Il progresso
Nel Settecento e nell’Ottocento la cultura occidentale ha nutrito, con poche eccezioni, una ferma fede nel progresso: essa ha creduto, cioè, che il cammino della civiltà europea fosse un cammino ascendente e inarrestabile, che avrebbe accumulato conquiste (non solo scientifiche e tecniche, ma anche morali e politiche) sempre più elevate, che avrebbero configurato prima o poi una sorta di età perfetta e definitiva. Secondo questa concezione prometeica, l’umanità occidentale non avrebbe incontrato ostacoli insuperabili a conclusione della sua millenaria avventura.
Nel Settecento l’idea di progresso si impone largamente grazie a Voltaire, R.-J. Turgot e M.-J.-A. Condorcet. Per Voltaire la storia registra una successione di tre epoche o condizioni di vita dell’umanità: lo stato selvaggio, la barbarie, la civiltà. Per Turgot, essendo il progresso del sapere umano illimitato, anche i costumi sarebbero progrediti senza sosta e tali costumi superiori si sarebbero diffusi in tutti gli strati sociali. Per Condorcet (Esquisse d’un tableau historique des progrès de l’esprit humain, del 1793, ma pubblicato dopo la sua morte) il futuro dell’umanità è caratterizzato sempre più dalla distruzione della disuguaglianza tra le nazioni, e anche della disuguaglianza al loro interno, sicché i «lumi» si sarebbero estesi a tutti i popoli e a tutte le classi sociali».
Nell’Ottocento l’idea di progresso si rafforza, costituisce il fulcro di alcune importanti dottrine e finisce per dominare quasi tutte le manifestazioni della cultura occidentale. Una tipica concezione della storia come progresso continuo è quella di G.W.F. Hegel, che tanto influsso ha esercitato sulla cultura europea e secondo il quale, per intendere davvero la storia il pensiero umano deve servirsi essenzialmente di tre categorie. La prima è quella del mutamento, poiché «noi vediamo un enorme quadro di eventi e di azioni, d’infinitamente varie formazioni di popoli, Stati, individui, in un succedersi instancabile». Certo, questa idea del mutamento ci arreca dolore, e non può non deprimerci il fatto che la formazione più ricca, la vita più bella, trovino nella storia il loro tramonto. «Tutto appare caduco, nulla stabile. Ogni viaggiatore ha sentito questa malinconia. Chi avrebbe potuto fermarsi tra le rovine di Cartagine, Palmira, Persepoli, Roma, senza essere mosso a considerazioni sulla caducità dei regni e degli uomini, a rimpianto per la forte e ricca vita di un tempo?» Senonché, questo rimpianto è attenuato dal fatto che alla categoria del mutamento è connessa anche l’idea che dalla morte sorge nuova vita. Hegel richiama l’immagine della fenice, «della vita naturale che eternamente prepara a sé il suo rogo e vi si consuma, in modo che dalla sua cenere eternamente risorga, nuova giovane e fresca, la vita». Da questo processo lo spirito riappare più alto e come trasfigurato. Nel senso che «esso insorge, certo, contro se stesso, distrugge la forma che aveva assunta e si eleva così a una costituzione nuova. Ma, spogliandosi della veste della sua esistenza, non solo esso passa in un’altra veste, ma esce come spirito più puro dalla cenere della sua precedente forma». Qui ci appare la seconda categoria dello spirito: il ringiovanimento. Essa sta a significare che, nel passaggio da una forma all’altra, lo spirito non distrugge solo una vecchia forma per crearne una nuova, ma, con ciò, realizza una sorta di catarsi, una «rielaborazione di sé». Adempiendo il suo compito, lo spirito si crea nuovi compiti, moltiplicando la materia del suo lavoro. Questa considerazione ci conduce alla terza categoria, quella della ragione stessa, la quale è in continuo movimento, crea e distrugge per creare di nuovo, e domina il divenire storico.
In che senso la ragione domina il divenire storico? Nel senso che la storia è storia di popoli, i quali, proprio come gli individui, nascono, crescono, invecchiano e muoiono. Quando un popolo raggiunge il punto più alto del proprio vigore, esprime un principio, una forma di vita sociale ed etico-politica, una civiltà. Esprimere questo principio è stata la sua funzione nella storia del mondo. Ma, una volta che abbia espresso tale principio in tutta la sua intensità e ricchezza, quel popolo ha esaurito il proprio compito e si avvia verso l’esaurimento delle proprie forze vitali, verso il proprio tramonto. Non è detto che quel popolo muoia immediatamente (si pensi a Cartagine), la sua morte può manifestarsi sotto forma di nullità politica. Comunque, esso non ha più un ruolo da protagonista, ruolo che passa a un altro popolo, «e così ha luogo un processo, un sorgere, un avvicendarsi dei principi dei popoli». Ma questo processo è ascendente: procede cioè dal principio di un popolo al principio superiore di un altro popolo, che comprende in sé tutte le conquiste, tutti i principi dei popoli precedenti (nulla va perduto nella storia), ma in una sintesi nuova e più ricca, cioè, appunto, superiore. Ed è un processo non solo ascendente, ma tendente anche a una meta, a un fine ultimo. Il fine della storia del mondo, infatti, è che lo spirito universale giunga al sapere di ciò che esso è veramente, cioè raggiunga la piena consapevolezza di sé, in quanto libertà. Nel mondo orientale uno solo era libero; nel mondo greco-romano solo alcuni erano liberi; nel mondo cristiano-germanico tutti sono liberi e sono consapevoli di esserlo. Ma per giungere a questo risultato, per toccare questa meta, è stato necessario un lungo e aspro cammino, scandito in momenti distinti, secondo modi o forme, incarnatisi nei diversi popoli, questi attori della storia universale.
In Die deutsche Ideologie (1845) K. Marx sferra un duro attacco alla filosofia hegeliana della storia. Hegel, dice Marx, ha potuto concepire la storia come dominio delle idee (o dei vari principi che stanno a fondamento dei vari popoli e delle varie epoche storiche), perché ha separato le idee dominanti dai loro portatori, le classi dominanti, nonché dai rapporti che sono propri di un dato stadio della produzione. Dopo aver fatto ciò, Hegel ha messo un ordine ideale in quelle idee e le ha considerate come autodeterminazioni dell’«autocoscienza». Marx invece, per intendere la storia, parte dalla produzione materiale della vita, cioè dai rapporti di produzione e dai connessi rapporti sociali che sono propri di una certa società, e poi studia la «sovrastruttura», cioè il complesso delle istituzioni giuridico-politiche e delle ideologie che sono state generate da quei rapporti economico-sociali. La successione dei vari modi di produzione e delle varie società perde così ogni finalismo storico. Apparentemente. Dico apparentemente, perché, a veder bene, il tipo di considerazione storica che Marx delinea in Die deutsche Ideologie (e in tutte le sue opere) può essere definito a buon diritto «dialettico» (nel significato hegeliano di questa parola). E infatti tutto lo sviluppo storico appare a Marx come «una serie coerente di forme di relazioni, la cui connessione consiste in questo, che al posto della forma di relazioni precedente, divenuta un intralcio, viene sostituita una nuova, corrispondente alle forze produttive più sviluppate, […] e questa forma a sua volta diventa poi un intralcio e quindi viene sostituita con un’altra». Al centro dello sviluppo storico, quale suo «motore» fondamentale, è dunque la dialettica tra forze produttive e rapporti di produzione (o «forme di relazioni»). A causa di continui accrescimenti quantitativi, le forze produttive di una società entrano a un certo punto in contraddizione con i rapporti di produzione, e ciò determina una fase di rivoluzione e il passaggio a un organismo economico-sociale qualitativamente diverso.
In questa concezione marxiana dello sviluppo storico come «serie coerente di forme di relazioni», è evidente il motivo dialettico. Ma esso si manifesta anche nel fatto che la successione storica dei vari organismi sociali procede dall’inferiore al superiore. La nuova società che si afferma è per Marx sempre superiore a quella che l’ha preceduta, poiché corrisponde «alle forze produttive più sviluppate e quindi al modo più progredito di manifestazione personale degli individui». Inoltre, tale sviluppo da un organismo sociale inferiore a uno superiore, per Marx (come già per Hegel) tende inevitabilmente a un fine, a uno stadio ultimo e assoluto: mentre infatti tutte le società passate erano fondate sul dominio dell’uomo sull’uomo (schiavismo, servitù della gleba, sfruttamento del lavoro salariato), la società comunista abolisce ogni forma di dominio, sopprime tutte le classi e realizza una completa eguaglianza, ovvero una comunità di eguali che, per la prima volta nella storia, prende sotto il proprio controllo le proprie condizioni di esistenza. La concezione marxiana della storia è dunque interamente basata sull’idea di progresso.
La convinzione che le nazioni occidentali siano sicuramente avviate a un avvenire di progresso e di felicità, è presente anche nella filosofia «positiva» francese. C.-H. Saint-Simon è convinto che alla fine del Settecento e nei primi decenni dell’Ottocento l’Europa sia entrata in una grande crisi storica, dovuta al passaggio da un’età a un’altra, da una civiltà a un’altra, da una società a un’altra, ovvero dal sistema feudale e teologico al sistema industriale e scientifico. Finché il sistema feudale-militare fu in pieno vigore, la società fu organizzata in un certo modo, perché essa aveva uno scopo chiaro e definito, quello di esercitare una grande azione bellica; tutte le parti del corpo politico erano coordinate a questo scopo. Ma poi il sistema feudale-militare entrò in un processo di decadenza, e nel suo seno si svilupparono pian piano, ma inesorabilmente, le nuove forze dell’industria, del commercio, della banca. Queste forze avevano ormai preso il sopravvento nella società, e il loro obiettivo legittimo era quello di dirigerla, ovvero di assumerne il governo.
Tale passaggio dal sistema militare e teologico al sistema industriale e scientifico viene concepito da Saint-Simon come assolutamente necessario: è il progresso ineluttabile della storia che spinge in questa direzione. Egli dice infatti: «Ora, non ho paura di affermarlo arditamente, per chiunque abbia osservato con attenzione il cammino della civiltà, appare dimostrato in pieno che il sistema verso cui il genere umano ha sempre teso fino a oggi nell’Europa occidentale, quello che deve oggi sostituire il regime feudale e teologico, è il sistema industriale e scientifico; vale a dire quello che stabilirà un nuovo potere temporale affidato ai capi dei lavori dell’agricoltura, della produzione industriale e del commercio, e un nuovo potere spirituale affidato agli scienziati».
Un disegno molto simile di filosofia della storia fondato sull’idea di progresso si trova in A. Comte, che di Saint-Simon fu discepolo e collaboratore. Per Comte lo spirito umano ha una storia evolutiva scandita in tre stadi, i quali corrispondono a tre diversi atteggiamenti mentali, ma ai quali corrispondono altresì tre diversi tipi di società, di organizzazione sociale e politica. Nel primo stadio, che è quello teologico, gli uomini spiegano i fatti che osservano in base a elementi inventati, cioè ricorrendo ad alcune idee soprannaturali (dei o demoni). Nel secondo stadio, che è quello metafisico, gli uomini collegano i fatti a «idee che non sono più completamente soprannaturali e non sono ancora interamente naturali» (si pensi alle dottrine giusnaturalistiche). Nel terzo stadio, che è quello positivo o scientifico, «i fatti vengono collegati in base a idee o leggi generali di carattere completamente positivo, suggerite o confermate dai fatti stessi, e che sovente sono semplici fatti abbastanza generali per diventare dei principi» (così procedono l’astronomia e la fisica moderna).
Come abbiamo detto, a questi tre stadi mentali corrispondono tre grandi tipi di organizzazione sociale che si sono succeduti nella storia (sicché la legge dei tre stadi è a tutti gli effetti una vera e propria legge dello sviluppo storico): «tre grandi epoche, o stadi di civiltà, che presentano un carattere perfettamente distinto sia sotto l’aspetto temporale sia sotto quello spirituale». Si tratta dell’«epoca teologica e militare», dell’«epoca metafisica e giuridica», e dell’«epoca scientifica e industriale». In quest’ultima il potere è esercitato dagli scienziati e dagli industriali, e i conflitti tra lavoratori e industriali trovano composizione grazie al prevalere dello «spirito d’insieme», che caratterizza la nuova guida politica imbevuta di filosofia positiva. L’epoca scientifica e industriale è dunque la fase suprema tanto dello sviluppo mentale dell’umanità quanto del suo sviluppo sociale e politico. I tre stadi costituiscono quindi un processo necessario e ascendente, un progresso intellettuale, sociale e politico, che tende ineluttabilmente alla propria meta.
Questa fede nel progresso continuo della storia umana viene meno nella cultura europea alla fine dell’Ottocento e nel Novecento. La figura esemplare di questa nuova temperie culturale è quella di F.W. Nietzsche: per lui tutta la storia occidentale a partire dal cristianesimo, fino all’affermarsi della democrazia con la Rivoluzione francese e al dilagare del socialismo, è un processo di decadenza e di involuzione: alla vita terrena viene contrapposta la vita celeste; alle grandi individualità eroiche, ai superuomini, vengono contrapposti i deboli, gli sconfitti, i derelitti; agli «uomini d’eccezione», ai «dominatori» vengono contrapposte le «masse», mediocri e anonime. La società industriale democratica, plasmata dalla Rivoluzione francese e dal socialismo, è appunto il regno delle «masse» e la scomparsa di una vera vita eroica. Ma soprattutto O. Spengler, nel suo Die untergang des Abendlandes (il cui primo volume apparve nel 1918, riscuotendo un enorme successo in Germania, e non solo), ha espresso l’idea che le civiltà sono organismi che, come nascono, crescono e vigoreggiano, così decadono, invecchiano e muoiono: un’idea, questa, che, come sappiamo, era stata espressa anche da Hegel, solo che per Spengler non c’è nessun rapporto fra le varie civiltà (anche se esse attraversano analoghi cicli di sviluppo), e la nostra civiltà europea è sul punto di estinguersi. Essa si trova (come tutte le civiltà che hanno esaurito il loro corso) in una fase di Zivilisation: la religione è scomparsa, e ciò determina il tracollo di tutti i valori del passato; all’anima, ormai morta, è subentrato l’intelletto come putrefazione dell’anima; nella democrazia il popolo si è ormai dissolto in una massa amorfa e manipolata; la politica non dirige più l’economia ma è subordinata a essa; il denaro è divenuto la suprema potenza della società.
Ma anche pensatori che, a differenza di Nietzsche e di Spengler, si richiamano a valori umanistici, esprimono la convinzione che la civiltà occidentale sia giunta a un punto di non ritorno. Così M. Weber, che vedeva il processo di burocratizzazione/razionalizzazione proprio della nostra civiltà culminare in una «gabbia d’acciaio», che uccide qualunque spontaneità e quindi ogni creatività. V. Pareto, a sua volta, rifiutava tutte le filosofie della storia, sia quelle ispirate dall’idealismo sia quelle ispirate dal materialismo storico. L’unica cosa che la storia ci mostra, egli diceva, è la successione delle élite, la loro continua trasformazione, la loro decadenza, la loro scomparsa (più o meno rapida, più o meno violenta). Questa successione di élite non è regolata da nessuna legge storica, da nessuna scansione dialettica; in essa si manifesta solo una sorta di «moto ondoso», nel senso che le varie élite si formano, vigoreggiano, si decompongono e ricadono come le onde del mare. Era una visione sconsolata, quella di Pareto, ma che si sarebbe manifestata anche in pensatori che per interi decenni erano stati gli alfieri dell’idea del progresso storico. È il caso di B. Croce, che a lungo aveva sostenuto che la decadenza non può essere mai assunta dallo storico a oggetto di indagine, in quanto essa, a ben vedere, non esiste. Certo, le opere degli uomini, le loro creazioni e costruzioni, decadono e muoiono, ma, in quello stesso momento, cominciano già a delinearsi nuove opere, nuove creazioni e costruzioni umane. La storia degli uomini passa quindi da un’opera all’altra, da una creazione all’altra, da una costruzione all’altra, e quella che a un osservatore superficiale può apparire come decadenza, è solo il passaggio dal vecchio al nuovo, da ciò che sta per perire a ciò che sta per nascere. Le varie età, le varie civiltà hanno trasmesso ciascuna le proprie conquiste e i propri problemi irrisolti, alla successiva, in una scansione senza fine, in cui nulla di vero e di importante è andato mai perduto. Senonché, negli ultimi anni della sua riflessione, si impose al vecchio filosofo una visione assai diversa: «talvolta – egli scrisse – popoli civili si imbarbariscono, si inselvatichiscono, si animalizzano o ridiventano bestie feroci, e tornano nella natura». Era quindi una illusione che «la civiltà umana sia la forma a cui tende e in cui si esalta l’universo, e che la natura le faccia da piedistallo»; da questa illusione bisognava passare a una visione assai diversa (anche se ciò «richiedeva uno sforzo penoso»): a quella della civiltà umana «come il fiore che nasce sulle dure rocce e che un nembo avverso strappa e fa morire […]». Il fatto è, diceva Croce, che c’è in noi un «Anticristo, distruttore del mondo, godente della distruzione, incurante di non potere costruire altro che non sia il processo sempre più vertiginoso di questa distruzione stessa, il negativo che vuol comportarsi come positivo ed essere come tale non più creazione ma, se così si potesse dire, dis-creazione». L’Anticristo preparava una età di «impoverimento», di «imbarbarimento», di «inselvatichimento», di «fremente bellum omnium contra omnes». Questa conclusione drammatica e sconsolata si imponeva al vecchio filosofo dopo due guerre mondiali e dopo orrendi regimi totalitari che, nel corso del Novecento, avevano perpetrato strazianti genocidi.
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