Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
All’inizio del Settecento l’Inghilterra e la Scozia, precariamente unite nella persona del sovrano, costituiscono ancora una potenza di secondo piano, afflitta da gravi divisioni religiose e politiche. Nel corso del Settecento, tuttavia, la Gran Bretagna consolida il suo assetto politico interno sotto la nuova dinastia tedesca dei Brunswick, principi elettori dell’Hannover, e dà vita a una spettacolare espansione marittima che la porta a conquistare una posizione di netto predominio in Europa. La conquista dell’India sancisce questa egemonia che costituisce una delle premesse all’avvio della rivoluzione industriale.
Le fragilità della monarchia britannica
Negli anni immediatamente successivi alla Gloriosa Rivoluzione del 1688 non sarebbero stati probabilmente in molti a immaginare per l’Inghilterra, non ancora divenuta a pieno titolo Gran Bretagna, un futuro di grande potenza, arbitro degli equilibri europei e padrona dei mari del mondo. I regni di Guglielmo d’Orange e della moglie Maria Stuart – Inghilterra, Scozia e Irlanda – non possono competere per estensione e popolazione con la Francia del Re Sole e per ricchezza e potenza marittima e coloniale con i Paesi Bassi. Anche la Spagna, nonostante la sua profonda crisi, dispone di un impero ben più vasto dei modesti domini oltremare della corona inglese e anche l’impero degli Asburgo in Europa centro-orientale, seppure economicamente arretrato, è senz’altro più vasto e popolato.
Inoltre la Gran Bretagna ha non pochi problemi interni. Innanzitutto, a differenza di quasi tutti gli altri Stati europei che considerano ancora l’uniformità religiosa un presupposto necessario della stabilità politica, la Gran Bretagna e l’Irlanda sono profondamente lacerate per quanto attiene alla religione. I cattolici, esclusi dalla vita politica e per molti versi ridotti a uno stato di minorità civile, costituiscono tuttavia la maggioranza della popolazione in Irlanda e una consistente minoranza in Scozia, concentrata soprattutto nelle Highlands e nelle isole occidentali. Anche il fronte protestante, uscito vincitore dalla Gloriosa Rivoluzione, è tutt’altro che uniforme e compatto. La Chiesa presbiterianascozzese, la cui ostilità alla Chiesa anglicana era stata la scintilla che aveva innescato le guerre civili del Seicento, custodisce gelosamente la sua autonomia, mentre le sette non conformiste, come i quaccheri, hanno un consenso crescente. Inoltre la stessa Chiesa anglicana è divisa fra una “chiesa alta”, più vicina al cattolicesimo, e una “chiesa bassa”, più radicalmente evangelica.
Le linee di frattura religiosa coincidono significativamente, anche se non in assoluto, con quelle etniche e politiche. Il cattolicesimo si identifica infatti, sia in Irlanda che in Gran Bretagna, con il mondo di lingua gaelica e con il giacobinismo politico, ovvero con la fedeltà alla causa degli Stuart, i cui pretendenti al trono sono apertamente cattolici. Non è un caso che i cattolici irlandesi siano stati il principale sostegno di Giacomo II e che i due più pericolosi tentativi di sollevazione giacobita, nel 1715 e nel 1745, siano partiti dalla Scozia. La monarchia inglese all’inizio del Settecento è dunque fragile, sia dal punto di vista istituzionale – dopo che le rivoluzioni del Seicento ne hanno considerevolmente ridotto i poteri – che da quello della legittimità dinastica.
Fragile è anche il legame fra i tre regni, e in particolare quello fra Inghilterra e Scozia, che mantengono parlamenti e istituzioni separate. L’indipendentismo o quantomeno l’autonomismo scozzese non è del resto limitato alle Highlands cattoliche e giacobite ma è al contrario profondamente radicato anche nelle Lowlands presbiteriane.
Dall’Unione alla pace di Utrecht: nascita di una grande potenza
Nonostante questi elementi di fragilità, la Gran Bretagna dell’inizio del Settecento è una realtà dinamica e in forte espansione economica e politica. Le rivoluzioni del Seicento non hanno infatti interrotto – anzi per alcuni aspetti hanno accelerato– basti pensare al primo Atto di navigazione promulgato da Cromwell – la tendenza a estendere, in Europa e nel mondo, la sfera degli interessi inglesi.
Dal 1702 al 1714, il regno della regina Anna, un’altra delle figlie di Giacomo II, costituisce una fase di transizione. Nonostante le numerose gravidanze della regina, non nasce alcun erede maschio ad assicurare una successione protestante, conduce nel 1701 alla emanazione dell’Act of Settlement, che indica in Sofia, nipote di Giacomo I Stuart e moglie dell’elettore di Hannover, e nei suoi eredi, i successori al trono. Nel 1714, anno in cui muoiono sia Anna che Sofia, a salire al trono d’Inghilterra è proprio Giorgio I di Hannover, che regna fino al 1727. Nel frattempo è intervenuto un altro mutamento istituzionale di grande portata. Nel 1707, non senza forti resistenze soprattutto da parte della Scozia, l’Act of Union sancisce l’unione istituzionale e non solo personale fra i due regni con la nascita del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda. Il parlamento scozzese viene abolito ma viene garantita una rappresentanza scozzese in quello inglese.
Il consolidamento politico conseguente a questi sviluppi, la formazione di un impero “interno” relativamente coeso è un trampolino per l’avvio della creazione dell’impero “esterno”.
Nella guerra di successione spagnola la Gran Bretagna si oppone alla Francia e alla Spagna dei Borboni. Il contributo inglese, sul mare ma anche sulla terra, grazie alla vittoria di Blenheim (1704) e Ramillies (1076) di John Churchill, conte e poi duca di Marlborough, è decisivo. Con la pace di Utrecht del1713 la Gran Bretagna ottiene dalla Spagna Gibilterra e Minorca, essenziali per il controllo del Mediterraneo e del collegamento con l’Atlantico, e dalla Francia alcuni territori in America settentrionale, tra i quali l’Acadia e Terranova. Si tratta di acquisizioni significative, ma il dato più importante è che la Gran Bretagna si avvia a sostituire i Paesi Bassi come potenza navale e coloniale dominante. Il ristabilimento dell’equilibrio continentale europeo, come gli osservatori più attenti riconoscono, nasconde male la realtà di una nascente egemonia marittima britannica.
La politica e la società
L’esito vittorioso della guerra di successione spagnola, la successiva morte di Luigi XIV e quindi la fine dell’attivo sostegno francese alla causa giacobita contribuiscono non poco al consolidamento della dinastia hannoveriana. Il giacobinismo non è del tutto estinto ma di fatto anche i Tories sono sempre meno tentati da propositi insurrezionali. I due partiti tradizionali dei Tories e dei Whigs continuano a esistere ma non rappresentano più alternative politiche o religiose radicali. Si tratta piuttosto di fazioni dell’establishment in competizione per il controllo della macchina dello stato e dei benefici che ne derivano.
I decenni successivi, fino alla metà del secolo, sono dominati dalla figura di Robert Walpole. Dopo quasi un secolo di accese lotte religiose e politiche, il regime di Walpole offre all’Inghilterra una lunga parentesi di relazioni sostanzialmente pacifiche con le altre nazioni – a parte il conflitto con la Spagna – e di tranquillità interna. Il regime instaurato da Walpole si fonda su un ricorso spregiudicato al patronato e al clientelismo. Il sistema politico inglese, pur relativamente liberale rispetto a quello vigente in altri Paesi europei, è comunque fortemente élitario, così come la società nel suo complesso, anche se più aperta e di altre, rimane fortemente gerarchizzata. Tre dati possono riassumere le caratteristiche di fondo di entrambe: vi sono circa 180 pari, che siedono alla Camera dei Lords, circa 1500 appartenenti alla gentry, la piccola nobiltà che costituisce la maggior parte de membri della Camera dei Comuni e più o meno mezzo milione di elettori, ovvero il 15 percento circa dei maschi adulti. Questa è in sostanza la nazione politica che coincide largamente con i detentori della quasi totalità della ricchezza immobiliare e mobiliare.
A costoro occorrerebbe aggiungere il sovrano stesso che oltre ad essere il principale proprietario terriero del regno è anche il vertice del suo sistema politico. Il ridimensionamento delle prerogative della corona in seguito alla rivoluzioni secentesche non deve far pensare che il re sia diventato una figura irrilevante. Grazie al suo diritto di nominare i pari, può esercitare un’influenza rilevante sulla Camera dei Lords e, di conseguenza, su quella dei Comuni, dato che la gentry è a sua volta legata da mille fili d’interesse e di clientela ai grandi signori dell’aristocrazia.
La costruzione dell’impero
Le acquisizioni della pace di Utrecht gettano le basi della grandezza inglese ma non chiudono la partita per la conquista di un primato che ormai non è più soltanto europeo. Se i Paesi Bassi, che del resto sono ormai legati da molti fili economici e finanziari alla Gran Bretagna, sembrano aver abdicato al ruolo di potenza egemone, non altrettanto può dirsi della Francia, che anzi durante la prima metà del Settecento espande rapidamente la sua presenza oltremare, nelle Americhe ma anche in India. La rivalità strategica ed economica fra Gran Bretagna e Francia è allora il filo conduttore della storia europea del Settecento e della prima parte dell’Ottocento. La posta in palio è la posizione apicale nel sistema-mondo in continua espansione che l’Europa sta costruendo. La guerra di successione austriaca, quella dei Sette anni e la rivoluzione americana costituiscono gli snodi più importanti di una nuova “guerra dei Cent’anni” che termina solo nel 1815 con la sconfitta di Napoleone a Waterloo.
Con la pace di Aquisgrana, del 1748, che pone termine al primo di questi conflitti, la Gran Bretagna ottiene dalla Francia Madras, in India, e dalla Spagna la conferma del possesso di Gibilterra. Ancora una volta però il vero successo strategico è nell’equilibrio europeo che imbriglia le ambizioni continentali della Francia, favorendo gli interessi commerciali e coloniali britannici.
A differenza della Francia, incerta se privilegiare i tradizionali obiettivi strategici continentali o i nuovi interessi coloniali, la Gran Bretagna persegue con coerenza una politica estera il cui obiettivo primario è la conquista e il consolidamento della superiorità marittima come premessa al controllo dei flussi commerciali intercontinentali. Le conseguenze di questo diverso atteggiamento sono evidenti nell’esito del successivo grande conflitto europeo. Grazie alla superiorità della Royal Navy, che in più occasioni, come nella baia di Quiberon o a Lagos nel 1759, ha la meglio sulla flotta francese, i Britannici riescono a impedire alla Francia i collegamenti e l’invio di rinforzi ai suoi possedimenti americani e asiatici.
Con il trattato di Parigi del 1763 la Francia rinuncia sia ai possedimenti canadesi che alle sue ambizioni in India. Inoltre la Gran Bretagna ottiene la Florida dalla Spagna e consolida così la sua posizione di forza in Nord America, dove il numero dei suoi coloni supera di gran lunga quello di tutte le altre potenze europee. Il trattato di Parigi può quindi essere considerato l’atto di nascita dell’impero britannico e il momento di inizio di una lunga fase di egemonia destinata a esaurirsi solo nella prima metà del Novecento.
Un impero guadagnato: l’India britannica
Occorre tuttavia non limitarsi a considerare la competizione interna al sistema degli Stati europei. Più gravida di conseguenze dell’esito dello scontro fra Francia eGran Bretagna è la successiva presa di possesso dell’India da parte della Gran Bretagna attraverso la Compagnia delle Indie Orientali.
Nella seconda metà del Settecento l’Impero moghul è entrato in una crisi profonda e il potere imperiale non sembra più in grado di opporsi alle spinte centrifughe dei raja indù e dei nawab musulmani che governano le province. Nel 1756 il nawab del Bengala, una delle regioni più ricche dell’India e tra le principali produttrici di cotone, entra in conflitto con la Gran Bretagna e occupa Calcutta mettendo anche a morte un gruppo di mercanti britannici. La risposta della Compagnia è immediata. Il 23 giugno 1757 a Plassey, Robert Clivecon un piccolo esercito di britannici e sepoys indiani, sconfigge il nawab. Negli anni seguenti i Britannici estendono il loro controllo su vaste estensioni della valle dell’India settentrionale – l’Orissa e il Bihar – e del Deccan, dove dopo un lungo conflitto sottomettono lo Stato di Mysore, retto dal sultano Tippu.
La conquista di questi territori, amministrati congiuntamente dalla Compagnia e dalla corona, rappresenta una svolta epocale nelle relazioni fra Europa eAsia perché segna il passaggio da una presenza europea relativamente marginale e di natura prettamente economica alla dominazione di vasti territori densamente popolati. I rapporti di forza, tecnologici e organizzativi, fra Europa e Asia, sono evidentemente cambiati radicalmente, e ora la superiorità crescente degli occidentali mette questi ultimi – e i Britannici in particolare – in grado di riplasmare a loro vantaggio anche le relazioni economiche. Il controllo di vaste porzioni del subcontinente indiano fa affluire, attraverso la fiscalità, enormi risorse in Gran Bretagna e soprattutto nelle tasche degli agenti di vario livello della Compagnia, dando luogo ad arricchimenti senza precedenti che minacciano di alterare gli stessi equilibri sociali e politici della madrepatria. I due protagonisti della prima fase dell’imperialismo britannico inIndia, lo stesso Robert Clive eil suo successore Warren Hastings, vengono infatti processati per corruzione. Più felice è la parabola della famiglia Pitt, il cui fondatore, Thomas Pitt, governatore di Madras, fa fortuna all’inizio del secolo in India e il cui figlio William domina la politica britannica nei decenni successivi alla morte di Walpole e può essere considerato il vero fondatore dell’impero inglese. Gli successe il figlio William il Giovane, l’antagonista di Napoleone.
Nei due secoli seguenti l’India sarebbe stata la “gemma dell’impero” e il suo controllo da parte della Gran Bretagna avrebbe avuto conseguenze economiche e politiche di vastissima portata.
E un impero perduto: l’America
Negli stessi anni in cui la Gran Bretagna assume il controllo sostanziale dell’India, nell’emisfero occidentale perde quello di gran parte delle sue colonie americane. Anche in questo caso è la guerra dei Sette anni a costituire il punto di svolta o, meglio, le sue conseguenze non intenzionali. La guerra, pur vittoriosa, pesa infatti gravemente sulle finanze britanniche. Il governo di Londraadotta quindi una serie di misure con lo scopo di addossare almeno parte dei costi della guerra e delle difesa delle colonie ai coloni stessi con misure atti come il Sugar Act del 1764, che mira a stroncare il contrabbando di zucchero dai Caraibi, o lo Stamp Act del 1765, che impone una tassa di bollo sul materiale a stampa. Anche dal punto di vista economico, oltre che finanziario, gli interessi sono sempre più divergenti. Il privilegio accordato ai prodotti inglesi o riesportati dagli Inglesi danneggia gli Americani, che rivendicano la libertà di commerciare liberamente, soprattutto con le colonie spagnole del sud da cui importano schiavi e zucchero e dove esportano manufatti di vario genere.
La ragione del contendere non è però strettamente economica. I coloni sostengono infatti l’illegittimità dei provvedimenti perché adottati senza il consenso di loro rappresentanti, dato che nessun deputato americano siede nel parlamento. Viene così violato uno dei principi cardine della costituzione britannica uscita dalla Gloriosa Rivoluzione, ovvero la necessità del consenso dei rappresentanti dei sudditi alla tassazione: no taxation without representation. Inoltre, dato il venir meno della minaccia francese e spagnola, i coloni non sentono più il bisogno della protezione militare della madrepatria.
Nel corso degli anni Settanta la tensione si aggrava anche a causa della repressione inglese che provoca alcuni morti. Nel 1776 un’assemblea di rappresentanti delle colonie proclama l’indipendenza, aprendo di fatto le ostilità. La prima fase del conflitto è a vantaggio della Gran Bretagna, che dispone di un apparato militare più strutturato. L’entrata in guerra della Francia, che deve vendicare la sconfitta nella guerra dei Sette anni, e la riorganizzazione dell’esercito dei coloni ad opera diGeorge Washington, cambiano però i rapporti di forza. La resa dell’esercito inglese a Yorktown, nel 1781, segna in pratica la fine del conflitto e il trattato di Parigi del 1783 ratifica l’indipendenza delle colonie.
L’esito del conflitto rappresenta senza dubbio una battuta d’arresto per l’espansione coloniale della Gran Bretagna, ma gli effetti sono rapidamente superati. I rapporti commerciali non sono infatti compromessi e la Gran Bretagna conserva saldamente il controllo sullo spazio atlantico.
Industrializzazione, crescita demografica e urbanizzazione
La costruzione dell’impero è strettamente legata a un’altra trasformazione epocale, l’avvio di quella che è stata definita la rivoluzione industriale, un fenomeno non certo solo britannico, ma che ha il suo epicentro nel Regno Unito a partire dall’ultimo quarto del Settecento.
Almeno nel Settecento, questa rivoluzione industriale è meno radicalmente rivoluzionaria di quanto non si fosse ritenuto in passato, tanto che osservatori certo non distratti come l’autore del Saggio sulla ricchezza delle Nazioni (1776) non sembrano cogliere appieno il significato di quanto sta accadendo. Il fatto è che l’industrializzazione, ovvero la meccanizzazione dei processi produttivi attraverso il ricorso a motori che utilizzano l’energia idraulica e, in misura sempre crescente, il carbon fossile, non investe simultaneamente l’intera economia britannica. Il settore del cotone, in particolare la filatura, e quello della produzione del ferro sono i più direttamente interessati, mentre si sviluppa la produzione di macchinari – come la stessa macchina a vapore – che richiedono competenze artigianali e talvolta scientifiche.
L’avvio della rivoluzione industriale è reso possibile dalla concomitanza di numerosi fattori. La presenza di giacimenti di carbone estesi e facilmente sfruttabili ha avuto un ruolo non trascurabile, così come il predominio marittimo e coloniale che agevola l’accesso ai mercati di sbocco dei prodotti finiti e il rifornimento di materie prime e prodotti alimentari indispensabili a sostenere la crescita economica e demografica. Importante è però anche l’ampia diffusione di una cultura scientifica e tecnica innovativa, la relativa apertura della società inglese e i miglioramenti nell’agricoltura che, seppur non rivoluzionari, permettono alla produzione di tenere il passo con l’aumento della popolazione, evitando la catastrofe pronosticata da Malthus.
Lo sviluppo economico si accompagna infatti a una crescita demografica molto vivace. La popolazione della Gran Bretagna, che all’inizio del Settecento si aggira sui 7 milioni di abitanti, a metà secolo ha superato i 10 milioni e nel 1801 ne conta 15,5.
Questa crescita si concentra soprattutto nelle città, in particolare a Londra e nelle nuove città industriali e portuali. Quella che è ormai non solo la capitale di una Gran Bretagna unificata ma di un grande impero intercontinentale, nel 1800 si avvicina ai 900 mila abitanti, che ne fanno la più grande città europea, mentre Manchester, Birmingham, Liverpool o Leeds, che nel 1700 erano modesti borghi, contano varie decine di migliaia di abitanti.