Il razzismo
Introdotto nei vocabolari europei intorno agli anni Venti del Novecento, per designare polemicamente e negativamente l’ideologia völkisch dell’estrema destra nazionalista tedesca, il razzismo – in quanto elaborazione dottrinale e pratica discriminatoria – esisteva ben prima dell’invenzione del neologismo.
Definito da E. Balibar – a partire da un concetto proveniente dall’antropologia di M. Mauss – come un «fatto sociale totale», il razzismo è stato oggetto di studio da parte di una molteplicità di discipline differenti – dalla storia all’antropologia, dalla psicologia alla sociologia –, ciascuna delle quali ha elaborato specifici approcci metodologici e modelli interpretativi. Di qui la difficoltà di pervenire a una definizione univoca e onnicomprensiva.
Nei suoi aspetti cognitivi, il razzismo è stato innanzitutto descritto sulla base di alcuni elementi ritenuti caratterizzanti e ricorrenti: l’essenzializzazione, ovvero la riduzione dell’individuo a rappresentante del suo gruppo di appartenenza o della sua comunità di origine, elevata a comunità di natura, fissa e insormontabile (per C. Guillaumin, razzismo è «ogni atteggiamento di esclusione che assume il carattere di permanenza», L’idéologie raciste. Genèse et langage actuel, 1972); la stigmatizzazione e l’esclusione simbolica dell’individuo categorizzato, attraverso processi di stereotipizzazione negativa («barbarizzazione», patologizzazione, demonizzazione); la mixofobia, ovvero la paura dell’ibridazione, dell’incrocio o, più genericamente, il rifiuto del contatto e della comunicazione.
In secondo luogo, il razzismo è stato analizzato in quanto «esperienza vissuta» (A. Memmi, Le racisme. Description, définition, traitement, 1982), individuando – quanto meno a partire dallo studio delle race relations promosso dalla scuola sociologica di Chicago negli anni Venti – le sue specifiche ed empiriche modalità di espressione: il pregiudizio, la discriminazione, la segregazione, la violenza. L’interazione tra queste differenti «forme elementari» di razzismo e la dimensione del politico ha infine consentito di delineare quattro differenti livelli di razzismo, contraddistinti sulla base della crescente integrazione delle teorie e delle pratiche razziste con le strutture politiche e istituzionali dello Stato: infrarazzismo, razzismo «dispiegato», razzismo «istituzionalizzato», razzismo «totale» (M. Wieviorka, Le racisme,une introduction, 1998). In quest’ultima categoria, rientrano storicamente la Germania nazionalsocialista e il Sudafrica dell’apartheid.
Contrapponendosi a una visione «continuista», prevalentemente antropologica, del razzismo come derivazione dell’etnocentrismo o, in chiave sociobiologica, come espressione della «preferenza di gruppo», una storiografia ormai ampia, in larga parte anglosassone, conviene nel definire il razzismo come un fenomeno storico moderno-occidentale, diffuso in Europa e in America tra la metà del 15° sec. e l’inizio del 19° (I. Hannaford, Race: the history of an idea in the West, 1996; G.M. Fredrickson, Racism a short history, 2002). Nell’ambito delle teorie «moderniste», le periodizzazioni e le interpretazioni non sono tuttavia uniformi. In alcuni casi, il razzismo viene strettamente collegato all’introduzione del concetto tassonomico di «razza», nei secc. 17° e 18°, e all’affermazione dell’Illuminismo (G.L. Mosse, Toward the final solution. A history of European racism, 1978). L’iscrizione dell’uomo e dell’animale in una stessa classificazione, l’individuazione di una gerarchia tra «varietà» umane e l’intreccio tra dato biologico e dato culturale vengono ritenute le caratteristiche fondamentali di una «razziologia» che si alimenta dei contributi delle scienze naturali, dell’antropologia fisica, della frenologia (G.W. Stocking, Race, culture, and evolution. Essays in the history of anthropology, 1968). Un secondo approccio (M. Banton, The idea of race, 1977) circoscrive il concetto di razzismo all’affermazione di teorie scientifiche della razza, nel 19° e nella prima metà del 20° sec., che presuppongono l’ineguaglianza biologica delle razze umane, la trasmissione ereditaria delle caratteristiche fisiche e mentali e una relazione deterministica tra natura e cultura, tra «razza» e «civiltà»: il «gobinismo», ovvero le metafisiche decadentiste della storia su base razziale, a partire dall’Essai sur l’inégalité des races humaines del conte A. de Gobineau; alcune correnti del cosiddetto «darwinismo sociale»; l’eugenica razzista di fine Ottocento e della prima metà del Novecento (N.L. Stepan, The idea of race in science: Great Britain 1800-1960, 1982;D.J. Kevles, In the name of eugenics. Genetics and the uses of human heredity, 1985) e il nuovo razzismo scientifico, prevalentemente statunitense, degli anni Settanta-Ottanta (W.H. Tucker,The science and politics of racial research, 1994) del Novecento possono essere ricondotti all’interno di questa ampia categoria. Infine, un terzo approccio storiografico estende l’arco cronologico in oggetto, includendo nella definizione alcuni modelli di «protorazzismo» apparsi all’inizio dell’epoca moderna, accomunati dall’adozione del «sangue», dell’eredità o del colore della pelle come strumenti ideologici di legittimazione di pratiche sociali di esclusione e di dominio: nello specifico, la dottrina della limpieza de sangre nella Penisola Ibericadei secc. 15° e 16°; l’ideologia coloniale dei secc. 16° e 17°; il mito della «purezza del sangue», diffuso negli ambienti aristocratici dell’ancien régime francese. Al di là dei confini dell’Età moderna, non mancano ricostruzioni storiografiche che individuano forme di «protorazzismo» anche nell’antichità greco-romana e nell’Alto Medioevo (I. Geiss, Geschichte des Rassismus, 1988; B.H. Isaac, The invention of racism in classical antiquity, 2004).
Sul piano più propriamente sociologico, Wieviorka (L’espace du racisme, 1991) ha proposto un modello unitario di «spazio teorico» del razzismo, basato sulla differente interazione fra due logiche principali: in primo luogo, la contrapposizione tra la dimensione della partecipazione individuale alla vita economico-politica moderna, da un lato, e, dall’altro, la dimensione sociale dell’appartenenza a un’identità collettiva, in cui l’individuo è subordinato alla comunità, la cultura, le tradizioni; in secondo luogo, la dialettica tra una visione del mondo «universalista» e un’altra prevalentemente «differenzialista». Definito il razzismo – sulla scorta di alcune suggestioni provenienti dall’antropologia politica di L. Dumont – come il tentativo di colmare, naturalizzandolo, il vuoto apertosi nella modernità tra individualismo e olismo, tra valori universali e richiami comunitari, tra «ragione» e «nazione», Wieviorka propone tre possibili esiti di tale dialettica. La prima configurazione – il razzismo «universalista» – esprime la «modernità trionfante», «civilizzatrice» e colonizzatrice, che condanna in termini razziali qualsiasi tentativo di resistenza al suo fatale cammino. A essa si oppone una seconda tipologia – il razzismo «dell’identità contro la modernità» – che identifica, invece, la resistenza di un particolarismo di fronte ai valori universali della modernità, identificati con un gruppo che li incarna e che viene accusato di trarne vantaggio in modo ingiusto e ostile: alcune forme di nazionalismo etnico-linguistico, di antisemitismo e di ostilità nei confronti delle diaspore di matrice asiatica vengono incluse in tale categoria. Infine, un’ultima variante – il razzismo «del declassamento e dell’esclusione sociale» – proviene dalla reazione del gruppo «razzizzante» a una situazione di crisi sociale, politica ed economica che tende a proiettarlo al di fuori dei confini della modernità: l’attore razzista è in tal caso colui che perde – o teme di perdere – status sociale, colui che teme di essere negato nella propria appartenenza al mondo moderno (all’occupazione, all’istruzione, al consumo) e ricerca, per contro, punti di riferimento naturalizzanti, culturalisti o biologici. Dalla violenza del «povero bianco» di inizi Novecento al populismo antimmigrazione degli ultimi decenni del 20° sec., questo razzismo non rifiuta la modernità, ma respinge la possibilità di rimanerne escluso, attaccando violentemente i gruppi accusati di voler entrare a farne parte.
Nel tentativo analitico di definire una sorta di idealtipo del razzismo, P.-A. Taguieff ha delineato, nel 1987, due logiche di «razzizzazione» (La force du préjugé). La prima, la logica della gerarchizzazione, si esplica nella serie «eterorazzizazione-ineguaglianza-dominio-sfruttamento»; la seconda, la logica della differenziazione, si esprime attraverso la serie «autorazzizzazione-differenza-purificazione-sterminio». La logica gerarchizzante, o universalista, traduce la razza in rapporto sociale, trasforma il gruppo razzizzato in classe sociale e costruisce socialmente un rapporto di dominio, oppressione e sfruttamento. La logica della pura differenziazione rifiuta, al contrario, qualsiasi relazione fra i gruppi umani considerati, ponendosi come obiettivo il pieno compimento dell’istanza di purificazione attraverso l’eliminazione – protratta fino allo sterminio – dell’impurità rappresentata dall’altro. Nell’argomentazione di Taguieff, i due modelli vengono applicati rispettivamente a due macro-esempi storici: il razzismo coloniale e l’antisemitismo nazionalsocialista. Mentre nel caso del dominio coloniale, l’ideologia razzista è strumentale alla legittimazione della funzione economica, l’antisemitismo cospirazionista espresso dal regime nazionalsocialista alimenta per contro l’immaginario dell’«ebreo», inteso come «contro-razza», come «altro demoniaco», rispetto al quale l’unica possibilità appare l’abolizione della differenza attraverso lo sterminio totale del nemico assoluto.
In un’ottica parzialmente critica, Wieviorka (1998) ritiene che le due logiche possano essere considerate compresenti in qualsiasi esperienza storica significativa di razzismo. In Sudafrica, per esempio, l’apartheid ha teso a «inferiorizzare» e sfruttare economicamente i neri, istituendo nello stesso tempo un regime di rigida differenziazione. Allo stesso modo, in Europa, la distruzione degli ebrei perseguita dal nazismo si è fondata su una logica «differenzialista», la quale tuttavia non ha mai escluso – persino nella fase finale della Shoah – la realizzazione di pratiche di sfruttamento schiavistico.
Anticipata negli anni Settanta dagli studi statunitensi dedicati al razzismo «aversivo», «velato», «simbolico», la categoria di «nuovo razzismo» si afferma negli anni Ottanta in Gran Bretagna, grazie alle ricerche del politologo M. Barker, e in Francia, soprattutto in conseguenza degli studi di Taguieff, ma anche dei contributi di E. Balibar e J.M. Wallerstein (Race, nation, classe. Les identités ambigües, 1988).Nel suo The new racism: conservatives and the ideology of the tribe (1981), Barker si sofferma sulla metamorfosi dell’argomentazione razzista espressa dalle ali più estreme del Partito conservatore britannico e dall’ascesa politica di E. Powell. Il nuovo razzismo – afferma Barker – non si fonda più sulla gerarchia, ma sulla «differenza»; non sottolinea più i caratteri biologici innati del gruppo razzizzato, ma insiste sulla sua cultura, la sua lingua, la sua religione, le sue tradizioni, le sue usanze. Esso dà voce al senso di minaccia nutrito dal gruppo dominante, di fronte a quello che viene interpretato come il disgregarsi dell’omogeneità nazionale britannica sotto la spinta delle crescenti ondate migratorie provenienti dalle ex colonie del Commonwealth.
Analogamente, Taguieff, nel 1987, elabora la categoria di razzismo «differenzialista», nell’intento di denunciare criticamente le aporie del discorso antirazzista francese e di rendere conto dei nuovi dispositivi concettuali ravvisabili, sul piano dottrinario, nelle pubblicazioni del GRECE (Groupement de recherche et d’études pour la civilisation européenne) e del Club de l’horloge, e, in ambito politico, nelle posizioni identitarie sostenute dal Front national di J.-M. Le Pen. Il neorazzismo – argomenta Taguieff – è caratterizzato innanzitutto dal rovesciamento dei valori propri del relativismo culturale (passaggio dalla «razza» alla «cultura» e rivendicazione dell’assoluta incommensurabilità delle culture); in secondo luogo, dall’abbandono del tema dell’ineguaglianza e dall’assolutizzazione del concetto di differenza culturale, con il conseguente corollario dell’affermazione della reciproca e irremissibile inassimilabilità delle culture (dall’eterofobia all’eterofilia); infine, dal suo carattere simbolico, basato sull’adozione di una strategia retorica complessa, che finisce per rifiutare i diversi pur esaltando, nello stesso tempo, la differenza. Il «nuovo» razzismo appartiene, secondo Taguieff, all’epoca della «ritirata» e della crisi del razzismo scientifico (E. Barkan, The retreat of scientific racism. Changing concepts of race in Britain and the United States between the world wars, 1992; C. Pogliano, L’ossessione della razza. Antropologia e genetica nel XX secolo, 2005). Da «malattia sociale della modernità», il razzismo viene così a configurarsi negli ultimi decenni, almeno secondo alcuni approcci sociologici e politologici, come il prodotto della «crisi della modernità», della progressiva destrutturazione dei movimenti sociali e del parallelo rafforzamento dell’azione comunitaria (Racisme et modernité, a cura di M. Wieviorka, 1993).
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