Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Considerato un fenomeno provinciale di breve vita ed equivocato come la filosofia dell’uomo d’affari dai suoi critici più frettolosi, il pragmatismo si configura nel Novecento come una longeva tradizione di pensiero che ha contribuito in maniera decisiva al rinnovamento della filosofia anglo-americana. La rinascita degli ultimi vent’anni del secolo ne sottolinea l’ambivalenza tra spirito ricostruttivo e istanze decostruttive.
Una parola, molte dottrine
William James
Il pragmatismo come atteggiamento
Contro il razionalismo in quanto programma e metodo il pragmatismo è particolarmente ben armato e combattivo. Ma, almeno all’inizio, non propende per alcun esito particolare. Non ha dogmi, né dottrine, a eccezione del suo metodo. Come ha ben detto Papini, un giovane pragmatista italiano, esso passa in mezzo alle teorie filosofiche come un corridoio d’albergo. Moltissime camere si aprono su di esso. In una ci può essere un uomo che scrive un’opera atea; in quella dopo un altro inginocchiato che prega con fervore; nella terza un chimico che indaga le proprietà dei corpi; nellaquarta si sta meditando un sistema di metafisica idealista; mentre nella quinta si dimostra l’impossibilità della metafisica. Ma tutti hanno in comune il corridoio e devono percorrerlo se vogliono entrare o uscire dalle rispettive stanze. Il significato di metodo pragmatico, dunque, finora, non si identifica con nessun esito particolare ma è un atteggiamento orientativo. L’atteggiamento che consiste nel distogliere l’attenzione dalle cose prime, i principi, le “categorie”, le presunte necessità e rivolgerla ai risultati, i frutti, le conseguenze, i fatti.
W. James, Il pragmatismo, Milano, Il saggiatore, 1994
John Dewey
Esperienza e azione
Noi cominciamo appena ora a intendere che è completamente annullata la psicologia che dominava la speculazione filosofica dei secoli XVIII e XIX. Essa affermava che la vita mentale ha origine nelle sensazioni che sono ricevute separatamente e passivamente e si riuniscono, per mezzo delle leggi della memoria e dell’associazione, in un mosaico di immagini, di percezioni e di concezioni. I sensi erano considerati come ingressi o vie della conoscenza. [...] Lo sviluppo della biologia ha avuto per effetto di capovolgere questo quadro. Dovunque c’è vita, c’è comportamento, attività. Di qui seguono alcune conseguenze importanti per la filosofia. In primo luogo, l’interazione dell’organismo e dell’ambiente, che si traduce in qualche adattamento che rende possibile l’utilizzazione dell’ambiente stesso, è il fatto primario, la categoria fondamentale. La conoscenza è relegata in una posizione derivata, secondaria in origine, anche se la sua importanza, una volta che si è stabilita, è soverchiante. La conoscenza non è qualcosa di separato e di sufficiente a sé stesso, ma è coinvolta nel processo da cui la vita è mantenuta e sviluppata. I sensi perdono il loro significato di ingressi della conoscenza, per assumer quello di stimoli all’azione.
J. Dewey, Ricostruzione filosofica, Bari, Laterza, 1931
Richard Rorty
Dall’oggettività alla solidarietà
I pragmatisti vorrebbero abbandonare l’idea che gli esseri umani sono responsabili verso un potere non umano. Noi speriamo in una cultura in cui le domande sull’“oggettività dei valori” o la “razionalità della scienza” appaiano egualmente incomprensibili. Al desiderio di oggettività – al desiderio di essere in contatto con una realtà superiore alla comunità con la quale ci identifichiamo – i pragmatisti vorrebbero sostituire il desiderio di solidarietà con quella comunità. […]
I pragmatisti pensano che, in ciascun campo della cultura, la meta della ricerca sia il risultato di un’appropriata combinazione di accordo non costrittivo e tollerante disaccordo. (dove ciò che non è appropriato in quel campo viene determinato per tentativi ed errori). Una simile reinterpretazione del nostro senso di responsabilità, se attuata, renderebbe gradualmente incomprensibili il modello di indagine incentrato sulla distinzione soggettooggetto, il modello figlio-padre dell’obbligazione morale e la teoria della verità come corrispondenza. Un mondo in cui questi modelli e questa teoria non ammaliassero più l’intuizione sarebbe un paradiso pragmatista.
R. Rorty, Scritti filosofici, Roma-Bari, Laterza, 1994
“In questo anno di grazia 1908 il termine ‘pragmatismo’ – se non la dottrina – celebra il suo decimo compleanno. Prima che la controversia sul tipo di filosofia da esso designato entri nella seconda decade forse non è troppo chiedere ai filosofi contemporanei di attribuire al termine un significato unico e stabile”. Così Arthur O. Lovejoy, il grande storico delle idee, nelle prime righe di un articolo maliziosamente intitolato I tredici pragmatismi, a significare che tante sono le diverse e talvolta inconciliabili dottrine che vengono presentate con questo nome. Un’esagerazione polemica, la sua, alla quale non è estranea una buona dose di pedanteria critica; certo è, però, che il problema del pragmatismo non è mai stato la povertà di definizioni ma il suo contrario, l’abbondanza. Gli stessi pragmatisti, del resto, non sono d’accordo sul contenuto preciso della posizione che intendono riassumere in tale parola. Per limitarsi ai tre “padri fondatori”, Charles Sanders Peirce, che conia il termine e pone le basi di questa filosofia negli anni Settanta dell’Ottocento, prende le distanze dall’uso che ne fa William James, il quale tuttavia contribuisce come nessun altro a promuoverla e renderla popolare tanto negli Stati Uniti quanto in Europa, ovviamente nella sua versione; mentre John Dewey è convinto, con il suo “strumentalismo”, di riavvicinarsi a Peirce, ma è proprio quest’ultimo a dire che esso “sbarra la strada a tutte le ricerche del genere di quelle che mi hanno assorbito negli ultimi 18 anni”. Diverse sono anche le ascendenze filosofiche: Peirce si considera un discepolo di Kant; James non ha mai mostrato grande simpatia per Kant e in verità nemmeno per Hegel; Dewey è un seguace di Hegel, almeno inizialmente, ma resta un avversario di Kant.
Né si può dire che nei cento anni successivi il termine sia andato precisandosi, anzi: più ancora che nel passato, esso designa oggi un tale ventaglio di posizioni teoriche differenti che senza ulteriori specificazioni rischia di essere poco informativo. Si pensi alla cosiddetta rinascita pragmatista degli ultimi vent’anni del Novecento e al caso di filosofi come Rorty o Hilary Putnam o Richard J. Berstein o Robert Brandom o Cheryl Misak: da un lato, rivendicano tutti un orientamento pragmatista per il loro lavoro (emblematica, al riguardo, la formula “noi pragmatisti…” ricorrente negli scritti di Rorty), dall’altro sviluppano posizioni assai lontane tra loro se non addirittura antitetiche. Oppure si consideri la crescente frequenza con cui si parla di un “pragmatismo” di Wittgenstein o di Heidegger, due pensatori che più distanti dal clima culturale e dalla storia di questo movimento sarebbe difficile immaginare.
Una tradizione elastica
Il termine “pragmatismo” non è tuttavia una pura etichetta priva di contenuto, se non altro perché, a dispetto della mancanza di un significato univoco e della diversità delle teorie a cui viene applicato, indica in ogni caso una riconoscibile tradizione di pensiero, nella quale oltretutto sono in molti a vedere il contributo più originale degli Stati Uniti alla filosofia occidentale. Una tradizione che ha origine negli scritti di Peirce, James e Dewey, ma non si è esaurita con questi tre classici né con i loro scolari – in progressiva ritirata a mano a mano che, nel secondo dopoguerra, l’empirismo logico e la filosofia analitica avanzano nelle università –, anzi, è penetrata in profondità nel pensiero anglo-americano del Novecento, tanto da spingere qualche studioso a dire che i risultati più importanti della filosofia del XX secolo vanno visti come “variazioni su temi pragmatisti”.
Molto, come sempre, dipende da dove sono tracciati i confini, e quelli della tradizione pragmatista sono elastici: c’è il pragmatismo stretto, che comprende i tre padri fondatori e, al limite, i loro compagni di strada europei (tra i quali vanno ricordati gli italiani Giovanni Papini, Giovanni Vailati e Mario Calderoni); e c’è quello largo (e talvolta larghissimo), che include George H. Mead a Chicago, C. I. Lewis (1883-1964) a Harvard, Frank P. Ramsey (1903-1930) a Cambridge e poi i neopragmatisti già ricordati; che arruola nelle proprie fila, anche loro malgrado, maestri della filosofia analitica come Quine, Sellars, e Davidson; che arriva, in certi casi, a coinvolgere lo Heidegger di Essere e tempo (1927) e il Wittgenstein delle Ricerche filosofiche (1953).
L’antiessenzialismo, l’antifondazionalismo, il fallibilismo combinato con l’antiscetticismo, l’abbandono della teoria della conoscenza come specchio o copia, l’olismo, il rifiuto della dicotomia tra fatti e teorie, ma anche tra fatti e valori, costituiscono senza dubbio alcuni dei tratti che rendono questa tradizione riconoscibile, ma ancora più dirimente è il ruolo guida che vi svolge il riferimento alle azioni e alle pratiche attraverso cui gli esseri umani sviluppano il loro rapporto con il mondo e con i loro simili, ruolo dal quale discende il privilegio – anch’esso un tratto caratterizzante – accordato al vocabolario della pratica rispetto a quello della teoria.
Dal finanziere all’uomo di scienza
Proprio l’importanza assegnata alla dimensione dell’agire è però alla base di una lettura molto riduttiva del pragmatismo classico che ha avuto largo corso durante la prima metà del Novecento, avallata – se non promossa – su fronti diversi da nomi prestigiosi come quelli di Bertrand Russell e Martin Heidegger. In questa lettura, il pragmatismo appare come la trascrizione filosofica della mentalità dell’uomo d’affari americano, orientato al successo nell’azione e all’interesse personale, al calcolo dei profitti e delle perdite, paradigmaticamente compendiata nella domanda “E io che cosa ci guadagno?”, e incline a vedere ogni cosa come potenzialmente manipolabile e sfruttabile: “L’interpretazione americana dell’americanismo, sotto forma di pragmatismo”, nella sprezzante definizione di Heidegger. O, in una luce più favorevole ma ugualmente fuorviante, esso viene interpretato come una ripresa tardo-ottocentesca dell’utilitarismo di Bentham e di Mill, esteso senza troppo giudizio dal terreno della teoria morale e sociale alla sfera teoretica dell’epistemologia, della teoria del significato e della filosofia della mente.
Non è difficile, naturalmente, far notare che il pragmatismo di Peirce, James e Dewey è qualcosa di più che una filosofia provinciale ed è anche altra cosa da un utilitarismo in salsa yankee (anche se va detto che c’è voluto molto tempo prima che riuscisse a scrollarsi di dosso questa immagine negativa); ma, forse, l’errore più grave di questo modo di intenderlo – o di fraintenderlo – è non vedere che il rilievo dato alla dimensione pratica dell’agire riflette meno la mentalità del commerciante che quella dello scienziato sperimentale. È quest’ultimo, infatti, che i pragmatisti prendono a modello – in termini generali per l’intera società e da un punto di vista più particolare per il filosofo.
Il naturalismo di Dewey
Nella prima metà del Novecento, le idee e l’impegno riformatore di John Dewey ne danno la conferma più nitida, dalla creazione della Laboratory School a Chicago – “la più importante iniziativa sperimentale in tutta la storia dell’educazione americana”, come è stata definita – alla militanza politica e alle battaglie civili condotte fino agli ultimi anni della sua vita. Di Dewey, infatti, si può dire ciò che Rorty dice dei pragmatisti nel loro insieme: che sulla pubblica scena (sulla quale egli si è trovato più a lungo di ogni altro filosofo della sua nazione) ha cercato di favorire la recettività al nuovo piuttosto che l’attaccamento al vecchio, si è adoperato per sostituire i vecchi codici morali “con un atteggiamento ‘sperimentale’, privo di timori sia nei confronti di legislazioni sociali che apparivano rivoluzionarie, sia nei confronti di nuove forme di libertà personale e artistica”. Tutto ciò illustra bene che cosa significhi in termini generali e nel contesto di una società democratica assumere a modello lo scienziato sperimentale, quale tipo di impegno implichi, quale atteggiamento verso le situazioni e i problemi suggerisca.
Per il filosofo Dewey, tuttavia, prendere come guida lo scienziato ha un significato più specifico: si tratta di far proprio il nuovo paradigma di spiegazione dei fenomeni che le scienze del suo tempo prospettano. Significa imparare da Darwin, perché la scienza che funge da modello al tempo di Dewey non è più la fisica classica – scienza della necessità – ma la teoria dell’evoluzione – scienza della contingenza e della probabilità. Significa volgere le spalle al tentativo – kantiano e neokantiano – di isolare uno spazio a priori per l’accadere di ogni cosa, a favore di narrazioni contestualizzate delle “interrelazioni” dinamiche e contingenti tra un organismo e il suo ambiente. In questa nuova prospettiva il pensiero e la conoscenza, la riflessione e il giudizio appartengono a pieno titolo al quadro dei processi naturali e da lì traggono il loro significato: strumenti di un’intelligenza che non serve a “copiare gli oggetti dell’ambiente, ma piuttosto a prendere in considerazione i modi in cui relazioni più efficaci e vantaggiose con questi oggetti possono essere stabilite in futuro”. Analogamente, “esperienza” non è più il nome del dato bruto che innesca il processo conoscitivo – le sensazioni pure e immediate degli empiristi –, ma diventa il nome del processo stesso, il cui esito, come già in Peirce, è lo sviluppo di condotte che siano funzionali a fronteggiare con successo l’ambiente circostante.
Il pragmatismo dei non pragmatisti
Dewey muore nel 1952 e con la sua uscita di scena il pragmatismo entra in un lungo periodo di silenzio, eclissato da un’altra tradizione di pensiero, questa volta di origine europea: l’empirismo logico; l’eclissi dura fino al 1979, anno di pubblicazione de La filosofia e lo specchio della natura di Rorty e di inizio della cosiddetta “rinascita pragmatista”. Fino a non molto tempo fa, questo era il racconto canonico della storia del pragmatismo nel Novecento. La storiografia filosofica più recente, tuttavia, l’ha messo in discussione, mostrando come anche gli anni di presunto buio siano stati riempiti da una presenza sotto traccia della lezione pragmatista in autori come Quine, Sellars e Davidson, i quali avrebbero contribuito di fatto – e al limite inconsapevolmente – a una graduale “pragmatizzazione” della tradizione analitica. Un analogo effetto avrebbe avuto l’insegnamento di Ludwig Wittgenstein a Cambridge, e in particolare la pubblicazione delle Ricerche filosofiche.
Nel campo della filosofia del linguaggio, un caso di “pragmatizzazione” della filosofia analitica è, come suggerisce il filosofo Robert Brandom, la critica di Quine alla rigida separazione istituita da Carnap tra il piano dei significati (meanings) e quello delle credenze (beliefs). Nel modello carnapiano, per prima cosa vengono stipulati i significati, poi l’esperienza si incarica di stabilire quale impiego di questi significati dia luogo a teorie vere, oppure quali credenze vadano accettate come vere una volta fissati i significati. Tra i due piani non vi è scambio, poiché il modello esclude a priori la possibilità che il piano della selezione delle credenze possa incidere sul piano della stipulazione dei significati. Richiamandosi all’effettiva pratica linguistica, Quine mostra quanto sia fantasioso supporre che i significati siano liberamente fissati indipendentemente dal loro impiego nella formazione di credenze vere o false. Non vi sono, dice Quine, due pratiche, ma una soltanto, quella che consiste nel formulare giudizi con pretese di verità, ed è dentro quest’unica pratica che viene stabilito sia ciò che le nostre parole vogliono dire, sia ciò che crediamo. Cambiare le nostre credenze cambia, o può cambiare, anche i nostri significati. Si può parlare di un pragmatismo di Quine, perché il suo modello, in cui significati e credenze si interdefiniscono, obbedisce alla tesi pragmatista secondo la quale è l’effettivo uso del linguaggio a stabilire i significati delle espressioni utilizzate.
In questa prospettiva, si può dire che l’evento più importante accaduto alla filosofia analitica è per l’appunto la sfida pragmatista che le è stata portata da Quine (con l’attacco alla distinzione tra verità analitiche e verità sintetiche), da Sellars (con l’attacco al mito del dato), da Wittgenstein (con l’attacco alla concezione raffigurativa del linguaggio e lo spostamento di attenzione verso l’uso delle espressioni linguistiche) e da Davidson (con l’attacco al rappresentazionalismo). Benché nessuno di questi filosofi sia in senso stretto un pragmatista, l’aggettivo non sembra inappropriato.
L’estensione del canone che queste interpretazioni producono è certamente discutibile – e c’è chi, come il filosofo della scienza Ian Hacking, propone di chiamare “pragmatista” solo chi si definisce tale e in ogni caso nessuno di coloro che rifiutano l’etichetta –, ma ha il duplice merito di liberare il pragmatismo da quell’atmosfera datata e un po’ provinciale alla quale viene spesso associato e di valorizzarne il contributo al rinnovamento – o alla trasformazione – della filosofia anglo-americana del Novecento.
Strategie di spiegazione
Se il naturalismo di Dewey indica, con spirito anticipatore, uno dei fattori del rinnovamento, la sfida alla filosofia analitica cui si è fatto cenno mette in luce un altro minimo comun denominatore della tradizione di pensiero pragmatista: l’idea che il modo migliore per rendere conto di concetti come conoscenza, significato, verità e realtà non consista nel farne dei principi metafisici, inevitabilmente misteriosi e quasi sempre dogmatici, bensì nel ricondurli alle concrete pratiche e abilità degli esseri umani, contestando la convinzione intellettualistica che siano i principi a giustificare dall’esterno le pratiche. Per i nuovi come per i vecchi pragmatisti, l’ordine della spiegazione è l’opposto: sono “le pratiche vive e reali della gente”, quello che noi facciamo – per usare le parole di Rorty – a dare conto di quello che pensiamo, della natura del linguaggio, degli stessi principi della conoscenza, dei nostri criteri morali.
Questa strategia esplicativa antimetafisica, nella quale le pratiche sociali giocano un ruolo decisivo, è già ben delineata nei padri fondatori del pragmatismo, ma non è avventato dire che alla fine del Novecento riceva alcuni degli sviluppi più originali, soprattutto per mano di Rorty e di Brandom. Il secondo ne accentua l’aspetto ricostruttivo e sistematico: si tratta di ricostruire le norme esplicite nelle regole a partire dalle norme implicite nelle pratiche, l’intenzionalità discorsiva a partire da quella pratica, il significato a partire dall’uso. Con il primo, viceversa, il pragmatismo sottolinea il suo lato decostruttivo e riscopre la sua vocazione politica. Una volta, infatti, che comprendiamo la conoscenza come “giustificazione sociale della credenza”, invece che come “accuratezza di rappresentazione”, quest’ultima nozione diventa del tutto inutile: non va ricostruita ma abbandonata, al pari di nozioni come la Verità o il Bene: “I pragmatisti non dicono che non esiste qualcosa come la Verità o il Bene, né vogliono proporre una teoria relativistica della Verità o del Bene: intendono molto semplicemente cambiare argomento”. Ma cambiare argomento, liquidare i tradizionali problemi filosofici, è secondo Rorty la condizione per spostare l’attenzione dall’oggettività alla solidarietà, dai problemi della metafisica e dell’epistemologia ai bisogni della democrazia.