addirittura, della teologia che l'umanista (vicino alla Riforma sino dalla metà degli anni Cinquanta) trattò in seguito, decisamente, intorno al 1560, in una forma chiaramente prossima alle dottrine zwingliane.
Il facondo professore, dalla sua cattedra del Collège Royal (dove era stato chiamato nel 1557, grazie all'appoggio di potenti e autorevoli sostenitori), condusse, infatti, una serrata battaglia contro i suoi avversari, replicando che il metodo attribuito ad Aristotele e, comunque, diffuso dai suoi discepoli, era del tutto inefficace, proprio perché non permetteva di svolgere, in maniera ordinata, l'intera catena delle argomentazioni e identificava il procedimento scientifico con il sillogismo dimostrativo, anello chiuso e non integrato in un sistema coordinato di conoscenze. Non negava, certo, che Platone e Aristotele avessero saputo usare gli strumenti del vero metodo e che nelle stesse opere dello Stagirita si trovassero tracce importanti del giusto procedimento di conoscenza e d'insegnamento. Però rivolgeva una critica serrata e intransigente ai sostenitori della pluralità e della distinzione tra i metodi (un attacco rivolto principalmente ai galenisti, ma, in certa misura anche allo stesso Johannes Sturm) i quali avevano inutilmente complicato un processo che, per sua natura, è e deve essere il più semplice possibile, e avevano confuso l'ordine naturale del conoscere e dell'apprendere. Non soltanto respingeva le diverse vie proposte nell'Ars parva di Galeno, ma riteneva che esse si riducessero, in sostanza, al solo metodo analitico già usato da Ippocrate, da Platone e dallo stesso Aristotele e, in fondo, coincidente con il suo proprio "metodo unico di dottrina"
Ora, proprio Charpentier, nelle sue Animadversiones in libros tres Dialecticarum institutionum Petri Rami (1554), non si era limitato a respingere la distinzione ramista della dialettica nei due soli 'momenti', della inventio e della dispositio, ma aveva negato che la si potesse considerare una sorta di "scienza suprema", in un certo senso depositaria dei principia communia di tutte le arti e discipline e, soprattutto, che il metodo d'insegnamento dovesse essere unico e procedere, in ogni caso, dai principî più generali. Tali principî potevano anche essere ‒ come diceva Ramo ‒ "i più noti di per sé stessi"; erano, però, anche i meno facilmente comprensibili dalla mente ancora inesperta degli scolari, ai quali dovevano piuttosto essere proposti per ultimi, seguendo il buon senso e l'uso comune dei maestri. Ma pure un celebre umanista, Adrien Turnèbe, nelle Animadversiones in Rullianos Petri Rami commentarios (1600), non mancò di usare la sua ironia, spesso riservata a tutte le discussioni contemporanee sul metodo, nei confronti del regius professor di cui rilevava le incertezze e le oscillazioni a proposito soprattutto di questo tema particolare.
Non meraviglia, quindi, che Ramo reagisse con particolare asprezza e acrimonia a queste accuse e ribadisse con forza la propria concezione del metodo che volle esporre in una forma ancora più esplicita. Nella Dialectique (1555; scritta in lingua francese perché avesse una più vasta diffusione e sotto la probabile influenza della Deffence et illustration de la langue françoise di Joachim Du Bellay) propose questa definizione: "Il metodo è la disposizione, grazie alla quale tra più cose la prima per conoscenza è disposta al primo posto, la seconda al secondo, la terza al terzo e così di seguito" (ed. Dassonville, p. 144).
Ramo volle, inoltre, chiarire maggiormente il senso del termine, usando le parole adresse et abbrègement du chemin, per ribadire che il metodo doveva essere sempre "uno e unico", con la sola eccezione delle circostanze che richiedevano il ricorso alla méthode de prudence. La méthode de nature era, infatti, il cammino che procedeva giustamente dai principî più evidenti e più noti in assoluto ("Il metodo di natura è quello grazie al quale ciò che è del tutto e assolutamente più evidente e più noto è posto per primo"), come, per esempio, le cause nei riguardi dei loro effetti, o il generale e l'universale nei confronti del particolare o del singolare. E, senza dubbio, poteva essere inteso e seguito con facilità da qualsiasi mente umana, ben capace di notare, in ogni genere d'arte, i vari gradi di chiarezza e di universalità delle singole nozioni e scegliere "il primo per rango e ordine perché è il primo in chiarezza e conoscenza". A questo principio primo e generalissimo dovevano poi seguire "i subalterni […] perché sono prossimi in chiarezza", disposti secondo il loro maggiore o minor grado di evidenza e, infine, gli exemples, posti per ultimi perché sono specialissimi. Del resto, secondo Ramo, sia il Filebo, il Fedro e il Carmide di Platone, sia gli Analytica posteriora di Aristotele concordavano nel riconoscere che l'unico metodo davvero valido è quello che procede "dalle cose generali e discende passo passo alle speciali". Perché, come l'aurea catena di cui parla Omero, è il solo che connette e congiunge tra loro così strettamente le varie parti e gli elementi del sapere, in modo che anche la sola dimenticanza di uno degli anelli intermedi dissolverebbe irreparabilmente l'ordine e la continuazione del tutto (ibidem, pp. 145-147).
Ramo non negava che questo metodo (che esigeva il pieno possesso dei loci e dei procedimenti del giudizio e della disposizione) non fosse sempre facilmente apprendibile da parte di chi dovrebbe praticarlo insegnando o scrivendo e che, al contrario, presentasse degli ostacoli se lo si voleva seguire con il dovuto rigore. Né si nascondeva che, proprio per questo, anche quelle arti o scienze che erano state costruite con il pieno rispetto delle norme relative agli enunciati e ai sillogismi, mancavano ancora di piena coerenza metodica e non si presentavano come auree catene. Persino gli Elementa di Euclide (che Ramo aveva particolarmente studiato, in relazione ai suoi interessi per le arti matematiche e i loro procedimenti) gli sembravano imperfetti, perché non raggiungevano la perfezione analitica e deduttiva del metodo, condizione essenziale per poter parlare di una vera dottrina e di una vera arte. Sicché era necessario riordinare anche questo grande modello del sapere antico, secondo la luce divina di quel procedimento considerato indispensabile per il rinnovamento e il progresso di tutte le scienze. Del resto, nella sua finale Péroration de la méthode, Ramo poteva scrivere, addirittura, che "la divinità dell'uomo non riluce in nessun luogo della ragione così ampiamente come nel sole di questo universale giudizio" definito "suprema luce della ragione" (ibidem, p. 153).
Si potrebbe insistere a lungo su questa pagina della Dialectique, ove taluni studiosi hanno riconosciuto e ben sottolineato la presenza di temi ispiratori della riflessione giovanile di René Descartes. E, invero, la principale preoccupazione di Ramo, nonostante tutti i limiti della sua preparazione e mentalità di maestro delle artes dicendi, intendeva proprio rispondere a una fondamentale esigenza di evidenza e di chiarezza espressa anche da altri suoi contemporanei nell'ambito delle più diverse discipline e ai propositi di riorganizzazione razionale del sapere e della sua 'enciclopedia'. La notevole fortuna europea delle sue opere, che si accrebbe dopo la sua morte e raggiunse il culmine negli ultimi decenni del Cinquecento e i primi del Seicento, testimonia del resto che le sue proposte avevano un solido fondamento nella cultura del tempo e che la loro influenza (operante non soltanto in ambienti intellettuali e scolastici della Francia, ma forse ancor più in Germania, nell'Europa centrosettentrionale e nelle isole britanniche) svolse una parte davvero non secondaria nella 'preistoria' delle metodologie seicentesche. Più oltre si accennerà alla traccia di questa influenza ben visibile negli scritti di Francis Bacon o in talune concezioni dominanti della Didactica magna di Comenio (Jan Amos Komenský); ma altri elementi inducono a ritenere, appunto, che anche Descartes, nonostante la sua decisa ripulsa del ramismo, ne avesse ben presenti quelle proposte che meglio rispondevano alla sua illuminante esigenza di clarté e alla ricerca della "catena delle scienze" (chaîne des sciences) che si rivela quando sono state finalmente tolte le 'maschere' che celavano "tutta la loro bellezza". Qui importa piuttosto ricordare che Ramo restò sempre fedele alla sua dottrina dell'ordinamento scientifico e didattico del sapere, risolto nel criterio del passaggio dai prima et notiora ai sequentia et minus nota. Lo difese nel corso delle rinnovate polemiche con Charpentier, il suo avversario più temibile. Lo sostenne nella discussione più pacata con un altro teorico contemporaneo, Giacomo Aconcio, che, nel De methodo (1558), aveva accolto alcune esigenze del ramismo, quali la sostanziale unicità del metodo e il valore determinante del processo "dal più noto all'ignoto", ma, d'altro canto, aveva cercato, in primo luogo, di privilegiare l'efficacia dell'investigatio e l'aspetto operativo di un procedimento che passasse con ordine sistematico dalla nozione del fine proprio di ogni arte e scienza a quello delle cause necessarie per realizzarlo. Mirò, però, anche a sviluppare e approfondire la sua trattazione, sforzandosi di determinare, con un ritorno a talune dottrine aristoteliche, le leggi logiche generali o requisiti indispensabili per l'ordine e la validità organica di qualsiasi dottrina.
Soprattutto, quando, nel 1566, pubblicò una nuova edizione della Dialectica, notevolmente ampliata, trasformata e accompagnata da un vasto commento, attribuito al Talon, ma probabilmente opera dello stesso autore, queste leggi furono così determinate: (1) la "legge di verità" o "legge di necessità universale" per cui ogni principio costitutivo di una disciplina doveva avere una validità universale, senza eccezioni o limitazioni; (2) la "legge di omogeneità" o "legge di giustizia" che doveva, invece, verificare il carattere omogeneo, e, pertanto, la compiuta connessione dei termini dei vari enunciati, all'interno di un sistema di nozioni tutte pertinenti al medesimo dominio del sapere; (3) la "legge della sapienza" o "legge della prova necessaria", alla quale era affidato il compito più importante e decisivo ossia distinguere gli enunciati a seconda che fossero propri, cioè convertibili, o comuni e non convertibili, e accettare soltanto i primi nel sistema delle singole discipline (Dialectica, pp. 229-233).
È evidente che, secondo Ramo, qualsiasi scienza, disciplina o arte poteva essere considerata in sé stessa coerente e razionale soltanto se risultava costituita da un sistema di proposizioni rispondenti, in ogni caso, al triplice criterio della necessità, omogeneità e proprietà. Né è difficile intendere che, in tal modo, il suo modello metodologico più maturo, oltre a recepire alcuni principî della logica aristotelica, accentuava nettamente il carattere analitico e deduttivo del passaggio "dal più noto al meno noto". Non basta, il commento presentava, addirittura, la methodus ramista come la più fedele interpretazione delle vere intenzioni di Aristotele (non comprese oppure tradite dai suoi discepoli) e la sola che fosse riuscita a ridurre a definizioni chiare, essenziali, ordinate e bene applicabili i principî maggiormente validi dell'Organon. Da tutto ciò conseguì una nuova definizione della methodus:
Il metodo è quella disposizione, grazie alla quale da molti enunciati omogenei, noti per sé stessi o per un giudizio tratto da un sillogismo, si dispone al primo posto quello che è primo in assoluto per conoscenza, al secondo il secondo, al terzo il terzo e così di seguito; e così si passa senza interruzione dagli universali ai singolari. Questa infatti è la sola e unica via grazie alla quale si procede dagli antecedenti del tutto e assolutamente più noti, a svelare i conseguenti ignoti. (ibidem, p. 367)
E Ramo aggiunse ancora:
Benché poi in tutte le discipline tutte le regole siano generali e universali, tuttavia esse si differenziano per gradi: e quanto una qualsivoglia [regola] sarà più generale, tanto [più] precederà. La più generale sarà prima per posizione (loco) e ordine; poiché è prima per luce e conoscenza (notitia); di seguito le subordinate, poiché sono le più prossime per chiarezza; e tra queste si faranno precedere quelle più note per natura, le meno note si porranno dopo e infine si stabiliranno le [regole] più particolari (specialissimae). (ibidem, p. 418)
Su questa via l'elaborazione ramista andò ben oltre, quando il maestro dichiarò esplicitamente che era possibile e, addirittura, necessaria la formazione di un sistema generale delle arti (e con questo vocabolo egli comprendeva tutte le dottrine e le scienze), nel quale ognuna di esse fosse ben distinta, nel proprio dominio particolare, ma, al tempo stesso connessa con tutte le altre. Le tre "leggi imperatorie" divenivano, insomma, i veri principî sui quali si fondava l'intero edificio del sapere che lo stesso Ramo cercò di delineare nelle sue Scholae, una sorta di abbozzo di enciclopedia generale con forti intenti didattici. Inoltre, è noto che taluni suoi seguaci diretti o indiretti, fedeli o 'eclettici' (si pensi, per es., a Theodor Zwinger e a Jean Bodin) furono tra i primi a costruire schemi di enciclopedie sistematiche o di inventari generali del mondo, destinati a svilupparsi proprio nei decenni a cavallo tra i due secoli e a fornire non pochi suggerimenti metodici anche ai modelli pansofici del Seicento.
Sui caratteri e sui limiti propri della metodica ramista il giudizio degli storici è stato spesso sostanzialmente negativo, soprattutto per quanto concerne l'effettivo valore epistemico delle 'tre leggi', tratte ‒ è stato osservato ‒, con molta libertà, dai testi aristotelici e applicate al di là del loro statuto logico, e la mancanza di sicuri procedimenti che potessero realmente favorire il progresso dell'indagine e stabilire un solido statuto epistemologico delle scienze. Ciò spiegherebbe la successiva clamorosa disfatta del ramismo al cospetto delle nuove proposte di Bacon e di Descartes, entrambe ormai estranee alla tradizione 'retorica' umanistica, e dei decisivi successi conseguiti dai procedimenti sperimentali e dai modelli matematici delle 'nuove scienze'. Si tratta di affermazioni che dovrebbero essere oggi meglio chiarite e motivate alla luce delle indagini che hanno confermato l'attiva presenza del ramismo nella cultura della prima metà del Seicento e la sua effettiva influenza anche su personalità e ambienti certo non estranei all'avvento di nuove concezioni metodologiche e scientifiche. Resta, in ogni caso, da dire che, specialmente negli ultimi anni della sua vita, Ramo sembrò rendersi conto del carattere ambiguo di un metodo che era nato dalla polemica antiscolastica e dalle preoccupazioni didattiche e riformatrici di maestri umanisti come Agricola, Vives e Melantone, ma che, nel corso di quasi mezzo secolo, aveva assunto il carattere di criterio generale per la scoperta e l'ordinamento del sapere e per la verifica della validità di qualsiasi enunciato scientifico. È, certo, assai sintomatico che, nonostante la sua formazione di maestro delle artes sermocinales, assumesse come suo punto di riferimento gli Elementa di Euclide, anche se il loro sistema assiomatico non gli sembrava ancora sufficiente a soddisfare il criterio essenziale della chiarezza e della coerenza. È un dato di fatto certo che, proprio in qualità di lecteur royal, si preoccupò di favorire l'insegnamento e lo studio delle teorie matematiche, l'elaborazione di manuali divulgativi di quelle scienze, la discussione dei loro metodi e fondamenti. Lo dimostra in modo evidente la sua familiarità, anche come maestro, con alcuni dei più noti matematici francesi del suo tempo, dal più anziano Oronce Fine a Jean Pena, Pierre Forcadel (che, dal 1560, fu titolare di una delle cattedre del Collège Royal), Jean Magnen, Arnaud d'Ossat, Nicolas de Nancel, Henri de Monantheuil. E lo conferma l'influenza che esercitò anche su studiosi di altri paesi e, soprattutto, lo sviluppo ultimo della sua metodica, nel breve tempo che precedette la sua morte.
Già nel 1564, Charpentier aveva rinnovato la sua polemica, accusando, appunto, Ramo di aver confuso il procedimento d'insegnamento con quello proprio dell'investigazione e della dimostrazione scientifica, e di aver aggravato questa ambiguità pretendendo di servirsi di exempla poetici e oratori per illustrare procedimenti squisitamente logici; e proprio il 'matematico' d'Ossat aveva difeso il suo maestro, insistendo sul valore delle tre leggi e del principio di 'omogenità'. Nel 1566-1567, mentre era in corso un nuovo scontro con Charpentier, a proposito della successione alla cattedra di matematica del Collège, lo stesso Ramo ebbe modo di riaffermare la sua convinzione che le arti matematiche costituissero un ottimo modello di ordinamento omogeneo e fossero, d'altra parte, le discipline più capaci di risolvere la teoria nella pratica e presentare l'esempio di un sapere utile, facilmente trasmissibile per l'evidenza dei suoi postulati e suscettibile di eccezionali applicazioni pratiche. Nel 1569, la pubblicazione delle sue Scholae mathematicae gli permette-va di sottolineare, nuovamente, che quelle scienze erano un perfetto esempio di sapere metodico costruito nel pieno rispetto delle tre leggi. Nel 1571, nella Defensio pro Aristotele adversus Jacobum Schecium (l'aristotelico Jakob Schegk, medico e maestro di Tubinga che considerava l'apodittica peripatetica l'archetipo di ogni scienza), tornò a difendere il suo "metodo unico" e le "leggi imperatorie" che ne assicuravano l'omogeneità e l'universalità. L'anno seguente, nell'ultima edizione della Dialectica (1572) rinnovata profondamente, Ramo affermò che la stessa arte dialettica, alla quale compete di stabilire i principî della scoperta e della trasmissione delle discipline, doveva essere costituita da un complesso perfettamente ordinato di assiomi.
Egli definiva così gli assiomi: "L'assioma è la disposizione di un argomento con un altro argomento, che giudica che un qualcosa è o non è. In latino si dice enuntiatum, enuntiatio, pronuntiatum, pronuntiatio, effatum" (Dialectica, pp. 61-62); e, di conseguenza, mutava pure la definizione del metodo, espressa in questi termini:
Il metodo è la considerazione (dianoia) di assiomi omogenei posti per la chiarezza della loro natura, in modo che di tutti si giudichi la convenienza degli uni con gli altri, e si tengano a memoria. E come nell'assioma si ricerca la verità o falsità, nel sillogismo la consequenzialità o non consequenzialità, così nel metodo si considera che ciò che è più chiaro per sé precede e ciò che è più oscuro segue, e si giudica solamente l'ordine e la confusione. Così si disporrà tra gli assiomi omogenei in primo luogo il primo per conoscenza (notione) assoluta, nel secondo il secondo, nel terzo il terzo e così di seguito; e così il metodo passa senza interruzione dagli universali ai singolari. (ibidem, p. 87)
La funzione definitiva della methodus era perciò individuata nella piena capacità di stabilire i diversi gradi di chiarezza o di oscurità dei vari assiomi e di disporli in modo da impedire ogni confusione o incertezza, procedendo appunto in una successione, la cui evidenza fosse garantita da un sistematico processo di certezza e distinzione nell'ordine delle conoscenze. Naturalmente, il modello di tale metodo era ancora indicato nei procedimenti tipici dell'insegnamento della geometria, l'unica scienza che, a giudizio di Ramo, seguisse una via davvero necessaria, universale e omogenea e, dunque, la sola che potesse proporre un criterio indiscutibile di chiarezza estensibile a tutte le altre forme del sapere.
La morte improvvisa e prematura di Pietro Ramo, il terzo giorno della strage di San Bartolomeo, impedì che fosse portata a termine l'elaborazione definitiva del sistema totale del sapere che avrebbe dovuto coronare la sua opera. Ed è difficile supporre come sarebbe stato applicato lo schema risolutamente assiomatico proprio dell'ultima versione della methodus unica. Ma la storia del ramismo europeo (che qui può essere solamente indicata in brevi tratti) mostra quali temi della Dialectica contribuirono maggiormente a determinare la forte tendenza all'omogenizzazione del sapere proprio di molti ambienti e autori operanti nella cultura precartesiana.
S'è già accennato all'importanza dell'insegnamento di Ramo per la formazione di alcuni dei maggiori matematici francesi del suo tempo. Si dovrà ancora aggiungere come questa influenza si estendesse agli studiosi di matematica delle università svizzere, tedesche, dei Paesi Bassi e del mondo britannico, raggiungendo personalità come John Dee, Robert Recorde, Thomas Hood, William Bedwell, Henry Briggs. Si può pure registrare una larga presenza d'influssi ramisti nelle discussioni sulla metodica nella Francia del tardo Cinquecento e del primo Seicento, da Bodin sino ai 'portorealisti' e a Bernard Lamy; e non è privo di interesse il rapporto tra Ramo e la grande cultura letteraria e poetica francese, in particolare, con il gruppo della Pléiade e gli interessi anche filosofici e scientifici che vi si coltivavano. Non a caso, già nel 1557, i nomi di Pietro Ramo e di Oronce Fine erano citati nei Dialogues di Guy de Bruès, nel corso di una discussione che Ronsard e Baïf avrebbero svolto intorno ai più nuovi argomenti di 'filosofia naturale' e di astronomia tra i quali erano comprese le teorie di Copernico, molto apprezzate anche da Pontus de Tyard.
Ancora più forte fu però la presenza di Ramo nella cultura tedesca protestante, dove le sue dottrine furono talvolta connesse, in forma eclettica, a quelle tipiche dei testi dialettici di Melantone (la cosiddetta 'dialettica filippo-ramea') e di Sturm. Dai centri universitari e intellettuali della Svizzera tedesca (soprattutto Basilea, dove Ramo aveva avuto un forte successo personale e incontrato un discepolo di grande autorità, come Zwinger) a quelli della Germania meridionale visitati, durante il suo lungo viaggio, tra il 1568-1570, alle scuole e accademie di Marburgo, Düsseldorf, Erfurt, Stade, Amburgo, Lubecca, Braunsweig, Lipsia e alla lontana Danzica è agevole seguire la traccia della presenza del ramismo e del suo metodo, accolto nei più diversi ambiti del sapere.
Così al ramismo non furono estranee né la particolare esegesi biblica di Johannes Piscator (che non risparmiò talune critiche alla methodus unica), né il tentativo di sistemazione della teologia calvinista di Amandus Polanus, né il Systema systematum di Bartholomaeus Keckermann, divenuto, però, per molti aspetti un fermo sostenitore dell'aristotelismo, né la metodica giuridico-politica di Johannes Althusius, o le opere sistematiche dello scienziato Andreas Libau (Libavius). Per tacere del giurista di Friburgo Johannes Thomas Freigius che, nelle sue Partitiones iuris utriusque (1571) e nella Logica iurisconsultorum (1582), presentò la metodica ramista come il criterio fondamentale di qualsiasi tipo di dottrina; la logica è vista come la stella polare (Cinosura) per l'immenso mare del diritto, una sorta di filo di Teseo per orientarsi nel labirinto delle leggi e delle costituzioni e ancor più lo sarà la logica popolare, adattata all'uso della vita umana, di cui Ramo ci ha fatto dono (un dono divino), in una lingua chiarissima; inoltre, egli spinse sino all'estremo le tendenze agli schemi e alle tabulae di struttura dicotomica tipica delle dialettiche ramiste. Anche Johann Heinrich Alsted, professore nell'Università calvinista di Herborn, ispirò alla metodica ramista (ma con forti influenze melantoniane e lulliane) le sue molte opere di carattere enciclopedico destinate a influire profondamente sulla formazione del giovane Comenio e a costituire importanti modelli per i molti progetti enciclopedici e pansofici del XVII secolo. Lo studio di questo aspetto, per nulla secondario, della cultura del grand siècle rivela come la presenza di Ramo e del ramismo, spesso taciuta, per ragioni di opportunità religiosa, continuasse a essere profondamente operante in quegli autori, protestanti delle varie confessioni, ma anche cattolici, che miravano a mantenere un'immagine unitaria del sapere e dell'ordine universale, pur nel corso delle più imponenti 'rivoluzioni' della scienza.
La cultura che permise al ramismo i suoi sviluppi più originali e importanti fu però quella dell'Inghilterra elisabettiana, dove i due maggiori centri universitari, Oxford e Cambridge, furono profondamente trasformati non soltanto dalla presenza di nuovi maestri decisamente protestanti o addirittura puritani, ma anche da incisive riforme dei curricula, dalla diffusione dei testi umanistici di tradizione erasmiana e dalla notevole presenza dei manuali di Melantone, di Caesarius e di Sturm. Non meraviglia che maestri come Roger Asham o William Lewin, che si erano formati in un clima intellettuale di schietto erasmismo, manifestassero la loro stima e approvazione per i propositi riformatori di Melantone e dello Sturm e che lo stesso Roger Asham mostrasse un precoce interesse anche per Ramo. Nondimeno, la fortuna inglese delle sue opere e delle sue idee ebbe inizio soprattutto dopo la morte, specialmente in quelle istituzioni scolastiche di ispirazione puritana, il Christ's College, l'Emmanuel College, il Sidney Sussex College, dove si formarono i principali protagonisti del ramismo di Cambridge, Gabriel Harvey, George Downham, William Temple e William Kempe e vari altri maestri, predicatori e uomini di studio. Ma allo sviluppo del ramismo cantabrigiense parteciparono pure personalità, quali Abraham Fraunce, provenienti da altre scuole. Né va taciuta, naturalmente, la formazione di un centro di opposizione al ramismo, intorno al maestro di logica Everard Briggs, professore al Saint John's College. Neppure Oxford rimase estranea all'interesse per il ramismo, rappresentato da alcuni insegnanti, Charles Butler, John Barebone, Nathaniel Baxter e John Raynolds. Importanti furono poi i rapporti e le connessioni religiose e politiche di questa già solida tradizione ramista, nonché il carattere particolare delle due edizioni della Dialectica di Ramo, una in latino e una in inglese (apparse contemporaneamente a Londra, nel 1574, a opera dello scozzese Roland MacIlmaine) che si fondavano appunto sull'ultima revisione di quell'opera, apparsa ‒ s'è visto ‒ nel 1572.
Non è qui possibile seguire nei particolari la storia della fortuna inglese dei testi di Ramo, presenti poi in buon numero anche nei collegi puritani della Nuova Inghilterra, e le varie tendenze e linee di sviluppo del ramismo inglese. Resta, comunque, un dato di fatto accertato che dell'eredità del lecteur royal, i suoi seguaci inglesi sottolinearono con forza proprio il suo concetto della dialettica come dottrina valida per ogni ambito del sapere e che accolsero l'ultima versione della methodus, nella sua forma assiomatica. Come scriveva, appunto, il Temple nella Praefatio al De prima simplicium et concretorum corporum generatione disputatio di Jacopo Martini: "La dialettica non è certo quella delimitata da un qualche confine, ma si estende a tutte (universas) le cose e con la facoltà di scoperta (inventionis) e di giudizio le esamina e le comprende" (f. A3v). Proprio per questo, i seguaci più decisi di Ramo, come MacIlmaine, Fraunce, Downham, Richardson e lo stesso Temple, furono sempre intransigenti sostenitori dell'unica methodus e del suo processo dagli universali più noti in assoluto (universalia absolute notiora) ai particolari meno noti.
L'episodio certamente più interessante della vicenda del ramismo inglese è però la disputa che contrappose il Temple a Everard Digby, un filosofo e logico d'indubbia cultura, autore, tra l'altro, della Theoria analytica (1579), un testo d'ispirazione sostanzialmente eclettica che accoglieva, insieme a dottrine aristoteliche, concezioni neoplatoniche, dionisiane e agostiniane e idee derivate dalla lettura di Cornelio Agrippa e di Reuchlin. Anche Digby era seriamente convinto che non fosse possibile alcuna conoscenza, senza l'ausilio di un procedimento metodico, ma, come risulta da quanto scrisse nel De duplici methodo libri duo unicam Petri Rami methodum refutantes (1580) era altrettanto sicuro che esistessero due diverse vie e che si dovesse chiaramente distinguere tra il metodo che occorre usare in scientiis inveniendis e quello necessario, invece, in scientiis docendis.
L'intelletto umano debole e limitato, che procede nel suo cammino con grande difficoltà e incertezze di ogni genere non può muovere che dai particolari agli universali, dagli indizi ai principî; e soltanto quando sia pervenuto a essere capace di comprendere la "luce universale" dei principî, può procedere, secondo la "via di natura" alla comprensione veramente compiuta dell'ordine 'totale' del sapere, nel quale debbono trovare il loro luogo tutte le scienze e arti. Sicché Ramo, che, "impaziente di ogni distinzione", negava la diversità tra le due vie e accettava come unico metodo esatto quello 'analitico', ritenendolo ugualmente valido sia per la scoperta, sia per l'insegnamento delle scienze, confondeva, in modo davvero pregiudizievole, due funzioni metodiche diverse che, peraltro, dovevano ammettere entrambe sia il procedimento 'analitico', sia quello 'sintetico'.
Del tutto opposta era, ovviamente, l'opinione di Temple che, nel suo scritto polemico, Francisci Mildapetti Navarre-ni ad Everardum Digbeum Anglum admonitio de unica Petri Rami methodo, reiectis caeteris, retinenda (1580) e poi, l'anno seguente, svelando lo pseudonimo, nella Pro Mildapetti de unica methodo defensione contra Diplodophilum commentatio (1581), negò decisamente simili distinzioni, insistendo, sulla linea di Ramo, sul fatto che il metodo è essenzialmente un principio di ordinamento universale che presuppone sia l'inventio sia lo judicium, e il cui compito consiste nel disporre compiutamente le nozioni già trovate o scoperte. Il ramista non dubitava che l'ordine della scienza dovesse muovere, per il maestro come per il discepolo, dai principî più chiari ed evidenti che sono tali sia per natura, sia per la mente che li apprende; il che non gli impediva di riconoscere che ogni conoscenza nasce sempre "dall'osservazione dei sensi e dall'induzione delle cose", anche se poi soltanto il metodo a generalibus proposto da Ramo poteva assicurare l'ordine razionale del sapere.
La discussione tra Digby e Temple mostra come la questione del metodo costituisse l'aspetto dominante del ramismo inglese, i cui maggiori esponenti, che erano spesso teologi e uomini di Chiesa, miravano pure al suo impiego nell'elaborazione di opere teologiche, nell'esegesi dei testi sacri e nella predicazione. Ed è noto che lo stesso Francis Bacon, ascoltatore, a Cambridge, delle lezioni di Digby, non restò insensibile agli argomenti discussi dai ramisti e dai loro avversari. Anzi, è stato notato da tempo che la sua distinzione tra due metodi, l'uno volto a organizzare il sapere già acquisito e l'altro che mira, invece, a estendere e arricchire l'ambito delle conoscenze umane, presentava una notevole affinità con le tesi di Digby, mentre studi più recenti hanno pure posto in rilievo l'accoglienza della seconda e terza legge del metodo ramista, sia nel giovanile Valerius terminus, sia nel secondo libro del Novum organum. Ma, del resto, la fortuna del ramismo continuò, in Inghilterra, ancora nel Seicento inoltrato, come mostrano il Syntagma logicum (1620), una "Divine logike" dedicata proprio a Bacon da Thomas Granger, e i testi ramisti di Antony e Samuel Wotton (1626), di Thomas Spencer (1628) e di Robert Fage (1632). Ed è probabile che risalga a questo periodo, se non al decennio successivo, l'Artis logicae plenior institutio, ad Petri Rami methodum concinnata, un'opera giovanile di John Milton, edita soltanto nel 1672.
L'insistenza di Ramo e dei ramisti sul particolare valore logico e metodico delle arti matematiche e dei procedimenti assiomatici degli Elementa euclidei induce a ricordare subito un altro aspetto del nostro tema ossia le discussioni intorno al modello euclideo e, in genere, ai metodi logici e didattici proposti nelle opere dei matematici greci, sempre più noti grazie all'opera di traduttori, esegeti o teorici, tra i quali ricorderò, soprattutto, Commandino, Tartaglia, Maurolico. Senza affrontare adesso i vari problemi che sono connessi al 'ritorno' dei matematici antichi e alla loro influenza sulla cultura umanistica e matematica del tardo Quattrocento e del primo Cinquecento, si dovrà sottolineare che tali discussioni ebbero una loro importanza, giacché posero in questione il carattere specifico del procedimento assiomatico-deduttivo, proprio della methodus geometrica, e la sua certezza, in confronto con i canoni propri della dimostrazione apodittica e della metodologia aristotelica. Sicché cominciò ad apparire evidente l'esistenza di un tipo di procedimento che, nonostante tutti gli sforzi di ridurlo alla normativa peripatetica (fino a quello più compiuto, in seguito, da un illustre matematico gesuita, il padre Clavio), appariva sempre più 'diverso'.
Ora proprio Ramo e alcuni dei suoi discepoli matematici sembravano ben consapevoli che la dimostrazione matematica non fosse affatto riducibile nella forma sillogistica dell'apodittica aristotelica. E, appunto nel corso della polemica sul De demostratione di Schegk, aveva insistito nell'affermare che, in realtà, l'apodittica di Aristotele era nata proprio dalle matematiche e che, se essa poteva servire a emendare taluni mala exempla degli Elementa, i bona exempla del matematico greco correggevano i mala praecepta del filosofo. Ma, sia pure con intenzioni assai diverse, temi simili erano dibattuti anche altrove, addirittura nel 'peripatetico' Studio padovano. Già intorno al 1547, Alessandro Piccolomini, un eccellente divulgatore della tradizione aristotelica, riproposta in lingua volgare, nel suo Commentarium de certitudine mathematicarum disciplinarum (pubblicato in appendice a In mechanicas quaestiones Aristotelis …, 1565), aveva dichiarato che le matematiche non seguono dei procedimenti riducibili ai canoni della "perfetta dimostrazione", quali sono esposti nell'Organon, e che pertanto non possono essere annoverate tra le scienze speculative, quali sono la metafisica e la fisica aristotelica. È chiaro che la sua intenzione era del tutto opposta a quella che ispirava il crescente interesse di Ramo per gli studi matematici, considerati dal nobile senese, già scolaro dello Studio patavino, del tutto inferiori per verità e certezza alle scienze 'perfette'. Non stupisce che tali affermazioni provocassero risposte polemiche da parte di matematici, aprendo una quaestio alla quale, tra gli altri, intervenne, nel 1560, un altro professore padovano, uomo di vari e singolari interessi filosofici e religiosi, Francesco Barozzi, con il suo Opusculum, in quo una oratio et duae quaestiones: altera de certitudine et altera de medietate mathematicarum continentur, nel quale, in modo particolarmente abile, si sforzò di mostrare che le matematiche godevano della piena certezza, in quanto del tutto rispondenti, pur nella loro autonomia, ai principî e metodi dell'apodittica. Ma, del resto, già nel 1556, un altro 'patavino', Pietro Catena, si era affrettato a raccogliere gli Universa loca in logicam Aristotelis in mathematicas disciplinas, ossia tutti i passi che ne riconoscevano l'evidente carattere speculativo; e, ancora, nel 1563, nell'Oratio pro idea methodi, pur restando nell'ambito della metodica peripatetica, si sforzava di confermare la validità assoluta dei metodi con i quali quelle scienze erano dimostrate e insegnate. Tali ragionamenti, tuttavia, non convincevano i peripatetici più conseguenti, convinti che alle matematiche spettava piuttosto lo status di arti che quello di scienze.
Come scriveva, nel 1572, Jean de Riolan, in un passo dell'Institutio philosophica, l'unica considerazione che sottraeva le dottrine matematiche alla riduzione a un fine meramente meccanico era la loro subordinazione alla verità teologica e metafisica, al cui servizio potevano dimostrare che Dio ha creato il mondo "secondo peso, numero e misura" (in pondere, numero et mensura).
Anche simili discussioni, pur sempre svolte entro i confini della 'norma' aristotelica, mostrano come il problema del rapporto tra l'ordine di geometria e le dottrine apodittiche e metodologiche aristoteliche fosse ormai divenuto attuale; e come Euclide e Aristotele tendessero ad assumere la figura di maestri di due diverse 'vie' che non era molto agevole ricondurre a unità. Del resto, la questione diventava ancora più complessa quando si era costretti a passare al diretto confronto con le strette relazioni ormai istituite tra le arti matematiche e quelle meccaniche, al di fuori della struttura gerarchica tradizionale del sapere, e con le loro finalità pratiche, testimoniate da un rapido progresso tecnologico. Di questo aspetto della nuova cultura scientifica e tecnica del suo tempo era stato certamente ben consapevole Ramo, quando aveva così accentuato il fine 'utile' (usuaire) della sua dialettica e proposto come esempio le conoscenze 'produttive' degli artigiani e degli artefici e il valore 'operativo' delle matematiche, liberate da quegli esiti metafisici ai quali voleva ricondurle il suo avversario Charpentier.
I nomi dei maggiori protagonisti della quaestio certitudinis mathematicarum che abbiamo citato ci riconducono tutti a un ambiente universitario, quello padovano che, nel corso del Cinquecento, rimase fondamentalmente fedele alla tradizione aristotelica, affrontata, certo, con la nuova sensibilità filologica dell'Umanesimo e con il ricorso sempre più vasto ai commentatori antichi e alle loro diverse ipotesi esegetiche, senza, però, mai deflettere dai criteri metodici di Aristotele e di Galeno, difesi contro i novatores, ma anche chiariti e discussi con notevole lucidità e acribia. I testi logici prodotti direttamente o indirettamente dalla Scuola patavina ebbero anch'essi un notevole successo in Italia, in Francia e in Spagna; ma non restarono estranei neppure alle università tedesche protestanti o alle accademie riformate della Svizzera e della Francia meridionale, nelle quali insegnò a lungo Giulio Pace, giurista e logico, un esule religionis causa che si era formato alla scuola di Jacopo Zabarella. Né dobbiamo dimenticare che tra i primi severi giudici di Ramo è necessario appunto annoverare un altro professore di formazione patavina, Francesco da Vimercate, e che l'influenza dell'insegnamento logico di Padova sembra essere presente anche negli scritti di altri oppositori della dialettica ramista e difensori della pluralità dei metodi, come il Gouveia, Bartolomeo Viotti e probabilmente anche lo stesso Schegk.
Certo, a Padova, le tradizionali auctoritates scolastiche non furono mai rifiutate: Averroè, Avicenna, Alberto Magno e Tommaso d'Aquino continuarono a essere citati con un ossequio che non impediva discussioni riguardo alle loro teorie. Eppure, prima di parlare di una 'continuità' della tradizione filosofica e scientifica patavina, da Alberto Magno a Jacopo Zabarella (che, per taluni, sarebbe addirittura alle origini della nuova metodologia scientifica galileiana), occorrerebbe spiegare chiaramente perché la discussione logica e metodologica ebbe anche a Padova una così forte rilevanza. Né si dovrebbe trascurare un altro dato di fatto; a questo dibattito (nel quale furono più o meno impegnati i più noti maestri di filosofia di quello Studio da Agostino Nifo a Marco Antonio Zimara, da Girolamo Balduino a Bernardino Tomitano, Jacopo Zabarella e Francesco Piccolomini) sono connesse le analoghe analisi intorno ai concetti di ordine e di metodo svolte, negli stessi decenni, da vari professori della Facoltà di medicina i quali, talvolta, univano all'insegnamento della loro arte anche quello della logica. Tutto ciò può spiegarci perché la loro indagine resti sempre strettamente fedele ai testi aristotelici e galeniani, ma li reinterpreti con un'indubbia attenzione, non sempre soltanto polemica, tanto alle indagini filologiche umanistiche sulle opere del medico greco quanto alle nuove tendenze che già incominciavano a manifestarsi nelle scuole mediche.
Non è questo il luogo per una disamina particolareggiata di tali indagini che, nei primi decenni del Cinquecento, furono condotte da personalità di spicco, come il medico e grecista Niccolò Leoniceno, il suo successore sulla cattedra ferrarese di medicina, Giovanni Mainardi, o il 'patavino' Girolamo Capivacci. Piuttosto si dovrà ricordare che, a proposito delle 'vie' indicate da Galeno e da Aristotele, del loro rapporto e significato, il confronto tra logici e medici mirò a chiarire che il procedimento dimostrativo era ben diverso dall''analisi' (resolutio), un processo logico di natura assai differente, utile soprattutto per individuare i 'termini' essenziali degli enunciati dimostrabili. Proprio per questo Capivacci, nel De differentiis doctrinarum (1562), osservò che il concetto di metodo doveva essere accuratamente chiarito, proprio perché era stato spesso usato in maniera incerta e confusa per indicare, ugualmente, una certa via artificiosa per 'disporre' le scienze (ordo) e gli strumenti logici vari e diversi di cui ci si serve per 'scoprire' (invenire). È ben probabile che quando scriveva la sua definizione della methodus ("dottrina strumentale grazie alla quale si apprende a procedere dal noto all'ignoto per acquisire la scienza dei problemi") avesse presente anche le dottrine ramiste, non ignote nella cultura veneta del tempo, contro le quali forse intendeva polemizzare indirettamente. E, infatti, Capivacci continuava a muoversi entro il quadro tradizionale della distinzione peripatetica tra le scienze speculative (metafisica, matematica e fisica), effettive (le dottrine etiche e politiche e tutte le arti operative, tra le quali era la stessa medicina) e strumentali (l'arte logica nel cui ambito era compresa pure la metodica). Si può, quindi, comprendere perché si preoccupasse di denunciare, con molta veemenza, gli errori e gli equivoci di cui era fonte la confusione tra ordo e inventio e si affrettasse ad analizzare i diversi ordines o disposizioni possibili delle scienze. Si affidava all'Ars parva per distinguere subito l'ordine analitico da quello compositivo e dal definitivo, e dichiarava che, mentre il primo disponeva le varie nozioni a partire dal fine della singola disciplina per giungere ai suoi principî, il secondo procedeva, invece, dai principî al fine, mentre il terzo muoveva dalla definizione per pervenire alle diverse parti che la costituivano.
Con questo, egli intendeva ribadire che le uniche vie possibili per ordinare e trasmettere una scienza (e, in particolare, la medicina, oggetto del suo insegnamento) si risolvevano o in un processo di 'ascesa', o in uno di 'discesa', oppure in una sorta di movimento ad latera, paragonabile alla linea che, secondo i 'geometri', congiunge il centro alla circonferenza. Di questi tre procedimenti il più prestante era, ovviamente, l'ascesa, che veniva considerata la via più razionale dell'ordinamento delle scienze, alla quale dovevano essere subordinate le altre due vie. Ed è significativo che Capivacci ricorresse alla classica analogia aristotelica della sottomissione della scienza naturale che è serva della metafisica, domina et regina scientiarum.
Se questo era il procedimento per ordinare le scienze, del tutto diverso era il compito del metodo, strumento valido per 'scoprire'. Per Capivacci si trattava di un processo logico del tutto diverso dall'experimentum di natura sensibile ed empirica e, pertanto, adatto a conferire la pratica o 'perizia' di un'arte, ma senza offrirne una cognizione razionalmente provata. Certo, riconosceva che il processo logico dal noto all'ignoto era cosa ben distinta dalla cognizione dei 'teoremi generali' raggiungibile solamente al termine ultimo della via. Ma il medico, quando passava a trattare, in modo specifico, dei metodi, restava ben fermo nel considerare validi soltanto quelli ormai canonizzati dalla tradizione peripatetica e galeniana, ossia, il dimostrativo, il definitivo, il divisivo e il risolutivo. Il primo permetteva di passare dal noto all'ignoto, mediante i vari gradi di certezza acquisibili dai tre tipi di dimostrazione (quia, propter quid, potissima). Con il secondo si poteva cercare il genere e la differenza specifica di qualsiasi ente, in modo da attribuirgli tutte le proprietà proprie delle diverse parti della definizione, tenendo ben presente che l'inizio della definizione stessa era costituito dall'individuo dal quale si doveva poi procedere "attraverso la via risolutiva e compositiva" (per viam resolutivam seu compositivam), perfettamente coincidenti sia nel punto di partenza, sia in quello d'arrivo.
Al contrario la methodus divisiva muoveva sempre dagli universali, per scendere alla determinazione dei generi e delle specie. Ma, appunto per questo, Capivacci riteneva che vi si dovesse far ricorso con grande attenzione e cautela, perché era esposto a tutti gli equivoci connessi all'uso dei concetti universali. Pertanto, il metodo considerato da lui più valido e importante era il risolutivo, utile sia per costituire le definizioni, sia per conoscere la struttura dei composti. Era, infatti, l'unico che permettesse di risalire dalla conoscenza del fine a quella dei mezzi necessari per realizzarlo, o di ascendere dallo studio degli individui e delle loro particolari operazioni agli elementi comuni che ne costituiscono la natura intrinseca. Giustamente il termine resolutio era stato foggiato per analogia dal vocabolo che indica il 'ritorno in patria' di chi ha compiuto un viaggio in externis regionibus, proprio per indicare che chi vuole conoscerlo deve compiere il cammino inverso a quello compiuto dai vari elementi per giungere a costituire un composto.
Capivacci restava sempre nell'ambito di una gnoseologia e di una metodica di tradizione scolastica, nonostante la sua indiscutibile conoscenza dei testi e i suoi seri interessi per quel tipo di conoscenza empirica (doctrina sperimentalis) che, pur non giungendo mai alla vera scienza, permette di acquisire la perizia pratica delle arti. E, in questo, non si differenziava molto dai tanti avversari del ramismo che respingevano l'eresia di un unico metodo del sapere. Nondimeno, il costante e talvolta ignoto lavoro di vari maestri padovani intorno a quei procedimenti metodici che dovrebbero permettere di risalire dall'esperienza empirica degli effetti alla cognizione razionale delle cause, e, ancora, di discendere dalle cause agli effetti, in un unico circulus che assicuri la piena certezza della scienza, ebbe sviluppi d'indiscutibile rilievo, sollecitati anche dall'inevitabile confronto con le nuove dialettiche umanistiche e, poi, con il ramismo. Non è qui possibile discutere le dottrine di autori meno noti, come Balduino, Zimara e Bernardino Tomitano, o entrare nei particolari delle riflessioni metodologiche e logiche che pure abbondano negli scritti di un altro celebre medico e filosofo di formazione patavina, Girolamo Fracastoro. Interessa, piuttosto, concludere questo capitolo con il richiamo all'autore indubbiamente più importante della Scuola padovana, un filosofo di cui si è già ricordata la notevole fortuna europea e la cui influenza fu ancora operante nei primi decenni del nuovo secolo, Jacopo Zabarella.
I tentativi di presentare Zabarella come uno dei più importanti tramiti tra la tradizione scolastica e la rivoluzione metodologica e scientifica, considerata del tutto estranea alla riforma intellettuale umanistica, se non addirittura come un diretto 'precursore' di Galilei, sono stati messi in discussione da molte ricerche che, se da un lato, hanno posto in rilievo le profonde connessioni del neoaristotelismo scolastico cinquecentesco con criteri critici e metodi filologici umanistici, d'altro canto, hanno confermato l'estrema complessità delle tendenze e tradizioni culturali che sono all'origine della scienza moderna. Tuttavia non si potrà non riconoscere a Zabarella una posizione eminente nella problematica cinquecentesca sul metodo, se si considera soprattutto il suo disegno di indagare l'effettiva validità degli 'strumenti' logici aristotelici per la ricerca e la trasmissione del sapere. Ciò non toglie che il concetto zabarelliano della methodus sia pur sempre connesso a un'esegesi dei testi di Aristotele risalente a Simplicio, ad Alessandro di Afrodisia e a taluni commentatori arabi, in primo luogo Averroè.
In ogni caso, non si può negare che Jacopo Zabarella fosse consapevole dei problemi reali della cultura del suo tempo, quando, sia pure richiamandosi a modelli tradizionali, prepose all'edizione delle sue opere logiche (Opera logica, 1600) un importante excursus riguardo alla distinzione delle varie scienze e i loro rapporti, che chiarisce il suo proposito di costruire un quadro o tavola generale delle forme della conoscenza, dei loro fini, strumenti e metodi logici. Senza alcun dubbio, egli rimase fedele al criterio aristotelico della supremazia del momento teoretico, allorché divise le scienze in due grandi e ben distinte categorie: quelle che si occupano di cose che possono essere fatte o compiute dagli uomini e le altre che, invece, trattano delle cose la cui causa non risiede nella volontà umana.
Da buon aristotelico attribuiva alle prime un carattere di contingenza e di probabilità, del tutto estraneo alla rigorosa necessità che costituisce la norma delle seconde. Sicché la distinzione preliminare tra le scienze contemplative (come la metafisica, la matematica o la filosofia naturale che considerano sempre le cose necessarie) e le scienze operatrici (come l'etica, l''economica', la politica e, in genere, tutte le discipline umane che si occupano delle cose "che possono allo stesso titolo essere o non essere fatte dalla volontà umana") è, insomma, il primo fondamento della sua riflessione metodologica. Perché, come scrive,
quelle cose, che non possiamo fare, le contempliamo soltanto con l'intenzione di conoscerle, non di farle. Sarebbe infatti da sciocchi voler far ciò che non può essere fatto in alcun modo; quelle cose, invece, che possiamo fare, per questo le consideriamo per farle; e se ci sembra di cercare anche la loro conoscenza, nondimeno lo scopo precipuo non è la conoscenza, ma l'operazione. Infatti cerchiamo di conoscerle con la mente, per essere in grado di operare qualcosa per mezzo della conoscenza, poiché senza di essa o non faremo affatto o faremo con più difficoltà e in modo peggiore. (Opera logica, col. 22)
Zabarella, peraltro, propone ancora un'ulteriore distinzione tra quelle scienze che s'interessano soltanto allo studio dell'azione, delle virtù e dei vizi umani (cioè le dottrine etico-politiche) e quelle arti che hanno per loro oggetto le operazioni materiali, ossia concernono la produzione di qualcosa. Quanto alla logica, come altri esegeti del corpus aristotelico, in particolare, Averroè, ritiene che non sia affatto una scienza, bensì un'arte posta al servizio delle scienze, da imparare nello stesso modo e per il medesimo fine che perseguono gli apprendisti delle varie arti, quando si esercitano ad adoperare i loro strumenti particolari.
Non è necessario insistere oltre su queste classificazioni; piuttosto, sarà opportuno soffermarsi sul testo per noi più interessante, il De methodis, che, sebbene resti saldamente ancorato ai presupposti aristotelici, non è certo estraneo al contesto generale delle discussioni metodologiche degli anni 1540-1570. Senza dubbio, Zabarella è del tutto lontano dalla teoria ramista della methodus unica, così come è estraneo anche alle incertezze e alle confusioni teoriche di quei filosofi o medici che avevano assimilato tra loro procedimenti aristotelici e galeniani sostanzialmente diversi. Ma è sua convinzione che ogni arte, scienza o disciplina debba essere 'scoperta' e ordinata secondo un metodo e un ordine proprio; sicché respinge anche l'errore di chi ha distinto quattro metodi per la scoperta delle scienze (dimostrativo, resolutivo, definitivo e divisivo) e tre vie od ordini per l'organizzazione sistematica delle loro materie (compositivo, risolutivo, definitivo). Costoro, con la difesa di questo loro dogma, sbarrano la via a una discussione logica dell'argomento che, oltre tutto, è estranea alle loro discipline; e ignorano che il metodo è semplicemente un abito logico o, meglio, un abito strumentale che è utilizzato solamente per acquisire un'esatta cognizione delle cose. Tuttavia, come esiste una logica applicata alle cose (rebus applicata) e un'altra distinta dalle cose (a rebus seiuncta), così pure il metodo potrà essere considerato come un "puro abito strumentale", distinto dalle diverse scienze o arti alle quali è applicato, oppure come una disciplina costruita in modo metodico, come spesso fa lo stesso Aristotele. Ma finché si resta nell'ambito della logica, Zabarella è certo che la methodus potrà essere considerata soltanto a rebus seiuncta, ossia, come uno strumento mentale che è necessario per acquisire altri 'abiti'. Non è però mai un instrumentum significandi, bensì un mezzo elaborato per procurare la scienza.
È evidente il suo proposito di reagire alle preoccupazioni pedagogiche spesso dominanti nella discussione umanistica sul metodo. Ma per chiarire meglio l'atteggiamento del maestro patavino si dovrà ricorrere alla distinzione da lui istituita tra i concetti di methodus e di ordo che, a suo giudizio, erano stati a lungo considerati in modo confuso e quasi come sinonimi. Secondo il suo ragionamento, il passaggio "da una cosa all'altra dello stesso genere o dello stesso ordine" può essere duplice. Può, infatti, consistere nel modo di ordinare le cose da trattare, allo scopo di stabilire quale debba essere esposta prima e quale dopo; e, in tal senso, poiché è un semplice procedimento dispositivo, usato solitamente dai maestri per insegnare, gli si addice assai meglio il termine 'ordine'. Però, nel suo significato più proprio, il 'metodo' è, invece, il passaggio "dalla conoscenza di una cosa alla conoscenza di un'altra", ossia un processo d'inferenza che permette di muovere dal noto all'ignoto o, come scrive Zabarella: "altro […] è che questa cosa debba essere conosciuta prima di quella; e altro il passare da una cosa nota alla conoscenza di qualcosa di ignoto" (De methodis, coll. 102-103).
Per quanto concerne l'ordine, il filosofo riconosce che chiunque voglia insegnare una qualsiasi disciplina debba, per prima cosa, considerare la migliore disposizione della propria materia e delle sue parti. Ma, dopo aver minutamente analizzato i testi di Aristotele, di Galeno e di Averroè, respinge subito la dottrina galeniana delle tre vie od ordini. Ogni ordinamento, infatti, deve dipendere dal carattere e dalle necessità intrinseche di ciascuna disciplina, oppure dall'opportunità di rendere più facile l'insegnamento, ritenuta, però, cosa secondaria. Sicché nell'ordinamento delle scienze si dovrà sempre seguire la via che va dagli universali ai singolari, l'unica che permetta di organizzarle nel modo più chiaro e conseguente.
Con tutto questo, Zabarella non nasconde che tale ordine compositivo può essere applicato, in maniera rigorosa, soltanto alle scienze contemplative, mentre, per le scienze pratiche, occorrerà muovere piuttosto dalla nozione del loro 'fine' per passare da essa alla conoscenza dei principî che è necessario ne dirigano l'azione (ordine risolutivo). Ne è esempio proprio l'arte medica che ‒ come riconoscono pure Averroè e Avicenna ‒ può essere insegnata soltanto seguendo tale via.
Siffatte conclusioni preludono alla trattazione specifica del metodo che, secondo l'ortodossa concezione aristotelica di Zabarella, si applica soltanto alla soluzione dei problemata, ossia serve per 'concludere' le questioni che esigono un esito dimostrativo. Ciò significa che il metodo deve avere una struttura sillogistica e che la sua definizione logica non può essere, in sostanza, diversa da quella del sillogismo di cui costituisce un caso particolare. Ma ogni sillogismo scientifico procede sempre o dalla causa all'effetto o dall'effetto alla causa; e, pertanto, sono possibili solamente due procedimenti: la cosiddetta demonstratio propter quid (del perché), oppure la demonstratio quia (del come). D'altro canto, l'oggetto della conoscenza umana è sempre una sostanza o un accidente; ed è chiaro che la sostanza può essere veramente conosciuta soltanto quando se ne possieda una definizione perfetta, la quale, a sua volta, può essere evidente di per sé e quindi non richiede alcun metodo, oppure ignota e, in tal caso, deve essere ricercata con i procedimenti logici.
L'essenza dell'investigatio è, dunque, costituita dalla ricerca (venatio) di tale definizione, mediante un processo dimostrativo che può essere soltanto quello risolutivo, coincidente con la demonstratio quia. Quando poi si tratti di accidenti, quelli di essi che sono comuni, secondo la dottrina aristotelica, restano del tutto esclusi dalla dimostrazione scientifica rigorosa, mentre gli accidenti propri, dipendenti solamente da cause esterne, possono essere dimostrati risalendo alla causa stessa.
I metodi compositivo e risolutivo sono, insomma, del tutto sufficienti a farci conoscere i principî, gli effetti e le affezioni delle cose. È ben vero che, se ci fossero noti tutti i principî, si potrebbe usare esclusivamente la compositio, come fanno le scienze matematiche, che ignorano giustamente la methodus resolutiva. Ma Zabarella riconosce la grande utilità del procedimento risolutivo, inteso correttamente come il processo dimostrativo dall'effetto alla causa, la cui efficacia è evidente quando si tratta di scoprire ciò che risulta troppo oscuro e nascosto per il procedimento della demonstratio propter quid.
Più debole è, invece, la via dell'induzione che può servire soltanto a rendere più chiaro ciò che non sia del tutto ignoto. In ogni modo, sia il metodo compositivo, sia quello risolutivo possono valere soltanto per le scienze speculative e non per quelle pratiche e tanto meno per quelle arti che trattano di cose contingenti e possibili. Per tali discipline, che sono organizzate secondo l'ordo compositivus non è possibile alcuna dimostrazione, sia dalla causa, sia dall'effetto, ed esse possono usare solamente gli strumenti probabilistici della prova dialettica. Nelle altre l'investigatio, o ricerca, procederà sempre a posteriori, derivando, cioè, le cause dagli effetti; ma, in seguito, sarà possibile confermare le conoscenze così ottenute, per mezzo della demonstratio propter quid, o metodo compositivo che permette di raggiungere, con una sorta di processo circolare, il massimo grado di certezza.
L'esame delle dottrine del De methodis conferma, insieme alla particolare acutezza e capacità esegetica del suo autore, anche il carattere essenzialmente scolastico e tradizionale della loro ispirazione, sebbene si tratti, senza dubbio, di uno 'scolasticismo' di alto livello, consapevole del significato del dibattito aperto dai maestri umanisti e capace di opporre a questi suoi interlocutori argomenti e obiezioni di notevole rilevanza che furono ben presenti ancora nella cultura del XVII secolo. Né si può negare che la sua riflessione presentasse alcuni temi di grande interesse, come la discussione sui fondamenti, sull'ordine, la connessione e la relativa diversità dei procedimenti logici delle singole scienze, nonché un'analisi raffinata delle finalità proprie dei procedimenti logici di scoperta e ordinamento. In questo senso, i testi di Zabarella permettono di comprendere, con molta chiarezza, quali fossero le concezioni metodologiche dominanti in molti dei più importanti ambienti intellettuali e scolastici, mentre si stava già delineando una radicale trasformazione dei paradigmi del sapere scientifico ed emergevano, con notevole forza, i primi tentativi di rispondere alla crisi dottrinale del tempo, postulando ‒ come s'è visto ‒ una trasformazione profonda dei principî della ricerca e della trasmissione del sapere. Così com'è probabile che la netta separazione stabilita, nel De methodis, tra la logica delle scienze matematiche e naturali e quella delle discipline etico-politiche abbia contribuito ad aprire il cammino alla crescente divergenza tra la via matematica e rigorosamente dimostrativa delle conoscenze dell'ordo naturae e i procedimenti probabilistici e dialettici dello studio del mondo umano.
Nonostante i numerosi tentativi di costruire etiche o scienze politiche rispondenti a un modello geometrico e assiomatico, l'ambito davvero fondamentale della cultura giuridica, ancora tipico pure della formazione di alcuni filosofi e scienziati moderni (si pensi a Descartes e a Leibniz) mantenne fermamente i suoi rapporti tradizionali con i procedimenti dialettico-retorici. E non sarebbe difficile citare il nome di vari maestri italiani, francesi o tedeschi, di giuristi o di studiosi delle dottrine etiche che proprio dalle opere di Zabarella ripresero le loro particolari tendenze metodologiche. Ma, volendo limitarsi a un autore assai celebre tra la fine del Cinquecento e gli inizi del Seicento, basterà ricordare l'attività di uno dei maggiori giuristi del tempo, Giulio Pace da Beriga formatosi anch'egli a Padova sotto l'insegnamento di Zabarella. Questi, nella sua lunga attività di professore di diritto e di logica, svolta, dopo la sua adesione alla Riforma, a Ginevra, Heidelberg, Nîmes, Montpellier e Valence, perseguì sistematicamente il tentativo di coordinare il grande corpus della tradizione giuridica e di riesporre e chiarire, insieme, il sistema della logica aristotelica, insistendo proprio sui problemi concernenti la scoperta e l'ordinamento delle diverse scienze. Non meraviglia che, proprio negli anni di Galileo Galilei e di Francis Bacon, egli cercasse di definire gli elementi universali, i principî e gli assiomi del diritto, affrontando un problema che, tra Seicento e Settecento, avrebbe appassionato non pochi autori, tra i quali sarà sufficiente ricordare Vico e Leibniz. Ma, a questo punto, si apre un altro capitolo di questo lungo dibattito, ormai estraneo all'età del Rinascimento.
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