Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
In linea con le radicali novità del movimento moderno maturano in Italia, e in particolare a Milano – che sarà culla di due riviste essenziali come “Domus” e “Casabella, occasione di incontro per personalità di primissimo piano come Giò Ponti, Franco Albini, Giuseppe Pagano, Edoardo Persico –, le premesse di un radicale rinnovamento architettonico, che, con le novità formali, recupera una profonda riflessione sul presente e sulla modernizzazione di un Paese ancora decisamente poco industriale. È una ricerca che verrà in parte incoraggiata, ma anche strumentalizzata dal fascismo, a caccia di un’immagine con la quale proporsi “moderno”, e piegata, in alcune sue espressioni, a un’architettura pesantemente monumentale.
Un esordio milanese
L’atto di nascita dell’architettura razionalista italiana viene tradizionalmente riconosciuto in una serie di quattro articoli scritti dagli esponenti del Gruppo 7 e pubblicati sulla rivista “La Rassegna italiana” tra il dicembre 1926 e il maggio 1927. Il gruppo è costituito da sette giovani laureati del Politecnico di Milano, Ubaldo Castagnoli, Luigi Figini, Guido Frette, Sebastiano Larco, Gino Pollini, Carlo Enrico Rava e Giuseppe Terragni, ai quali nell’estate del 1927 si aggiunge un architetto trentino di formazione romana, Adalberto Libera, in sostituzione di Castagnoli.
La Milano degli anni Venti offre un contesto assai vitale per gli esordi della nuova proposta architettonica. Conclusa l’esperienza del futurismo tra i fragori della prima guerra mondiale (dove aveva trovato la morte anche Antonio Sant’Elia), un gruppo di architetti riuniti attorno a Giovanni Muzio aveva dato vita al movimento del Novecento architettonico, in analogia con le esperienze figurative del Novecento pittorico promosso da Margherita Sarfatti. Le istanze poetiche del gruppo – che trovano una esemplificazione nella “Ca’ brüta” di via Moscova (1921-1922) – promuovevano il superamento dello storicismo eclettico e del naturalismo art nouveau attraverso un ritorno al classico, inteso non come riproposizione di semplici motivi formali, ma come tentativo di trovare un linguaggio comune capace di dare un ordine e un volto riconoscibile alla città contemporanea. Prendendo le distanze dagli architetti “neoclassici” della corrente novecentista, il manifesto del Gruppo 7 – così viene comunemente definita la serie di articoli de “La Rassegna italiana” – propone un aggiornamento dell’architettura in Italia, in linea con le esperienze del movimento moderno internazionale, che comporta la rinuncia all’individualità e la ricerca di nuove forme e tipi che derivino da una stretta aderenza alla logica costruttiva e alla razionalità.
La vitalità del dibattito architettonico milanese della seconda metà degli anni Venti è testimoniata anche dall’influenza delle Esposizioni Biennali, poi Triennali, di arte decorativa di Monza (dal 1923) – alle quali, nel 1927, sono presenti tanto il Gruppo 7 che il gruppo dei Sei pittori torinesi raccolti attorno a Gigi Chessa e Felice Casorati – e dalla fondazione, nel 1928, di due riviste destinate a giocare un ruolo di primo piano nel dibattito degli anni a venire: “Domus”, espressione della linea modernista di Gio Ponti, e “Casabella” di Guido Marangoni che nei primi anni Trenta, sotto la guida di Giuseppe Pagano e di Edoardo Persico, rappresenterà la voce più intransigente della nuova corrente razionalista.
La diffusione nazionale e le esposizioni del MIAR
Al 1928, che costituisce un anno chiave nel processo di “fascistizzazione” dello Stato italiano – ma anche in quello della diffusione internazionale dell’architettura moderna, con la creazione dei CIAM (Congressi Internazionali di Architettura Moderna), risalgono anche le prime manifestazioni pubbliche della nuova tendenza architettonica. A Torino si apre l’Esposizione per il decennale della vittoria al parco del Valentino sotto l’egida di Giuseppe Pagano, mentre a Roma, nel palazzo di via Nazionale, si svolge la prima Esposizione italiana di architettura razionale promossa da Adalberto Libera e Gaetano Minnucci. L’iniziativa – che vede la partecipazione del Sindacato nazionale fascista architetti e della rivista “Architettura e Arti Decorative”, diretta da Marcello Piacentini – si pone alla base della costituzione del MIAR (Movimento Italiano per l’Architettura Razionale) e segna un primo punto di convergenza tra poetica razionalista e ideologia del fascismo, avvalorato dalle componenti più “rivoluzionarie” e dinamiche del nuovo regime. Un connubio destinato a mostrare le proprie contraddizioni già in occasione della II Esposizione di architettura razionale del 1931, promossa da Pier Maria Bardi (1894-1988) nella sua galleria romana, dove si innesca la polemica contro la svolta accademica di Piacentini, le cui opere sono inserite, accanto a quelle di eclettici e classicisti, nel “Tavolo degli orrori” attorno a cui si articola l’esposizione. La provocazione lanciata da Pier Maria Bardi – e ribadita nel suo Rapporto sull’architettura indirizzato a Mussolini, pubblicato in quello stesso anno – segna la fine del fronte unito razionalista, determinando lo scioglimento del MIAR e la nascita di movimenti antagonisti come il RAMI (Raggruppamento Architetti Moderni Italiani), che unisce Mario De Renzi ai “traditori” (per gli altri esponenti del Gruppo 7) Larco e Rava. Il 1931 segna dunque, a detta di Terragni, la fine del periodo “squadrista” del razionalismo italiano, aprendo la strada a diversi orientamenti e alle polemiche interne al fronte modernista sull’architettura più idonea a rappresentare l’Italia fascista.
Convergenze e divergenze
Conclusa l’esperienza del MIAR, l’architettura italiana degli anni Trenta presenta esperienze differenziate, riconducibili all’orizzonte razionalista.
L’ambiente milanese è segnato dalla presenza di Franco Albini, Luciano Baldessari, Piero Bottoni, Ignazio Gardella, Enrico Griffini, Pietro Lingeri, Giuseppe Pagano, Luigi Vietti, e degli studi Luigi Figini e Gino Pollini, Mario Asnago e Claudio Vender, BBPR (Gian Luigi Banfi, Ludovico Belgioioso, Enrico Peressutti e Ernesto Nathan Rogers). A Como lavorano Cesare Cattaneo, Gianni Mantero e soprattutto Giuseppe Terragni, che dopo l’exploit del Novocomum (1927-1928), salutato da Persico come la prima opera razionalista in Italia, realizza la Casa del fascio (1932-1936), un prisma di marmo e vetro impostato su un sistema armonico di proporzioni auree. La mostra dell’abitazione realizzata in occasione della V Triennale del 1933 (la prima a Milano, nella sede realizzata da Muzio) costituisce un’occasione di confronto – e di scontro – tra le diverse posizioni del nucleo lombardo. Le due case per artista, realizzate rispettivamente da Figini e Pollini e dal Gruppo comasco riunito attorno a Terragni e Lingeri, sono duramente criticate da Persico che, per la dimensione evasiva e per l’insistito formalismo di queste opere, non esiterà a decretare, in un articolo sul settimanale “L’Italia letteraria”, la morte del razionalismo italiano. In polemica con l’équipe di “Casabella” (il titolo che segna la direzione di Pagano), Bottoni, Terragni, Lingeri, Figini e Pollini, con Alberto Sartoris e con il gruppo BBPR, promuovono una “tendenza nella tendenza”, volta a recuperare lo spirito classico e i valori della cultura mediterranea, che dal 1933 trova voce nella rivista “Quadrante” di Pier Maria Bardi e Massimo Bontempelli.
La situazione romana offre un panorama non meno articolato. Alle opere della generazione attiva negli anni Venti, fautrice del passaggio dal barocchetto di inizio secolo al classicismo di stampo metafisico che contraddistingue il Foro Italico di Enrico del Debbio (1926-1927), si affiancano le architetture in stile fascista delle generazioni più giovani. Un tentativo di mediazione linguistica, fondato sul ricorso a materiali ed elementi architettonici comuni, è rappresentato della nuova città universitaria (1932-1935), dove, sotto la direzione di Piacentini, intervengono Arnaldo Foschini, Gaetano Rapisardi, Pietro Aschieri, Giuseppe Capponi e Gaetano Minnucci (redattore della nuova rivista “Architettura”), accanto ai “milanesi” Pagano e Ponti, a Giovanni Michelucci – che con il Gruppo toscano era risultato vincitore al concorso per la nuova stazione ferroviaria di Firenze (1933-1935) e ai giovanissimi Giorgio Calza Bini, Saverio Muratori e Francesco Fariello. Il carattere unitario celebrato da Pagano su “Casabella” risulta però più apparente che reale e la città universitaria contribuisce a fomentare la polemica “sulle colonne e gli archi” (ovvero sull’uso di stilemi monumentali tratti dal repertorio classicista) che vede fronteggiarsi Piacentini e Ugo Ojetti, direttore di “Dedalo”. Lo scenario romano degli anni Trenta registra comunque importanti vittorie dell’avanguardia razionalista, dai concorsi per quattro palazzi postali (1932-1935) – che vedono l’affermazione di Giuseppe Samonà al quartiere Appio, di Mario Ridolfi al Nomentano, di de Renzi e Libera all’Aventino – alla nuova Accademia della scherma al Foro Italico di Luigi Moretti (1933-1935), la cui nitida volumetria raggiunge risultati di grande astrazione lirica.
Tra le esperienze di primo piano che caratterizzano i diversi contesti regionali del movimento razionalista, giova inoltre ricordare l’opera di Carlo Mollino, Annibale Rigotti, Ettore Sottsass e Gino Levi Montalcini a Torino, quella di Carlo Daneri a Genova e quella di Giuseppe Vaccaro a Napoli, cui si deve l’imponente Palazzo delle Poste e Telegrafi (1935, con G. Franzi) che risolve con un’inflessione ad arco di iperbole l’uniforme ritmo compositivo del fronte principale.
La dimensione urbanistica e territoriale
La fondazione dell’Istituto Nazionale di Urbanistica nel 1930 fornisce un contesto istituzionale e una rivista di settore (“Urbanistica”) alla riflessione sulla città, che vede il confronto tra la posizione di Gustavo Giovannoni, promotore di una teoria del “diradamento” per la riqualificazione delle aree centrali, la visione dell’urbanistica come “arte e scienza” di Luigi Piccinato, attorno a cui si riunisce il Gruppo Urbanisti Romani (GUR), e il realismo spregiudicato di Marcello Piacentini, fautore di una politica di sventramenti e ricostruzioni che troverà nella realizzazione di piazza della Vittoria a Brescia (1929-1932) una delle applicazioni più radicali.
Con la mostra dedicata all’urbanistica della VI Triennale (1936) e con il I Congresso nazionale di Urbanistica del 1937 (preliminare alla legge urbanistica del 1942) si afferma il principio dello zooning, sancito a livello internazionale con la Carta d’Atene del 1933 e sperimentato in ambito italiano con il progetto CM 8 per Como (1934) del team comasco-milanese riunito attorno a Bottoni, Lingeri e Terragni. Strettamente legate alla definizione di un nuovo modello di città sono poi le riflessioni sul quartiere “funzionale” (sia esso satellite o inserito nel contesto urbano) e le ricerche sul tema della casa popolare, sostenute in particolare da Giuseppe Samonà, Irenio Diotallevi e Franco Marescotti.
Negli anni tra le due guerre si pongono anche le problematiche relative alla pianificazione a scala territoriale – di cui il piano della Valle d’Aosta del gruppo BBPR (1937-1938), ispirato ai principi dell’urbanistica corporativa di Adriano Olivetti, costituisce un esempio pilota – e si tenta di dare una risposta coerente alla politica di “disurbanizzazione” avviata da Benito Mussolini con il discorso dell’Ascensione del maggio 1927. Con l’approvazione della legge sulla “bonifica integrale” (1928), l’obiettivo di “sfollare le città” si pone alla base della fondazione di nuovi centri rurali, a cominciare dalle città dell’Agro Pontino: Littoria, Pontinia, ma soprattutto Sabaudia (1933-1934), progettata dal Gruppo Urbanisti Romani (Gino Cancellotti, Eugenio Montuori, Luigi Piccinato e Alfredo Scalpelli) con un sistema articolato di spazi aperti che reinterpreta in chiave moderna la tradizione mediterranea. La mancanza di preesistenze storiche offre infatti alle città di nuova fondazione un terreno privilegiato per la sperimentazione delle nuove pratiche razionaliste, come dimostrano anche il progetto di Libera per Aprilia (1936) e quello di Gino Cancellotti, Giuseppe Nicolosi e Giorgio Calza-Bini per Guidonia (1938).
Un epilogo romano
La conquista di Addis Abeba e la proclamazione dell’Impero (9 maggio 1936) imprimono una virata reazionaria al regime fascista che si riflette sulle politiche urbanistiche e sulle aspettative che investono l’architettura ufficiale. Il mito di Roma antica e la ricerca di una continuità con la tradizione classica assumono un peso crescente, come dimostrano i risultati del concorso di primo e secondo grado per il Palazzo del Littorio (1934-1937), destinato a sorgere sul nuovo viale dei Fori imperiali. Le scelte della commissione giudicatrice (presieduta da Piacentini) premiano infatti il timbro monumentale e la “retorica della romanità”, a scapito dei progetti più apertamente razionalisti.
L’ambiguo compromesso tra modernità e tradizione appare ancora più stridente in occasione dell’iter progettuale del nuovo quartiere dell’Esposizione universale di Roma (EUR), prevista per il 1942 in occasione del ventennale dell’era fascista. Il piano generale dell’E 42 (1937), cui concorrono diversi progettisti sotto la direzione di Piacentini, costituisce l’ultimo tentativo di conciliare il “coraggio della modestia” auspicato da Pagano con la retorica monumentale di Piacentini. Ai singoli concorsi di architettura prevalgono infatti i progetti aulici e celebrativi (di cui un esempio eloquente è rappresentato dal Palazzo della Civiltà Italiana di Giovanni Guerrini, Ernesto B. La Padula e Mario Romano), mentre la bocciatura delle proposte del fronte razionalista (tra cui quella di Cattaneo, Lingeri e Terragni per il Palazzo dei Ricevimenti e dei Congressi) innesca una catena di “occasioni perdute” per l’architettura moderna italiana, secondo l’espressione usata da Pagano sulle pagine di “Casabella”. Alla vigilia dell’entrata in guerra, in un’Italia mortificata da 20 anni di regime, al fronte razionalista resta “la gloria della sconfitta” (l’espressione è sempre di Pagano), mentre ciascuno “perde come può”, come dirà anni dopo Adalberto Libera, che all’EUR riesce a realizzare il Palazzo dei Ricevimenti e dei Congressi, pur con un monumentale colonnato di ingresso (1937-1942).
Il risultato deludente dell’E 42 costituisce dunque un epilogo dell’esperienza del primo razionalismo italiano, cronologicamente circoscrivibile agli anni fra le due guerre, benché destinato a esercitare una profonda e duratura influenza sull’architettura della ricostruzione e su quella del secondo Novecento.