di Marco Clementi
Dalla sua proposizione nel 2011 a opera dell’ex segretario di stato Hillary Clinton, il Pivot to Asia è
divenuto uno degli elementi caratterizzanti la politica estera dell’amministrazione Obama. In alcune
letture, è la mossa con cui gli USA hanno ridato direzione e chiarezza al proprio ruolo nel mondo, sintonizzandosi con le dinamiche fondamentali della potenza. La scelta di dare priorità strategica al teatro Asia-Pacifico è stata ricondotta alla trasformazione in senso multipolare del sistema internazionale e al ruolo che la Cina vi gioca in quanto principale potenza emergente su scala non solo regionale. Il contenuto e le conseguenze di lungo periodo del pivot, però, sono oggetto di acceso dibattito. Le ambiguità derivano in parte proprio da ciò che dovrebbe rendere scontata la scelta del pivot: il rapporto con il potere internazionale e la sua distribuzione. Commentiamone due aspetti.
Primo, va sottolineato che la svolta verso l’Asia comporta due forme di riposizionamento. Da un lato, un riposizionamento geopolitico: gli USA riequilibrano il peso strategico relativo assegnato alle diverse regioni del sistema internazionale, riducendo quello dei teatri europeo e mediorientale e aumentando quello dell’Asia-Pacifico. Dall’altro lato, un riposizionamento individuale: gli USA bilanciano la crescita della Cina, il loro potenziale sfidante globale.
L’ambiguità, qui, sorge dal fatto che la seconda scelta assume la prima. Ma non viceversa: per bilanciare la Cina gli USA devono investire nella regione Asia-Pacifico. Però l’investimento geopolitico in quel teatro non porta di necessità a un bilanciamento della Cina. Si può pensare che il rapporto fra re-balancing geopolitico e individuale si giochi nella misura e nei modi in cui vengono usate e prescritte le diverse risorse di potere. Nella sua definizione strategica, infatti, il pivot ha una natura multidimensionale, poiché prevede l’impiego di risorse sia politico-diplomatiche, sia economiche, sia militari. Sebbene gli USA abbiano affermato l’importanza cruciale di tutte, quelle militari sembrano essere più cruciali. Nello scorso Shangri-La Dialogue di Singapore, l’ex segretario alla difesa Leon Panetta aveva annunciato l’invio nell’area entro il 2020 del 60% delle forze navali; nell’edizione del 1° giugno 2013, l’attuale segretario Chuck Hagel ha annunciato lo schieramento dell’aviazione tattica e dei bombardieri e lo spostamento del 60% delle forze stanziate all’estero.
L’enfasi sullo spostamento della potenza militare americana nel teatro Asia-Pacifico suggerisce che il pivot non sia solo una questione di investimento politico ma anche, e forse soprattutto, un processo di accumulazione della forza, in preparazione di un’esplicita competizione militare. Ciò solleva diverse domande. Perché questa enfasi per produrre stabilità in una regione che, come mostrato dai dati dello Human Security Report Project, è divenuta fra le più pacifiche al mondo dopo la Guerra fredda? Perché questa enfasi rispetto a un paese fortemente integrato nell’ordine internazionale contemporaneo e guidato da un’élite che, nel novembre 2013, ha dichiarato la necessità di dare al libero mercato un ruolo decisivo nell’economia nazionale, con tutte le conseguenze che secondo la concezione strategica americana ne discendono? Si può pensare che la mancanza di risposte adeguate a simili domande faccia sì che l’uso della risorsa militare riduca l’efficacia degli altri tipi di risorse, a partire da quelle politico-diplomatiche. Il pivot si trasformerebbe così in una politica unidimensionale.
Secondo, va rilevato il nesso che il pivot instaura fra le dinamiche regionali e quelle globali. Il pivot
è una strategia globale che prevede politiche regionali. Per tutelare la superiorità americana e proiettarne la leadership nel futuro, prescrive di aumentare la presenza americana in una regione nodale per le vie di comunicazione e commerciali internazionali e per la presenza della potenza emergente che potrebbe sfidare a tutti gli effetti gli USA.
L’ambiguità, qui, sorge dal possibile disallineamento fra gli scenari strutturali che circondano il pivot. Da un lato, alla radice del pivot vi sarebbe la transizione al multipolarismo: uno scenario strutturale che assegna rilevanza strategica a tutte le (o a molte) regioni del sistema. Ma a questo scenario il pivot risponde privilegiando una regione sulle altre. Dall’altro lato, a conseguenza del pivot vi sarebbe la tutela della superiorità globale degli USA e, dato il suo spessore militare, dell’unipolarismo. Un esito di lungo periodo a cui, però, il pivot contribuisce paradossalmente, prescrivendo a una potenza oceanica che è più forte – gli USA – di bilanciare una potenza terrestre che lo è di meno – la Cina.
Nel complesso, dando eccessiva priorità a una regione sulle altre e assumendo forma unidimensionale, il pivot potrebbe rendere più rigida la competizione regionale nel teatro Asia-Pacifico, innalzare la tensione internazionale e innescare una transizione al bipolarismo, come esemplificato dal rombo dei B52 che, in occasione della crisi di metà dicembre 2013 sulle Isole Diaoyu/Senkaku, è stato anche un’eco della Guerra fredda. Forse il pivot è una scelta chiara, che riconduce la politica estera americana alle dimensioni realistiche della vita internazionale, come il potere e la sua distribuzione. Forse, invece, segnala la difficoltà con cui ancora gli USA si muovono nell’attuale contesto di potere: l’incertezza che ne accompagna il ruolo in un sistema in cui non sono militarmente bilanciabili.