Il problema della codificazione
Il termine codice si presta a una serie molto ampia di applicazioni e di torsioni semantiche. Dal 'codice genetico' in medicina al 'codice a barre' nel commercio. Ma il suo significato più risalente, e autentico, è semplicemente: una serie di fogli manoscritti tenuti assieme da una cucitura laterale che va a formare un dorso e li rende compatti (Tarello 1976, pp. 18-19). In ambito giuridico il riferimento cardine, anche se non in assoluto il primo in ordine cronologico, è il Codex che compare come opera legislativa all’interno del complesso Corpus iuris civilis promulgato dall’imperatore Giustiniano. Nella storia giuridica si è dunque via via consolidato l’uso secondo cui, in linea di massima, il termine codice indica un insieme minimamente organizzato di testi legislativi.
La codificazione otto-novecentesca va però distinta dai 'codici' delle fasi precedenti; è da tempo invalso l’uso di indicare questi testi di antico regime come 'consolidazioni', in quanto integrabili da altre fonti normative e comunque costituiti dalla riunione – magari ben sistematizzata – di materiale legislativo non nuovo (Viora 1967; Tarello 1976; visione differente quella di Petronio 2002). È però solo con la fine del 18° sec. che si fissa definitivamente un modello ‘moderno’ di codice, che diventerà compiutamente un sistema di strumenti legislativi in sé coerenti durante il periodo napoleonico. Nel 1804 è infine promulgato ‘il’ codice civile, quel Code Napoléon che costituisce il modello principe della codificazione del diritto lungo l’Otto e il Novecento (sui concetti e i diversi passaggi tra età moderna ed età contemporanea v. Caroni 1998, pp. 1-98).
La legge con cui è promulgato, il 30 ventoso dell’anno XII (21 marzo 1804), prescrive, nelle materie trattate dal codice civile, la totale abrogazione del diritto romano, delle ordinanze regie, delle consuetudini o di qualsiasi altra fonte normativa. È cioè il primo codice europeo a fare tabula rasa delle tradizionali fonti del diritto a favore della legge. Il diritto viene ora dallo Stato, ed è monopolio – secondo lo schema di Montesquieu – del potere legislativo, unico detentore della facoltà di produrre norme giuridiche contro qualsiasi visione pluriordinamentale (Paolo Grossi proprio in questo tornante identifica la categoria dell’«assolutismo giuridico»; v. Grossi 2001, 20052).
Il codice sancisce poi definitivamente l’unità del soggetto di diritto, costituito dal cittadino francese, e non più dal nobile, o dall’ecclesiastico, o dal borghese, a ciascuno dei quali si riferivano discipline civilistiche differenti. Da questo punto di vista il codice è anche il frutto della rivoluzione del 1789, in linea di principio egualitaria, e in concreto liberale, proprietaria e borghese.
Codice che, superando il particolarismo giuridico, afferma il principio secondo cui per la nazione francese vi deve essere un diritto civile unico, e non tante normative locali, come fino a quel momento era avvenuto. Codice che pone un diritto nuovo – anche se ben radicato nella tradizione, non solo romanistica, europea – in sé sistematico. Codice che si propone come esauriente della materia trattata; come prescrive l’art. 4, il giudice non può astenersi dal giudicare – come in antico regime poteva avvenire – perché in questo testo troverà tutto ciò che gli serve per giudicare. Codice che coniuga i grandi istituti civilistici della tradizione romanistica (lo stesso schema, in tre libri, replica quello del giurista romano Gaio: personae, res, actiones), con il diritto consuetudinario – di matrice germanica – della tradizione ‘nazionale’ francese. Codice che è modellato sulle esigenze socioeconomiche della borghesia (innanzi tutto proprietarie), che viene tradotto ufficialmente in italiano nel 1806 e diventerà lo strato giuridico privatistico in cui si radicherà la stagione liberale europea, e italiana in particolare.
La forza del modello francese-napoleonico sta anche nell’aver proposto un blocco completo di codici: oltre a quello civile, il Code de procedure civile (1806), il Code de commerce (1807), il Code d’instruction criminelle (cioè di procedura penale, 1808), il Code pénal (1810). Testi legislativi che costituiranno, nei diversi ambiti giuridici (anche se con la netta prevalenza del codice civile), un modello fondamentale per tutta l’Europa.
La materia civilistica, per altro, in Europa è disciplinata a inizio Ottocento da un altro modello di codice: l’Allgemeines Bürgerliches Gesetzbuch (abbreviato ABGB), cioè il codice civile generale austriaco promulgato nel 1811, frutto di un lungo processo di elaborazione avviato alla metà del Settecento con il tentativo di unificare i vari diritti regionali, i Landrechte, dell’impero d’Austria.
Come la legge 30 ventoso XII, anche qui la patente di promulgazione abroga tutte le precedenti fonti concorrenti, a partire dal diritto comune, e anche in questo caso la materia è divisa in tre parti. A differenza del Codice Napoleone vi è una «introduzione» dedicata a «le leggi in generale», cui seguono tre parti dedicate al Diritto delle persone, Diritti sulle cose (non solo diritti reali, ma anche successioni, obbligazioni, e risarcimento del danno), nonché Disposizioni comuni ai diritti delle persone e ai diritti sulle cose (cioè modificazione ed estinzione dei rapporti giuridici). Rispetto al codice francese è decisamente più breve – 1502 paragrafi, rispetto ai 2281 articoli del precedente – secondo un’impostazione di area germanica per la quale il testo legislativo deve porre principi generali, da cui poi sia il giudice a ricavare norme di dettaglio. Ecco lo spazio più ampio riservato all’interprete, e dunque il motivo delle norme introduttive in tema di interpretazione, con una esplicita possibilità di utilizzare «i principi del diritto naturale» (§ 7).
Le sue fonti sono sia la tradizione romanistica e canonistica, che i diritti territoriali e provinciali, ed è evidente la matrice giusnaturalistica anche quando si rendono manifesti i principi di equità e uguaglianza, che tra il resto comportano un diritto di famiglia meno incentrato sui poteri del marito nei confronti di moglie e figli (qui la donna – diversamente dalla moglie del Codice Napoleone – non è sottoposta all’autorizzazione maritale per compiere atti giuridici). Pur allineato con il cattolicesimo, l’impero austriaco è uno Stato multietnico e multireligioso, con scelte ormai nette a favore della tolleranza e per il riconoscimento formale delle minoranze, e comunque pronto a difendere il ruolo dello Stato nei confronti della Chiesa. Ecco dunque che nell’ABGB il settore matrimoniale rimane sotto il controllo istituzionale dello Stato, ma recependo per la sua regolamentazione il diritto canonico; il divorzio per i non cattolici è ammesso solo in casi tassativi. Rimangono tracce nette del diritto di antico regime e rimane lo schema proprietario di ascendenza medievale-feudale (con la distinzione dominio diretto/dominio utile). Un testo legislativo improntato alla moderazione, ma certo non liberale. Un testo di ottima fattura tecnica e pronto, per la sua duttilità, a essere interpretato in modo progressivo dalla scienza giuridica europea, e da quella italiana in particolare, in un dialogo costante con il modello francese (Dezza 1998, 20002; M.R. Di Simone, Percorsi del diritto tra Austria e Italia (secoli XVII-XX), 2006, pp. 159-83; Ferrante 2006, 20112, pp. 134-54).
Il complesso della codificazione napoleonica domina l’Italia continentale innanzi tutto nella fase imperiale, quando il territorio della penisola costituisce o parte integrante del territorio francese (il Piemonte, la Liguria, la Toscana, il Lazio) o parte di una delle varie realtà statuali comunque legate politicamente alla Francia (a partire dal Regno d’Italia), dove dunque i codici francesi sono comunque – una volta tradotti – applicati come diritto positivo. In parte dell’area nazionale italiana – pensiamo a Trieste, Gorizia, l’Istria (dopo il 1813) – vige per altro la legislazione austriaca, che allargherà la sua vigenza normativa nel Lombardo-Veneto dopo la Restaurazione. A Milano, per es., dal 1806 sarà in vigore il codice francese e dopo la Restaurazione quello austriaco; dopo la Seconda guerra di indipendenza (1859) sarà dichiarato in vigore il codice civile sardo-piemontese del 1837, cui si oppongono però forti resistenze, preferendo appunto il testo austriaco, fino a quando verrà poi applicato quello italiano del 1865. In Veneto e in Friuli l’ABGB sarà in vigore fino alla Terza guerra d’indipendenza (1866), mentre nella Venezia-tridentina e nella Venezia-Giulia non sarà sufficiente la fine del primo conflitto mondiale ad abolirlo, e anzi la piena unificazione giuridica delle «nuove provincie» si avrà solo nel 1928; ancora una volta l’incontro con il modello austriaco sarà l’occasione per un ripensamento generale il cui esito finale sarà il nuovo codice civile italiano del 1942.
A partire dagli inizi del Novecento la scienza giuridica europea ha iniziato a identificare quella cultura giuridica particolarmente vocata all’analisi dei codici, in particolare del codice civile, come scuola dell’esegesi. Si tratta di un insieme di civilisti, prevalentemente francesi e belgi, che nell'Ottocento insegnano il Codice Napoleone con la tecnica del commento articolo per articolo (Tarello 1969). Si intende esegesi in senso deteriore, indicando insomma un metodo di pura (e sostanzialmente ottusa) interpretazione; il diritto del codice preso per quello che precisamente è, parafrasato o poco più.
Il dato va valutato con attenzione; per buona parte il metodo di lavoro del giurista di oggi è determinato da linee metodologiche che si elaborano lungo il 19° secolo. Il giudizio di mera esegesi, attribuito a questi giuristi, va con tutta probabilità corretto (Ferrante 2002 e 2006, 20112).
I presupposti nella realtà francese sono costituiti dalla codificazione civile stessa del 1804 come legge esclusiva per la materia trattata, ma il metodo di analisi del codice ha una sua storia pure in Italia, e in seguito sarà un metodo di studio applicato alla codificazione pre e postunitaria. L'importanza per l'Italia è anche evidenziata dalle molte traduzioni che gli autori francesi riceveranno lungo il 19° secolo.
La definizione scuola dell'esegesi viene coniata in realtà solo all’inizio del Novecento (J. Bonnecase, L’Ecole de l’Exégèse en droit civil, 1919, 1924). Per contro i giuristi di questa fase definiscono il loro metodo come méthode analytique e talvolta exégetique, contrapponendolo alla méthode dogmatique. Il loro impegno maggiore è rivolto alla didattica e dunque alla spiegazione del Codice Napoleone. D’altronde proprio la legge del 22 ventoso anno XII (13 marzo 1804) per lo svolgimento dell’insegnamento civilistico prescrive un’esposizione «secondo l’ordine stabilito dal codice». Il commentario rappresenta la massima aderenza possibile al dettato legislativo ma non mancano annotazioni storiche o comparative, dunque visioni di respiro ampio. In casi di dubbio si ricorre ai «lavori preparatori» e si utilizza la tecnica del cosiddetto combinato disposto, ma allo stesso modo si usa la giurisprudenza come strumento esemplificativo e descrittivo.
Infine agisce la forza di norma di chiusura del già evocato art. 4 del codice civile. Il codice è completo ed esauriente; è diritto solo quello del legislatore e il giusnaturalismo settecentesco e illuminista si è definitivamente risolto nel codice, si è positivizzato nel complesso delle sue disposizioni. Da qui la famigerata espressione – probabilmente mai pronunciata – del giurista Jean-Joseph Bugnet (1794-1866): «io non conosco il diritto civile, io insegno il Codice Napoleone», oppure la premessa di Jean-Charles-Florent Demolombe (1804-1887): «Il giudice non può legalmente pretendere che la legge non gli dia i mezzi per risolvere la causa che gli viene sottoposta». Si tratta, poi, dell'assoluta adesione all’indiscutibile schema ordinamentale elaborato da Montesquieu: il giudice deve semplicemente essere ‘bocca della legge’. Dunque il codice – secondo questa corrente – è espressione della volontà del legislatore fissatasi in un preciso momento, in un dato testo legislativo omnicomprensivo della materia trattata.
In una prima fase, cioè dalla promulgazione del Code agli anni Venti-Trenta del secolo, troviamo innanzi tutto la figura di Claude-Étienne Delvincourt (1762-1831) che pubblica già nel 1808 gli Institutes de droit civil français (tradotti già nel 1812 a Milano e nel 1818 a Napoli). Nella fase successiva, che va fino agli anni Ottanta, abbiamo i grandi – e diffusissimi, ancora una volta anche per la loro traduzione in italiano – commenti al Codice Napoleone; fra i più letti Demolombe, Alexandre Duranton (1785-1866); Raymond-Théodore Troplong (1795-1869); Victor-Napoléon Marcadé (1810-1854) e l’opera, progressivamente modificata e via via ritradotta, di Charles Aubry (1803-1883) e Fréderic-Charles Rau (1803-1877), il loro Cours de droit civil français (prima edizione 1836–1846, in cinque volumi, inizialmente semplice traduzione e annotazione dell’opera del civilista tedesco Karl Salomo Zachariae, 1769-1843). Nel complesso opere che hanno un’importanza determinante sulla cultura giuridica italiana di quella fase. Infine François Laurent (1810-1887) che, a partire dal 1869 pubblica i 33 volumi dei suoi Principes de droit civil, opera fondamentale e di cesura che apre una fase nuova della scienza giuridica di area francese. Dato rilevante è infatti che gli influssi della scienza giuridica germanica provocheranno cambiamenti decisivi in tutta la cultura giuridica, e in particolare in quella italiana, che si aprirà a una speciale reinterpretazione della pandettistica tedesca.
Qui si sviluppa infatti una concezione del fenomeno giuridico affatto diversa, che pone l’interprete in una posizione di rilievo, soprattutto se paragonato al suo collega francese. La scuola storica nasce subito dopo la Restaurazione (ma ha ben solide radici nella scienza giuridica tedesca del tardo Settecento), diviene ben presto fenomeno influente su scala continentale, gettando poi le basi per la corrente della pandettistica che si andrà sviluppando nella seconda metà del secolo; si identifica soprattutto in tre grandi autori, giuristi e storici del diritto: Gustav Hugo (1764-1844), Friedrich Carl von Savigny (1779-1861), e Georg Friedrich Puchta (1798-1846).
Secondo questa corrente il diritto romano vigente in Germania a titolo di diritto comune ha una profonda radice storica perché frutto del progressivo accumularsi di produzioni normative di epoche diverse (e spesso in ‘naturale’ conflitto). Sono fattori determinanti non solo il diritto legislativo ma anche la consuetudine, la scienza giuridica, la giurisprudenza, nel suo complesso il diritto liberamente accettato dal popolo. Il diritto positivo – quello effettivamente vigente, applicato – è costituito dai diritti storici e il diritto legislativo ha una funzione complementare. In questo quadro il codice non può avere spazio.
Proprio in Germania si sviluppa così con la Restaurazione un dibattito particolarmente significativo sulla visione complessiva della codificazione (cfr. A.F.J. Thibaut, F.C. von Savigny, La polemica sulla codificazione, a cura di F. De Marini, 1982; P. Becchi, Ideologie della codificazione in Germania, 1999; si v. inoltre P. Caroni, Escritos sobre la codificación, 2012, pp. 1- 42). Il civilista e romanista Anton Friedrich Justus Thibaut (1772-1840) pubblica nel 1814 Über die Nothwendigkeit eines allgemeinen bürgerlichen Rechtes für Deutschland (La necessità di un diritto civile generale per la Germania), invocando la necessità di un codice civile unico per tutta la Germania, con lo scopo di arrivare finalmente all’unificazione politica del Paese, invocata anche dalle correnti nazionaliste tedesche.
A Thibaut risponde dunque Savigny con il suo Vom Beruf unserer Zeit für Gesetzgebung und Rechtswissenschaft (La vocazione del nostro tempo per la legislazione e la giurisprudenza), pubblicato nello stesso anno. Il diritto nasce dal Volksgeist, dallo 'spirito del popolo', da usi e credenze popolari poi rielaborati dai giuristi, intesi nel loro complesso come Wissenschaft, 'scienza', secondo i principi metodologici delle scienze naturali, come l'Illuminismo giuridico già ampiamente aveva auspicato. Solo in una eventuale fase successiva il diritto verrebbe elaborato dal legislatore e promulgato in forma di legge. Si tratta nel complesso di una ‘generalizzazione della storia del diritto romano’ che comprende mores maiorum, giurisprudenza, compilazione giustinianea, secondo una visione del diritto come processo evolutivo non intenzionale (M. Barberis, Filosofia del diritto. Un’introduzione storica, 1993).
L’influenza di Savigny sarà enorme e la Germania non avrà un codice civile fino al 1900; il suo pensiero (System des heutigen römischen Rechts, 1840-1849) avrà un’influenza straordinaria su scala europea.
Con riferimento alla codificazione, è dunque necessario tener conto del quadro complessivo europeo, anche considerando la vigenza legislativa prima, e la permanenza quale modello poi, delle grandi codificazioni francese e austriaca (solo a fine secolo irromperà quella tedesca). Per molti aspetti anche la scienza della codificazione è una scienza comune europea (secondo un'antichissima abitudine dei giuristi), con rinvii reciproci e dinamiche culturali che travalicano i confini nazionali e costruiscono una rete complessa di politiche del diritto.
Il Code civil del 1804 costituisce immediata fonte giuridica italiana a partire dai dipartimenti della nostra penisola che la Francia via via integra nel suo territorio statuale: i territori piemontesi dal 1802, la Liguria nel 1805, il Principato di Lucca e Piombino nel 1806, Parma e Piacenza tra il 1806 e il 1808, la Toscana nel 1808, Umbria e Lazio dal 1809. Ugualmente avviene nel Regno d’Italia e nel Regno di Napoli, entrambi indipendenti dalla Francia solo formalmente (Ferrante 2006, 20112, pp. 91-154).
In particolare al Regno d’Italia è esteso il codice francese attraverso la predisposizione nel 1806 di un testo trilingue, cioè in versione italiana, francese e infine latina. Inizia con ciò la sequela delle edizioni del codice con le concordanze romanistiche attraverso i rinvii, più o meno centrati, alle fonti giustinianee. D’altronde, nei dipartimenti francesi dell’Italia l’operazione di inclusione nella realtà locale del code civil era già avvenuta prima, e appunto con lo strumento della comparazione con le fonti preesistenti. Anche in seguito questo sarà avvertito come necessario, prima e dopo l’unificazione giuridica del 1865 (Collezione completa dei moderni codici civili degli stati d’Italia secondo l’ordine cronologico della loro pubblicazione, 1845; Codice civile del Regno d’Italia col richiamo degli articoli dei cessati codici italiani e posto in confronto col codice Napoleone, 1866).
Una delle più diffuse opere di commento al Codice Napoleone tradotto ha d’altronde proprio questa impronta romanistica; è quella di Onofrio Taglioni (1782-1823), pronto in seguito – all’indomani della Restaurazione – a divenire entusiasta sostenitore dell’ABGB (pubblica prima il Codice di Napoleone il grande col confronto delle leggi romane, 1809-1811, e poi – in dieci volumi, di cui gli ultimi due curati da Giuseppe Carozzi – il Commentario al codice civile austriaco, 1816-1825).
Il primo italiano a cimentarsi nel commento al codice civile è però il genovese Ambrogio Giuseppe Laberio (1742-1812). I suoi Razionali sopra il Codice Napoleone iniziano a uscire nel 1808, ma il commento raggiungerà appena l’art. 57. Gli inquadramenti storico-giuridici, il ricorso ponderato alla tradizione romanistica e alle consuetudini, la valutazione della dottrina europea e in genere la volontà di non restare vincolati al solo dato legislativo prefigurano già gli sviluppi di una scienza della codificazione come non meramente esegetica. Nello stesso 1808 a Pavia Gian Domenico Romagnosi (1761-1835) imposta il proprio insegnamento civilistico rifiutando espressamente una pura trattazione secondo l’ordine del codice e affidandosi, casomai, alla ‘ragione’ (Paratitli universali e ragionati del Codice Napoleone paragonati col diritto romano).
Percorso in parte analogo a quello del già ricordato Taglioni è compiuto a Napoli da Loreto Apruzzese (1765-1833), che nel 1809 pubblica un Corso di diritto novissimo contenuto nel Codice Napoleone, poi nel 1812 un Codice Napoleone dilucidato, e infine, dopo la Restaurazione, abiura il codice francese con il suo Corso di studio legale del 1819, quando identifica proprio nella compilazione di Ferdinando I il realizzarsi di un ‘codice nazionale’. A Torino nel 1810 Giovanni Ignazio Pansoya inizia a pubblicare il Texte et complément de la loi ou Code Napoléon (P. Casana, Tra Rivoluzione francese e stato costituzionale. Il giurista Giovanni Ignazio Pansoya. Torino, 1784-1851, 2005), e nel 1812 Victor Brun (1745-1819) gli Éléments du Code Napoléon. A Pisa Lorenzo Quartieri (1763-1834) nel 1812 tenta ancora il confronto tra il nuovo diritto e quello romano (Istituzioni di giurisprudenza romana e francese).
Nel complesso è difficile individuare in questa prima civilistica italiana della codificazione un semplice culto esegetico del testo legislativo codice; semmai il suo limite sta in un insistito legame con la radice romanistica, ma vista più come fattore legittimante che non come fonte effettiva. L’approccio analitico è moderno, e il tema dell’interpretazione giuridica non è certo risolto nella mera applicazione della legge e della volontà del legislatore storico. Il giusnaturalismo di matrice settecentesca, non senza resistenze alla spinta totalizzante del codice, si risolve in una visione scientifica aperta sia al dato legislativo sia alle fonti giurisprudenziali e scientifiche. Questa visione generale trova conferma con l’esame della susseguente (e parallela) scienza giuridica italiana del codice civile austriaco.
Le caratteristiche della scienza giuridica dell’ABGB appaiono in nuce nei paragrafi introduttivi del testo legislativo codificato, e in particolare nel § 7. Nei casi esplicitamente non disciplinati dalla norma si deve ricorrere all’analogia, ma «rimanendo il caso dubbioso, dovrà decidersi secondo i principi del diritto naturale (natürliche Rechtsgrundsätze)». Il § 8, per altro, prescrive che «al solo legislatore spetta d’interpretare la legge in modo per tutti obbligatorio».
Il giusnaturalismo moderno culmina e si esaurisce nella codificazione, intesa appunto come diritto naturale codificato. Il ‘codice della ragione’ è destinato a lasciare il passo al codice civile (lo ricorda giusto Franz Aloys von Zeiller, 1751-1828, artefice dell’ABGB, nel suo commento), e in genere alla cultura giuridica del codice civile intesa nel suo complesso a livello continentale. Nei giuristi di area austriaca compare per es. la tendenza a utilizzare come fonte interpretativa il diritto codificato straniero, e in particolare quello del Code Napoléon. Questo vale per i giuristi italiani del Lombardo-Veneto, ma anche in questo caso vanno tenuti in conto le immediate traduzioni delle opere di commento degli autori austriaci che dunque entrano – come i francesi – a far parte di fatto della cultura giuridica italiana della prima metà del 19° secolo (Ferrante 2006, 20112, pp. 134 e segg.).
La cultura giuridica dell’Italia della Restaurazione non manca di adeguarsi subito alla nuova realtà legislativa. Dei difetti del codice civile italico (…) e dei pregj del codice austriaco è l’emblematico titolo dell’opera che pubblica a Vicenza nel 1815 Giovanni Maria Negri (1748-1818; C. Valsecchi, L’avvocatura veneta tra diritto comune e codici: il caso del vicentino Giovanni Maria Negri, in Avvocati e avvocatura nell’Italia dell’Ottocento, a cura di A. Padoa Schioppa, 2009, pp. 521-624). Nell’area culturale dell’ABGB il genere 'commentario' rimane strumento fondamentale, e mantiene caratteristiche didattiche. Il giurisperito «non sa che la legge» (dunque il codice), il giureconsulto ha responsabilità sistematiche, con un orizzonte di conoscenze ampio della scienza giuridica e della sua storia. È Taglioni allora a indicare nell'ABGB la necessaria sintesi tra la «legislazione piena di saggezza» dei romani e la «lealtà dei germani».
Nel 1829 iniziano a uscire a Pavia i tre volumi delle Istituzioni del diritto civile austriaco con le differenze tra questo e il diritto civile francese di Agostino Reale (1790-1855; E. D’Amico, Agostino Reale e la civilistica lombarda nell’età della Restaurazione, in Studi di Storia del diritto, 2° vol., 1999, pp. 772-818), dove significativamente, per interpretare il § 7 dell’ABGB si richiama anche l’art. 4 del Codice Napoleone. Un’ottica comparativa chiara anche in Il codice civile generale austriaco confrontato con le leggi romane e col già codice civili d’Italia (Milano 1831-1833) di Giuseppe Antonio Castelli. Il Codice francese è vero e proprio strumento interpretativo per l’avvocato veneziano Jacopo Mattei (1806-1879; I paragrafi del Codice civile austriaco […], Venezia 1852); ma se quel testo non offre reali indicazioni di tipo interpretativo, ecco la necessità di risalire al Livre preliminaire del progetto del 1801 redatto dalla commissione capeggiata da Jean-Étienne-Marie Portalis e poi espunto, residuando solo il «titolo preliminare», quello che contiene l’art. 4. Mattei ne riporta per intero il testo, riprendendo in sostanza il magistero di Romagnosi, che aveva appoggiato le sue lezioni pavesi del 1808 in tema di interpretazione proprio su questo fantasma normativo. È poi ancora Mattei a mettere in evidenza la coincidenza testuale tra il § 7 del codice austriaco e l’art. 15 del codice sardo del 1837 (ove ci si riferisce ai «principi generali del diritto» e non ai «principi del diritto naturale»), e ancora Mattei sarà anche commentatore del Codice italiano del 1865, con la medesima intonazione corale (Il Codice civile italiano […], 1873).
Per altro i commentatori del codice austriaco, a partire da Zeiller, continuano a insistere sulla necessità di leggere il § 7 in modo restrittivo, avendo dunque sempre per riferimento principe le parole del testo legislativo. Anche nel caso austriaco il codice è innanzi tutto lo strumento dell’operatore del diritto, e la prospettiva empirica è quella prevalente, pur senza dimenticare i confronti romanistici sempre utili in giudizio (per es. G. Basevi, Annotazioni pratiche al codice civile austriaco, 1845)
Dunque, la scienza italiana del codice, quale dei due modelli sia il suo riferimento, si trova realmente alla congiunzione di percorsi legislativi convergenti. Le culture giuridiche convergono proprio quando si concentrano sull’analisi delle parti preliminari dei testi legislativi. Se i ‘francesi’ travalicano per via interpretativa i limiti imposti dalla legge di promulgazione del codice e dall’interpretazione non eterointegrativa dell’articolo 4 del loro Code; gli ‘austriaci’ leggono in chiave giuspositivista il § 7 del loro Gesetzbuch, mentre il codice sardo del 1837, chiaramente modellato sulle norme del codice francese, prescrive procedure ermeneutiche che presuppongono la necessità di eterointegrare il codice secondo la visione del legislatore austriaco. E, d’altronde, anche in Austria, e nell’Italia austriaca, si sviluppa una tecnica di commento al codice molto vicina a quella francese, e questo pur collocandosi ben lontano dall’influenza del legislatore napoleonico, che avrebbe imposto la scuola dell’esegesi, la quale – molto semplicemente – non è mai esistita.
Con la caduta dei regimi napoleonici il Code civil viene immediatamente messo in discussione, profondamente criticato anche a livello scientifico, e in molte zone abolito. Quanto all’Italia, tra il 1814 e il 1815 il codice francese del 1804 è abrogato nello Stato della Chiesa, nel Regno di Sardegna (ma rimane in vigore nei territori liguri, adesso Ducato di Genova), nel Ducato di Modena e nel Granducato di Toscana; viene provvisoriamente lasciato in vigore, dopo la cancellazione degli istituti maggiormente in contrasto con i presupposti ideologici della Restaurazione (divorzio, matrimonio civile, separazione personale, stato civile, comunione dei beni) nel Ducato di Parma e Piacenza, nel Ducato di Lucca, nel Regno delle due Sicilie. Nel Regno Lombardo-Veneto, ‘ripulito’ nel 1814, il 1° gennaio 1816 viene sostituito dall’ABGB.
Ciononostante il codice civile francese diventa un modello fondamentale per la codificazione italiana del 19° sec., pre e postunitaria, il punto di avvio di una fase in cui si passa «dal Codice ai Codici» (Cazzetta 2011, pp. 6 e segg.). Le trasformazioni del diritto civile operate nel ventennio successivo alla rivoluzione si confermano infatti irreversibili. Nel 1819 è promulgato il Codice per lo Regno delle due Sicilie, un codificazione nuova, molto ampia, che si articola in cinque parti corrispondenti in sostanza ai cinque codici napoleonici (civile, penale, di procedura civile, di procedura penale, di commercio). Nel 1820 viene promulgato il codice civile per il Ducato di Parma, Piacenza e Guastalla: utilizza il modello napoleonico, ma è influenzato per alcuni profili dal codice civile austriaco e comprende al suo interno anche la materia commerciale.
Con la Restaurazione il Regno di Sardegna si pone su di una linea accentuatamente conservatrice. Le fonti giuridiche di antico regime sono ristabilite integralmente; eppure le Regie costituzioni, ma anche gli statuti locali, la giurisprudenza dei senati e il diritto comune, sono assolutamente inadeguate alla realtà dell’Ottocento. Dopo i moti del 1820-21 la monarchia sabauda deve, suo malgrado, aprirsi a una politica di riforme anche in campo giuridico. È infine Carlo Alberto (al trono nel 1831) a varare un'effettiva politica di riforme e di codificazione (Aimerito 2007). Procede dunque alla nomina di una commissione che, presieduta dal guardasigilli Giuseppe Barbaroux, viene divisa in quattro ‘classi’, secondo la schema codificatorio francese: diritto civile, procedura civile, diritto commerciale, diritto e procedura penale.
Il Codice civile per gli stati di S. M. il Re di Sardegna (1837) è il risultato di una lunga elaborazione da parte di una commissione in cui spicca la personalità di Federico Sclopis; lo schema di derivazione romanistica, si articola in tre libri: Delle persone, Dei beni e delle diverse modificazioni della proprietà, Dei vari modi con cui si acquista la proprietà. Differentemente, invece, dal modello napoleonico vi è un importante Titolo preliminare, dedicato alle norme sull’interpretazione, come dunque è avvenuto nell’ABGB, ma trova spazio una serie di principi di ordine generale e ‘costituzionale’ e il codice infine si chiude con l’art. 2415 che, ricalcando l’art. 7 della legge di promulgazione del Code civil, dichiara la formale abrogazione di tutte le precedenti fonti giuridiche (statuti locali, sentenze motivate e inappellabili dei tribunali supremi, il diritto romano).
Nel suo complesso il codice albertino segna la fine della Restaurazione, riaprendo le prospettive di tipo liberale. È seguito – nel Regno di Sardegna – da una serie di ulteriori codificazioni: Codice penale (1839; legato al modello napoleonico del 1810, risente comunque degli apporti della cultura giuridica penalistica italiana per molti aspetti superiore a quella francese), Codice di commercio (1842; anche qui basato sul modello francese, promulgato nel 1807, ma riflettendo i progressi nel frattempo avvenuti in ambito economico e della stessa legislazione francese successiva al Code de commerce; sarà esteso, con ritocchi, a tutto il Regno d’Italia nel 1865, fino al nuovo Codice di commercio del 1882), Codice di procedura criminale (1847; il modello è il Code d’instruction criminelle napoleonico del 1808, e sarà appena rivisitato – con qualche aggiunta significativa – col Codice di procedura penale 1859 e poi con il Codice di procedura penale del Regno d’Italia nel 1865). Caso particolare è quello del Codice di procedura civile per gli stati di S. M. il Re di Sardegna (1854), per aver ricevuto un importante commento a opera di Pasquale Stanislao Mancini, Giuseppe Pisanelli e Antonio Scialoja (1817-1877): Commentario del Codice di procedura civile per gli stati sardi, 1855-1863.
Unità politica italiana, e unità delle legislazione codificata sono un tutt’uno. Eppure per alcuni decenni successivi all’unificazione resiste un’anomalia di grande significato. A tal riguardo è necessario guardare alla Toscana, terra che ha dato moltissimo sia alla cultura giuridica, sia alla codificazione moderna (basti pensare alla Riforma della legislazione penale toscana del 1786, la celeberrima Leopoldina).
Nel Granducato, dopo la Restaurazione, sono ripristinati diritto romano, diritto canonico e leggi granducali, fatto salvo il solo codice di commercio napoleonico. L’opera di riforma avviata da Leopoldo II arriva solo alla pubblicazione di un Codice penale nel 1853, profondamente innovativo sia rispetto a quello francese del 1810, sia rispetto agli altri codici penali italiani della Restaurazione e a quello austriaco del 1852. L’individuazione del reato si profila più elaborata, più mite è la repressione e alle pene viene attribuita una funzione di emenda. La pena di morte è ristretta ai reati più gravi ma non è mai applicata e sarà anzi abrogata nel 1859 dal governo provvisorio alla caduta del governo granducale.
Il modello non è dunque francese, ma piuttosto tedesco, e in particolare il Codice penale del Granducato del Baden (1845). I reati sono infatti divisi in due categorie (delitti e trasgressioni), e non in tre, come era nel modello francese; l’abbandono della tripartizione sarà confermato nel 'codice Zanardelli' (1889) e poi nel 'codice Rocco' (1930). Il codice penale del 1853 rimarrà in vigore, per i reati commessi in Toscana, fino al codice penale italiano del 1889, nonostante nel frattempo fosse stato promulgato il Codice penale per gli stati di S. M. il Re di Sardegna (1859), esteso via via a tutto il resto del territorio nazionale, dunque con una espressa rinuncia da parte dello stato unitario al principio dell’unificazione legislativa in campo penale. Tutto ciò fino al 1889, quando si avrà con il Codice penale del Regno d’Italia ('codice Zanardelli') un codice nazionale unico, che costituisce la piena realizzazione del liberalismo politico in campo penale (tra il resto sarà abolita la pena di morte, in linea proprio con la tradizione toscana), e rispetto al quale il Codice penale del 1930 rappresenterà un esplicito arretramento.
Quando per l’Italia giunge il momento dell’unificazione politica, si è ormai consolidata l’idea che il diritto è funzione del potere politico, è norma legislativa scritta, è nazionale e il codice è strumento per risolvere ogni forma di pluralismo normativo (Ghisalberti 1985, 200913; Cazzetta 2011). Un modello giuridico e politico-istituzionale che si radica nell’esperienza francese della fase napoleonica.
Non mancano, peraltro, riflessioni che hanno in qualche modo accompagnato, e in parte plasmato, quel modello, adattandolo al caso italiano. Romagnosi già nei primi anni della codificazione civilistica napoleonica, aveva denunciato i limiti scientifici di un approccio puramente esegetico. Sclopis, negli anni Trenta, aveva esaltato i vantaggi della legislazione codificata del Code Napoléon, evidenziandone il contributo moderato rispetto al diritto della Rivoluzione. Scarsa in questa fase l’adesione in Italia alle posizioni di Savigny, che viene attaccato dai fautori dei codici come Sclopis e Mancini, e anche da un cattolico come Antonio Rosmini (1797-1855). I lineamenti romanistici del codice civile sono esibiti come conferma del fatto che anche nel modello francese si è rispecchiata la tradizione latina e dunque italiana.
Il tema storico del particolarismo giuridico è rappresentato adesso dalle istanze di conservazione dei locali codici preunitari. Eppure proprio un attentissimo studioso della tradizione normativa locale come Sclopis rivendica la necessità dell'unificazione giuridica nazionale contro le chiusure municipalistiche. Sono queste resistenze locali, a convincere della necessità di unificare legislativamente ma senza ‘piemontesizzare’ (in teoria il metodo più semplice, in tempi di ‘unificazione a vapore’).
D’altra parte, al di là dell’inopportunità politica, vi sono motivi di merito. Lo stesso Sclopis sostiene la superiorità dei codici napoletani (e apprezzato è anche il codice civile parmense); del rilievo della legislazione penale toscana si è già detto. Ma anche con riferimento ai modelli civilistici capostipite, oltre a quello francese, continua ad avere credito quello austriaco, e semplicemente sostituirlo con il codice civile sardo-piemontese sembra assai inopportuno.
Inizialmente si pensa dunque a una revisione del codice albertino affidato a una commissione nominata, e poi integrata, dai ministri della giustizia Urbano Rattazzi (1808-1873), prima, e Giovanni Battista Cassinis (1806-1866), poi.
Il 'primo progetto Cassinis' (Progetto di revisione del codice albertino, 1860), si caratterizza – nonostante l’intitolazione riduttiva – per una inedita struttura in quattro libri e, se pure legato al modello sardo-napoleonico, non manca di innovazioni significative ricavate invece dall’ABGB. Il 'secondo progetto Cassinis' (1861) appare invece più vicino alla originaria fonte civilistica francese, ma nel complesso il testo del 1860 e quello successivo lasceranno ampia traccia nel codice italiano del 1865 (Solimano 2003). La revisione del codice sardo è una strada che deve essere esplicitamente abbandonata.
Nel 1862 il nuovo ministro della giustizia Vincenzo Miglietti (1809-1864) predispone un nuovo progetto di codice civile anch’esso molto aderente al testo francese. Il successivo ministro Raffaele Conforti (1804-1880) completa il coinvolgimento degli organi giudicanti e infine nel 1863 il ministro Pisanelli sottopone il progetto alle cinque commissioni di giuristi installate ad hoc a Torino, Milano, Firenze, Napoli e Palermo. Centrale rimane il diritto di proprietà, mentre Pisanelli solleva dubbi sull'opportunità di regolare in un codice civile persone e famiglia, materia da collocare nella normativa costituzionale, e allo stesso modo non contempla la possibilità di un titolo preliminare sull’efficacia e pubblicazione delle leggi. È la commissione senatoria a insistere piuttosto sull'opportunità di non rompere in modo traumatico con la tradizione: nel codice devono comparire le preleggi con disposizioni sulla irretroattività e sull’interpretazione, segno della centralità del codice civile nell’ordinamento, del suo valore ‘costituzionale’ oltre a una serie di recuperi del diritto di famiglia tradizionale, seppur parziali, e fatta salva la scelta del matrimonio civile (Ghisalberti 1985, 200913).
Trasferita la capitale a Firenze nel 1864, la necessità dell’unificazione legislativa si fa pressante. Il governo Lamarmora chiede al parlamento di poter pubblicare con decreto i progetti di codice in esame in parlamento. Le perplessità di ordine costituzionale non mancano, ma una generale adesione alla promulgazione di un codice che sancisca la definitiva unificazione politico-giuridica tende a prevalere. E così dopo l’approvazione di Camera e Senato, il 2 aprile 1865 è promulgata la legge sull'unificazione legislativa. Strumento normativo che sancisce la definitiva presa d’atto di come sia impossibile replicare nell’esperienza istituzionale italiana l’iter formativo del codice civile dispiegatosi in Francia tra il 1801 e il 1804. Una presa d’atto che giunge fino ai giorni nostri, quando – anche ipotizzando la possibilità di promulgare un nuovo codice (l’ultimo è stato nel 1988 quello di procedura penale, vani i tentativi ultimi e ripetuti per il codice penale sostanziale) – il terreno naturale per la sua elaborazione non è certo considerata l’aula parlamentare.
Lo schema del nuovo codice civile – in tre libri – è sempre quello del Code Napoléon e, dunque, delle Istituzioni di Gaio (I: le persone; II: i beni, la proprietà e le modificazioni di essa; III: i modi di acquisto e di trasmissione della proprietà e gli altri diritti reali sulle cose). Il cardine rimane dunque la proprietà, pur in un contesto, storico e sociale, diverso rispetto alla Francia di inizio secolo, e comunque il codice civile appare l’impalcatura giuridica della società liberale italiana.
Con il governo della Sinistra storica (dal 1876 e il guardasigilli è Mancini) l’opera di codificazione avviata dalla Destra viene estesa anche ai settori fino allora tralasciati, secondo profili di sostanziale continuità e rendendo dunque in parte impropria la definizione dei nuovi testi quali ‘codici della sinistra’. Oltre al Codice della marina mercantile (1877) e al Codice di commercio (1882, condizionato anche dal codice generale tedesco di commercio, l’Allgemeine deutsche Handelgesetzbuch del 1861), è soprattutto con il Codice penale del 1889 che si salda l’ultima frattura del sistema legislativo codificato italiano. Sull'elaborazione del codice di diritto penale sostanziale si erano confrontate le migliori personalità della scienza giuridica italiana (ed europea) del secondo Ottocento: oltre ai già più volte richiamati Pisanelli e Mancini, troviamo Francesco Carrara, Enrico Pessina (1828-1916), Enrico Ferri, Luigi Lucchini, e appunto Giuseppe Zanardelli (1826-1903), infine ministro proponente e protagonista di un fallito tentativo di reintrodurre il divorzio nella normativa civilistica. Un dibattito intenso proprio sui temi a maggiore valenza liberale (tentativo, recidiva, cumulo, emenda, pena capitale) ma anche su reati che differentemente modulati, delineavano un diverso modello di società, come quelli a mezzo stampa, lo sciopero, la serrata.
All’orizzonte – in Germania – si stava prefigurando l’altro modello codificatorio della storia giuridica europea otto-novecentesca, che, a partire dal 'progetto di Dresda' nel campo delle obbligazioni (1866), e aggirando le opzioni anticodicistiche di Savigny, dopo i lavori di due commissioni (in cui avrà un ruolo importante Bernard Windscheid, 1817-1892, figura centrale della pandettistica) e a seguito di due relativi progetti (1887 e 1896), si sarebbe concretizzato nel Bürgerliches Gesetzbuch (BGB, 1900). In cinque libri e 2385 paragrafi, si tratta in prevalenza di 'diritto romano attuale', quello della tradizione germanica e secondo la linea dottrinale che fa capo a Savigny e alle analisi della scuola storica. La sua influenza e la sua eco estera saranno notevoli.
Il codice civile è stato, nella sua definitiva forma moderna, un codice ‘nazionale’. L’intitolazione Code civil des Français confermava questa connotazione nazionale, indicando quale obiettivo principale l’unità giuridica della Francia.
La codificazione tra Sette e Ottocento è infatti il tentativo di proporre una soluzione normativa che consenta di superare il diritto comune, e a esso si oppone. Nella Prussia di Federico II il tentativo di Samuel Cocceius (1679-1755), Projekt des Corpus Juris fridericiani (1749-51) probabilmente viene fatto fallire perché non abbastanza tedesco. Ciò nonostante il lavoro di Cocceius era in piena sintonia con le più aggiornate riflessioni dell’Illuminismo giuridico (Ferrante 2006, 20112, pp. 276-80). Il suo fallimento fu il viatico per la compilazione del 1794, l’Allgemeines Landrecht für die Preussischen Staaten, per molti versi più arretrata rispetto al Projekt . In seguito, lungo l'Ottocento, il rifiuto tedesco dello strumento legislativo codice sarà correlato anche all’idea che il codice sia, alla fine, il più cospicuo legato del despota d’Europa.
L’Ottocento giuridico europeo è il secolo dei codici nazionali che, da una parte, sanciscono la fine di qualsiasi possibile illusione di un ‘comune diritto europeo’, dall’altra confermano invece la possibilità di una ‘cultura giuridica europea’, che nella diversità delle realtà nazionali, vive di osmosi reciproche tra i vari percorsi scientifici, le diverse scelte legislative, le variegate prassi giurisprudenziali (Ferrante 2006, 20112, pp. 269 e segg.). I codici italiani, e la loro cultura giuridica, si inseriscono appieno in questo contesto.
I codici, sono la risposta ‘nazionale’ a esigenze di semplificazione delle regole giuridiche. Empirismo e pragmatismo sono due caratteristiche della cultura dell’età dei codici già insite nei loro principi ispiratori; le esigenze sono quelle operative dei professionisti del diritto, ma anche quelle della didattica.
Se Giovanni Tarello nel 1976, riferendosi a questo modello di codice, parlava di «codice nel senso moderno del termine», questo modello oggi ha percorso la sua parabola (cfr. Codici. Una riflessione di fine millennio, 2002). La ‘modernità’ è propriamente altra (e assai incerta) cosa, ed è dunque casomai opportuno parlare di modello otto-novecentesco, figlio del liberalismo giuridico. Nella storia nazionale italiana ne sarà ultimo esito il codice civile del 1942, mentre già il codice penale del 1930, per esplicita dichiarazione di Alfredo Rocco, è la determinata negazione di un percorso di cultura giuridica avviatosi con quelli che lui chiama «gli enciclopedisti». Ma come è stato sottolineato a più voci, è con il nuovo millennio che il modello tecnico ‘codice’ pare abbia definitivamente esaurito la sua forza propulsiva; quanto meno il modello otto-novecentesco.
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