Il Rinascimento. Continuita, sviluppo e crisi delle scienze peripatetiche
Continuità, sviluppo e crisi delle scienze peripatetiche
Aristotele e le università
Nella sua prefazione ai Commentari al De anima aristotelico, pubblicati a Venezia nel 1521, Agostino Nifo si chiedeva perché, ormai da alcuni secoli, le opere di Aristotele costituissero in tutta Europa il nucleo insostituibile di ogni ricerca e, soprattutto, di ogni insegnamento scientifico, anche se, per ciascuna singola scienza, non sarebbe stato difficile trovare autori pari o anche superiori allo Stagirita. La risposta è chiara: il "maestro di color che sanno" s'imponeva per una serie di ragioni molto forti, vale a dire per l'ordine impiegato nell'impostazione e nella risoluzione dei problemi che, partendo dall'esperienza sensibile, si modellava sulla natura stessa della nostra conoscenza, per il metodo dimostrativo usa-to nell'indagine ma, soprattutto, per la sistematicità con cui le singole discipline erano organizzate in un sistema coerente, nel quale non vi era niente di superfluo e niente di manchevole. Nel 1585 lo stesso concetto sarebbe stato espresso da Jacopo Zabarella (1533-1589) nell'orazione inaugurale del suo corso tenuto all'Università di Padova, in quanto la filosofia nel suo complesso non avrebbe potuto essere fondata e tramandata su fondamenti più solidi di quelli forniti da Aristotele, sia per il metodo sia per la sistematicità.
Sia Nifo sia Zabarella consideravano questa eccellenza la causa del trionfo istituzionale di Aristotele, ma a noi ‒ oggi ‒ non sfugge come fosse vero anche il contrario. Come, cioè, proprio questo trionfo avesse ulteriormente sistematizzato le dottrine aristoteliche, piegandole spesso alle esigenze intrinseche dell'istituzione universitaria. In ogni modo, ancora alla fine del XVI sec., l'insieme delle scienze aristoteliche si presentava come una macchina pienamente funzionante, dotata di strategie complesse per respingere o assimilare, a seconda dei casi, dottrine e conoscenze. È il caso della filosofia di Platone e dei grandi neoplatonici (Plotino, Proclo, Giamblico) riscoperta a partire dai primi decenni del XV secolo. I migliori aristotelici delle università europee conoscevano la filosofia platonica, a volte anche di prima mano, ma per loro il filosofo ateniese non costituiva un'alternativa reale proprio per il suo linguaggio non rigoroso, per il suo metodo dialettico e non dimostrativo, per l'asistematicità dei suoi dialoghi (ancor meno lo erano le vestigia delle altre filosofie, recuperate poco a poco dall'attività paziente degli umanisti). Per tutto il XVI sec., la presenza di testi platonici nell'insegnamento universitario sarà rara e discontinua. È anche il caso delle nuove conoscenze in campo botanico e zoologico, fornite dalla scoperta di nuove terre, o di quelle in campo mineralogico, collegate allo sviluppo dell'attività mineraria; i nuovi animali e le nuove piante potranno essere materia di scienza (e non semplici curiosità) solamente nel quadro del metodo e del sistema aristotelico. Se Agricola, per esempio, nel suo De natura fossilium, stampato a Basilea nel 1546, aveva accumulato una serie di osservazioni preziose sulle cause della formazione dei minerali sconosciute ad Aristotele, ciò, come notava l'aristotelico Francesco Vimercati (1512-1571), non lo autorizzava a mettere in discussione i principî di base esposti nei Meteorologica dello Stagirita.
Scienza e fede
L'accettazione, l'affermazione e, infine, il trionfo del sistema aristotelico nella cultura universitaria dell'Europa tardo-medievale non erano stati né facili né indolori. Il problema centrale era stato quello della convivenza con la teologia cristiana, che presentava una visione del mondo assai diversa, sia per contenuti sia per metodo: Natura e volontà divina, teoria delle cause naturali e ricorso al miracolo, fede e argomentazione non erano elementi tra loro facilmente conciliabili. Tuttavia, qualunque sia il significato da dare alla condanna da parte del vescovo di Parigi Stefano Tempier (1277) di 219 articoli di teologia e di filosofia naturale, fra i quali i capisaldi della scienza peripatetica, e quali che siano state le sue immediate conseguenze, quello che sembra certo è che tra la fine del Duecento e gli inizi del Trecento fu elaborato un modello in base al quale i campi della scienza naturale e della teologia rivelata erano rigorosamente distinti. Ammettendo la possibilità di un intervento diretto di Dio, signore assoluto del mondo, sui fatti naturali, la 'fisica' riconosceva la limitatezza delle sue argomentazioni e, contemporaneamente, acquistava la sua autonomia. Fondandosi sulla ragione umana 'naturale' essa non poteva andar oltre le sue limitate capacità, ma nel suo ambito, fatto salvo l'omaggio al superiore sapere dei teologi, queste capacità le esercitava tutte, respingendo ogni tutela esterna.
Si può dire che, al di là di conflitti puntuali di carattere endemico, tra il XV e il XVI sec. questa soluzione fu comunemente accettata sia dai filosofi sia dai teologi. A questo proposito è interessante il caso di Pietro Pomponazzi (1462-1525). Alla fine della sua lunga carriera intellettuale, il mantovano giungerà a conclusioni radicali non inquadrabili più nello schema ereditato dalla tradizione medievale, in quanto le verità raggiunte dalla filosofia mediante la ragione, pur nei loro limiti, dovevano essere considerate verità tout court. Le affermazioni teologiche e in genere le credenze religiose, destituite di ogni valore di verità, erano fondate, invece, su miti inventati per inculcare nelle masse quei comportamenti etico-politici cui mai sarebbero arrivate in maniera autonoma. Queste affermazioni rimanevano 'private' e non uscivano da una ristretta cerchia di amici e di discepoli fidati. Nelle controversie pubbliche e istituzionalizzate Pietro Pomponazzi assume toni diversi. Affrontando la questione dell'immortalità dell'anima (intervenendo nel dibattito sorto alla fine del Quattrocento all'Universi-tà di Padova e protrattosi per i primi decenni del Cinquecento), aveva usato con successo, presso le autorità accademiche e lo stesso papa Leone X, l'argomentazione secondo la quale la tesi mortalista, pur non essendo vera in assoluto, corrispondeva a un'esegesi corretta di Aristotele e a quello che poteva dire una ragione non illuminata dalla fede. Del resto, il suo più accanito avversario, Nifo, aveva ribadito gli stessi concetti, se non relativamente all'immortalità dell'anima, ritenuta razionalmente dimostrabile, riguardo alla sua origine e al suo stato dopo la morte. Così come, ancora nell'orazione inaugurale già citata, l'affermazione che esistono due filosofie ‒ una, priva di ogni errore, i cui principî ci vengono donati per grazia divina, e un'altra, tutta umana, limitata e soggetta a sbagliare, che parte dalla sensazione e argomenta mediante la ragione ‒ non impedisce a Zabarella di affermare che il suo compito è quello di dedicarsi alla seconda; il riconoscere che essa non supera i limiti propri della ragione naturale, non diminuisce il suo elogio di Aristotele e del procedimento scientifico.
Non è forse superfluo osservare che negli anni intercorsi tra Nifo e Zabarella aveva avuto inizio e si era concluso il Concilio di Trento, e che l'organizzazione ecclesiastica aveva cominciato a sviluppare un processo di controllo sempre più capillare sulla vita intellettuale italiana. Nonostante questo, lo schema che aveva garantito relativa indipendenza all'attività scientifica istituzionalizzata delle università continuava a funzionare (per gli outsider le condizioni erano sempre state meno favorevoli). La cosa riguardava non solamente gli aristotelici italiani, ma anche i professori delle università tedesche, definitivamente staccate da Roma e ormai inserite in una consolidata ortodossia luterana. Con l'eccezione di alcuni calvinisti, come Lambert Daneau (particolarmente attento alle esigenze della scrittura fino a scrivere una Physica christiana), la comunità aristotelica, al di là delle irreversibili divisioni religiose, sembra accomunata dal senso del valore, della dignità e dell'autonomia della scienza. Questa è certamente una delle più importanti eredità che l'aristotelismo medievale e quello rinascimentale hanno lasciato alla vita intellettuale europea.
Il sistema delle scienze e i generi letterari corrispondenti
Presente nella Facoltà delle arti di tutte le università europee, alla fine del XV sec. il sistema delle scienze peripatetiche era ormai insegnato abbastanza uniformemente da Coimbra a Cracovia, da Catania a Praga, senza che fosse cambiato in modo sostanziale rispetto al modello iniziale di Oxford, di Parigi o di Bologna; vale a dire, rispetto al momento in cui l'istituzione universitaria nascente aveva effettuato una selezione nell'ampia massa di testi scientifico-naturalistici disponibili in traduzione latina alla fine del XII sec., operando scelte e rifiuti, proprio in funzione della costruzione di un sistema coerente delle scienze. Come è noto, nella classificazione fornita dallo stesso Aristotele l'intero sapere si distribuisce tra discipline teoretiche, pratiche e poietiche. L'insieme delle opere aristoteliche, però, copre solo le prime due divisioni, e solo le scienze che vi appartengono entrarono nell'università medievale. Attività come quelle dell'agricoltore, dell'architetto o del costruttore di macchine, nonostante siano state sporadicamente inserite in sistemi del sapere, non hanno mai raggiunto la dignità di un insegnamento istituzionalizzato. Le scienze pratiche (etica, politica, economia) rimangono ovviamente fuori dal nostro discorso e nella tripartizione del settore teoretico in fisica, matematica e metafisica, il primo è sicuramente quello che più ci interessa, ed è anche quello che, alla fine del XV sec., si era conquistato maggior spazio e importanza. Assorbendo, almeno in parte, il campo delle matematiche, lasciando in sottordine quello della filosofia prima (metafisica) quando non emarginandolo (è il caso delle università italiane), esso divenne il centro del dibattito scientifico e filosofico in ogni Facoltà delle arti.
Nella concezione medievale del sapere la scienza s'identificava con il testo che la tramandava e la insegnava; non a caso, le discussioni sull'ordine del sapere erano quasi sempre sull'ordine dei libri di Aristotele. L'insieme delle scienze, quindi, si strutturava a partire da una 'fisica generale' che, accanto alla trattazione di concetti base come 'Natura', 'spazio' (o, meglio, 'luogo'), 'tempo', 'continuo', 'contiguo', 'finito', 'infinito', presenta anche quelli che potremmo chiamare i principî della meccanica aristotelica (riassumibili nella formula: la velocità è direttamente proporzionale alla forza applicata e inversamente proporzionale alla resistenza del mezzo), un'astronomia-cosmologia (De caelo), una teoria generale del mutamento e delle trasformazioni dei corpi elementari e di quelli misti (De generatione et corruptione), una meteorologia e una geografia generale (scienze dei fenomeni che si verificano nell'atmosfera, sulla superficie e anche all'interno della sfera terrestre, trattate nei Meteorologica). Seguiva, infine, un insieme di discipline relative al mondo della vita: una scienza dell'anima, che indagava le operazioni e le funzioni degli esseri viventi (sensazione, nutrizione, sonno, ecc.) e il principio che le determina, l'anima, appunto (De anima e i cosiddetti Parva naturalia); una zoologia, che comprendeva elementi descrittivi e di classificazione, ma anche elementi di morfologia comparata e di embriologia (Historia animalium, De generatione animalium).
Già da questa esposizione sommaria risulta evidente che, per tutto un settore non secondario, le scienze naturali aristoteliche si affiancavano e si sovrapponevano alla medicina. Al di là del riconoscimento di divergenze, anche profonde, in campo anatomico o fisiologico, la cultura universitaria medievale, a partire da Pietro d'Abano, ha ritenuto Aristotele e Galeno come sostanzialmente concordi sui principî di base che spiegavano le cause delle malattie e sulle cure (teoria dei quattro elementi, delle quattro qualità e dei quattro umori e delle loro mescolanze e contemperamenti), e ha visto una loro feconda complementarità; secondo l'affermazione di Avicenna, ripresa da molti, Galeno ha conosciuto bene i rami della scienza, ma Aristotele ne ha colto le radici.
Allo stesso modo in cui, nel sistema universitario delle scienze peripatetiche, ogni scienza s'identificava con un libro, così l'attività scientifica era essenzialmente lettura, spiegazione e discussione di un testo. Scienza libresca è stata giustamente definita quella presente nelle università europee nei secc. XIV-XVI (e anche oltre).
Bisogna dire, però, che il metodo esegetico adottato era del tutto particolare, almeno se confrontato con i nostri standard. I libri aristotelici divenivano una miniera di questioni filosofico-scientifiche che, a partire da singoli punti spesso appena accennati da Aristotele, si moltiplicavano quasi per gemmazione e finivano con l'avere una relazione assai debole e mediata, quando addirittura del tutto inesistente, con il testo di partenza. Caso limite, ma non infrequente, era quello in cui all'origine di una problematica di particolare novità e complessità vi era semplicemente la cattiva o ambigua traduzione latina dell'originale greco, o addirittura l'errore di lettura di un copista. I testi aristotelici, insomma, erano costantemente sovradeterminati dal punto di vista interpretativo; messi costantemente in relazione tra loro e con altri testi (di Galeno, di Tolomeo, di Avicenna) aprivano orizzonti problematici non sempre fondati filologicamente, ma fecondi di arricchimenti teoretici. Nella letteratura scientifica tardo-medievale il genere letterario dominante è dunque il commento testuale ma, nella prospettiva sopra accennata, esso si strutturerà ben presto non soltanto come un commento letterale, ma soprattutto come un commento per quaestiones. Di fatto, a partire dalla fine del XIII sec., ogni libro aristotelico inserito nel curriculum universitario darà origine a un determinato numero di problemi che ogni professore universitario sarà implicitamente tenuto ad affrontare; si formerà, così, una serie standardizzata che, nel suo complesso, resisterà per tutti i secc. XIV e XV. Certo, ritrovare agli inizi del Cinquecento le stesse questioni discusse alla fine del Duecento fa riflettere sul conservatorismo inerente all'istituzione universitaria, ma non si tratta soltanto di questo; infatti nel corso di due secoli le scienze aristoteliche si erano costruite come un insieme di problemi continuamente riproposti e riformulati tenendo conto delle discussioni precedenti. All'accordo generale su alcuni elementi fondamentali del sistema del Cosmo e della Natura, che nel pensiero aristotelico ‒ come è noto ‒ non coincidono, fa da contrappunto la sostanziale aporeticità di una costellazione di temi, per così dire, periferici. Tutti, cioè, concordavano nel ritenere che gli elementi primi erano quattro e che essi davano luogo ai corpi misti, ma la questione del 'se' e 'come' le forme degli elementi rimanessero nel corpo generato dalla loro mistione continuava a esercitare gli ingegni, da Tommaso d'Aquino a Pomponazzi, senza che si giungesse a una soluzione comunemente accettata. Altri esempi non mancherebbero. Proprio nella capacità di moltiplicare i problemi senza risolverli, ma anche senza intaccare il nocciolo duro dei principî comuni, sembra consistere il segreto della longevità del sistema delle scienze peripatetiche: un equilibrio difficile, ma durato per lungo tempo, tra ripetitività e innovazione.
Logica e filosofia naturale
Vi era, infine, un elemento che, unificando le varie scienze della Natura e insieme moltiplicando le problematiche al loro interno, può essere considerato come lo spirito che permeava e faceva vivere tutto il sistema, ossia la logica. Alla metà del Duecento, quando il corpus degli scritti fisici di Aristotele aveva messo radici nell'Università di Oxford e stava sbarcando a Parigi, Ruggero Bacone aveva sostenuto che l'uso della logica aristotelica doveva limitarsi alla trattazione dei concetti di base della fisica, i cosiddetti communia naturalium, sui quali non era poi il caso di fermarsi troppo; per la costruzione di una vera scienza del mondo occorreva utilizzare uno strumento più potente perché più connaturale alla natura delle cose, ossia la geometria e, in particolare, il modello dell'ottica. La sua fu però una posizione perdente. I communia naturalium, cioè la definizione del moto, del luogo, del tempo e la discussione dei problemi connessi, che non potevano avere se non una trattazione dialettica, assorbirono gran parte dell'attenzione degli scienziati-commentatori, e contemporaneamente la logica si affermò come strumento universale, valevole anche per i campi in cui si trattava di animali, di piante e di fenomeni atmosferici. Applicare le regole della logica alla 'materia naturale' significò, in primo luogo, leggere e interpretare i testi base delle singole scienze riducendoli fin dove possibile in forma sillogistica, cioè dando loro un'unitarietà e una sistematicità senz'altro estranee ad Aristotele. Si trattava di una tecnica applicata già nei commenti anonimi della fine del XIII sec. arrivando poi fino a Nifo e oltre; anche in questo campo non vi è una frattura tra aristotelismo medievale e rinascimentale. La logica, inoltre, servì a ricondurre a unità e concordia posizioni aristoteliche che, nella stessa scienza, o in scienze diverse, apparivano contraddittorie (non è infatti raro trovare, accanto alle lodi sulla sistematicità, 'naturalità' e precisione del procedere di Aristotele, il riconoscimento che nei suoi scritti, quante sono le parole, tante sono le difficoltà). Ancora in pieno XVI sec. possiamo trovare espressa questa convinzione: "Il contrasto tra le diverse affermazioni autorevoli (auctoritates) si può eliminare solamente usando le regole relative alla equivocazione dei termini", come afferma Aristotele nel Libro II delle Confutazioni sofistiche.
Lo stesso testo presenta un'altra regola generale, anche più interessante: "La via per risolvere i problemi relativi alle cose è trovarne una giusta definizione, perché, trovata che sia, i problemi si risolvono da sé". La frase è contenuta in un commento al Libro IV dei Meteorologica, dedicato ai fenomeni di trasformazione dei corpi misti inorganici (coagulazione, dissoluzione, indurimento, liquefazione: quanto di più concreto e sperimentabile si potesse trovare), ed esprime appunto la convinzione che le aporie relative alle cose fossero risolvibili intervenendo sulle parole. Enunciando questo principio, Ludovico Boccadiferro (1482-1545, professore a Bologna dal 1515) si collocava, non sappiamo quanto consapevolmente, al termine di una lunga tradizione iniziata con i primi decenni del Trecento, quando il pensiero di Guglielmo di Ockham aveva costretto anche i suoi critici a spostare l'attenzione dalle cose (per il pensatore francescano il numero delle 'cose' si riduceva notevolmente: in senso proprio esistono soltanto le sostanze individuali e le loro qualità) al modo, complesso e spesso fuorviante, con cui si parla delle cose, e cioè all'analisi delle proposizioni e dei termini. Questa tendenza generale aveva coinvolto anche i concetti fondamentali della fisica, quelli relativi al mutamento, nella forma specifica del movimento locale. In questo caso si trattava di costruire un linguaggio che ritraducesse, in termini univoci e rigorosi riferiti a un corpo e alle sue posizioni nello spazio, tutte le proposizioni del linguaggio comune che sembravano parlare del movimento come di una realtà dotata di autonoma sussistenza e di sue proprietà. Sulla scia di Ockham, un certo numero di autori inglesi dedicò particolare attenzione all'analisi delle implicazioni logiche presenti in termini come 'istante', 'inizio' e 'fine' del movimento, dando origine a una numerosa serie di trattati autonomi De incipit et desinit. Per un altro verso il concentrarsi della speculazione teologica sulla volontà e sull'onnipotenza divina ‒ la potentia Dei absoluta, che trova il suo limite solo nel principio di non contraddizione ‒ ebbe conseguenze anche nella fisica; si sostenne, infatti, la possibilità di stati di cose che non avevano diritto di cittadinanza nella 'normale' scienza aristotelica (l'esistenza del vuoto, dell'infinito in atto, di una pluralità di mondi) e si analizzarono gli ipotetici comportamenti di un corpo in situazioni del genere. Infine, un altro campo che, pur muovendo da premesse aristoteliche, ebbe sviluppi autonomi fu quello che, partendo dalla possibilità di aumento e di diminuzione graduale delle qualità acquisite da un corpo, tentò di esprimere tali qualità mediante il linguaggio matematico delle proporzioni. Nascono in questo contesto definizioni del 'movimento uniforme', 'uniformemente difforme' o 'difformemente difforme', rispetto alle quali determinare, nel modo più esatto possibile, il concetto di 'velocità'. Il movimento uniformemente difforme dei Medievali è quello che più si avvicina all'idea di movimento uniformemente accelerato e, nel determinare la formula della velocità di un corpo che vi è soggetto, alcuni autori sembrano in qualche modo anticipare la fisica 'moderna'. In realtà, anche in questo caso si tratta di una fisica secundum imaginationem, dove la fantasia degli autori si sbizzarriva nella costruzione di tipologie cinematiche sempre più complicate senza nessuna relazione con i movimenti realmente presenti in Natura.
Queste tematiche, nate negli anni Quaranta del XIV sec. a Parigi (Giovanni Buridano, Nicola Oresme, Alberto di Sassonia) e soprattutto a Oxford (Tommaso Bradwardine, i 'mertoniani', che prendono il nome dal Merton College, e poi Guglielmo Heytesbury, Riccardo Swineshead, Ralph Strode, ecc.), a partire dalla fine del secolo si diffusero nelle altre università europee, specialmente italiane, e vi si affermarono saldamente per tutto il Quattrocento, diventando parte integrante dell'insegnamento istituzionale. Nelle ricostruzioni moderne, il loro successo, testimoniato se non altro dal numero di trattati che se ne occupavano, ha forse messo in ombra la persistenza di altre branche scientifiche aristoteliche non direttamente coinvolte nella storia della dinamica come, per esempio, la biologia-zoologia e la meteorologia. In questi campi è difficile dare giudizi globali; si ha però l'impressione che alla fine del Quattrocento poco di nuovo si fosse aggiunto ai grandi commenti di Alberto Magno, che per tutto il secolo erano rimasti il punto di riferimento costante e insuperato. È comunque certo che, seppure senza le raffinatezze riservate all'analisi del movimento locale o delle variazioni qualitative, anche in queste discipline il ricorso alla logica tendeva a sostituirsi all'osservazione diretta.
Così, alla fine del XV sec., il sistema delle scienze aristoteliche si presentava come una macchina complessa e pienamente funzionante, forse addirittura troppo funzionante. L'ampliarsi della produzione scientifica ‒ dove i commenti si sovrapponevano ai commenti, i trattati si aggiungevano ai trattati diventando essi stessi testi di commento ‒ comportava infatti una crescente ripetitività non tutta da imputare a ragioni istituzionali, e c'era chi avvertiva in modo più o meno consapevole di trovarsi in una impasse. Verso la fine del secolo, concludendo la trattazione dei principî nel Libro I della Physica, un professore dell'Università di Pisa così glossava: "Questi sono gli argomenti di Alberto di Sassonia. Anche Paolo Veneto li usa nella sua Fisichetta. L'uno li ha presi dall'altro, ma questo non deve essere considerato un errore, poiché niente è stato detto che non sia stato detto in precedenza" (Fioravanti 1993, p. 282).
Cinquant'anni prima, un suo collega senese, autore di un commento al De anima dove erano chiosati Aristotele, il commento di Averroè e discusse dettagliatamente tutte le opinioni dei commentatori successivi, aveva notato: "L'anno del Signore 1449, in cui ci troviamo, appartiene all'epoca degli uomini di scuola (scholastici) in cui tante e tanto grandi cose sono state trovate che i posteri non avranno più niente da trovare (invenire), ma potranno solo vagliare (ventilare) le conclusioni raggiunte" (Fioravanti 1981, p. 121).
La polemica umanistica contro la logica tardo-medievale
Contro questo sistema, già formato anche se non ancora così pienamente cristallizzato, si era già scagliato Francesco Petrarca. Nel De sui ipsius et multorum ignorantia (1367), nelle Invectivae contra medicum quemdam (1355) e, in modo meno sistematico, in alcune delle Lettere, egli aveva polemizzato non tanto, o non soltanto, contro specifiche dottrine, ma contro un atteggiamento filosofico generale, ossia dedicare tutto il proprio sforzo intellettuale alla conoscenza delle "particolarità delle belve, degli uccelli, dei pesci e dei serpenti e ignorare la natura umana", anzi, peggio, trattarla alla stessa stregua della natura degli altri esseri, viventi e non viventi, non considerando la sua caratteristica irripetibile per cui solo l'uomo si chiede "lo scopo della sua nascita, da dove veniamo e dove andiamo". Si trattava, dunque, di un rifiuto globale che, sostenendo la superiorità dell'etica sulla fisica, propugnava niente di meno che un modo nuovo di fare filosofia. Nuovo non soltanto per la selezione degli argomenti centrali, ma anche per il modo di affrontarli: "È preferibile volere il bene che conoscere la verità […] Perciò sono in grave errore quelli che impiegano il loro tempo nel cercare di conoscere la virtù, non di farla propria, e in errore gravissimo quanti lo impiegano a conoscere Dio, non ad amarlo" (De sui ipsius et multorum ignorantia, ed. Martellotti, p. 749).
Ristabilire la giusta posizione di predominio da parte del mondo dell'uomo e della sua soggettività rispetto ai minerali, alle piante, agli animali, ai cieli stessi voleva dire anche mettere in sottordine i procedimenti dialettico-dimostrativi per rivolgersi al linguaggio persuasivo della poesia e della retorica: "Ho letto tutte le opere morali di Aristotele e sono tornato a me stesso probabilmente più dotto, ma non migliore". Da questa osservazione, poi, Petrarca prendeva le mosse per sostenere la superiorità in campo morale degli autori latini, in particolare di Cicerone; nei loro scritti, infatti, essi non si limitano a descrivere la virtù, ma riescono a farla amare e perseguire da chi li legge.
Sulle stesse direttrici, all'inizio del Quattrocento, la polemica sarà ripresa da Leonardo Bruni (1370-1444). Anch'egli nei Dialogi ad Petrum Paulum Histrum combinava un rifiuto del modo 'moderno' di fare filosofia e un richiamo, in alternativa, alle opere filosofiche di Cicerone, con una condanna delle innovazioni apportate nella dialettica dalle inezie (ineptiae) e leggerezze (levitates) dei barbari Britanni.
A metà del secolo Lorenzo Valla (1407-1457) non si limiterà a una condanna globale della logica scolastica, considerata un linguaggio non più significante poiché staccato dall'uso, unico vero fondamento delle relazioni tra gli uomini; nella Repastinatio totius dialecticae proporrà addirittura di sostituirla con un nuovo modello di dialettica basato sul rifiuto dell'Organon aristotelico e sull'utilizzazione, al suo posto, della Institutio oratoria di Quintiliano (35/40-96 ca.). Nel XVI sec., sull'esempio di Valla, altri intraprenderanno la costruzione di modelli logici alternativi a quello scolastico e alcuni avranno anche un qualche successo istituzionale. Infatti, il De inventione dialectica di Rudolf Agricola (1433-1485) e la Dialectica di Pietro Ramo (1515-1572), nella seconda metà del Cinquecento giungeranno a far breccia nel sistema delle discipline aristoteliche, entrando direttamente nella ratio studiorum di alcune università (essenzialmente Oxford e Cambridge) o ispirando manuali di logica 'locali' come nel caso della dialettica di John Seton.
Trasformazioni interne all'insegnamento universitario
Al di là di questi episodi, tuttavia, gli attacchi degli umanisti alla logica tardo-medievale porteranno non tanto a una sostituzione, quanto a una riforma dell'insegnamento della logica aristotelica. Testimonianze sia dirette sia indirette ci mostrano come, a partire dagli ultimi decenni del Quattrocento, proprio all'interno dell'istituzione universitaria emergesse una crescente insofferenza per le 'sottigliezze' dei sophismata, degli insolubilia, delle obligationes ereditate dalla tradizione e imposte dalla ratio studiorum all'attività di insegnamento e alla produzione di testi filosofici. Per esempio, sempre più di frequente (almeno nelle università italiane) si elogiano e si difendono i professori che espongono la loro disciplina con chiarezza (aperte) e con eleganza (diserte), non ingombrandola di questioni 'sofistiche'. Queste valutazioni sono presenti anche in alcune nuove traduzioni di libri dell'Organon che, circa un secolo dopo Bruni, riprendono le sue invettive ("dottrine stolte dei recenti e barbari sofisti, ormai avete il benservito", traduzione del De sophisticis elenchis di Nicolò Castellani dedicata a Francesco Guicciardini e stampata a Faenza nel 1523), e ‒ cosa ancor più interessante ‒ appaiono anche nelle prefazioni a trattati di logica.
Antonio Cittadini (m. 1518) è un professore universitario di media levatura (deve una residua fama alla sua polemica con Giovanni Pico della Mirandola a proposito del De ente et uno), che proprio nella sua modestia rappresenta bene una tendenza diffusa. Nell'introduzione a una sua Logica (rimasta manoscritta) egli prende posizione contro Strodus e Hentisberus (Strode e Heytesbury, i bersagli polemici di Bruni) a favore di Boezio, di Tommaso d'Aquino e in genere dei vetustiores, ma soprattutto contrapponendo loro Aristotele in persona; anche in questo caso si riprende in qualche modo l'appello di Bruni per un ritorno all'"antico e vero metodo di disputare" (vetus et vera disputandi via). Nifo, esponente assai più significativo dell'aristotelismo rinascimentale, ripeterà qualche decennio dopo nella sua Dialectica ludicra (1520), ciò che ha affermato Cittadini, ma non si tratterà soltanto di affermazioni da prefazione. Infatti, nella sua trattazione, pur lavorando su materiale tardo-medievale (i soliti Heytesbury, Pietro da Mantova, Paolo Veneto), Nifo utilizzerà solamente quello che serve per una discussione del sillogismo categorico e delle sue figure, negando il valore teorico degli sviluppi trecenteschi rispetto all'originaria fonte aristotelica. In alcuni casi questa delegittimazione aveva già avuto una sanzione istituzionale. Nel 1487 all'Università di Pisa si faceva lezione di logica non direttamente sull'Organon, ma sulla Logichetta di Paolo Veneto e sul De puritate artis logicae di Walter Burleigh. Nel 1500, però, i Riformatori dello Studio pretendevano che i testi letti fossero tutti dello Stagirita (con la sola eccezione del De fallaciis di Tommaso d'Aquino). Alla fine del Quattrocento anche altre università dovevano essere nella stessa situazione di Pisa. Sicuramente lo era Padova, dove nel 1496 si leggeva pure la Logichetta di Paolo Veneto insieme alle Regulae solvendi sophismata di Heytesbury e alle Quaestiones di Strode con i Dubia di Paolo della Pergola. Tuttavia, se andiamo a vedere quale fosse la situazione alla metà del Cinquecento, troveremo che quasi ovunque, da Coimbra a Tübingen, i cavillatores contro cui si era scagliato Nifo erano scomparsi dalla ratio studiorum e l'Organon aristotelico regnava incontrastato (sulla stessa linea si colloca la disposizione oxoniense del 1586 per cui si stabilisce che nelle dispute debbano esser prese in considerazione soltanto le tesi di Aristotele e siano da eliminare "tutte le dispute vane e sterili che discordano dall'antica e vera filosofia").
In parte questo può spiegare il fenomeno per cui, intorno agli anni Venti del Cinquecento, in Francia, in Inghilterra, ma soprattutto in Italia, che ne era stata la più fertile produttrice, diminuiscono fino praticamente a scomparire i trattati dedicati a consequentiae, obligationes, sophismata (spesso commenti a Heytesbury e Strode). La trattazione del movimento secondo il linguaggio delle proporzioni sembra l'unica a sopravvivere al declino generalizzato. All'inizio del XVI sec., a Parigi, un gruppo di allievi di Giovanni Maior continua a esporre le teorie di Oresme e di Heytesbury a questo riguardo, ma inserendone la discussione nei propri commenti alla Physica aristotelica. Verso la metà del secolo, le teorie relative al moto uniforme e difforme si diffusero dalla scuola di Maior nell'ambiente universitario spagnolo, dove Domingo de Soto identificherà il moto uniformemente difforme ‒ rimasto per i mertoniani un concetto puramente matematico ‒ con il fenomeno fisico della caduta dei gravi, dimostrando così la validità della legge della velocità media. Se le teorie del domenicano spagnolo siano state conosciute, magari indirettamente, da Galileo Galilei e abbiano avuto una sia pur minima parte nella costruzione della 'nuova fisica' è ancora argomento sub iudice.
Il nuovo interesse per l'epistemologia: la Scuola padovana
Come abbiamo accennato, al rifiuto generale delle ineptiae e delle cavillationes dei moderni (cioè della tradizione logica tardo-medievale), fa seguito negli ambienti universitari un ritorno di interesse per i testi genuinamente aristotelici. Dopo i grandi commenti del XIII sec., da Roberto Grossatesta a Tommaso d'Aquino, tornano ad avere particolare fortuna gli Analytica posteriora. In essi, infatti, la logica si presenta non come fine a sé stessa, ma piuttosto come strumento per fondare e organizzare un sapere (la scienza dimostrativa) relativo alla realtà e non a enti o situazioni puramente ipotetici. Come spesso avviene, il conclamato ritorno all'antico è in effetti il punto di partenza per l'apertura di nuovi orizzonti. L'aristotelismo universitario cinquecentesco, infatti, dimostrava la sua vitalità (quasi un canto del cigno) aprendo un originale fronte di riflessione sulla metodologia della scienza e sui problemi connessi. In questo campo l'Università di Padova rinnovava quel primato che già aveva acquistato nel XV sec. nel campo della 'nuova logica'. I trattati di Zabarella costituiscono senz'altro il momento più alto, a livello europeo, di questa riflessione sul metodo scientifico. Il procedimento tipico della scienza era individuato in due momenti costitutivi: quello sintetico (o compositivo) e quello analitico (o risolutivo). Il primo corrisponde alla dimostrazione del 'perché' (propter quid) esposta negli Analytica posteriora, in quanto parte dalle cause per raggiungere gli effetti. Il secondo corrisponde alla dimostrazione del 'che' (quia), sempre degli Analytica posteriora, ossia parte dagli effetti e cerca di risalire alle cause. Sulle tracce di Nifo, Zabarella assimilava la dimostrazione mediante gli effetti a quella mediante i segni-sintomi e così integrava stabilmente nel modello aristotelico la grande tradizione metodologica della scienza medica. Contemporaneamente, e in modo originale, il professore padovano arrivava alla conclusione che i due metodi, in sé perfettamente distinguibili poiché corrispondenti a due diversi procedimenti mentali, potevano fruttuosamente cooperare per il raggiungimento di una conclusione dimostrativa nel campo della scienza naturale. Si tratta della dottrina del regressus, in quanto dalla conoscenza degli effetti arriviamo a una rappresentazione ancora confusa delle loro possibili cause. Raggiunta una conoscenza distinta, attraverso un'attenta riflessione mentale (consideratio mentalis), possiamo dedurne con assoluta certezza e in modo determinato gli effetti da cui eravamo partiti.
Verso la fine del Cinquecento e durante i primi decenni del Seicento, le dottrine di Zabarella diverranno un punto costante di riferimento tanto per l'insegnamento quanto per la discussione nelle università tedesche, inglesi, olandesi, mostrando ancora una volta come l'aristotelismo universitario continuasse a superare le barriere confessionali che, ormai definitivamente, dividevano l'Europa. Nelle discussioni metodologiche della Scuola di Padova alcuni studiosi hanno individuato un preannuncio e un presupposto della costruzione delle 'nuove scienze' da parte di Galileo Galilei. Questa posizione è stata sottoposta a un fuoco di fila di obiezioni: il meno che si può dire è che, anche da parte dei sostenitori di una continuità nella storia della fisica, i rapporti tra Galilei e l'ambiente universitario padovano della fine del Cinquecento sono visti, allo stato attuale degli studi, in maniera maggiormente complessa e sfumata.
Il problema di fondo è quello dell'esistenza, o meno, di un legame effettivo tra la riflessione metodologica sulla struttura della scienza e il concreto procedere dello scienziato. Qualunque sia la soluzione 'teorica', storicamente, nel caso di Zabarella, il metodo non sembra aver dato luogo ad alcuna effettiva pratica scientifica, mentre nel caso di Galilei i risultati raggiunti non sembrano essere debitori di alcun metodo astrattamente formulato.
In ogni modo si può concludere che Zabarella, presentando la logica essenzialmente come metodo e via, in polemica contro i pensatori tardo-medievali (i Latini), nel De natura logicae ritornava, con tutta probabilità inconsapevolmente, alle affermazioni del Petrarca nella sua lettera a Tommaso da Messina. Per Petrarca, infatti, la dialettica non doveva essere considerata fine a sé stessa, ma era valida solo come mezzo e strada per il raggiungimento della verità delle cose: "Esorta i tuoi alunni non alla dialettica in sé, ma perché mediante la dialettica si affrettino verso qualcosa di più alto" (Familiares, I, 7, ed. Rossi, p. 38).
Un altro fronte di trasformazioni: le traduzioni umanistiche di Aristotele
Nella polemica contro il modo di fare filosofia delle università, Petrarca e Bruni avevano attaccato direttamente Aristotele ricordando che, per quanto autorevole, lo Stagirita non esauriva, come aveva preteso Averroè, l'intera capacità del pensiero umano; ad attestarlo c'erano Platone e le grandi scuole ellenistiche ricordate da Cicerone: stoici ed epicurei. E se Platone non bastava, per Petrarca c'erano Cristo e la sapienza cristiana. Contemporaneamente, però, essi adottavano un altro tipo di strategia che potremmo chiamare indiretta: non si trattava di attaccare Aristotele, ma la pretesa di filosofi e di medici contemporanei di essere suoi fedeli interpreti e seguaci (in fondo Galilei, in un contesto ovviamente diverso, userà anch'egli entrambe le strategie). Sia per Petrarca sia per Bruni il filosofo a cui si riferivano i sedicenti aristotelici era solamente una ridicola caricatura che poco aveva a che fare con la maestà del fondatore del Liceo. Le cause di questa trasformazione deformante dovevano essere cercate, in primo luogo, nella disastrosa qualità delle traduzioni su cui gli universitari leggevano e spiegavano i testi aristotelici. Già Petrarca, nel De sui ipsius et multorum ignorantia, non conoscendo il greco, ma basandosi sulla testimonianza di Cicerone, aveva affermato che il modo di scrivere di Aristotele, dulcis et suavis (dolce e soave), era stato reso incomprensibile dai traduttori. Quest'idea fu ripresa con maggior sistematicità da Bruni e si concretizzò in un programma preciso: il ritorno al 'vero' Aristotele come logica conseguenza della condanna senza appello di chi, con le sue traduzioni barbare, aveva dimostrato di non conoscere né il greco né il latino. Come molte imprese 'rivoluzionarie' quella di Bruni conteneva una buona dose di ingenerosità verso gli avversari e anche un qualche elemento di bluff. In realtà Grossatesta, il traduttore medievale preso di mira, possedeva competenze linguistiche non inferiori a quelle dell'umanista fiorentino. Inoltre, a differenza di Petrarca, Bruni era in grado di rendersi conto che le affermazioni ciceroniane sull'eloquenza 'aurea' di Aristotele si riferivano agli scritti per noi perduti, non a quelli divenuti testo base dell'insegnamento universitario. In ogni modo le sue traduzioni dell'Ethica Nicomachea, della Politica e degli Oeconomica segnarono l'inizio di una nuova era nella storia dell'aristotelismo. Infatti, non soltanto, quasi immediatamente, esse ebbero un ampio successo di pubblico, ma rappresentarono il punto di partenza di un'ulteriore ondata di traduzioni latine che si prolungò per un secolo e mezzo. Tale ondata fu assai più ricca quantitativamente e variata qualitativamente di quella che, tra XII e XIII sec., aveva reso accessibile Aristotele all'Occidente, e si estese anch'essa a tutto l'insieme degli scritti aristotelici. Nel Quattrocento questo fenomeno ebbe il suo centro in Italia, dove a Bruni tenne dietro una vera e propria schiera di traduttori (Andrea Biglia, Nicolò Tortelli, Giorgio di Trebisonda, Giovanni Argiropulo, Teodoro Gaza, il cardinale Bessarione), mentre a partire dalla fine del secolo anche la Francia cominciò a dare contributi sempre più consistenti (Jacques Le Fèvre d'Étaples, Joachim Périon, Pierre Vatable, Denis Lambin). Anche se il pubblico cui erano dirette non coincideva con quello degli addetti ai lavori (basti pensare al successo veramente straordinario, in termini di diffusione, della traduzione bruniana degli Oeconomica), quello che qui interessa è notare come le nuove traduzioni, o meglio, alcune di esse, abbiano fatto breccia nel mondo dei professori universitari.
Nel 1454 Teodoro Gaza, traducendo gli pseudoaristotelici Problemata, invitava i philosophi a smettere di fare lezione (publice legere) basandosi sulle vecchie traduzioni medievali. Tuttavia, più di trent'anni prima, un medico-filosofo di grido come Ugo Benzi già 'leggeva' l'Ethica Nicomachea nella versione di Bruni. Fare pubblicamente lezione sulle nuove traduzioni umanistiche non era una scelta neutra. All'inizio, con tutta probabilità, vi era il semplice desiderio di utilizzare un testo più comprensibile. Inviando la sua nuova traduzione degli Analytica posteriora a un celebre professore universitario che gliel'aveva commissionata (Nicolò Tignosi da Foligno), Tortelli ricorda che, nelle lezioni da lui seguite come studente a Bologna, la traduzione usata "rendeva oscurissime anche le cose più evidenti". Doveva risultare, però, sempre più chiaro ciò che ancora una volta trovava espressione nelle parole di Gaza: gli errori e le manchevolezze stilistiche dei traduttori medievali avevano avuto come conseguenza l'instaurarsi di una cattiva interpretazione di Aristotele. Proprio le oscurità, le ambiguità e gli errori delle traduzioni avevano dato luogo a quelle inutili complicazioni, a quel dannoso accumulo di sottigliezze problematiche che da tempo erano rimproverate alla produzione filosofica. "Averroè, nel commento a questo testo, si affatica inutilmente perché ha un testo corrotto, e proprio perché davanti ha un testo errato dice una serie di cose complicatamente sciocche […]. Ora, invece, potete vedere come questa interpretazione non abbia assolutamente niente a che fare con il testo" (Boccadiferro, Lectiones in quartum meteororum Aristotelis librum, textus 4, f. 42).
Sono affermazioni non di Valla, ma del commento ai Meteorologica di Boccadiferro che, ancora una volta, presentiamo come esempio di 'aristotelico' medio, non particolarmente originale o rivoluzionario. Con la parola d'ordine del ritorno al 'vero' Aristotele, dunque, la polemica umanistica riuscì a penetrare nella cittadella universitaria, intervenendo dall'interno su uno degli strumenti più importanti del sapere 'scientifico': il commento testuale.
Trasformazioni e crisi del genere letterario del commento
Il processo che ne seguì non fu però né breve né lineare. Nicolò Tignosi, nelle sue lezioni sul De anima e sugli Analytica posteriora, abbandonava le traduzioni medievali a favore di quelle di Tortelli e di Argiropulo e nelle prefazioni, con il proposito di evitare lungaggini sofistiche a favore di una giusta brevitas, polemizzava contro la sovrabbondanza di commenti e di questioni, utili più a travisare che a cogliere l'effettivo pensiero dello Stagirita. Se però si ha la pazienza di leggere il testo vero e proprio, allora tutte le caratteristiche del commento tardo-medievale, al modo di Paolo Veneto, ricompaiono puntuali; le questioni poste sono le stesse della tradizione, la presentazione e la confutazione delle singole posizioni dei commentatori precedenti continuano ad avvitarsi l'una sull'altra. Considerazioni analoghe valgono per le lezioni di un umanista come Donato Acciaiuoli (1428-1478), che, a un attento esame, rivelano impostazione e procedimenti molto meno innovativi di quanto ci si aspetterebbe. Il peso di una tradizione filosofica centenaria era sicuramente forte, più forte anche delle dichiarazioni di principio. Così, ancora nei primi decenni del Cinquecento, i commenti aristotelici di Boccadiferro presentano una curiosa mescolanza di vecchio e di nuovo; le nuove traduzioni di Pietro Alcionio e di Vatable sono utilizzate nei punti controversi, ma il testo regolarmente seguito (anche se qua e là criticato) è ancora quello della traduzione medievale. Ritornano continuamente i nomi dei grandi commentatori del XIV e XV sec. (Buridano, Alberto di Sassonia, Marsilio di Inghen, Paolo Veneto) collegati alle questioni tradizionali (per esempio, quella del modo di permanenza delle forme degli elementi nei corpi misti), ma contemporaneamente s'invoca l'aiuto dei commentatori greci affermando con altrettanta frequenza che i Latini non hanno capito il testo.
Infatti, verso la fine del Quattrocento, il ritorno umanistico ad Aristotele si era specificato come rifiuto non soltanto delle traduzioni barbare ma anche dei commenti barbari, vale a dire dei commenti arabi e, in particolare, dei commenti di Averroè. Gli ultimi decenni del secolo erano stati caratterizzati da un'ondata di traduzioni dei commentatori greci di Aristotele, da Teofrasto e Alessandro di Afrodisia a Michele di Efeso, passando per Ammonio di Alessandria, Temistio, Giovanni Filopono, Simplicio, Olimpiodoro, in cui si erano impegnati esponenti dell'Umanesimo italiano come Ermolao Barbaro (1453-1493) e Girolamo Donato (1457-1511).
I nuovi e più agguerriti strumenti di lavoro trovarono nell'ambiente scientifico delle università un'accoglienza ancor più rapida di quella ottenuta dalle traduzioni aristoteliche. Verso la fine del Quattrocento, nel suo De divisione philosophiae premesso al commento alla Physica, un esponente di spicco della cultura scientifica aristotelica padovana, ossia Nicoletto Vernia (1420-1499), elogiava proprio Ermolao Barbaro perché aveva reso accessibile agli studiosi Temistio, purgandolo dalla barbarie della vecchia traduzione. Da parte sua Barbaro esortava Vernia a continuare nel rifiuto della stolidissima imperitia e dei nequissima praestigia del vecchio modo di filosofare.
Così, dagli inizi del Cinquecento, in molti corsi universitari divenne quasi un vezzo valutare in modo globalmente negativo i commentatori latini, per ricorrere ai greci: nessun latino ha mai compreso bene questo brano e nemmeno una delle sue parole; tutti i commentatori latini errano perché non hanno capito una parola del testo, e dunque usiamo i greci. Frasi del genere sono presenti non soltanto in Nifo che, almeno a partire da un certo momento della sua carriera accademica, acquista una discreta padronanza del greco, ma anche in Pomponazzi che, per sua esplicita ammissione, non ne ha mai imparato una parola; non soltanto in Vimercati, che traduceva egli stesso i testi che commentava, ma anche, come abbiamo visto, in Boccadiferro, che continuava a basarsi sulle traduzioni medievali. Per non pochi di questi 'aristotelici' cinquecenteschi Averroè (e in sottordine Alberto Magno) sembra essere il bersaglio preferito nella battaglia contro i mali interpretes. La polemica che Petrarca aveva condotto contro il filosofo di Cordova su motivazioni religiose cede il passo a un attacco più propriamente tecnico-filologico. Il commentatore per eccellenza disponeva di testi che, il più delle volte, erano corrotti (non manca di notare che egli stesso nel commento al De caelo aveva confessato di non possedere buone traduzioni) e la sua ignoranza della lingua gre-ca gli precludeva ogni possibilità di sanare la situazione.
Anche qui, però, il quadro risulta più complesso. Infatti, proprio la fine del XV e i primi decenni del XVI sec., parallelamente all'interesse per i commentatori aristotelici tardo-antichi, vedono un rinnovato impegno rivolto ai commenti di Averroè, che troverà il suo culmine nella grande edizione giuntina degli Opera omnia di Aristotele con il commento del cordovano. Anche in questo caso, come per i commentatori greci, le traduzioni di testi mai prima tradotti si affiancano a nuove versioni di testi già conosciuti in latino nel Medioevo influenzando gli sviluppi successivi dell'aristotelismo. Non sembra casuale, infatti, che la produzione di commenti al De animalibus registri un aumento, anzi, se si guarda al secolo precedente, una vera e propria rinascita, giusto in occasione della prima traduzione latina della parafrasi di Averroè pubblicata da Jacobo Mantino nel 1521. In relazione a questo nuovo interesse per la zoologia aristotelica, per il primo Cinquecento basterà ricordare Pomponazzi, Nicolò Leonico Tomeo (1456-1531) e Nifo. Tuttavia, proprio quest'ultimo definirà in più di un'occasione "favole da vecchiarelle", "esposizioni contorte e confuse", le interpretazioni del filosofo di Cordova. Anche in questo caso non bisogna prendere alla lettera le dichiarazioni di intenti o le invettive. Una lettura più attenta ci consente di vedere come, nei testi di Nifo, Averroè (e anche Alberto Magno) sia ampiamente presente e non soltanto con la funzione di bersaglio polemico.
Per tirare, sia pure provvisoriamente, le somme si può dire che, per tutta una linea di autori e di testi, l'introduzione delle nuove traduzioni umanistiche, il ricorso alle novità dei commentatori greci, una sempre maggior conoscenza della lingua greca da parte dei professori universitari (o almeno di alcuni di essi) comportò, invece del raggiungimento della programmatica brevitas, un'ulteriore complicazione e appesantimento nell'approccio alle opere di Aristotele. Nei commenti di Nifo (per fare un esempio paradigmatico) la discussione del testo di Aristotele si caricava di confronti tra le varie traduzioni a disposizione (con soluzioni relative a singoli vocaboli offerte direttamente da Nifo), di pedanti avvertimenti sulle particolarità sintattiche della lingua greca, di osservazioni 'filologiche': richiami a lezioni vere o millantate di altri codici, segnalazioni di lacune, vere o presunte, emendazioni testuali più o meno avventurose. A tutta questa parte si sovrapponeva poi il ricorso al commento di Averroè (esso stesso esaminato in maniera analitica) e l'ampio uso dei commentatori greci non escludeva, anzi implicava, la rassegna e la discussione di tutti quelli latini. Il risultato è una forma di commento monstre che porta all'estremo limite le possibilità insite nel genere letterario; esalta magari le capacità virtuosistiche dell'autore, ma più che aprire nuove strade sembra piuttosto esaurire per eccesso le capacità di adattamento di quelle vecchie.
Tutto questo faceva parte di un problema più generale. Tra la fine del Quattrocento e gli inizi del Cinquecento, infatti, anche grazie alla stampa, si ebbe per la prima volta una visione completa dell'intera tradizione aristotelica: ellenistica, bizantina, araba, scolastica. Ora tutti gli stadi della ricerca esegetica potevano confrontarsi contemporaneamente, ma al tempo stesso veicolavano una mole di materiale sempre più difficilmente dominabile.
Se molti universitari accolsero le novità degli umanisti trattandole come un tassello da aggiungere al già complicato mosaico dell'esegesi aristotelica ereditata dalla tradizione, un'altra corrente di commentatori, invece, cercò risolutamente di mettere in atto quell'ideale di brevitas e di perspicuitas che era stato alla base del programma di Bruni e di Jacques Le Fèvre d'Étaples. Sappiamo che, già alla fine del Quattrocento, un professore fiorentino con ottime conoscenze di greco, Lorenzo Lorenzi, aveva tradotto e commentato alcuni tra i testi più significativi del corpus aristotelico: De interpretatione, De sophisticis elenchis, De anima, De partibus animalium e De generatione animalium. Di tutto questo lavoro ci sono pervenuti solamente la traduzione e il commento al Perì hermēneías (che Lorenzi rende con De elocutione). I criteri di traduzione, offerti da Lorenzi in una lettera dedicatoria a Piero de' Medici, sono del tutto coincidenti con quelli già sostenuti da Bruni, né è particolarmente nuova la sua polemica contro coloro che, rozzi di stile, imitazioni malriuscite dei veri filosofi, macchiano la disciplina che pretendono di professare tam male dicendo quam male commentando (sia esponendo male, sia commentando male). Novità interessante è invece aver allestito un commento perfettamente coerente ai tanto conclamati criteri di semplicità e di fedeltà al testo. Per tutto il corso dell'opera, infatti, gli unici autori a essere usati sono i commentatori tardo-antichi (Ammonio di Alessandria e Alessandro di Afrodisia); in un numero molto limitato di casi sono introdotte dottrine stoiche, mentre la tradizione logica tardo-medievale è programmaticamente assente. Le stesse caratteristiche di linearità semplificatrice possono riscontrarsi nelle lezioni tenute sui Meteorologica da Niccolò Leoniceno, un esponente di primo piano dell'Umanesimo medico (siamo a Ferrara, verso il 1490). Nel secolo successivo si può considerare l'esempio di Vimercati; su un piano meramente quantitativo, che pure non è privo di significato, il suo commento al Libro IV dei Meteorologica è un quinto di quello corrispondente, e quasi contemporaneo, di Boccadiferro.
La strada della semplificazione non doveva però rivelarsi poi così semplice. Il progressivo moltiplicarsi delle nuove traduzioni, infatti, rendeva quasi indispensabile una valutazione dei criteri generali, spesso assai distanti, adottati dai traduttori e, soprattutto, una discussione sui vari modi con cui erano stati resi i diversi passi. Alla ossessiva rassegna delle opinioni dei commentatori, antichi o medievali, finiva per sostituirsi una complessa disamina delle diverse possibilità di traduzione di una frase, o anche di un singolo vocabolo, e in questo approccio si faceva sempre più debole l'interesse propriamente teoretico che i commenti 'vecchio stile' avevano comunque mantenuto.
Così, nel commento di Lorenzi i testi teoreticamente più controversi e fecondi del De interpretatione ‒ per esempio quelli relativi a 'necessità' e a 'contingenza' ‒ sono trattati in maniera del tutto cursoria; le notazioni, in genere assai polemiche, sulle traduzioni precedenti e le puntuali osservazioni sulle singole espressioni e sui singoli vocaboli greci danno a quello di Leoniceno l'aspetto di un commento essenzialmente grammaticale; nei commenti di Vimercati l'interesse per le varianti testuali, i problemi di punteggiatura del testo greco e le digressioni lessicali e lessicografiche fanno spesso aggio sull'impegno più tradizionalmente filosofico. La filosofia naturale, insomma, si trasformava progressivamente in filologia.
I manuali di filosofia naturale
Entrata definitivamente in crisi la struttura del commento, il sistema delle scienze aristoteliche trovò la sua ultima espressione nella forma dei manuali. Già embrionalmente presenti nei Compendia utilizzati nelle università del Nord e del Centro Europa a partire dal Quattrocento, essi conobbero la loro massima fortuna nella prima metà del XVI secolo. Mantenendo i presupposti fondamentali della filosofia e della scienza aristoteliche (composizione di materia e forma valida per tutti i corpi fisici, distinzione tra fisica celeste e fisica terrestre, teoria dei quattro elementi e dei luoghi naturali, e così via), su punti periferici non furono però alieni da concessioni alle nuove tendenze scientifiche ormai trionfanti fuori delle università, abbandonando, per esempio, la disposizione degli elementi in sfere concentriche, l'esistenza delle intelligenze motrici dei cieli o addirittura quella delle sfere cristalline. Al di là di questi aggiustamenti, come ogni buon manuale, essi tuttavia erano, e coscientemente volevano essere, l'esposizione chiara e razionalmente ordinata di contenuti già dati, ultimo frutto di una tradizione scientifica ormai consolidata. Niente esprime meglio la situazione dell'affermazione contenuta nel manuale di Keckermann, secondo cui è meglio continuare a insegnare un corpus metodicamente ordinato di dottrine tradizionali, anche se incerte, che affidarsi a conclusioni scientifiche magari vere, ma non ancora sistematicamente organizzate. Non è dunque strano trovare tra chi in gioventù aveva studiato sui manuali di Eustache de Saint Paul, Jacob Magirus, Burgersdijck, Roderigo de Arriaga, Johann Heinrich Alsted, alcuni dei diretti responsabili del crollo definitivo delle scienze peripatetiche: René Descartes, Pierre Bayle, Isaac Newton, John Locke.
Ashworth 1976: Ashworth, Jennifer E., Agostino Nifo's reinterpretation of medieval logic, "Rivista critica di storia della filosofia", 31, 1976, pp. 355-374.
‒ 1988: Ashworth, Jennifer E., Traditional logic, in: The Cambridge history of renaissance philosophy, general editor Charles B. Schmitt, Cambridge-New York, Cambridge University Press, 1988, pp. 143-171.
Bianchi 1990: Bianchi, Luca, Un commento umanistico ad Aristotele. L'Expositio super libros ethicorum di Donato Acciaioli, "Rinascimento", 30, 1990, pp. 29-55.
‒ 1995: Bianchi, Luca, Una caduta senza declino? Considerazioni sulla crisi dell'Aristotelismo fra Rinascimento ed età moderna, in: Aristotelica et Lulliana. Magistro doctissimo Charles H. Lohr septuagesimum annum feliciter agenti dedicata, ediderunt Fernando Dominguez [et al.], Steenbrugis, in Abbatia S. Petri; den Haag, Nijhoff, 1995, pp. 181-222.
Cohen 1994: Cohen, Hendrik F., The scientific revolution. A historiographical inquiry, Chicago, University of Chicago Press, 1994.
Fioravanti 1981: Fioravanti, Gianfranco, Università e città. Cultura umanistica e cultura scolastica a Siena nel '400, Firenze, Sansoni, 1981.
‒ 1993: Fioravanti, Gianfranco, La filosofia e la medicina (1343-1543), in: Storia dell'Università di Pisa, a cura della Commissione rettorale per la storia dell'Università di Pisa, Ospedaletto (Pisa), Pacini, 1993-; v. I: 1343-1737, 1993, pp. 259-288.
Funkenstein 1986: Funkenstein, Amos, Theology and the scientific imagination from the Middle Ages to the seventeenth century, Princeton (N.J.), Princeton University Press, 1986 (trad. it.: Teologia e immaginazione scientifica dal Medioevo al Seicento, Torino, Einaudi, 1996).
Garin 1969: Garin, Eugenio, L'età nuova. Ricerche di storia della cultura dal XII al XVI secolo, Napoli, Morano, 1969.
‒ 1979: Garin, Eugenio, La cultura filosofica del Rinascimento italiano. Ricerche e documenti, Firenze, Sansoni, 1979 (1. ed.: 1961).
Gilbert 1965: Gilbert, Neal W., Francesco Vimercato of Milan. A bio-bibliography, "Studies in the Renaissance", 12, 1965, pp. 188-217.
Grant 1978: Grant, Edward, Aristotelianism and the longevity of the medieval world view, "History of science", 16, 1978, pp. 93-106.
‒ 1987: Grant, Edward, Ways to interpret the terms 'Aristotelian' and 'Aristotelianism' in medieval and renaissance physics, "History of science", 25, 1987, pp. 336-358.
‒ 1994: Grant, Edward, Planets, stars and orbs. The medieval cosmos, 1200-1687, Cambridge-New York, Cambridge University Press, 1994.
Jardine 1974: Jardine, Lisa, The place of dialectic teaching in sixteenth-century Cambridge, "Studies in the Renaissance", 21, 1974, pp. 31-62.
‒ 1981: Jardine, Lisa, Dialectic or dialectical rhetoric? Agostino Nifo's criticism of Lorenzo Valla, "Rivista critica di storia della filosofia", 36, 1981, pp. 253-270.
‒ 1988: Jardine, Lisa, Humanistic logic, in: The Cambridge history of renaissance philosophy, general editor Charles B. Schmitt, Cambridge-New York, Cambridge University Press, 1988, pp. 173-198.
Jardine 1988: Jardine, Nicholas, Epistemology of science, in: The Cambridge history of renaissance philosophy, general editor Charles B. Schmitt, Cambridge-New York, Cambridge University Press, 1988, pp. 685-711.
Kessler 1990: Kessler, Eckhard, The transformation of Aristotelianism, in: New perspectives in renaissance thought. Essays in the history of science, education and philosophy in memory of Charles B. Schmitt, edited by John Henry and Sarah Hutton, London, Duckworth, 1990, pp. 137-147.
Kristeller 1985: Kristeller, Paul O., The University of Bologna and the Renaissance, in: Kristeller, Paul O., Studies in renaissance thought and letters, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1956-1996, 4 v.; v. II: 1985, pp. 136-146.
Lohr 1988a: Lohr, Charles H., Latin Aristotle's Commentaries, Firenze, L.S. Olschki, 1988-; v. II: Renaissance authors, 1988.
‒ 1988b: Lohr, Charles H., The sixteenth-century transformation of the aristotelian natural philosophy, in: Aristotelismus und Renaissance. In memoriam Charles B. Schmitt, hrsg. von Eckhard Kessler, Charles H. Lohr und Walter Sparn, Wiesbaden, O. Harrassowitz, 1988.
‒ 1995: Lohr, Charles H., Latin Aristotle's Commentaries, Firenze, L.S. Olschki, 1988- , v. III: Index initiorum-index finium, 1995.
Milanesi 1996: Milanesi, Marica, A forgotten Ptolemy: Harley Codex 3686 in the British Library, "Imago Mundi", 48, 1996, pp. 43-64.
Murdoch 1975: Murdoch, John E., From social to intellectual factors. An aspect of the unitary character of late medieval learning, in: The cultural context of medieval learning, edited with an introduction by Edith Sylla and John Murdoch, Dordrecht, Reidel, 1975.
‒ 1982: Murdoch, John E., The analytic character of late medieval learning. Natural philosophy without nature, in: Approaches to nature in the Middle Ages, edited by Roberts D. Lawrence, Binghamton (N.Y.), Center for Medieval and Early Renaissance Studies, 1982, pp. 171-213.
‒ 1990: Murdoch, John E., From the medieval to the renaissance Aristotle, in: New perspectives in renaissance thought. Essays in the history of science, education and philosophy in memory of Charles B. Schmitt, edited by John Henry and Sarah Hutton, London, Duckworth, 1990, pp. 163-176.
Nardi 1965: Nardi, Bruno, Studi su Pietro Pomponazzi, Firenze, Le Monnier, 1965.
Perfetti 1996: Perfetti, Stefano, Metamorfosi di una traduzione. Agostino Nifo revisore dei De animalibus gaziani, "Medioevo", 22, 1996.
‒ 1999: Perfetti, Stefano, Three different ways of interpreting Aristotle's De partibus animalium: Pietro Pomponazzi, Niccolò Leonico Tomeo and Agostino Nifo, in: Aristotle's animals in the Middle Ages and Renaissance, edited by Carlos Steel, Guy Guldentops, Pieter Beullens, Leuven, Leuven University Press, 1999.
Pine 1968: Pine, Martin L., Pomponazzi and the problem of 'double truth', "Journal of the history of ideas", 29, 1968, pp. 163-176.
Reif 1969: Reif, Mary P., The textbook tradition in natural philosophy (1600-1650), "Journal of the history of ideas", 30, 1969, pp. 17-32.
Schmitt 1975: Schmitt, Charles B., Philosophy and science in sixteenth century universities. Some preliminary comments, in: The cultural context of medieval learning, edited with an introduction by John E. Murdoch and Edith D. Sylla, Dordrecht, Reidel, 1975, pp. 485-530.
‒ 1976: Schmitt, Charles B., L'introduction de la philosophie platonicienne dans l'enseignement des universités à la Renaissance, in: Platon et Aristote à la Renaissance, Paris, Vrin, 1976, pp. 93-104.
‒ 1983a: Schmitt, Charles B., Aristotle and the Renaissance, Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 1983 (trad. it.: Problemi dell'aristotelismo rinascimentale, Napoli, Bibliopolis, 1985).
‒ 1983b: Schmitt, Charles B., John Case and aristotelianism in renaissance England, Kingston (Ont.), McGill-Queen's University Press, 1983.
Sylla 1982: Sylla, Edith D., The Oxford calculators, in: The Cambridge history of later medieval philosophy from the rediscovery of Aristotle to the disintegration of scholasticism, 1100-1600, edited by Norman Kretzmann, Anthony Kenny, Jan Pinborg, Cambridge, Cambridge University Press, 1982, pp. 540-563.
‒ 1991: Sylla, Edith D., The Oxford calculators and the mathematics of motion 1320-1350. Physics and measurement by latitudes, New York, Garland, 1991.
Thijssen 1991: Thijssen, Johannes M.M.H., Some reflections on continuity and transformation of aristotelianism in medieval (and renaissance) natural philosophy, "Documenti e studi sulla tradizione filosofica medievale", 2, 1991, pp. 503-528.
Wallace 1968: Wallace, William A., The enigma of Domingo de Soto. Uniformiter difformis and falling bodies in late medieval physics, "Isis", 59, 1968, pp. 384-401.
‒ 1968-69: Wallace, William A., The 'calculatores' in early sixteenth-century physics, "The British journal for the history of science", 4, 1968-1969, pp. 221-232.
‒ 1971: Wallace, William A., Mechanics from Bradwardine to Galileo, "Journal of the history of ideas", 32, 1971, pp. 15-28.
‒ 1988: Wallace, William A., Traditional natural philosophy, in: The Cambridge history of renaissance philosophy, general editor Charles B. Schmitt, Cambridge-New York, Cambridge University Press, 1988, pp. 201-235.