Il 'partito romano'
Roma rappresenta un riferimento decisivo non solo nell’esercizio del ministero del papa e del servizio della sua Curia, ma anche nell’immaginario dei cattolici, per i quali rappresenta la città santa e il centro del cattolicesimo. Lungo il secolo XIX l’attenzione verso Roma cresce tra i fedeli europei e diventa una corrente di spiritualità che attraversa il cattolicesimo del continente e non solo. L’ultramontanesimo ha molteplici espressioni, spirituali, organizzative, associative. Il papa acquista un volto nel mondo dei cattolici e non è solo un nome da recitare nel canone della Messa e nelle preghiere1. Con il volto comincia ad avere una storia, come quella diPio IX, spodestato e prigioniero dell’Italia.
Questo fenomeno raggiunge il massimo della sua espressione nell’Ottocento proprio con Pio IX, che diventa popolare tra i fedeli, attenti alle sue traversie con il governo italiano, nel quadro del processo di unificazione nazionale e della fine del potere temporale. È proprio quest’ultimo evento, subito dopo la conclusione del Concilio Vaticano I (e la proclamazione del dogma dell’infallibilità papale) a rappresentare un punto di svolta del rapporto tra il papato e Roma, ma anche – in un certo senso – con l’Italia e la società europea. Roma non è più una città solo papale, ma la capitale italiana con una personalità differente, talvolta antagonista con la sacralità pontificia; eppure resta una città di cattolici, la sede delle strutture centrali della Chiesa, dei grandi ordini religiosi e dei collegi internazionali, soprattutto la diocesi di cui il papa è vescovo2.
Il potere temporale dei papi aveva garantito uno spazio indipendente del pontefice, che sembrava metterlo al riparo dal controllo immediato delle potenze europee. Quel mondo, durato un millennio e più, era finito come una monarchia dell’Ancien régime. La rivendicazione dei papi, a partire da Pio IX fino a Pio XI, si sviluppa sempre più sul tema della libertà del pontefice da ogni potere civile più che sulla restituzione dei diritti territoriali lesi dall’occupazione italiana. Da Pio IX ai suoi successori, i papi rifiutano, nonostante le guarentigie concesse loro dall’Italia, di considerarsi in qualche modo sudditi del Regno o di un qualsiasi Stato. Roma non può essere solo italiana. E il papa deve avere il suo spazio indipendente a Roma. La romanità, fino al 1870, è un mondo cittadino, fortemente caratterizzato dalla presenza del papa, della vita religiosa e del mondo ecclesiastico. I papi, daPio IX (e dopo l’esperienza della fuga a Gaeta), non considerano mai seriamente la possibilità di risiedere fuori da Roma3.
Romanità e papato sono interconnessi ecclesiologicamente, storicamente, obiettivamente. La romanità non è più rappresentata dal clima della Roma pontificia, diventa un sentimento differente, forse più spirituale. Con la proclamazione di Roma capitale, essa ha cambiato i suoi connotati. A partire dal Risorgimento c’è un’imponente rivisitazione dell’idea di Roma che, come nota Federico Chabod, diventa uno dei punti forti dell’ideologia unitaria4. La proclamazione di Roma capitale sembra consacrare questa ideologia destinata a svilupparsi, perché Roma è un’idea forte per l’ideologia nazionale, che ricollega antiche glorie romane e imperiali, fondative della grandezza italica, con il presente italiano. Non è nemmeno il caso di notare qui come il mito di Roma abbia rappresentato un’idea chiave nella scarna ideologia fascista5. Dall’Ottocento al Novecento si sviluppa una romanità laica e nazionale che rimette in discussione o ignora la connessione millenaria stabilitasi tra il papato, la Chiesa cattolica e l’Urbe. Insomma, con la fine del potere temporale dei papi, termina anche il controllo sulle proiezioni ideali dell’idea della città. Del resto tutte le tematiche del classicismo, in varie stagioni culturali, avevano militato proprio nel senso di una romanità non cattolica o precattolica.
Roma ideale, oltre che la città reale, diventava il terreno di scontro. «Roma – ricorda Chabod – era l’idea base nell’una come nell’altra delle due maggiori correnti ideologiche del pieno Risorgimento»6. Questo grande studioso osserva come la classe dirigente liberale fosse ossessionata dall’«ombra di Pietro» e dall’«incubo di essere troppo impari al Vaticano». Antonio Gramsci nota che l’idea di Roma è un elemento ideologico aggregante le varie correnti del Risorgimento7. Del resto, di Roma non solo si esaltava il grande passato storico, ma – scrive Alberto Caracciolo – si evidenziava anche la missione nel presente e nel futuro, come quella della capitale moderna di una nazione sulla via del progresso8.
Nonostante la «conciliazione ufficiosa», per dirla con Antonio Scottà, avvenuta negli anni di Benedetto XV, quelli della guerra mondiale e del primo dopoguerra, le due differenti pretese su Roma, quella papale e quella italiana, restavano forti, perentorie, anche se non si escludevano a vicenda9. L’avvento del fascismo avrebbe progressivamente accentuato la pretesa italiana su Roma, memoria viva della vocazione imperiale del paese. D’altra parte, era condivisa la convinzione della necessità di un accordo, sia da parte vaticana (in particolare con Pio XI e con il Segretario di Stato cardinale Gasparri, che aveva avuto una funzione mediativa anche con Benedetto XV negli anni della «conciliazione ufficiosa»), sia da parte italiana, prima con Vittorio Emanuele Orlando e poi, più decisamente, con Mussolini.
La Conciliazione del 1929 non conclude il dibattito ideologico su Roma che, durante il fascismo, conosce fasi alterne, alcune delle quali piuttosto intense10. Tale dibattito si può dire concluso solo con il secondo dopoguerra, quando non esiste più una posizione avversa a quella cattolica sull’Urbe da un punto di vista politico e ideologico. Ma, proprio a partire da questi anni e soprattutto con la morte di Pio XII, grande ‘cantore’ dell’idea di Roma, si può dire che la tematica della romanità si vada esaurendo anche tra i cattolici. La Roma della Repubblica italiana è una città che cresce in modo rapido con l’immigrazione e, d’altra parte, perde il riferimento a un’idea della città o a un patrimonio ideale11.
Nel 1929, si giunge a un accordo tra le due pretese su Roma e sulla romanità. Da un punto di vista territoriale, com’è noto, il papa viene riconosciuto sovrano di un nuovo Stato, quello del Vaticano, il cui territorio è estremamente ristretto. Nella città godono di extraterritorialità o di particolari garanzie alcune ‘isole’ edilizie vaticane, a partire dalle basiliche patriarcali. Al di fuori delle competenze territoriali però, il Vaticano può vantare un qualche diritto sull’intera città, che è sotto la sovranità piena e riconosciuta del Regno d’Italia. Il papa è innanzi tutto vescovo di Roma con i poteri dell’ordinario sulla Chiesa della città, mentre risulta metropolita della provincia romana (che abbraccia le diocesi suburbicarie, affidate al governo dei cardinali-vescovi, almeno sino alla fine degli anni Cinquanta) e primate d’Italia (titolo in base al quale, dagli anni Cinquanta, nomina il presidente della Conferenza episcopale italiana). Il papa è il leader religioso di Roma e della comunità religiosa prevalente in Italia.
Del resto, la Conciliazione, non solo da un punto di vista normativo ma anche da un punto di vista politico, ribadisce il dettame dello Statuto albertino per cui il cattolicesimo è la religione di Stato. Dopo il 1929, grande è l’aspettativa cattolica che il fascismo si sviluppi nel senso di un regime cattolico: prospettiva, questa, che Mussolini coltiva ad arte, ma smentisce puntualmente nei fatti e nelle dichiarazioni.
Anche da un punto di vista giuridico, il Concordato del 1929, all’articolo 1, contiene una norma che offre alla Santa Sede la possibilità di vantare qualche diritto su Roma, al di là degli spazi su cui esercita la sua sovranità: «In considerazione del carattere sacro della Città Eterna, sede vescovile del Sommo Pontefice, centro del mondo cattolico e mèta di pellegrinaggi, il Governo italiano avrà cura d’impedire in Roma tutto ciò che possa essere in contrasto con detto carattere». Questa norma riconosce il «carattere sacro» di tutta Roma. È alla base di un dibattito che vede coinvolto lo stesso Mussolini, il quale, alla Camera, per la ratifica dei Patti del Laterano, smentisce che Roma sarà confessionalizzata12. Il contenuto della norma è piuttosto vago e se ne fa un’applicazione solo in qualche raro caso, come ha notato l’ecclesiasticista Giuseppe Caputo13. È però il riconoscimento della sacralità di Roma, di cui la Chiesa cattolica e il papa sono ovviamente il cuore. Per stabilire il contenuto di tale norma occorre fare riferimento alla Chiesa e alla sua idea di Roma. Tuttavia, dopo il 1929 sino alla seconda guerra mondiale, la norma non dà adito a una particolare applicazione. Ma la Chiesa e il papa si sentono, a vario titolo, coinvolti nella vicenda della città.
Questo coinvolgimento si manifesta in particolare negli anni della guerra mondiale, specie nel 1943-1944, nei nove mesi che intercorrono tra la firma dell’armistizio e la liberazione della città da parte degli alleati. In questo periodo la capitale è occupata dalle forze armate tedesche. Pio XII, defensor civitatis, rappresenta l’autorità a cui i romani fanno riferimento nel vuoto di potere che si è venuto a determinare14. Lo nota con grande acume Chabod, quando scrive che «la popolazione volge il suo sguardo a San Pietro. Viene meno un’autorità, ma a Roma – città unica sotto quest’aspetto – ne esiste un’altra: e quale autorità!»15. Anche il comando tedesco tratta con la Santa Sede per le questioni che riguardano la città.
Dopo il 1870, il papa, per la prima volta, acquista un rapporto diretto con la popolazione di Roma, come grande riferimento morale e come potere sostitutivo dell’autorità dello Stato. Nel luglio e nell’agosto 1943, Pio XII visita le popolazioni romane colpite dai bombardamenti alleati, mentre si invoca da lui un’azione di pace. Nei nove mesi dell’occupazione rappresenta effettivamente un’autorità chiara nella città e presso gli occupanti. Nel 1944Pio XII convoca la popolazione romana in piazza S. Pietro per parlare a essa, realizzando l’unica manifestazione libera e di massa nell’Europa occupata dai nazisti. Chiede alle parti in lotta di rispettare Roma e di evitare rovine, per non caricarsi la responsabilità di «matricidio»16. Il 6 giugno 1944 il popolo di Roma si riversa in piazza S. Pietro per ringraziare il papa di quella che viene definita la «salvezza di Roma». Il prestigio di Pio XII a Roma e in Italia è grande.
Con la liberazione di Roma la Chiesa viene ad affrontare un largo e diffuso pluralismo politico democratico nell’Urbe. Certo aveva già fatto questa esperienza durante il regime liberale, prima del fascismo, ma non in modo così intenso. Allora il papa e la Chiesa non avevano uno statuto riconosciuto a Roma e in Italia. Inoltre il papa non godeva del prestigio diPio XII, difensore della città in tempo di guerra. Lo stesso papa ha la sensazione di aver giocato un ruolo decisivo nei mesi dell’occupazione e al momento della fuga dei tedeschi, proprio per evitare distruzioni nella città. Eugenio Pacelli, romano di nascita, non si sente più un pontefice confinato tra le mura leonine, ma una vera autorità morale nella città. Questo ruolo gli viene riconosciuto non solo dalla popolazione, ma anche da una parte cospicua della classe dirigente, che si è rifugiata nelle istituzioni vaticane durante l’occupazione.
Nel quadro del nuovo pluralismo politico, la Santa Sede sostiene una presenza politica cattolica a Roma e in Italia, realizzata dalla Democrazia cristiana, fondata da Alcide De Gasperi. Émile Poulat ha affermato che, nell’Italia del secondo dopoguerra, la Dc ha svolto, rispetto al Vaticano e alla Chiesa, un ruolo analogo, ma più esteso, di protezione «moderna». La Dc sarebbe stata a suo avviso un forte presidio a difesa della Chiesa al pari dello Stato pontificio, anche se con garanzie di ben altro tipo. In realtà, com’è ben noto, la Dc di De Gasperi non nasce come partito della Chiesa, ma finisce per accreditarsi come tale a fronte di altre ipotesi politiche per i cattolici (quella di un pluralismo dei cattolici tra vari partiti, quella dei cattolici comunisti o di formazioni di destra o altro). È peculiare merito di un grande storico qualePietro Scoppola l’aver colto come l’ipotesi democristiana si accrediti progressivamente come quella su cui Pio XII punta, chiedendo l’unità dei cattolici nel voto alla Democrazia cristiana. Fino agli anni Settanta la Dc è stata rappresentata come la longa manus della Chiesa in mondo semplicistico. Esiste invece – come Scoppola ha mostrato – un processo complesso che porta all’accreditamento dellaDc nella Chiesa (del resto gli interessi di quest’ultima non coincidono mai totalmente con quelli del partito, anche se sono molto convergenti)17.
Centrale in questo processo è il ruolo di monsignor Giovanni Battista Montini, sostituto della Segreteria di Stato, bresciano, di famiglia legata al Partito popolare di Sturzo, democratico e antifascista. Agostino Giovagnoli considera Montini come un cofondatore dellaDc accanto allo stessoDe Gasperi18. Si apre la storia di un partito cattolico destinato a essere il cuore del sistema italiano fino agli anni Novanta e che ha gestito il Comune di Roma fino alla metà degli anni Settanta.
Non tutti in Vaticano sono però d’accordo con l’ipotesi del partito unico dei cattolici. Da un lato c’è monsignor Domenico Tardini, responsabile della sezione della Segreteria di Stato per gli affari internazionali, che teme un legame troppo forte tra la Chiesa e la Dc, tale da coinvolgere il cattolicesimo e la gerarchia nelle questioni politiche19. Ma c’è un più largo malcontento verso la politica della Dc e di De Gasperi, centrista, antifascista, accusata di essere troppo attenta alle forme democratiche, ma sostanzialmente incapace di arginare la crescita del comunismo in Italia. Questo è il massimo pericolo da affrontare. È la priorità, ben più che la democrazia o altra politica.
Pio XII stesso, talvolta, è perplesso verso la politica degasperiana, come nel caso delle elezioni comunali del 1952, quando promuove la cosiddetta operazione Sturzo, che intende coalizzare i partiti di destra con la Dc in un fronte anticomunista20. A tale operazione si oppone con forza De Gasperi che vince le elezioni amministrative nella capitale, ma non sconfigge la diffidenza del papa per una politica scarsamente capace di realizzare quello che è l’obbiettivo maggiore per il papa, il contenimento del comunismo21. Ma non si tratta solo del papa. Questi anzi sente che l’unità politica dei cattolici nella Dc è un fatto irrinunciabile. Piuttosto, tra gli ecclesiastici di Curia, serpeggia una tendenza ostile alla politica degasperiana, attenta alla destra, anticomunista, ma anche critica sul ruolo e sulle visioni del sostituto Montini. Si tratta di un ceto medio curiale, che ha il suo più alto esponente nel segretario del Sant’Uffizio, il cardinale Alfredo Ottaviani, romano, anzi trasteverino.
Tuttavia il malumore curiale diventa una proposta politica, per così dire, grazie all’iniziativa di un ecclesiastico particolare, monsignor Roberto Ronca, rettore del Pontificio Seminario Maggiore Romano fino al 1948 e, poi, arcivescovo titolare di Lepanto e prelato di Pompei. La sua storia politica e ecclesiastica matura negli anni di Pio XII. Ronca coagula un ambiente ecclesiastico favorevole all’inclusione nell’area di governo di monarchici e missini, ma anche alla formazione di un partito cattolico di destra. Insomma l’ipotesi di Ronca, condivisa da vari ecclesiastici, è quella di una coalizione di destra, ossequiente alla Chiesa, decisamente spesa nella lotta al comunismo22. Monsignor Ronca fonda la propria visione sul bipolarismo della lotta tra comunisti e anticomunisti, tra sinistra e destra, una lotta da cui discendono i destini dell’Italia cattolica e della Chiesa in Italia23.
L’espressione «partito romano» non appartiene ai protagonisti di questo gruppo, che pure ebbe varie espressioni organizzate, sempre a opera di Ronca, tra cui Civiltà italica. È stata coniata da chi scrive alla fine degli anni Settanta ed è poi divenuta titolo di un libro su queste tematiche pubblicato nel 1983 e riedito nel 2007 con l’aggiunta di un capitolo sull’ascesa e il declino di questo gruppo24. È la storia di un’alternativa di destra al disegno di De Gasperi e di Montini: in nome dei valori cattolici e anticomunisti, maturata negli ambienti ecclesiastici romani e in nome della romanità.
Il rettore Ronca, durante l’occupazione tedesca di Roma, aveva ospitato negli ambienti extraterritoriali del Seminario Romano gran parte del Comitato di liberazione nazionale, vari politici, ebrei, militari, sindacalisti. Tra di essi c’erano De Gasperi, Pietro Nenni, Giuseppe Saragat, Ivanoe Bonomi e il generale Roberto Bencivenga. Si era mostrato una personalità risoluta e coraggiosa, capace di agire sul confine delicato del rispetto della neutralità vaticana e l’impegno per il salvataggio dei perseguitati, considerato un’azione antitedesca dagli occupanti. Ne era nata una familiarità con la classe politica italiana, che il rettore aveva sempre conservato anche con la fine della guerra. Su questa base, incoraggiato da vari ecclesiastici ma anche da ambienti vicini aPio XII, Ronca aveva continuato la sua azione politica.
Sarebbe sbagliato, però, considerare l’azione di Ronca e il sentire del «partito romano» solo in termini politici. Infatti la sensibilità di questo ambiente si ricollega a quella del mondo ecclesiastico e cattolico, passato attraverso il fascismo e gli anni duri della guerra. Per questo mondo, compenetrato con la missione del papa, Roma, indiscutibilmente capitale italiana, ha però una sua funzione cattolica prioritaria. Roma è città sacra e tale carattere va difeso in ogni modo. Questa funzione dell’Urbe è un fatto sentito ormai non solo in Europa, ma nel mondo intero. Inoltre il papato – come si è visto durante la guerra e l’occupazione – rappresenta una risorsa centrale per la città. Questo senso di romanità si traduce nella convinzione che, in ogni modo, Roma va preservata dalla presenza dei comunisti e dei loro alleati. Inoltre, nella vita pubblica, va messo in rilievo il ruolo del papa e della stessa Chiesa.
Ma come parlare del futuro di Roma prescindendo dall’Italia? Infatti le visioni e le iniziative del «partito romano» non si limitano alla vita capitolina (anche se l’orizzonte delle amministrazioni civiche è fortemente segnato da questa romanità). Si rivolgono all’intero paese e all’orientamento della sua vita politica. Quello che viene chiamato «partito romano» non intese mai chiamarsi in questo modo, e anzi non volle mai qualificarsi in modo organico e pubblico. Infatti è un gruppo ecclesiastico, interno alla Curia romana, di orientamento moderato, assai influente negli anni che vanno dalla fine del secondo conflitto mondiale al 1954, anche se epigoni di questo segmento furono in qualche modo attivi anche nei decenni successivi25. Si tratta di un sistema di alleanze e amicizie che convergono nell’ideale comune di un impegno costante e attivo «per il bene della Chiesa»: un ideale clerico-moderato, che costituiva il terreno per lo sviluppo di quella ‘destra cattolica’ che in Italia avrà poi alterne vicende.
In realtà, l’azione del «partito romano» manifesta anche il rifiuto della marginalizzazione del mondo ecclesiastico dalla politica. Il modello realizzato da Alcide De Gasperi con la fondazione dellaDc, forte del sostegno elettorale della Chiesa e delle organizzazioni politiche, pieno di ossequio verso le gerarchie ecclesiastiche, realizzava però una forma di autonomia della politica, condotta dalla classe dirigente laica democristiana. Nel paese esistevano così due classi dirigenti cattoliche, quella ecclesiastica e quella democristiana: unite per tanti versi da un comune orizzonte culturale, ma che avevano differenti responsabilità. Soprattutto laDc rivendicava – in un quadro di ossequio per la Chiesa – l’autonomia delle sue scelte politiche e delle decisioni sulle alleanze per formare i governi e le formulazioni dei programmi. Dopo la guerra, nonostante il grande impegno del papa e della Chiesa per il paese in una difficile transizione, la politica democristiana rivendicava un margine ampio di autonomia dal mondo ecclesiastico.
La storia del «partito romano» è quindi la storia del confronto tra due visioni diverse e alternative sul futuro della Chiesa cattolica e dell’Italia del dopoguerra, ma anche sul ruolo della Chiesa stessa nella politica. Il «partito romano» si contrappone a monsignor Montini, che sostiene la politica di De Gasperi e della sua Democrazia cristiana26. Anzi individua nella sua persona e nella sua visione l’antagonista maggiore alla propria influenza. Si tratta non solo di una lotta politica, ma del confronto di due visioni di Chiesa. Montini viene identificato dai ‘romani’ anche come l’antagonista principale nell’ambiente vaticano, per la sua interpretazione larga della linea del pontificato pacelliano.
Per questo motivo la vicenda del «partito romano» fa parte a pieno titolo anche della storia di Montini, prima come sostituto, poi come arcivescovo di Milano, infine come papa. Il prete bresciano è portatore di una cultura e di una sensibilità differenti da quelle dell’ambiente romano, dove si trova ad operare dal momento in cui viene chiamato a Roma. La sua visione riformista della Chiesa lo porta ad elaborare un rapporto tra Chiesa e mondo contemporaneo meno conflittuale e più irenico di quello espresso dagli ambienti romani. È la linea che Montini persegue come animatore degli universitari della Fuci e poi dei professionisti del Movimento laureati cattolici, da cui proviene una parte consistente della classe dirigente democristiana27.
La vicenda del «partito romano» rappresenta anche un capitolo importante della storia della Chiesa italiana del Novecento. La sua sensibilità permea alcuni settori italiani del mondo curiale e del Vicariato di Roma, ma pure qualche ambiente dell’episcopato. L’humus su cui si innesta il «partito romano» è una mentalità moderata, d’ordine, un sentire “di destra”, che rispecchia la faticosa accettazione della democrazia e del regime parlamentare in Italia da parte di larghi settori della Chiesa cattolica, ma soprattutto che considera laDc troppo debole nei confronti del pericolo comunista. Si tratta di una mentalità cresciuta anche durante la lotta antimodernista e che vive, dopo la sconfitta del fascismo, un crescente desiderio di restaurazione cattolica che il regime non compie mai. Dal punto di vista politico le istanze di questa lobby vengono sconfitte dall’evoluzione della «repubblica dei partiti», per usare un’espressione di Pietro Scoppola28, che porta al varo di governi di centro e di centro-sinistra. Da un punto di vista ecclesiastico, invece, le sue posizioni mostrano ancora una certa vitalità fino al concilio Vaticano II.
L’interprete principale della visione del «partito romano» è come detto monsignor Roberto Ronca, un ecclesiastico che si spese con molta energia per tessere un disegno di destra, condiviso da una parte dell’ambiente ecclesiastico romano. Si tratta di un attore importante (anche se il suo ruolo ecclesiastico non è di primo piano) nel disegno che vede intrecciarsi la Chiesa, i cattolici moderati, la destra italiana e la Dc. Questo è evidente soprattutto nell’Italia meridionale, dove i vescovi appoggiavano debolmente la Dc e particolarmente forti erano i monarchici29. Ronca trova in questi ambienti un terreno favorevole al suo sentire politico.
Nato nel 1901 al centro di Roma, nel quartiere di Trastevere, Ronca è dal 1933 il rettore del Seminario Maggiore Romano, la più prestigiosa istituzione formativa della capitale. È un prete romano per formazione e per sensibilità, vicino a importanti personalità della Roma ecclesiastica della prima metà del secolo, come il cardinale Marchetti Selvaggiani, nominato da Pio XI vicario per la diocesi di Roma, compagno di studi di papa Pacelli (ed ex ingegnere come lo stesso Ronca)30. La carriera ecclesiastica di Ronca è segnata da una stagione di difficoltà nei rapporti con Montini, quando il prete romano nel 1933 è nominato assistente ecclesiastico del circolo della Fuci di Roma, mentre Montini è assistente nazionale dell’associazione universitaria (1925-1933): è il primo dei conflitti tra il prete romano e il futuro Paolo VI. Le direttive dell’assistente Montini sono considerate poco ortodosse da monsignor Ronca, appoggiato dal cardinale Marchetti. Il prete bresciano deve rispondere davanti al cardinale dell’accusa di filoprotestantesimo e liturgismo, mentre viene accusato di aver gestito in modo negativo i rapporti con Ronca. Montini deve difendersi faticosamente e, alla fine, trova l’appoggio di Pio XI. Tuttavia è obbligato a lasciare il ruolo di assistente nazionale della Fuci per concentrarsi sul lavoro in Segreteria di Stato.
In realtà, per alcuni settori del mondo romano, Giovanni Battista Montini resta sempre un personaggio sospetto, la cui ortodossia e fedeltà vanno verificate. Il cardinale Ottaviani, che era stato superiore di Montini in Segreteria di Stato negli anni Trenta, per divenire poi dirigente del Sant’Uffizio, riconosceva il valore della personalità di Montini, ma ne sospettava le aperture alla modernità. Monsignor Palazzini, che era stato collaboratore di Ronca al Seminario Romano durante l’occupazione tedesca, parlava di ascendenze gianseniste nell’ambiente familiare del futuro Paolo VI. Anche dopo il suo trasferimento come arcivescovo di Milano nel 1954, egli fu seguito con attenzione da Roma e dal Sant’Uffizio. In realtà grande estimatore di Montini fu proprio il cardinale Pacelli, segretario di Stato di Pio XI, che lo volle sostituto della Segreteria di Stato e poi, una volta eletto papa, lo tenne presso di sé come uno dei suoi maggiori collaboratori. Nel quadro del pontificato pacelliano, in cui non mancavano i punti di contatto con il sentire del «partito romano», c’era anche spazio per la sensibilità di una personalità come Montini.
Durante il periodo dell’occupazione tedesca della capitale, monsignor Montini era sostituto e Ronca rettore di quel seminario romano, che si aprì all’ospitalità di uomini politici, ebrei e ricercati. In questa fase il rettore collaborò, per motivi istituzionali, con il sostituto. Dai contatti durante la clandestinità nacque poi l’attività politica di Ronca nel dopoguerra. A questo punto si verificò nuovamente una divergenza tra lui e il sostituto Montini, che difendeva la Dc di Alcide De Gasperi, la sua politica e la sua posizione di partito ‘unico’ dei cattolici.
L’impegno di Ronca, all’indomani della guerra, si dirige prima di tutto verso la riproposizione della classe politica prefascista alla guida del paese: egli si impegna ad esempio per portare alla presidenza del consiglio Vittorio Emanuele Orlando. Intesse inoltre contatti con il movimento di Giannini, L’Uomo Qualunque, che propone una sensibilità per molti aspetti omogenea alla sua. Questa formazione politica – secondo il prelato – avrebbe potuto essere un principio di partito cattolico di destra. Nel suo sentire, il partito cattolico doveva mostrarsi docile alle indicazioni d’Oltretevere, ma soprattutto prioritariamente impegnato nella lotta al comunismo, evitando una politica economico-sociale che allontanasse il consenso degli ambienti conservatori e del mondo agrario31.
Per lui era di primaria importanza ridiscutere il monopolio della Dc e favorire la nascita e lo sviluppo di una destra cattolica portatrice di istanze d’ordine in campo politico di stampo tradizionale in campo religioso. Il fronte di destra avrebbe scongiurato l’avanzata dei comunisti. L’ipotesi del pluralismo partitico dei cattolici avrebbe avuto la conseguenza di aprire un canale alla destra italiana, con maggiore flessibilità verso i monarchici e il moderatismo meridionale, favorendo quella ‘naturale’ connessione tra cattolicesimo e conservatorismo.
Nella Curia Ronca aveva l’appoggio di padre Giacomo Martegani, il direttore de «La Civiltà cattolica» dei Gesuiti, assai attivi in senso anticomunista, e di personalità importanti quali Alfredo Ottaviani32. Così il disegno del «partito romano» trovava un’eco sulla stampa attraverso le pagine della rivista, organo ufficioso della Santa Sede. Del resto la lotta al comunismo era un terreno comune dove si riconoscevano le diverse anime della Curia e le diverse personalità attive in Vaticano e nelle diocesi italiane, pur con sfumature diverse.
È nel 1947, però, che Ronca annuncia la nascita di un movimento nuovo, apartitico, impegnato nell’influenzare il dibattito e gli orientamenti della politica. Si tratta di Civiltà italica, che intende coordinare gli interventi cattolici in campo politico, configurandosi come uno strumento di pressione senza esprimersi direttamente nella forma partito. L’associazione dichiara di voler convogliare le forze dei partiti verso intenti comuni nelle questioni considerate fondamentali per il bene del paese. Alla commissione politica interpartitica che la anima non partecipano però elementi di primo piano dei vari partiti: sono democristiani, monarchici, qualunquisti e liberali che vi prendono parte a titolo personale anche se su designazione del partito di appartenenza. Questa organizzazione, secondo quanto è riportato da una sintesi dei servizi americani, è «incaricata di formare l’opinione pubblica per mezzo di diversi mezzi di comunicazione e di fornire una stanza di compensazione per contatti e attività tra individui e gruppi che si oppongono ai partiti comunista e socialista di sinistra»33. Essendo slegata sia dai partiti sia dall’autorità ecclesiastica, può coinvolgersi in maniera più profonda e più libera nel campo politico.
Civiltà italica si mette a disposizione per condurre campagne di mobilitazione anticomunista, ed è attiva in questo senso sia a livello locale sia a livello nazionale. Il metodo e la formazione dei propagandisti sono studiati in maniera approfondita, per farne veri e propri agitatori anticomunisti. Proprio l’anticomunismo rappresenta il collante ideale per espressioni politiche diverse, che Civiltà italica vuole coordinare, e del fronte silenzioso dei moderati del paese. LaDc non sembra approvare questo attivismo, tanto che cerca più volte di limitarlo nelle zone dove avrebbe costituito una minaccia per la propria autonomia politica. Il decreto di scomunica dei comunisti da parte del Sant’Uffizio del luglio 1949 viene letto come un incentivo a continuare questa azione di propaganda34.
Nello stesso periodo nascono anche i Comitati civici di Luigi Gedda, destinati a sensibilizzare l’elettorato cattolico a favore della Dc. Si tratta dunque di un lavoro sulle masse, mentre Ronca opera direttamente per influenzare i partiti. Su tale programma furono informati anche gli Stati Uniti, che appoggiarono finanziariamente Civiltà italica, insieme alla Confindustria di Angelo Costa. Il 1948, con la campagna per le elezioni politiche di aprile, rappresenta il momento di maggiore impegno per il movimento di Ronca, convinto che l’anticomunismo sia la caratteristica unificante del partito moderato, nascosto tra le masse italiane, ma reale nei sentimenti e negli orientamenti. Monsignor Ronca, ancora rettore del Seminario Romano, si spende in maniera pubblica ed energica, a differenza di altri esponenti del «partito romano», più riservati e meno politicamente attivi.
Dopo il 1948 l’impegno del movimento continua, anche se in un clima diverso e con una minore mobilitazione. Del resto, il focus della sua attenzione era rivolto, da una parte, al mondo ecclesiastico, e dall’altra ai dirigenti politici, tenendo viva una sensibilità moderata e quasi preparando la possibilità di realizzare un partito moderato. Questa operazione, alla fine, risulta non praticabile. Troppo salda è la Dc nel centro del sistema politico italiano. Troppo importante è questo partito per la Chiesa e per la lotta al comunismo. Nonostante non manchino critiche al partito cattolico negli ambienti ecclesiastici e da parte dello stesso papa, Pio XII è convinto della funzione insostituibile di questa forza politica. Il pontefice, pur sensibile ad alcune critiche verso De Gasperi (ad esempio non è d’accordo sul carattere aconfessionale del partito), non intende minare l’unità politica dei cattolici, considerata indispensabile per arginare il pericolo comunista. In questa posizione si rispecchia il pensiero e l’attività anche del cardinale Siri, arcivescovo di Genova e propugnatore dell’impegno comune dei cattolici in politica, pur criticando alcuni aspetti del partito di De Gasperi e pur avendo buoni rapporti con monsignor Ronca, di cui condivideva alcune istanze35.
Il disegno moderato di Ronca attraversa varie fasi. Prima pensa a una valorizzazione della classe politica prefascista, poi alla creazione di un secondo partito cattolico, in contrapposizione alla Dc degasperiana, infine tenta di fare pressioni direttamente sulla Democrazia cristiana perché accetti un programma più moderato (coltivando un rapporto privilegiato con alcune sue correnti, come la «Vespa» del deputato salernitano Carmine De Martino, contrario alla riforma agraria). Si potrebbe dire che si delinea nell’attività politica di Ronca, specie subito dopo la liberazione di Roma, una scarsa considerazione per l’identità e la linea della Dc. Nonostante una costante attenzione a questo partito, come si vede nei rapporti frequenti tra De Gasperi e Ronca, il prelato è convinto che la Chiesa non debba delegare al partito cattolico la sua presenza nella società civile, ma debba tenere in mano le redini dell’iniziativa politica, evitando l’autonomia dei democristiani, giudicata eccessiva36.
Convinti che nel paese vi fosse un’ampia maggioranza moderata “silenziosa”, gli esponenti del «partito romano» sembrano tuttavia poco consapevoli dei mutamenti del sentire delle masse prodottisi durante e dopo il fascismo. Proprio quella certezza consente a Ronca e al «partito romano» di tessere pazienti fili con interlocutori dell’intero schieramento di centro-destra. Un secondo partito cattolico in Italia non poté mai nascere anche per un preciso veto del papa, che non intendeva frantumare l’unità politica dell’elettorato cattolico: i partiti di destra si dovettero così accontentare di un rapporto marginale con il mondo cattolico, senza ottenere alcun tipo di legittimazione dalla Chiesa. In questo quadro vanno segnalate una serie di operazioni significative condotte da Ronca verso le destre, i qualunquisti, i monarchici e lo stesso Movimento sociale italiano. Ronca, in particolare, ha stretti rapporti con i monarchici e ne favorisce l’avvicinamento alla Dc. Nei confronti del Msi c’è da rimuovere la preclusione antifascista.
Civiltà italica studia l’area neofascista e fa alcune proposte per una revisione politico-ideologica che consenta l’inserimento del Msi in uno spazio politico più ampio. Vengono tenuti colloqui tra esponenti neofascisti e Civiltà italica, proprio mentre si vanno ponendo le premesse della cosiddetta legge Scelba, le norme di attuazione della XII disposizione finale e transitoria della Costituzione sulla ricostituzione del partito fascista. L’autorevole «La Civiltà cattolica», per la penna del padre Messineo, sentenzia che non si può mettere sullo stesso piano il pericolo rappresentato dalle sinistre con quello delle destre e dei neofascisti37. Per gli amici di Ronca la preclusione antifascista lega la Dc all’alleanza con i partiti laici e, in qualche modo, la spinge verso sinistra.
Ronca riesce ad ottenere alcuni passi significativi di revisione ideologica da parte dei neofascisti. Augusto De Marsanich, segretario politico del Msi, fornisce a monsignor Ronca una serie di precisazioni riguardo all’atteggiamento del suo partito sui problemi e i metodi della democrazia italiana: «Libertà organizzata e protetta», dichiara, «può essere la formula che riassume questa concezione dello Stato forte, in una nuova e non illusoria democrazia»38. Negli ambienti vaticani si considera un errore la legge Scelba contro la ricostituzione del partito fascista, perché appare una minaccia al Msi. Si sarebbe preferita una legislazione che tenesse conto anche delle minacce alla democrazia che provenivano dalle sinistre e in particolare dal Partito comunista. L’azione degli amici di Ronca, tesa a una revisione ideologica, in qualche modo rende ancora più difficile l’accettazione della legge Scelba da parte dei cattolici. Per una vasta parte di questi ambienti, bisognava creare – ed era compito della Dc – uno Stato forte in Italia, capace di resistere alla pressione comunista.
La vicenda del «partito romano» e dei suoi esponenti è significativa espressione di un clima ma, alla fine, è storia di una sconfitta, in primo luogo politica. Tuttavia la sua azione rappresenta per De Gasperi una pressione di un qualche rilievo, perché minaccia l’autonomia della decisione politica della Dc e interpreta il sentire moderato di settori curiali e ecclesiastici. È interessante il caso dell’operazione Sturzo, il tentativo condotto sotto il nome del fondatore del Partito popolare italiano, di coagulare le destre e la Dc in opposizione alle sinistre per le elezioni amministrative al Comune di Roma nel 1952, dove si teme una flessione del partito cattolico. Pio XII appoggia tale operazione, mentre Ronca vi ha un ruolo efficace e riservato. Come è noto, De Gasperi si oppone fermamente all’operazione e, senza l’alleanza con le destre, riporta una vittoria in Campidoglio. Dal 1953 Ronca è sempre più deciso nell’insistere che la situazione politica italiana si può chiarificare solo con una rottura dellaDc e un collegamento con le destre. In Vaticano, non pochi giudicano questo passo avventuroso.
Ma a differenza di quanto a volte si è voluto far credere la Curia romana non rappresenta un ambiente politicamente omogeneo; al suo interno, anzi, esistono sensibilità differenti e schieramenti a volte opposti con idee proprie sul ruolo della Chiesa nella ricostruzione e nell’Italia postfascista. Ronca si impegna nella consapevolezza di rappresentare un decisivo punto di riferimento nel vuoto della società uscita dalla guerra. Ha l’avallo di Ottaviani e di altri uomini vicini a Pio XII39. Interpreta con forza un sentire ampio tra gli ex alunni del Seminario Romano e di settori del mondo ecclesiastico della capitale. Tuttavia, tra gli ecclesiastici, Ronca è tra i pochi che sono disposti a uscire allo scoperto, fuori dal campo religioso, per prendere iniziative politiche.
In questi anni, le questioni italiane di carattere politico sono gestite dalla Santa Sede e in particolare dalla Segreteria di Stato. Com’è noto, solo dal 1952 l’episcopato italiano ha la possibilità di riunirsi in un embrione di conferenza episcopale, con un certo ritardo rispetto all’esperienza di altri paesi. Pio XII, che dopo la morte del cardinale Luigi Maglione non nomina un segretario di Stato, accentra le decisioni. I compiti di Montini alla Segreteria di Stato lo portano a elaborare un disegno per l’Italia del dopoguerra, i cui punti salienti sono la formazione di un partito unico dei cattolici italiani, l’autonomia di questo partito, con una delega della Chiesa stessa. Un impegno unitario dei cattolici, attivo sul fronte politico, per contrastare il pericolo comunista, non dispiaceva al papa. L’alleanza traDe Gasperi e Montini garantisce al primo una sponda in Vaticano, provocando però l’ostilità del «partito romano». Da quest’ultimo emerge ben presto un’alternativa al disegno montiniano, che si esprime in iniziative di stampo sempre più politico. Si tratta di una storia che si situa al confine tra storia ecclesiastica e storia politica, coinvolgendo elementi di entrambi i mondi, in una geografia non sempre chiara, espressione delle comuni preoccupazioni per il futuro del paese e di un sentire che poneva la politica al servizio della Chiesa. Se è difficile parlare di un vero e proprio dibattito interno alla Santa Sede sulla situazione italiana, è chiaro che vi erano due distinti poli di attrazione. Molti laici legati all’entourage di Pio XII, come il conte Galeazzi e il principe Pacelli, risultano assai vicini al «partito romano» e collaboratori dell’attività di Ronca.
Frequenti erano anche i rapporti diretti tra Ronca e De Gasperi; infatti, quest’ultimo era consapevole della forza del «partito romano» nella Curia e nella Chiesa italiana. Anche il papa sembrava avere qualche interesse per le posizioni di Ronca. Questa situazione spingeva De Gasperi a tenere aperto un canale di comunicazione con il leader del «partito romano», e all’inizio Ronca sente di avere qualche spazio di manovra per sensibilizzare il politico trentino sulle sue preoccupazioni. Tuttavia, con l’avvento di De Gasperi alla presidenza del consiglio, non è semplice influenzare direttamente il partito cattolico. La strategia diventa dunque quella di ridurre in Vaticano gli appoggi alla politica democristiana per far sentire a De Gasperi il peso della Chiesa e dei suoi propositi più moderati. Il «partito romano» si propone anche, in questi anni, come un punto di aggregazione tra i vescovi italiani di sentire moderato e gli esponenti del più vasto mondo cattolico.
Le elezioni del 1948 segnano una svolta per Ronca dal punto di vista personale: viene promosso e trasferito nella sede di Pompei, piccola diocesi, ma importante meta di pellegrinaggi per il noto santuario mariano e centro di iniziative economiche e sociali. Gli viene attribuito il titolo altisonante di arcivescovo titolare di Lepanto, che richiama un tema più volte riproposto in occasione delle elezioni politiche del 1948, quello dello scontro di civiltà. Gli si riconosce così il ruolo che aveva svolto nella mobilitazione dei cattolici. Alla sua ordinazione episcopale, svoltasi nella basilica di S. Giovanni in Laterano, sono presenti molti uomini politici di primo piano: De Gasperi, Orlando, Bonomi, Saragat, Giannini. È un vescovo influente cui viene garantito, al momento della sua nomina a Pompei, la possibilità di continuare in futuro a occuparsi della politica italiana, venendo a Roma con regolarità.
Anche con il nuovo incarico infatti Ronca continua a dirigere l’attività di Civiltà italica, soggiornando frequentemente a Roma. È certo però che con il suo allontanamento dalla capitale la sua influenza inizia progressivamente a decrescere. Il suo impegno politico non è accettato unanimemente, ed egli stesso denuncia al papa di essere vittima di polemiche e rifiuti. La promozione a Pompei é da intendersi come un allontanamento da Roma? In realtà il titolo di arcivescovo di Lepanto, in memoria della grande battaglia dei cristiani europei contro i turchi musulmani, sembra onorare il ruolo avuto da Ronca nella battaglia elettorale del 18 aprile. Tuttavia è certo che, per gli ambienti vicini a Montini, la promozione di Ronca significava ridurre la pressione esercitata dalla sua multiforme attività politica. Del resto, si faceva notare in Curia, era piuttosto singolare che un rettore di seminario, qual’egli era, dedicasse tanto tempo ad attività esterne all’istituzione da lui diretta. Critiche in questo senso non mancavano anche dall’interno del Seminario Romano.
Intorno a Ronca si era creata una vasta rete di contatti romani. In particolare sono documentati i rapporti con Gedda, padre Riccardo Lombardi, monsignor Ferdinando Baldelli, monsignor Pietro Palazzini e il principe Pacelli, nipote del papa40. Intanto, peggioravano i rapporti con Montini, il quale rappresentava per Ronca un vero e proprio ‘nemico’, non solo politico ma anche ecclesiastico. Veniva avversato il suo appoggio a De Gasperi e al centrismo e si sospettava del suo progetto sul futuro della Chiesa. Si paventava, come si è detto, la non perfetta ortodossia del sostituto, forse troppo sensibile alle idee del cattolicesimo francese e di Maritain.
Fino al 1954, comunque, i documenti confermano il ruolo politico di Ronca. Fu lui che riuscì a far pagare a Pio XII, tramite il cardinal Marchetti Selvaggiani, i debiti dell’Uomo Qualunque di Giannini, e nel 1952 fu nuovamente lui, con ogni probabilità, alla base dell’«operazione Sturzo» per le elezioni amministrative nella capitale41. Nello stesso 1952, a Pompei, Ronca interviene direttamente nella competizione elettorale: si tratta di un test su un campione limitato (circa 7.000 elettori), ma importante per saggiare la possibilità di ripetere l’esperimento a livelli più ampi. Ronca tesse le fila di un apparentamento più largo, in funzione anticomunista, che coinvolge Dc e Partito nazionale monarchico.
La lista civica viene intitolata a Bartolo Longo, fondatore del santuario di Pompei, all’insegna dell’anticomunismo, della religione e della patria. Questa lista ottiene 11 seggi, che insieme ai 9 dei monarchici danno vita a una solida maggioranza; la Dc locale ottiene solo 4 seggi. Questo esperimento di diretto coinvolgimento di un vescovo nella lotta politica suscita l’interesse della Santa Sede, che interviene attraverso il cardinale Adeodato Giovanni Piazza, segretario della Congregazione Concistoriale. A Ronca viene richiesto di stilare una relazione sugli avvenimenti; questo testo arriva a sostenere che la situazione creatasi a Pompei è senz’altro quella dell’intera Italia meridionale, con una Dc scarsamente affidabile, soprattutto per la limitata rispondenza ai disegni della gerarchia cattolica. Nella relazione, Ronca dispiega in realtà un ampio disegno politico, che mira alla creazione di un fronte che apparenti la Dc con i monarchici. Gerarchia ecclesiastica, Comitati civici, Civiltà italica, sindacati, avrebbero spinto la Dc in questo senso: si tratta quindi di una decisa ripresa dell’azione della Chiesa in campo politico.
Proprio il successo ottenuto a Pompei fa di Ronca l’auspice di incontri tra Guido Gonella e Achille Lauro, per una possibile collaborazione tra democristiani e monarchici; tuttavia, la richiesta del Pnm di entrare nell’area di governo si scontra con il rifiuto di De Gasperi, a causa del legame tra questo partito e il Msi. De Gasperi assume in queste circostanze un atteggiamento fermo di chiusura rispetto a qualsiasi concessione ai monarchici, che di lì a poco, tra il 1953 e il 1954, vivono un processo di scissione che li porta presto all’irrilevanza politica. Il Msi, colpito dalla legge Scelba, diventa inutilizzabile politicamente per la creazione di un fronte anticomunista. Sebbene le destre avessero trovato appoggio al Sud dagli ambienti cattolici, ciò rimaneva un fatto locale. Il disegno clerico-moderato interpretato da Ronca fallisce così per la fermezza della Santa Sede, per quella di De Gasperi e per l’impossibilità di operare una saldatura duratura tra l’anima cattolica e la destra, specialmente meridionale, in funzione anticomunista.
Ancora in occasione delle elezioni del 1953 Ronca propone la formazione di una “unione sacra” con le destre per coagulare il mondo cattolico e sconfiggere il centrismo di De Gasperi, considerato un’opzione senza futuro. Missini e monarchici dovrebbero rivolgersi direttamente ad elementi della destra Dc per spostare verso destra l’equilibrio politico del partito. Ronca spera di incontrare un largo favore, proprio perché questa tattica non provocherebbe laceranti scissioni nel partito democristiano. Nel contempo occorre convincere gli Stati Uniti della bontà di un simile cambiamento politico, perché il loro aiuto è necessario alla sopravvivenza delle organizzazioni cattoliche, soprattutto dei Comitati civici.
Ma che tipo di svolta politica auspicavano il «partito romano» e i cattolici moderati? Soprattutto un maggior rigore nel campo del diritto di sciopero, della libertà di stampa, delle attività dirette contro lo Stato e della libertà dei comunisti. Si voleva soprattutto un argine legislativo alle attività comuniste. Si riteneva che l’impegno anticomunista della Dc fosse troppo debole, che l’anelito riformista fosse troppo spinto, che il partito godesse di eccessiva autonomia rispetto alle direttive ecclesiastiche. Insomma, si paventava che questa situazione avrebbe aperto un varco all’affermazione delle sinistre.
Non si può parlare di un dibattito interno alla Santa Sede relativamente alla politica italiana. È più agevole individuare due poli (Montini da una parte e il «partito romano» dall’altra), attorno ai quali si collocano le diverse personalità della Chiesa, tra cui lo stesso Pio XII e monsignor Tardini, responsabile delle questioni internazionali e personalità influente della Segreteria di Stato. Pio XII coglie le grandi possibilità per la Chiesa, insite nel delinearsi di una società di massa, in cui anche i nuovi mezzi di comunicazione permettono un rapporto diretto tra il pontefice e le masse, instaurando un rapporto diretto tra Chiesa e mondo, tra il papa e i fedeli. Ed è proprio in questo tipo di rapporto che si rivelano preziose personalità come Gedda, Baldelli e Lombardi, che possono amplificare la parola del pontefice in un momento di rapida evoluzione sociale.
In questa congiuntura, quando molti cattolici moderati si attendono un pronunciamento favorevole da parte dei vertici vaticani, il trasferimento di Montini a Milano sembra segnare un punto a favore del «partito romano». Con la fine di un canale privilegiato di rapporti tra De Gasperi e la Segreteria di Stato ci sarebbero stati nuovi spazi per un’inversione di tendenza. In realtà i presidenti delle Conferenze episcopali regionali, con la lettera collettiva del febbraio 1954, ribadiscono la necessità dell’unità politica dei cattolici.
Anche per questo il 1954 è un anno chiave nella storia che andiamo raccontando: è l’anno della morte di De Gasperi e della designazione di Montini a Milano, due grandi protagonisti della ricostruzione democratica dell’Italia. La scelta di Montini per la più grande diocesi italiana rappresenta naturalmente un avanzamento, soprattutto per una personalità con incarichi di grande responsabilità, ma non ancora vescovo. La sede di Milano, la più grande diocesi del mondo cattolico, apriva per lui la strada al cardinalato. Ma per Montini questa nomina rappresentò in realtà un allontanamento. Fu una sensazione più che una certezza, ma così la percepì il protagonista. Già vi erano stati alcuni segnali negli anni precedenti, come quando Vittorino Veronese, presidente dell’Azione cattolica e suo collaboratore, era stato sostituito da Gedda alla testa dell’organizzazione. Montini comprese che era anche contro di lui che si rivolgeva tale nomina, una sorta di estromissione dalle vicende del laicato cattolico italiano. Si parlava, anche da parte di papa Pio XII, di infiltrazioni di «sinistrismo» nell’Azione cattolica, forse un implicito riferimento alle direttive di Montini.
Si è anche ipotizzato che al trasferimento di Montini a Milano non siano estranee le dimissioni di Carlo Carretto dalla Giac e il caso Rossi, personalità critica verso la gestione geddiana dell’Azione cattolica42. Altre voci aggiungevano elementi di presunta infedeltà di Montini al pontefice e alle sue direttive, in particolare nel caso della sua disponibilità ad aprire contatti con l’Unione Sovietica43. Negli ambienti dell’Azione cattolica di Gedda, del Sant’Uffizio, in Curia, tra i simpatizzanti di padre Lombardi, un provvedimento contro Montini era auspicato. Molti sentivano di avervi contribuito e ora si compiacevano del successo ottenuto. Se il «partito romano» poteva sostenere di aver convinto il papa dell’infedeltà di Montini, è certo però che la scena di Milano apriva a Montini le porte per una carriera di prestigio, forse anche la possibilità di diventare un giorno papa, come aveva intuito con lucidità Giorgio La Pira44. Papa Pacelli eliminava a Roma una fonte di tensioni, causate dalla forte e originale personalità del prosegretario di Stato (tale era da poco divenuto), ma gli offriva un ‘mondo’ più vasto dove poter operare. Gli consentiva di fare quell’esperienza di governo pastorale che gli era mancata. Letto da un altro punto di vista, il trasferimento a Milano rivela nel contempo la stima del papa per il suo antico collaboratore.
È chiaro intanto che Pio XII intende dare al cattolicesimo italiano un nuovo orientamento, anche con la creazione, proprio nel 1952, dell’embrione della Conferenza Episcopale Italiana, alla quale, è bene ricordarlo, i vescovi italiani nella loro interezza saranno ammessi soltanto a partire dal concilio Vaticano II. In questo periodo sono molto ascoltate da Pio XII le idee di padre Lombardi, convinto che il cattolicesimo italiano debba compattarsi con maggior spirito di coesione (tra le tante diocesi della penisola, tra i religiosi e il laicato) e debba, d’altra parte, muoversi in una logica di mobilitazione. La grande missione di Roma «per un mondo migliore», promossa da Lombardi e sostenuta daPio XII, è il modello di queste mobilitazioni.
Certamente il timore che Montini potesse in qualche modo ottenere un più vasto consenso dalla sede episcopale di Milano era ben presente negli ambienti del «partito romano». Occorreva ora impedire che diventasse cardinale. Ottaviani si impegnò in questo senso, ricercando attentamente presunte fragilità dottrinali del nuovo arcivescovo. Siccome Pio XII, dopo il 1953, non tenne più un concistoro per nominare nuovi cardinali, Montini arrivò alla fine del pontificato pacelliano senza la porpora. Proprio questa mancanza, insieme all’ostilità di non pochi cardinali, fecero sì che venisse ostacolata la candidatura di Montini nel conclave del 1958 che elesse poi Angelo Giuseppe Roncalli al soglio pontificio. Montini, a Milano e poi a Roma, era convinto della necessaria azione dellaDc e della sua altrettanto necessaria autonomia. Mediazione e governo spettavano al partito cattolico e non alla Chiesa, anche se l’arcivescovo fece alcuni interventi in campo politico. Egli era convinto altresì della necessità urgente di una riforma della Curia romana.
Le tensioni accumulate in questi anni sfociano in alcune crisi pubbliche, come quella del caso Rossi e delle forzate dimissioni di Ronca dalla sede di Pompei nel 1955, quando inizia per lui un lungo processo di marginalizzazione politica ed ecclesiastica. A Pompei Ronca si era impegnato in un grande lavoro diocesano e aveva fondato due congregazioni, una maschile e una femminile, gli Oblati e le Oblate della Madonna di Pompei. Tuttavia la sua attività aveva incontrato alcune resistenze, che gli valsero accuse a Roma. Sulla base di queste accuse furono chieste le sue dimissioni dal segretario della Congregazione concistoriale. Un’ultima stagione di attività per Ronca e Civiltà italica si ha durante il governo Pella, considerato la risposta ottimale alla situazione italiana e appoggiato dal «partito romano». Giuseppe Pella rappresenta in un certo senso l’alternativa a De Gasperi: è apprezzato dai ceti medi e incarna l’idea dell’uomo forte, moderato politicamente, di un governo monocolore gradito alle destre. Tuttavia, la breve durata del governo non permette a Ronca di stabilizzare questa collaborazione che esprimeva i suoi ideali politici. Dopo la caduta di Pella nel gennaio 1954 e il successivo tentativo di Amintore Fanfani, Ronca rilancia una volta ancora Civiltà italica, riproponendo un’alleanza con le destre per bloccare i comunisti, proponendo come assolutamente necessaria la creazione di un secondo partito cattolico.
De Gasperi e l’intera dirigenza democristiana sono oggetto di dure critiche e considerate irrecuperabili per una politica ‘sana’. Ronca chiede un aiuto finanziario alla Santa Sede, ma la risposta di Montini, ancora in Segreteria di Stato, è chiara: apprezzamento per le iniziative, ma nessun contributo economico. Tenta a questo punto di coinvolgere i vescovi italiani nel suo disegno politico, forte del fatto che tra l’episcopato serpeggiava un malessere verso il partito di De Gasperi; prova a piegare alcuni discorsi di Pio XII al suo progetto, ma il suo tentativo fallisce perché i vescovi italiani non avrebbero preso mai iniziative politiche di orientamento diverso dalla Santa Sede.
Il fantasma della creazione di un secondo partito cattolico, agitato per oltre dieci anni dal «partito romano», era servito come strumento di pressione sulla Dc, ma risulta inattuabile in senso concreto. Il pericolo comunista non permetteva di frazionare le forze cattoliche. Inoltre, laDc, pur di ispirazione e di elettorato cattolici, non poteva sfuggire all’evoluzione propria dei partiti politici di una società in rapida trasformazione, sottraendosi a direttive esterne e anzi aumentando i propri margini di autonomia dalla Chiesa, come si vede nell’arco degli anni successivi. Uno dei protagonisti della lunga stagione democristiana, Giulio Andreotti (personalità che può vantare, tra gli altri, importanti legami negli ambienti della Curia), afferma che l’alternativa politica allaDc era già caduta ben prima della metà degli anni Cinquanta45.
Il 1954, dunque, con la fine del centrismo e l’avvio di una fase politica più incerta, offre un’ultima possibilità al mondo clerico-moderato, che ascolta il desiderio di stabilità politica espresso dai ceti medi, preoccupati della vitalità mantenuta dalle sinistre in dieci anni di vita parlamentare e democratica. Ma la Segreteria di Stato vigila affinché le iniziative moderate non portino alla divisione del partito, considerata negativamente. Il limite delle iniziative di Ronca e del suo entourage sembra quello di non aver compreso che la Dc è ormai un partito autonomo, poco permeabile alle influenze esterne. Per questo l’azione di Ronca viene tacitata definitivamente con la rimozione da Pompei, nel 1955, con un provvedimento interpretato negli ambienti vicini al prelato come una sorta di ritorsione dopo il trasferimento di Montini da Roma alla sede episcopale di Milano. Se sembra ormai acclarata l’estraneità dell’ex sostituto della Segreteria di Stato a questa decisione, forse non altrettanto si può dire degli ambienti della Segreteria di Stato: le attività di Ronca, infatti, ostacolavano non solo Montini, ma anche il ruolo stesso della Segreteria nelle vicende italiane.
Troppo esposto sul piano politico, Ronca diviene ingombrante per lo stesso ambiente vaticano dov’era cresciuto, e per alcuni dei suoi amici più influenti, tra cui il cardinale Ottaviani e monsignor Pietro Parente tra i principali. Il segretario della congregazione Concistoriale, cardinale Rossi, lo convoca a Roma e gli contesta accuse relative all’amministrazione finanziaria del santuario, tanto da esigere le sue dimissioni. Non ha ancora cinquantacinque anni e la sua attività è bruscamente interrotta. Con la rimozione da Pompei il suo prestigio, religioso e politico, inizia a diminuire velocemente. La sua vita relazionale si va impoverendo, sia dal punto di vista ecclesiastico che politico. Egli imputa sempre le dimissioni forzate cui era stato costretto a una manovra dei suoi nemici di sempre.
In realtà accertamenti successivi, condotti sotto il pontificato di Giovanni XXIII, provano l’infondatezza degli addebiti mossi a Ronca. In effetti Roncalli, ex alunno del Seminario Romano, trova il modo di riabilitare, in un certo senso, la figura del prelato, nominandolo nel 1962 ispettore generale dei cappellani delle carceri italiane: non un incarico prestigioso, ma il chiaro segnale che nessuna condanna pesava sull’arcivescovo.
Intanto, nel primo concistoro di Giovanni XXIII, Montini fu creato cardinale. Era giunto nel Sacro Collegio, da cui il «partito romano» voleva escluderlo. Nella Chiesa giovannea la sua figura risulta autorevole e ascoltata, mentre il «partito romano» perde ormai centralità. Intanto gli ambienti ecclesiastici guardano con preoccupazione alla ‘carriera’ di Montini e molti ambienti politici temono un suo possibile appoggio alla creazione del centro-sinistra.
Il pontificato roncalliano segna comunque una cesura rispetto alle priorità e alle tensioni del governo di Pio XII. Si vuole ora rimarcare il distacco della Chiesa dalla vita politica. Uomini come Gedda, padre Lombardi e lo stesso Ronca appartengono a una stagione ormai conclusa. Lo si vede bene durante il concilio Vaticano II, al quale Ronca partecipa stancamente su posizioni assai tradizionali.
Ma è in conclave che il «partito romano», tra i cardinali, ha una forza ancora maggioritaria. Il 1963 si situa all’interno del periodo conciliare e il conclave da cui esce eletto il successore di Giovanni XXIII si colloca in un momento di grande cambiamento per la Chiesa. Alla candidatura di Montini, appoggiato dalla maggioranza conciliare, si oppone quella del cardinale Ildebrando Antoniutti, espressione di ambienti che possono essere ricondotti al «partito romano». Ma grazie ai voti di un gruppo di suoi antichi oppositori, guidati da Ottaviani, Montini viene eletto papa, dopo aver ottenuto alcune garanzie sulla nomina del segretario di Stato46. Quella del conclave del 1963 rappresenta quindi l’ultima battaglia e l’ultima sconfitta del «partito romano». Montini, da papa, decide di proseguire i lavori del Vaticano II e di aprire una prospettiva riformatrice ad ampio raggio. Questa attività di riforma appare eccessiva non solo al «partito romano» e agli ecclesiastici di curia, ma anche a vescovi importanti nella conferenza episcopale, come ad esempio Siri.
Quando Montini venne eletto papa, nel 1963, Ronca vede accrescere i suoi problemi. Per lui, personalmente, si trattava di una bruciante sconfitta: quella Chiesa per cui aveva sempre lottato era finita. Il nuovo papa voleva sostituirlo alla guida dei cappellani delle carceri, ma il vescovo resistette nella sua carica fino al compimento dei 75 anni. Si può dire che Ronca, durante il pontificato di Paolo VI, appaia come un sopravvissuto di un’epoca ormai finita. Così si restringono i suoi contatti, specialmente dopo che Ugo Poletti, vicario di Roma, opera – su indicazione di papa Montini – per liberare la diocesi di Roma da quella somma di influenze che provenivano dalla Curia romana e che appesantivano la vita pastorale.
Il disegno di riforma e di rilancio della curia è importante per Paolo VI, che conosce bene l’ambiente dove aveva lavorato per tanti anni. Nella sua visione del rapporto tra il Vaticano e la politica italiana la centralità della Dc rimane intatta, ed egli non nega il suo appoggio ai responsabili del partito. Gli antichi dissapori assumono ora nuove colorazioni. Ronca sostiene in questi anni che vi è un pericolo di inquinamento della fede, e che il soglio di Pietro ora è occupato da un papa non del tutto in linea con la tradizione e l’ortodossia della Chiesa. Ma proprio il suo essere prete romano, vicino per tradizione al papato, lo porta a mantenere una posizione assai lontana da quella assunta, ad esempio, proprio in quegli anni da monsignor Marcel Lefebvre, il vescovo francese che aprirà la porta al più grave scisma nella Chiesa cattolica del XX secolo. Proprio Lefebvre dimostrò di comprendere assai poco il cattolicesimo italiano quando pensava che un ampio settore del mondo ecclesiastico romano lo avrebbe seguito sulla via dell’opposizione al concilio Vaticano II e al papa regnante. Alcuni vescovi italiani furono assai critici versoPaolo VI e le sue riforme, ma nessuno di loro si spinse mai fino all’ipotesi di creare una Chiesa alternativa, come fece il presule francese. Ronca fa parte di quel settore del cattolicesimo che si attestò su posizioni nostalgiche, ma conservò in ogni caso la fedeltà al papa e l’unità della Chiesa47. Nonostante i dubbi e lo spaesamento che si registrano, c’è la certezza che senza l’unità con Roma non c’è fede cattolica. Ronca è uno dei vescovi italiani maggiormente in difficoltà negli anni delle riforme conciliari: si rifugia in posizioni tradizionaliste, mentre il suo isolamento cresce. Si spegne nel 1977, proprio un anno prima della morte di Montini.
La vicenda del «partito romano» rivela un aspetto importante della Curia di Pio XII, tutt’altro che monolitica e attraversata da tensioni non piccole. In effetti l’isolamento crescente del papa, che riceveva solo pochi collaboratori, tra i quali il sostituto Montini e il segretario per gli Affari Straordinari Tardini, poteva favorire queste polarizzazioni. Esistevano all’interno della Curia romana sensibilità politiche, ecclesiali e spirituali differenti, e la visione di Ronca era quella di parte dell’episcopato italiano, soprattutto meridionale. La sua posizione era spesso condivisa anche da papa Pacelli, che riteneva De Gasperi troppo prudente nell’inglobare le destre nel suo disegno politico.
La Curia modifica in profondità la propria identità con la riforma di Paolo VI, che la rende più internazionale e ne modernizza il funzionamento. Quella romanità ecclesiastica che era essenziale durante gli anni di Pacelli diventa periferica con Montini. Gli incarichi di maggiore responsabilità divengono quinquennali; intanto, Paolo VI crea il sinodo dei vescovi; viene rafforzato il ruolo del segretario di Stato, che diviene una sorta di primo ministro; gli stessi uffici della Segreteria vengono potenziati. Durante il suo pontificato, papa Montini sembra effettivamente essere il vero motore della Segreteria di Stato. L’internazionalizzazione della Curia procede speditamente; questo fatto, insieme all’introduzione dei limiti di età, muta in profondità la realtà di quella Curia che era stata la culla del «partito romano». Gli anni di Paolo VI coincidono con un mutamento profondo del sistema di cooptazione del personale della Curia e del suo governo.
La nuova architettura montiniana risponde al preciso intento di promuovere un cambiamento generazionale e di classe di governo all’interno della Chiesa. A questo proposito si è parlato di un gruppo ‘montiniano’, per indicare personale ecclesiastico vicino al pontefice e partecipe dei suoi progetti di riforma. La sconfitta del «partito romano» diventa in questo frangente la sconfitta della Curia dei ‘romani’, un ambito ancora più vasto. Si realizza con il tempo un nuovo stile nel governo centrale della Chiesa.
Durante il pontificato montiniano muta anche il peso dell’anticomunismo nelle priorità della Chiesa, anche per le aperture e i contatti con il mondo dell’Est che si erano consolidati in quegli anni. Anche questo aspetto sarà fondamentale per gli equilibri dei conclavi del 1978, dove riemerge una candidatura Siri contrapposta a quella del montiniano Benelli. In questo scontro, che offre un’impressione poco positiva ai cardinali stranieri, si consuma anche la fine del pontificato italiano. Oltre al «partito romano», tramonta anche la preminenza degli italiani nel governo della Chiesa. Con il pontificato di Giovanni Paolo II, la Chiesa si apre ad orizzonti decisamente estranei alle questioni politiche italiane. In questo quadro, con l’89, matura anche l’erosione delle basi politiche, ecclesiali e geopolitiche, che avevano sorretto il disegno di De Gasperi e Montini che è alla base dell’esistenza dellaDc. Tra gli anni Ottanta e Novanta si consuma la crisi del partito cattolico unitario, così come si era consolidato negli anni della costruzione della Repubblica.
La storia del «partito romano» rimane emblematica di una stagione di vita della Chiesa, della Curia ma anche della politica italiana: «Il “partito romano” viene sconfitto nei suoi disegni politici alla metà degli anni Cinquanta. La forza dei romani nel mondo ecclesiastico conosce una caduta con il concilio Vaticano II, anzi una vera eclissi. Il conclave del 1963, quello da cui è eletto papa Paolo VI, è l’ultima battaglia di questo mondo contro un ecclesiastico riformatore. Ma nella Chiesa le continuità e le discontinuità si muovono con scansioni e connessioni differenti da quelle della storia della politica e delle altre istituzioni. Soprattutto resta la realtà di Roma. Roma, come sede del papato, mantiene un rapporto particolare con l’Italia (anche con un papa non italiano) e rimane un punto di riferimento non solo tra i cattolici, ma anche nel più vasto mondo ‘cristiano’»48.
1 Si veda A. Riccardi, Chiesa del Papa e Chiesa locale. Roma la città di tutti i cattolici, in Divinarum rerum notitia. La teologia tra filosofia e storia. Studi in onore del Cardinale Walter Kasper, a cura di G. Coffele, A. Russo, Roma 2001, pp. 347-364.
2 Cfr. A. Riccardi, Roma «Città sacra»? Dalla Conciliazione all’operazione Sturzo, Milano 1979.
3 Cfr. R. Aubert, Il pontificato di Pio IX, Torino 1970, e si veda anche A. Riccardi, 1846-1878: Pio IX a Roma, relazione tenuta all’incontro di studio «1870-2010. Roma diventa capitale», tenutosi a Roma il 18 settembre 2010.
4 Cfr. F. Chabod, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, Bari 1971, pp. 215 segg.
5 Si veda ancora A. Riccardi, Roma «Città sacra»?, cit., pp. 59-87.
6 F. Chabod, Storia della politica estera italiana, cit., p. 228.
7 Cfr. A. Gramsci, Quaderni dal carcere, a cura di V. Gerratana, Torino 1975, III, pp. 1674-1675.
8 Cfr. A. Caracciolo, Roma capitale. Dal Risorgimento alla crisi dello Stato liberale, Roma 1993.
9 A. Scottà, La conciliazione ufficiosa. Diario del barone Carlo Monti incaricato d’affari del governo italiano presso la Santa Sede, Città del Vaticano 1997.
10 Si veda A. Riccardi, Roma «Città sacra»?, cit., pp. 120-175.
11 Cfr. M. Impagliazzo, La diocesi del Papa. La Chiesa di Roma e gli anni di Paolo VI, 1963-1978, Milano 2006.
12 A. Riccardi, Roma «Città sacra»?, cit., pp. 177 segg.
13 G. Caputo, Il carattere sacro di Roma, Milano 1971, p. 31.
14 Cfr. A. Riccardi, L’inverno più lungo. 1943-44: Pio XII, gli ebrei e i nazisti a Roma, Roma-Bari 2008.
15 F. Chabod, L’Italia contemporanea (1918-48), Torino 1961, p. 125.
16 Cfr. A. Riccardi, L’inverno più lungo, cit., pp. 340-343.
17 Cfr. P. Scoppola, La proposta politica di De Gasperi, Bologna 1977.
18 Cfr. A. Giovagnoli, Il partito italiano. La Democrazia cristiana dal 1942 al 1994, Roma-Bari 1996.
19 Cfr. C.F. Casula, Domenico Tardini 1888-1961, Roma 1988.
20 Per una ricostruzione della vicenda si veda A. D’Angelo, De Gasperi, le destre e l’operazione Sturzo. Voto amministrativo del 1952 e progetti di riforma elettorale, Roma 2002.
21 Cfr. A. Riccardi, Pio XII e Alcide De Gasperi. Una storia segreta, Roma-Bari 2003.
22 Cfr. A. Riccardi, L’inverno più lungo, cit., pp. 32-33.
23 La vicenda di Ronca è ricostruita in A. Montonati, Nel segno di Maria. Roberto Ronca, vescovo e fondatore, Roma 2006.
24 A. Riccardi, Il «partito romano». Politica italiana, Chiesa cattolica e Curia romana da Pio XII a Paolo VI, Brescia 2007. Si veda anche R. Sani, «La Civiltà cattolica» e la politica italiana nel secondo dopoguerra (1945-1958), Milano 2004.
25 Si veda la postfazione in A. Riccardi, Il «partito romano», cit.
26 Cfr. A. Giovagnoli, Il partito italiano, cit.
27 Cfr. M.C. Giuntella, R. Moro, Dalla Fuci degli anni ’30 verso la nuova democrazia, Roma 1991; Ph. Chenaux, Pio XII. Diplomatico e pastore, Cinisello Balsamo 2004.
28 Cfr. P. Scoppola, La repubblica dei partiti. Evoluzione e crisi di un sistema politico 1945-1996, Bologna 1991.
29 Cfr. A. D’Angelo, De Gasperi, le destre e l’operazione Sturzo, cit.
30 Cfr. A. Riccardi, Ronca, Roberto, in DSMC, 3/II, pp. 733-735.
31 Cfr. A. Riccardi, Il «partito romano», cit., p. 19.
32 Cfr. R. Sani, «La Civiltà cattolica» e la politica italiana, cit.
33 A. Riccardi, Il «partito romano», cit., p. 115, n. 60.
34 Su questo atto del Sant’Uffizio si veda il contributo di Giuseppe Ruggieri nella presente opera.
35 Si veda la biografia del cardinale di N. Buonasorte, Siri. Tradizione e Novecento, Bologna 2006, dove sono documentati anche i rapporti tra l’arcivescovo di Genova e monsignor Ronca.
36 Cfr. A. Riccardi, Il «partito romano», cit., p. 22.
37 Ibidem, p. 145.
38 Ibidem, p. 149.
39 Su Ottaviani si veda E. Cavaterra, Il Prefetto del Sant’Uffizio. Le opere e i giorni del cardinale Ottaviani, Milano 1990, con estratti del suo diario personale.
40 Sull’apporto di Gedda alla campagna elettorale del 1948 si possono consultare le sue memorie: L. Gedda, 18 Aprile 1948. Memorie inedite dell’artefice della sconfitta del Fronte Popolare, Milano 1998; su padre Lombardi e la sua attività cfr. G. Zizola, Il microfono di Dio. Pio XII, padre Lombardi e i cattolici italiani, Milano 1990; a proposito di Baldelli e la sua organizzazione C. Falconi, L’assistenza italiana sotto bandiera pontificia, Milano 1957.
41 Cfr. A. Riccardi, Roma «città sacra»?, cit., pp.358 segg.
42 Si veda M.V. Rossi, I giorni dell’onnipotenza. Memoria di una esperienza cattolica, Roma 1975; M.C. Giuntella, Cristiani nella storia. Il «caso Rossi» e i suoi riflessi nelle organizzazioni cattoliche di massa, in Pio XII, a cura di A. Riccardi, Roma-Bari 1984, pp. 347-377.
43 Sui contatti tra vescovi italiani e mondo comunista cfr. A. Roccucci, Santa Sede, Chiesa italiana e Unione Sovietica negli ultimi anni del pontificato di Pio XII, in La moralità dello storico. Saggi in onore di Fausto Fonzi, a cura di A. Ciampani, C.M. Fiorentino, V. Pacifici, Soveria Mannelli 2005, pp. 335-359.
44 Cfr. G. La Pira, Beatissimo Padre. Lettere a Pio XII, a cura di I. Piersanti, A. Riccardi, Milano 2004, pp. 112-113.
45 Cfr. G. Andreotti, Intervista su De Gasperi, a cura di A. Gambino, Bari 1977; M. Franco, Andreotti. La vita di un uomo politico, la storia di un’epoca, Milano 2008.
46 Cfr. A. Melloni, Il conclave, Bologna 2001, p. 123.
47 Sul segmento ultraconservatore del cattolicesimo italiano si veda N. Buonasorte, Tra Roma e Lefebvre. Il tradizionalismo cattolico italiano e il concilio Vaticano II, Roma 2003.
48 A. Riccardi, Il «partito romano», cit., p. 306.