Il principio di sinteticità
Scopo intrinseco del contenuto di un atto processuale è di rappresentare in maniera chiara e comprensibile la domanda di parte al giudice. In tale prospettiva, la eventuale brevità o lunghezza dell’atto di per sé considerata non assume rilevanza alcuna ai fini della sua validità e l’eventuale mancanza di chiarezza è stata finora sanzionata in termini di nullità solo nell’ipotesi in cui la stesura del ricorso sia risultata tale da determinare «incertezza assoluta sulle persone o sull’oggetto della domanda». Anche le disposizioni sui limiti dimensionali, dettate in attuazione del principio di sinteticità, non introducono nuove ipotesi di nullità, che può essere dichiarata solo se ed in quanto il superamento dei limiti dimensionali ridondi sulla intellegibilità dell’atto.
La regola o principio della sinteticità degli atti è introdotta nell’ambito del processo amministrativo nel 2010, con le disposizioni recate dal d.lgs. 20.3.2010, n. 53 e dal d.lgs. 2.7.2010, n. 104. Il primo, nel dettare una disciplina speciale per il rito da seguire per le controversie in materia di appalti finalizzata a garantire una più celere definizione del giudizio rispetto al rito ordinario, ha previsto che in tali giudizi «tutti gli atti di parte devono essere sintetici e la sentenza che decide il ricorso è redatta ordinariamente in forma semplificata» (art. 2 undecies; la norma è attualmente trasfusa nell’art. 120 c.p.a.). Il secondo ne ha esteso l’ambito di applicazione oltre la materia dei contratti pubblici, generalizzandone l’applicazione a qualsiasi giudizio amministrativo, elevandola al rango di vero e proprio principio generale del processo amministrativo con la previsione di cui all’art. 3 c.p.a.: «art. 3. (Dovere di motivazione e sinteticità degli atti) 1. Ogni provvedimento decisorio del giudice è motivato. 2. Il giudice e le parti redigono gli atti in maniera chiara e sintetica».
Si tratta inizialmente di una normativa sfornita di sanzione. Nessuna conseguenza negativa, invalidante l’atto o sanzionatoria della condotta difforme, è ricondotta alla eventuale violazione del principio di sinteticità. Questa prima disciplina legislativa, a dire il vero, non indica nemmeno quali sarebbero i parametri per la qualificazione della “sinteticità”. Sanzioni e parametri arricchiscono la disciplina solo in un secondo momento.
Nel 2012, il cd. secondo correttivo al c.p.a. (d.lgs. 14.9.2012, n. 160) modifica la disciplina recata dall’art. 26 in tema di spese di giudizio prevedendo che il giudice possa a tal fine tener conto «del rispetto dei principi di chiarezza e sinteticità di cui all’articolo 3, comma». La norma è generale, vale quindi per qualsiasi rito, ed è evidente che, attraverso la leva della condanna alle spese di lite, introduce uno strumento in grado di sanzionare l’eventuale inosservanza del principio di sinteticità.
Nel 2014, il co. 6, art. 120, c.p.a. viene novellato (dall’art. 40, co. 1, lett. a, d.l. 24.6.2014, n. 90, conv. l. 11.8.2014, n. 114) introducendo la disposizione che viene poi ripresa e generalizzata per l’intero processo amministrativo dall’art. 7 bis della l. 25.10.2016, n. 197. L’art. 7 bis, introdotto dalla legge di conversione del d.l. 31.8.2016, n. 168, abroga il co. 6, art. 120, c.p.a. ed introduce nell’all. 2 c.p.a. l’art. 13 ter, il quale riproduce pressoché interamente il contenuto normativo del previgente co. 6-bis, art. 120, con una significativa modifica dell’ultimo capoverso dell’ultimo co. (originariamente così formulato: «Il giudice è tenuto a esaminare tutte le questioni trattate nelle pagine rientranti nei suddetti limiti; il mancato esame delle suddette questioni costituisce motivo di appello avverso la sentenza di primo grado e di revocazione della sentenza di appello»).
Nella formulazione vigente, l’art. 13 ter è scritto come segue : «13-ter. (Criteri per la sinteticità e la chiarezza degli atti di parte) 1. Al fine di consentire lo spedito svolgimento del giudizio in coerenza con i principi di sinteticità e chiarezza di cui all’articolo 3, comma 2, del codice, le parti redigono il ricorso e gli altri atti difensivi secondo i criteri e nei limiti dimensionali stabiliti con decreto del presidente del Consiglio di Stato, da adottare entro il 31 dicembre 2016, sentiti il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, il Consiglio nazionale forense e l’Avvocato generale dello Stato, nonché le associazioni di categoria degli avvocati amministrativisti. 2. Nella fissazione dei limiti dimensionali del ricorso e degli atti difensivi si tiene conto del valore effettivo della controversia, della sua natura tecnica e del valore dei diversi interessi sostanzialmente perseguiti dalle parti. Dai suddetti limiti sono escluse le intestazioni e le altre indicazioni formali dell’atto. 3. Con il decreto di cui al comma 1 sono stabiliti i casi per i quali, per specifiche ragioni, può essere consentito superare i relativi limiti. 4. Il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, anche mediante audizione degli organi e delle associazioni di cui al comma 1, effettua un monitoraggio annuale al fine di verificare l’impatto e lo stato di attuazione del decreto di cui al comma 1 e di formulare eventuali proposte di modifica. Il decreto è soggetto ad aggiornamento con cadenza almeno biennale, con il medesimo procedimento di cui al comma 1. 5. Il giudice è tenuto a esaminare tutte le questioni trattate nelle pagine rientranti nei suddetti limiti. L’omesso esame delle questioni contenute nelle pagine successive al limite massimo non è motivo di impugnazione».
In attuazione dell’art. 120 c.p.a. è stato originariamente emanato il decreto del Presidente del Consiglio di Stato (d.P.C.S.) 25.5.2015, n. 40 , poi sostituito dal d.P.C.S. 22.12.2016, n. 167 reso in attuazione dell’art. 13 ter, all. 2 al codice.
Il d.P.C.S. n. 167/2016 non si è però limitato a definire i criteri di redazione ed i limiti dimensionali, ma ha altresì previsto che questi ultimi possano essere derogati previa autorizzazione del Presidente dell’organo giurisdizionale adito (Consiglio di Stato o Tribunale amministrativo regionale). L’autorizzazione al superamento dei limiti dimensionali va presentata con apposita istanza motivata da formulare «In calce allo schema di ricorso […] sulla quale il Presidente o magistrato delegato si pronuncia con decreto entro i tre giorni successivi» (art. 6). È stato inoltre previsto che «In caso di superamento dei limiti dimensionali non autorizzato preventivamente ai sensi dell’articolo 6, per gravi e giustificati motivi il giudice, su istanza della parte interessata, può successivamente autorizzare, in tutto o in parte, l’avvenuto superamento dei limiti dimensionali» (art. 7).
La ricostruzione delle fonti, come s’è visto, è abbastanza complicata1, ed è pertanto importante individuare quelli che sono i punti fermi che consente di fissare.
Il primo è che il principio di sinteticità è enunciato da norme di legge ordinaria e che rappresenta sicuramente un principio generale del processo amministrativo.
Il secondo è che il principio, per quanto possa essere visto come un corollario del principio costituzionalmente sancito del giusto processo (sub specie della ragionevole durata), non ha di per sé fondamento costituzionale, differentemente da quello che impone la motivazione delle decisioni giurisdizionali.
Il terzo è che nessuna disposizione recata dalla normazione primaria prevede esplicitamente che la violazione del principio possa di per sé comportare l’inammissibilità (in parte qua) della domanda. Le conseguenze dell’eventuale violazione del principio sono indicate dall’art. 26 c.p.a. (in termini di possibile rilevanza ai fini della condanna alle spese) e dal co. 5, art. 13 ter, all. 2 c.p.a. (nel senso che il mancato esame della parte dell’atto eccedente i limiti dimensionali prescritti o autorizzati non invalida per tale motivo la pronuncia del giudice).
Il quarto è che è prevista la possibilità che la produzione in giudizio di un atto redatto dalla parte in violazione del principio, in violazione cioè dei limiti dimensionali, venga autorizzata dal Presidente dell’organo giurisdizionale adito, prima della presentazione dell’atto, ovvero, anche successivamente, dal “giudice”.
Può ritenersi certo che si sia in presenza di un principio di diritto processuale generale e che la sua violazione assuma sicuramente rilevanza ai fini della condanna alle spese di lite. Problematici rimangono invece il chiarimento sia dell’effettiva consistenza del principio, sia delle conseguenze della violazione del principio sul piano delle nullità processuali.
Nella soluzione dei profili problematici, la giurisprudenza amministrativa sembrerebbe essersi orientata nel senso di ritenere che la violazione non autorizzata dei limiti dimensionali, stabiliti con d.P.C.S. giusta la previsione recata dall’art. 13 ter, all. 2 c.p.a., comporterebbe l’irricevibilità o inammissibilità, in parte qua, dell’atto (cfr.: Cons. St., IV, 7.11.2016, n. 4636.; Cons. St., V, 12.6.2017, n. 2852; Cons. St., IV, 28.6.2016, n. 2866). Sembrerebbe cioè incline a ritenere che il principio sia declinabile in termini di mera brevità dell’atto e che la regola della brevità rappresenterebbe un requisito di forma dell’atto tale che la sua violazione ne comporterebbe l’irricevibilità o inammissibilità (almeno in parte qua). La conclusione circa la nullità dell’atto processuale sovradimensionato appare tuttavia tratta troppo frettolosamente dalla mera esistenza di una disposizione prescrittiva di un determinato adempimento formale, dimenticando che l’inosservanza delle forme previste per il compimento di un atto processuale non ne determina la nullità se questa non è espressamente prevista dalla legge o se l’atto è comunque in grado di raggiungere lo scopo cui è destinato, secondo i principi generali espressi dall’art. 156 c.p.c.
La prima e fondamentale ragione per cui non può ritenersi che il superamento dei limiti dimensionali renda in parte qua irricevibile l’atto è che non v’è nessuna norma di legge che commini espressamente una tale nullità. È assolutamente pacifico che il principio fondamentale in tema di nullità processuali è quello della cd. tassatività delle nullità, e che, secondo tale principio, la nullità non può essere pronunciata se non è espressamente comminata dalla legge. Il principio è codificato dall’art. 156 c.p.c. ed è pacificamente applicabile al processo amministrativo2, non fosse altro per il rinvio operato dall’art. 39, co. 1, c.p.a. La forma – contenuto dell’atto introduttivo del giudizio nel processo amministrativo è disciplinata dagli artt. 40 e 44 c.p.a., che prevedono che nullità si abbia nei soli casi di mancata sottoscrizione, di mancata indicazione specifica dei motivi di ricorso e d’inosservanza delle altre norme prescritte nell’art. 40 se vi è incertezza assoluta sulle persone o sull’oggetto della domanda. È vero dunque che l’art. 13 ter, all. 2 c.p.a. introduce il limite dimensionale come requisito formale dell’atto processuale di parte, ma è altrettanto vero che non è stata espressamente prevista e comminata la nullità dell’atto che risulti privo del suddetto requisito. Ciò non significa che la violazione della regola dimensionale sia priva di conseguenze giuridiche, ma solo che le conseguenze non sono apprezzabili in termini di nullità dell’atto processuale.
Come si è visto, la violazione dei limiti dimensionali assume rilevanza ai fini della condanna alle spese di giudizio. Una ulteriore significativa conseguenza è specificata al co. 5 del medesimo art. 13 ter nei seguenti termini: «il giudice è tenuto a esaminare tutte le questioni trattate nelle pagine rientranti nei suddetti limiti. L’omesso esame delle questioni contenute nelle pagine successive al limite massimo non è motivo d’impugnazione». Si deve escludere che tale disposizione sia tale da poter integrare l’elencazione delle ipotesi di nullità di cui agli artt. 40 e 44 c.p.a. È evidente che la norma qualifica infatti una condotta del giudice, circoscrivendone la doverosità, e non un atto processuale. Ed è parimenti di tutta evidenza che l’effetto giuridico creato dalla disposizione recata dal primo capoverso è di far venire meno l’obbligo del giudice di pronunciare su tutta la domanda se essa ha superato i limiti dimensionali, come conferma il capoverso successivo statuendo che il mancato esame dell’intera domanda di parte non determina l’invalidità della pronuncia. Il fatto che risultano superati i limiti dimensionali giustifica il mancato esame dell’intero atto perché lascia presumere che l’intellegibilità della domanda sia pregiudicata. Si tratta di una presunzione che può però operare solo finché l’omesso esame rimane un mero fatto giuridico, e non si traduca anche in un vero e proprio rifiuto o diniego di esaminare l’atto, come potrebbe ad esempio avvenire nel caso in cui venisse negata l’autorizzazione al superamento dei limiti dimensionali.
La norma non vieta dunque alla parte, sotto pena di nullità, di superare i limiti dimensionali. A ben guardare, però, non pone al giudice nemmeno il divieto di esaminare le questioni poste oltre i limiti dimensionali, divieto dal quale la giurisprudenza tenderebbe a desumere a contrario l’inammissibilità in parte qua dell’atto. Circoscrivere l’obbligo del giudice di pronunciare sulla domanda entro i limiti dimensionali prescritti per l’atto non equivale a vietare di conoscere dell’intero atto. Sarebbe davvero singolare se proprio la normativa in tema di chiarezza e sinteticità venisse interpretata in modo completamente opposto al significato fatto proprio dalle parole usate, facendole dire quanto la norma non dice; è cioè che il giudice non deve esaminare le questioni trattate oltre i limiti dimensionali. Se la voluntas legis fosse stata effettivamente questa, la norma andava scritta esattamente al contrario; vietando cioè la condotta ritenuta inammissibile (conoscere oltre i limiti dimensionali), e non già rimuovendo un obbligo esistente (pronunciare su tutta la domanda). E se la voluntas fosse stata quella di creare una nuova ipotesi di nullità, ciò avrebbe dovuto in ogni caso comportare l’espressa comminatoria della nullità medesima. Per come la si voglia interpretare, la norma non contiene una espressa comminatoria di nullità.
Qualora il giudice ritenesse di non avvalersi del potere concesso dall’art. 3, co. 5 e di pronunciare ugualmente su tutta la domanda, il problema che si pone è, ovviamente, quello di assicurare in ogni caso il pieno rispetto del contraddittorio processuale; il che può avvenire assegnando i termini a difesa nel caso in cui la controparte non avesse già controdedotto sulla parte eccedente i limiti dimensionali. Cosa che dovrebbe parimenti avvenire nel caso di concessione “tardiva” dell’autorizzazione da parte del Collegio.
L’effetto voluto e prodotto dalla norma è dunque quello di circoscrivere l’obbligo del giudice di pronunciare sulla domanda entro i limiti dimensionali prescritti per l’atto. Non è un effetto di poco conto ed è sicuramente ragionevole dubitare della costituzionalità della norma3. È tuttavia possibile accedere ad una interpretazione costituzionalmente orientata della norma se si circoscrive il suo ambito di applicazione alle sole ipotesi in cui, come si è già detto, si sia in presenza del mero fatto della presentazione di un ricorso sovradimensionato, escludendola laddove la questione dell’intellegibilità dell’atto sotto il profilo dei limiti dimensionali sia diventata controversa in giudizio per effetto del diniego dell’autorizzazione. Fermo restando che la violazione del principio di sinteticità (e in particolare della regola sui limiti dimensionali in cui esso si esprime) non è mai tale da poter comportare di per sé sola la nullità dell’atto, è certo che, de jure condito, la nuova norma testimonia comunque una significativa inversione di tendenza nella considerazione della nullità dell’atto processuale sotto il profilo della genericità ed indeterminatezza. Non introduce una nuova ipotesi di nullità, ma assume rilevanza indiretta a tal fine. In assenza della norma che impone i limiti dimensionali, il giudice potrebbe infatti ritenere non intellegibile l’atto solo dopo averlo esaminato nel suo complesso, superando la sua formulazione letterale e considerando il contenuto sostanziale della pretesa, ed aver raggiunto così il convincimento che la stesura dell’atto è tale da ingenerare incertezza assoluta sull’oggetto, e cioè un’incertezza assolutamente non superabile4. La nuova norma ridimensiona ed attenua quest’onere, consentendo al giudice di giungere alla conclusione “semplificata” che l’atto non sia intellegibile (in parte qua) per il fatto che supera i limiti dimensionali; ed escludendo che anche sotto il profilo soggettivo possa mai configurarsi una negligenza del decidente. Ciò tuttavia non esclude la possibilità che, se il superamento dei limiti dimensionali non è rimasto un mero fatto giuridico ma è diventato una questione controversa in giudizio in punto d’intellegibilità dell’atto, la decisione sia sindacabile a mezzo dei rimedi impugnatori esperibili avverso la sentenza, che potrà ritenersi viziata sotto questo profilo in quanto non coperta dall’ipotesi normativa dell’art. 3 ter, co. 5; allo stesso modo in cui rimane sindacabile la decisione che ritenga nullo l’atto rientrante nei limiti dimensionali ma viziato per l’incertezza assoluta ingenerata sull’oggetto della domanda.
Precisare che in ogni caso la nullità è data solo se la domanda non è intellegibile, e non dalla sua brevità, ha dunque il duplice effetto di consentire che la decisione possa essere impugnata se il superamento dei limiti dimensionali non sia rimasto un mero fatto giuridico, ma sia diventato una questione controversa in punto d’intellegibilità dell’atto; e di consentire che il superamento dei limiti dimensionali possa esser sanato dal raggiungimento dello scopo dell’atto. Sotto questo profilo, si rende necessario chiarire che esso si riassume nella intellegibilità, e non nella brevità in quanto tale.
L’analisi delle conseguenze della violazione dei limiti dimensionali non può prescindere da una riflessione sullo scopo dell’atto. Chiarire che non v’è nullità comminata da norma primaria potrebbe infatti non essere sufficiente per escludere che l’atto sovradimensionato possa essere dichiarato inammissibile o irricevibile, in quanto è noto che la nullità può essere pronunciata, anche in assenza di un’espressa comminatoria di nullità, se l’atto difetti dei requisiti indispensabili per il raggiungimento dello scopo. È noto che le forme degli atti processuali sono prescritte non per creare rituali complicati fini a se stessi o quasi, ma perché hanno una specifica ragion d’essere; perché il legislatore ritiene cioè che quella forma sia la più idonea al conseguimento dello scopo obiettivamente perseguito dall’atto (principio della congruità delle forme allo scopo o della strumentalità delle forme).
Sotto questo profilo, si tratta dunque di chiarire se la brevità rappresenti un requisito formale indispensabile dell’atto e il chiarimento richiede di precisare l’effettiva consistenza del principio di sinteticità. In particolare, il rapporto esistente tra tale principio e la regola della brevità.
Innanzitutto, occorre chiarire se la riflessione sullo scopo deve essere condotta con riferimento alla regola della brevità o al principio di sinteticità. Brevità e sinteticità non sono necessariamente sinonimi. I linguisti definiscono la sintesi come l’operazione intellettuale in base alla quale si selezionano gli elementi essenziali di un argomento o di una narrazione e che opera con riferimento agli argomenti usati, non alle parole o al loro numero5. Se i due termini non sono sinonimi, la prima cosa sulla quale bisogna intendersi è allora se nel ragionamento s’intende fare riferimento allo scopo immediato della regola o a quello finalistico del principio. La differenza è evidente: scopo immediato della regola sui limiti dimensionali è assicurare la brevità come valore assoluto dell’atto processuale, considerato nel suo aspetto materiale di caratteri, pagine e battute; scopo del principio di sinteticità è assicurare la (migliore) intellegibilità dell’atto.
Se si evita di contrabbandare la regola della brevità come una declinazione necessaria del principio di sinteticità, la domanda corretta da porre è se requisito formale indispensabile dell’atto processuale rimanga la sua intellegibilità, ovvero se diventi la sua brevità. Se i limiti dimensionali sono espressione del principio di sinteticità e se il principio è finalizzato ad assicurare la chiara intellegibilità dell’atto, è evidente che essi non possono rappresentare un requisito formale indispensabile per il raggiungimento dello scopo dell’atto processuale, perché il loro superamento non rende necessariamente l’atto confuso ed inidoneo a rappresentare al giudice in maniera chiara ed intellegibile la domanda proposta.
Il superamento dei limiti dimensionali è certamente visto dal legislatore come un fatto sintomatico di una possibile non intellegibilità del contenuto dell’atto processuale, ma la conseguenza che è giusto derivarne non incide sul regime della validità dell’atto processuale. Rimane infatti fermo che l’irricevibilità o l’inammissibilità in parte qua dell’atto non può essere dichiarata in ragione del mero superamento dei limiti dimensionali, e che ciò è possibile solo se ed in quanto si sia in presenza di una domanda formulata in maniera confusa ed oscura, tale da non consentirne la comprensione degli elementi essenziali. Se avviene ciò, se la domanda si rivela cioè confusa ed oscura e perciò non intellegibile, va dichiarata inammissibile a prescindere dalle dimensioni dell’atto. In buona sostanza, sotto il profilo dell’intellegibilità dell’atto, ciò significa che l’inammissibilità è e rimane disciplinata dal combinato delle previsioni recate dagli artt. 40 e 44 c.p.a.
È comunque indubbio che il superamento dei limiti dimensionali sia considerato dal legislatore sintomatico di una possibile non intellegibilità del contenuto dell’atto processuale, ma la conseguenza che ne deriva è l’attenuazione dell’onere del giudice d’indagare complessivamente la domanda prima di poter arrivare alla conclusione circa il fatto che la stessa ingenera incertezza sul petitum o sulla causa petendi, nei casi appunto in cui l’atto si presenti non rispettoso delle regole dettate per la buona redazione. L’onere viene attenuato perché si presume che un atto sovradimensionato possa essere appunto sintomo di una esposizione confusa e non chiara, tale da compromettere l’intellegibilità della domanda. Al giudice non viene però anche vietato di conoscere della parte eccedente i limiti dimensionali e di porre la stessa a fondamento della propria decisione ove dovesse ritenerla necessaria e intellegibile.
In sostanza, il giudice può non conoscere, ma può anche conoscere dell’atto per la parte eccedente i limiti dimensionali. Nella prima ipotesi, la previsione normativa dell’art. 3, co. 5 è destinata ad operare se non viene chiesta, esplicitamente o implicitamente, l’autorizzazione al superamento dei limiti dimensionali, qualificandosi il mancato esame come un mero fatto giuridico; cessa però di operare se attraverso la richiesta di autorizzazione la questione dell’intellegibilità dell’atto diventa controversa e viene pertanto risolta da una decisione del giudice che, ove ritenuta ingiusta, potrà essere pertanto contestata con i rimedi impugnatori ordinariamente esperibili. Nella seconda ipotesi, in cui il giudice ritenga di poter e dover conoscere dell’atto nella sua interezza, il problema rimane invece unicamente quello di assicurare il pieno rispetto del contraddittorio nei confronti delle altre parti che potrebbero aver evitato di replicare o di formulare eccezioni con riferimento alle questioni poste fuori dai limiti dimensionali.
Ciò impedisce che l’atto possa essere considerato in parte qua irricevibile, poiché se fosse tale ciò vizierebbe la pronuncia del giudice che avesse deciso o conosciuto questioni poste dalla parte oltre i limiti dimensionali. Nel momento in cui l’omesso esame non rimanga più un mero fatto giuridico, ma sia conseguenza di un vero e proprio giudizio circa la non intellegibilità dell’atto, non v’è però motivo per escludere che la sentenza possa essere per tale ragione impugnata, non operando più la previsione recata dall’art. 3, co. 5 che rimane appunto limitata al fatto giuridico dell’omesso esame e non è più applicabile se si è in qualche modo consumato un giudizio negativo sulla intellegibilità dell’atto.
È di tutta evidenza che si è in presenza di una disciplina volta ad assicurare con misure quanto più possibile concrete e immediate l’efficienza del servizio giustizia in quanto “risorsa scarsa” e che ha finito però con il prestare poca attenzione all’architettura complessiva processuale ed ai suoi principi generali. Oggi come oggi è innegabile che sussista il problema di dover amministrare una mole di contenzioso quantitativamente elevata e qualitativamente complessa con risorse essenzialmente scarse, ma bisognerebbe tuttavia evitare di cadere nella tentazione di creare meccanismi deflattivi ispirati da una logica di puro formalismo che rischiano di pregiudicare il diritto al giusto processo6.
L’esperienza già maturata nel processo civile insegna che la creazione pretoria di ipotesi di nullità asistematiche e non previste dalla legge e che confidano unicamente nella capacità degli avvocati di produrre atti perfetti (il riferimento è alle note vicende del principio di autosufficienza7) sia stata una delle principali cause che ha originato l’elefantiasi dei ricorsi in Cassazione e che ha finito con il pregiudicare e non agevolare l’intellegibilità dei ricorsi, aprendo con ciò il problema di assicurare il rispetto del principio di sinteticità. In tale ambito il problema è stato però risolto evitando di cadere nell’eccesso opposto di dichiarare per legge inammissibili i ricorsi non brevi, e ritagliando un appropriato spazio d’intervento di soft law per dettare le regole da rispettare per la formazione dell’atto “perfetto” (d’intesa tra la Corte di Cassazione e il Consiglio Nazionale Forense è stato stipulato il Protocollo sulle regole redazionali dei motivi di ricorso). Parimenti in termini di soft law risulta disciplinata l’applicazione concreta del principio di sinteticità nei processi dinanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo ed alla Corte di giustizia europea (in ambedue i giudizi la disciplina dei limiti dimensionali si atteggia in termini di consigli e raccomandazioni e non è mai vincolante a pena d’inammissibilità); ambiti nei quali, peraltro, la causa arriva naturalmente semplificata per il fatto di essere circoscritta ad una determinata questione di puro diritto e nei quali il principio s’impone in virtù dell’esigenza di uniformare sistemi diversi e di traduzione degli atti in più lingue.
Redigere atti processuali perfetti, nei quali non vi sia nulla da aggiungere e nulla da togliere e che non abbiano una parola in più, né una in meno di quanto necessario per convincere e persuadere il giudice della bontà della tesi sostenuta, deve ritenersi frutto di una dote o una inclinazione naturale di singoli individui, e il tentativo di imporre autoritativamente una tale virtù anche a chi ne sia privo è una scelta velleitaria prima ancora che irragionevole. Senza voler considerare che l’applicazione del principio di sinteticità appare infine sicuramente sperequata se, affermato in via generale il principio come proprio tanto degli atti di parte quanto del giudice, si traduce poi in una pretesa a che solo gli avvocati facciano degli atti “perfetti”8.
1 Per la ricostruzione dettagliata e più ampi riferimenti v. Francario, F., Principio di sinteticità e processo amministrativo. Il superamento dei limiti dimensionali dell’atto di parte, in Dir. proc. amm., 2017, 3.
2 Per tutti, v. Scoca, F.G., Gli atti processuali, in Scoca, F.G., a cura di, Giustizia amministrativa, Torino, 2011, 267.
3 La dottrina ha già espresso seri dubbi sulla possibilità di ritenere costituzionalmente legittima, con riferimento agli artt. 21 e 24 Cost., la norma che imponga al difensore la connotazione e le peculiarità della sua difesa. In tal senso v. ad es. Sandulli, M.A., Le nuove misure di deflazione del contenzioso amministrativo: prevenzione dell’abuso del processo o diniego di giustizia?, in federalismi.it, 2012, pubblicato anche in Osservatorio della giurisprudenza sulla giustizia amministrativa del Foro amm.-TAR, 2012, n. 9 (a cura di M.A. Sandulli e M. Lipari); Finocchiaro, G., Il principio di sinteticità nel processo civile, in Riv. dir. proc., 2013, 853; Cordopatri, F., La violazione del dovere di sinteticità degli atti e l’abuso del processo, in federalismi.it, 2014, 20 ss.; Sanino, M., La sinteticità degli atti nel processo amministrativo: è davvero una novità?, in Foro it., 2015, III, 385; Nunziata. M., La sinteticità degli atti processuali di parte nel processo amministrativo: fra valore retorico e regola processuale, in Dir. proc. amm., 2015, 1337; Volpe, F., Sui limiti dell’estensione degli atti di difesa nel processo amministrativo, in lexitalia.it, 2015; Barbieri, E.M., L’abuso del copia ed incolla nel ricorso giurisdizionale amministrativo, in Riv.dir.proc., 6/2016, 2016, 1582; Pagni, I., Chiarezza e sinteticità negli atti giudiziali: il protocollo d’intesa tra Cassazione e CNF, in Giur.it., 2016, 2783. Sembrerebbe escludere la sussistenza di profili d’incostituzionalità della norma Cirillo, G.P., Dovere di motivazione e sinteticità degli atti, in Il nuovo diritto processuale amministrativo, in Trattato di diritto amministrativo diretto da G. Santaniello, vol. XXXXII, 43.
4 Così v. Villata, R.Bertonazzi, L., Vizi del ricorso e della notificazione, in Quaranta, A.Lopilato, V., a cura di, Il processo amministrativo), Milano, 2011, 441. In giurisprudenza ex multis v. Cass., III, 1.6.2001, n. 7448; Cass., III, 21.11.2008, n. 27670; Cass., III, 28.8.2009, n. 18783; Cass., I, 27.10.2000, n. 14142; Cass., II, 27.1.2012, n. 1236; Cass., S.U., 22.5.2012, n. 8077.
5 Cfr. Cortelazzo, M.A., Brevità, sintesi e concisione nel processo amministrativo, in Bambi, F., a cura di, Lingua e processo. Le parole del diritto di fronte al giudice (Atti del Convegno, Firenze, 4 aprile 2014), Firenze, 2016, 152 ss. La distinzione è ben presente nella dottrina giuridica: Pagni, I., Chiarezza e sinteticità negli atti giudiziali, cit.; Giusti, A., Principio di sinteticità e abuso del processo amministrativo, in Giur. It., 2014, 148; Sanino, M., La sinteticità degli atti, cit., 386; Saitta, F., Rito appalti e dovere di sinteticità, in lexitalia.it, 2015, 5; Ferrari, Ge., Sinteticità degli atti nel giudizio amministrativo, in Libro dell’anno del Diritto 2013, Roma, 2013, 708; Tropea, G., L’abuso del processo amministrativo. Studio critico, Napoli, 2015, 535; Sandulli, M.A., Le nuove misure di deflazione del contenzioso amministrativo, cit.; Pietrosanti, A.G., Sulla violazione dei principi di sinteticità previsti dall’art. 3, co. 2, c.p.a., in Foro Amm. TAR, 2013, 3611.
6 Cfr. Luciani, M., Garanzie ed efficienza nella tutela giurisdizionale, in AIC, 4/2014, 43 ss.; Sandulli, A.M., Il tempo del processo come bene della vita, in federalismi.it, 2014, 35; Pagni, I., La giurisdizione tra effettività ed efficienza, in Dir. proc. amm., 2016, 401 ss.
7 Cfr. Giusti, A., L’autosufficienza del ricorso, in Acierno, M.Curzio, P.Giusti, A., a cura di, La Cassazione civile. Lezioni dei magistrati della Corte Suprema italiana , Bari, 2015, 242 ss; Santangeli, F., Il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, in Riv. dir. proc., 2012, 607 ss.
8 La circolare adottata il 22 dicembre 2016 dal Presidente del Consiglio di Stato ed indirizzata a tutti i magistrati amministrativi si limita a raccomandare di non superare nella stesura dei provvedimenti le venti pagine e, nei casi di particolare complessità, le quaranta pagine.