Il partito come giudizio e come pregiudizio
Il saggio Il partito come giudizio e come pregiudizio (pubblicato sull’«Unità» il 6 aprile 1912 e poi raccolto nel volume di Laterza Cultura e vita morale del 1914, da cui si cita) condensa il pensiero crociano sui partiti. Su sollecitazione della rivista di Gaetano Salvemini, schierata nella critica dei «politicanti» e per il superamento di «tutti i partiti tradizionali», Croce chiarisce il senso di certe sue affermazioni, che lo ponevano in aperta opposizione al sistema politico vigente. Nate da polemiche di occasione, le sue pagine non si configurano però soltanto come delle parole episodiche, sganciate dal nucleo del pensiero di un filosofo contagiato da un «appassionamento politico» (Etica e politica, 1930, p. 330). E neppure paiono estranee alla sua indagine storiografica, impegnata nella denuncia di «falsi partiti» che, con gracili maschere ideologiche (ma senza tradizioni e «conformità di idee»), coprivano con finte schermaglie delle spicciole trame clientelari (Carini 1975).
Con quella che è stata definita «una affrettata analogia» (Bobbio 19862, p. 216), Croce riconduce la questione dei partiti a quella dei generi letterari nella retorica. Da uomo di lettere – «insisto nel mio paragone, che a me dà chiarezza, e forse la darà anche ad altri, perché la maggioranza degl’italiani è di letterati» (Il partito come giudizio e come pregiudizio, in Cultura e vita morale: intermezzi polemici, 1914, p. 218) – più che da studioso dei fenomeni politici, Croce ricorre all’analogia con i generi letterari per lanciare come dirimente la frizione tra vita e forma, tra intuizione e tecnica. Molte delle descrizioni correnti del fenomeno associativo «porgono un’utile maniera al sociologo di rappresentare schematizzando la vita politica» (p. 218). Ma, rispetto al sociologo, che si pone «sul terreno effettuale», Croce è convinto che «non si tratti di costruire sociologie». E per questo inquadra i partiti come dei «generi della casistica politica» che qualificano le varie tendenze. Li assume cioè come degli equivalenti di pseudoconcetti, di modelli utili per classificare, ma non certo per cogliere l’essenza del processo vivente. Se enfatizzati, i generi occultano la sostanza vera, la matrice ideale più profonda dell’arte come della politica, che risiede nell’irruzione dell’individuale come plasmatore del nuovo. I partiti, come degli aridi generi letterari, impongono schemi che comprimono ogni agire libero riservato al soggetto che sprigiona la sua energia. Persiste, nel disegno etico-politico di Croce, una visione generale incentrata sulla piccolezza del partito e della sua funzione (Nicolini 1962, p. 269). Più che configurarsi come un fenomeno organizzativo, i partiti rinviano a uno schema inventato per classificare delle tendenze ideali, a una «fallace dottrina» che alimenta «le più curiose dispute» (p. 216). Il partito è un’etichetta astratta che rischia di confondere, alterare, dividere e perciò è necessaria una critica dei generi che metta in risalto il senso dell’agire, dell’energia, dell’attimo creativo. Per un verso è la storia che incanala l’ispirazione in certe forme; per un altro, Croce avverte che il genere è il complesso di ritrovati tecnici con i quali «l’uomo politico deve concretare il suo impeto volitivo» (p. 217), deve immettere il volere nelle condizioni tecnico-formali del suo agire. Nate dall’agire, le forme servono come deposito per un ulteriore agire perché trattengono, trasmettono e, se non riescono a mantenere una nuova intuizione, decadono.
Nel contestare la funzione centrale dei generi e nel rivalutare le forze vitali, Croce avverte la necessità di schivare il sospetto di avere qualcosa a che spartire con quell’avversione irrazionalistica verso le regole e gli schemi mentali che per lui è tipica dei futuristi. Dell’utilità dei generi o dei momenti formali «nessuno nega, e neppure io, e se qualcuno mi ha inteso così, mi ha frainteso, e mi ha scambiato, che so io?, per un “futurista”» (Il partito, cit., p. 218). Le astrazioni sono pedanterie, tuttavia – poiché «dal nulla non sorge nulla» – hanno anche una loro funzione in quanto «hanno dietro di sé qualcosa», ossia le istituzioni, abitudini o vita passata. In tal senso, i partiti «conservano il lavoro compiuto», sono cioè «un meccanismo» che «fa risparmiare fatica pel futuro» (p. 217). Nello sforzo crociano di tenere insieme la forma e la vita, la tecnica e l’energia, i partiti-generi sono degli utili depositi entro cui occorre entrare per svolgere l’azione politica, inserendovi idee e intuizioni che procedono eslege.
Chi tramuta il genere in sostanza transita dal giudizio al pregiudizio, per cui l’astrazione viene scambiata per la realtà stessa del fenomeno. I generi servono, sono già dati e risparmiano fatiche, ma non vanno accolti passivamente, occorre sempre aggiungere a essi qualcosa di innovativo, un raptus creativo, per consegnarli alla decadenza e all’oblio. Una «nuova forma» è l’occasione per modificare le casistiche ricevute con innesti vitali che racchiudono l’energia dello spirito. Oltre a ricevere il materiale di un «canale esistente», occorre per Croce aprire sempre «un nuovo canale» che risolva la crisi delle forme in una sintesi diversa. L’individualismo del poeta creativo, che con il suo genio innova la forma poetica, suggerisce analogie con il tratto del politico che si immerge in una forma partitica già esistente e la guida negli urti con altri aggruppamenti ostili: in questo caso il «canale» collega non per scopi di creazione artistica, ma di contesa.
Intravista questa dimensione dell’inimicizia reale come fenomenologia della politica, Croce rifluisce in una visione individualistica che esalta capacità, moderazione, equilibrio del singolo attore. Ogni politico aggiunge «qualcosa di nuovo» all’esistente formato partitico e, sebbene «accetti un partito esistente», «in realtà crea un nuovo partito» (p. 218). Questa perpetua trasformazione non sminuisce il significato della forma preesistente al contenuto di volontà, poiché ogni atto soggettivo avviene nel «rispetto che si deve alla tradizione», che solo «gli arfasatti disprezzano» (p. 218). Il partito appare entro una dimensione storico-reale sempre provvisoria che ogni agente deve presupporre e utilizzare per infrangerla di continuo. Come sfera individuale, e non come una rete organizzativa, il partito sprigiona una dimensione liquida, che si mantiene fluida in un permanente atto inaugurale. In questa accezione, esso indica per Croce una generica concezione, un pensiero di argomento politico. I programmi elettorali, i profili ideali dei partiti sono delle cornici irrilevanti. Croce ironizza contro il chiacchiericcio di chi cerca la «vera» repubblica, la «vera» libertà. Le «comiche definizioni» si prestano a innesti, a pratiche di eclettismo deteriore; il «buon conservatore» e il «buon socialista» scambiano concetti, mescolano programmi. Se combattono apertamente tra loro basandosi su interessi collettivi organizzati, i partiti sono stigmatizzati come agenti di dissoluzione sociale. Se procedono spediti verso l’omologazione delle idee, sono parimenti denunciati come maschere illusorie.
Oltre che in un senso debole, le ideologie allo sguardo di Croce si presentano in una valenza più forte. Per un verso sono divisioni solo nominalistiche che non producono frammentazioni di ostacolo ai comuni obiettivi di progresso. Per un altro sono invece armi distruttive in quanto edificano identità separate e con il loro spirito di lotta coprono una «mala volontà» che procede orientata al «capriccio». L’ideologia diventa così una «fallace dottrina» che occulta il bene comune e orienta verso il «proprio utile individuale» (p. 216). Non si tratta più di appurare se le concezioni in campo siano vere o fallaci, ma di valutare in che modo ispirino la lotta.
È quanto Croce rileva nelle ideologie del socialismo che danno una temibile consistenza empirica alle astrazioni. I filosofi tedeschi hanno rinsaldato «l’ipostasi di quelle astrazioni» e acuito l’antitesi dei partiti spingendosi sino alla celebrazione della «lotta di classe». La vita e l’energia che Croce celebra nulla hanno a che vedere con i contrasti di classe che, per il loro disvalore intrinseco, sollecitano in lui l’allarme sulla rottura dell’armonia dell’uno. Il conflitto di classe è un «concetto logicamente assurdo» che postula un «indebito trasferimento» della dialettica hegeliana dei «concetti puri» alle «classificazioni empiriche». La contestazione di Croce non riguarda solo la confusione logica tra puri opposti (contraddizione) e opposti reali o distinti (per contrarietà), ma coinvolge anche la pratica del conflitto sociale come estrema dissoluzione dell’unità spirituale.
Se è vero che nella sua polemica teorico-politica di solito Croce si accanisce più verso la democrazia che contro il socialismo (Bobbio 19862, p. 81), nel saggio del 1912 il bersaglio centrale è costituito proprio da quest’ultimo, prodotto estraneo alla vitale opera dello spirito. Accanto all’irrazionalismo decadentistico, il socialismo e la sua «superstizione pel partito» (p. 220) appaiono come l’ostacolo a una coscienza italiana moderna. Oltre che sul piano logico, l’attacco crociano si estende anche sul versante pragmatico con la rilevazione che il conflitto radicale rappresenta un che di «praticamente pernicioso» (Il partito, cit., p. 220). Non solo il concetto puro diventa indebitamente empirico ma, con questa metamorfosi, viene a palesarsi nei comportamenti di massa un senso del tutto «distruttivo della coscienza dell’unità sociale».
Nel saggio di Croce l’ideologia socialista è presentata come una «mala gramigna» che tende pericolosamente a rinascere. L’unità, proiettata dai socialisti come regno della ricomposizione oltre il presente scandito dalla lotta di classe, per Croce è già in gran parte realizzata grazie alla benefica tensione tra vita e forme spirituali. Per questo egli raccomanda di tener sempre viva la «coscienza dell’unità sociale» contro ogni schematismo socialista che invece la ferisce. In ogni società, in ogni tempo, avverte Croce, «il momento della lotta è sempre congiunto e sottomesso a quello superiore dell’unità». Il conflitto non assume pertanto contorni distruttivi, come avviene invece quando la lotta di classe viene spacciata come un «imperativo» (p. 220).
Per Croce occorre strappare tutte «le piccole radici» dell’ideologia del conflitto di classe, spingersi nell’opera di pulizia concettuale sino a disimparare il socialismo. Il monito della superiore unità sociale va tuttavia inteso non come un’esortazione generica alla «neutralità», ma come invocazione di specifiche politiche protese al recupero di valori ideali abbandonati. Per questo egli esprime una forte protesta contro «l’inettezza o la pusillanimità» e si scaglia contro chi «copre interessi ristretti» con il nome di «interessi generali». Contro queste «maschere» e questi consapevoli inganni, bisogna condurre un’opera di contestazione perché ogni classe o partito ha «i suoi idola tribus e le sue menzogne» (p. 221). La critica dell’ideologia, che fa della lotta di classe l’estrema forma del conflitto, sollecita misure adeguate per conservare l’ordine spirituale minacciato. Il buon governo, come obiettivo della politica, in Croce non rinvia a schemi programmatici rigidi, ma a un ordine che trascende le tendenze particolaristiche in una continua tensione verso l’unità. Solo il conflitto di classe va bandito, non altri contrasti che sono compatibili con l’ordine sociale. Nelle condizioni reali, gli uomini devono «appoggiarsi a un aggruppamento e avversarne un altro» (p. 217). Questo scenario avversariale di raggruppamenti umani che si combattono significa per Croce «entrare nel meccanismo dei partiti». La natura conflittuale del partito-dottrina individuale, che entra in un gioco competitivo, è ben altra cosa però dal soggetto-parte protagonista dei duri contrasti sociali. Nei conflitti reali tra classi non scorre la vita, la schietta poesia, ma una prosaica tendenza che corrode il sentimento superiore dell’unità.
Alle formule astratte di liberalismo, democrazia, socialismo, conservatorismo, concepite per dividere in maniera pedante o per rompere la coesione, Croce contrappone la realtà della libertà, il volere che tende verso superiori obiettivi («vivere meglio», secondo libertà, cultura). L’agire non segue formule nebulose e ostilità irriducibili, ma vede «gli uomini di buona volontà», che magari «sotto i vari nomi», «vogliono tutti lo stesso». Oltre le divisioni che i partiti enfatizzano, c’è uno spazio comune di azione volta al perseguimento del bene condiviso. L’idea liberale moderata, simpatetica con la formula del metapartito di cultura, di bene pubblico, di civiltà, è una costante nella riflessione crociana, ostile al socialismo come sovversione sociale e alla corrente democratica come prassi legata a consuetudini clientelari (Galasso 20022, p. 241; Reale 2004, p. 24). Al partito che opera nella società e divide, corrompe la coesione necessaria, Croce contrappone il partito come libera opinione creativa, per il quale invoca una funzione costruttiva-nazionale che salvi il Paese dalle spinte dissolutive.
Senza questa vocazione al generale, che mentre traccia una distinzione indica anche l’unità, «quella cosa giudiziosa, che è il partito (giudiziosa, perché creata dal giudizio umano), si muta in pregiudizio» (p. 218). Il partito è, più che un fenomeno sociale organizzato, un giudizio, un mero schema classificatorio di tendenze disposto a ospitare la spinta creatrice del singolo. Da questo ambito generico, in analogia con lo schietto giudizio estetico, Croce discende sul terreno storico e qui interviene la ricognizione del pregiudizio, ossia l’inclinazione di un partito a estrapolare costruzioni formali vuote sganciandole da un processo storico complessivo. Se dalla forma, o giudizio, si passa alla contingenza, o partito-società a sfondo identitario, si incrocia, secondo Croce, un fenomeno «rovinoso» in tutte le situazioni dove operano «le forze dello spirito» e manca l’intreccio tra autonomia e relazione, tra indipendenza della parte e unità. Il problema di fondo che deve scandire l’agire politico è per Croce racchiuso in una domanda cruciale: «Promuoverò o avverserò questa o quella riforma tributaria o elettorale? Questa o quella tendenza di classe? Questa o quella politica bellicosa o pacifistica?» (p. 219). Quindi, oltre la pura forma, il partito diventa un contenuto programmatico che, nell’attitudine alla mediazione che affianca la mera energia vitale, accompagna l’eletto in una costruttiva dinamica parlamentare in cui si intrecciano la parte e la relazione.
L’adesione al partito si configura come condivisione di un programma specifico da realizzare entro le condizioni transitorie della vita delle istituzioni. In tal senso il politico, in quanto connesso alla mediazione e all’utile economico, non definisce il centro della vita dello spirito, come suppongono invece gli alfieri di una politica ricondotta ai dettami di una «ragione raziocinante». I partiti non sono ideologia generale, ma sono programmi puntuali di governo e per questo, entrandovi, il singolo innova la forma con il pensiero, con la passione, con il volere. L’astrattezza della forma viene superata sul piano concreto dell’iniziativa che su singoli temi vede tutti gli attori responsabili impegnati per l’avanzata civile.
C’è chi invoca partiti degli onesti o sogna un abito imparziale per «sfuggire tutti gli aggruppamenti umani storicamente dati» (p. 221). La predilezione di Croce è per il partito dell’interesse generale: un concetto che, malgrado gli inganni e le illusioni, occorre preservare, nel suo abito di manifestazione dell’«unità sociale». Il vero pericolo per la convivenza non sorge da questo concetto, benché abusato, ma dalla «rigida concezione dei partiti e delle classi» (p. 222) che estende il male della disintegrazione dell’ordine prevedendo il primato dell’interesse particolare di una classe su quello generale. Il partito dell’individualismo creativo, proteso alla coesione societaria, in Croce si presenta al tempo stesso come «frammento e sintesi» (Bobbio 1955, p. 238).
In definitiva, con le precisazioni, le cautele e gli accorgimenti concettuali opportuni, Croce accetta il partito perché «i partiti sono necessari, ma necessari nella propria loro cerchia» (Il partito, cit., p. 222). Essi appartengono per lui al piano della «derivazione» e quindi non sono entità da indagare come il luogo della «scaturigine dell’azione politica». Frutto di un raziocinio astratto, le forme partito sono la conseguenza e non la premessa dell’agire. Nella scienza politica di Croce compaiono la classe politica e il ceto dirigente, ma sullo sfondo restano i partiti quali strutture permanenti in grado di selezionare quelle élites che «sanno fare». Con quello che qualche studioso ha giudicato un «atteggiamento qualunquistico» (Galasso 20022, p. 244), che giudica cioè le distinzioni dei partiti solo come tracce ingannevoli che coprono una sostanziale omologazione, Croce auspica una capacità di governo che vada oltre la lotta fra gli schieramenti. «La vera azione politica richiede sempre un trarsi fuori dai partiti per affisare, sopra di essi, unicamente la salute della patria» (Il partito, cit., p. 222). L’agire politico deve schivare ogni senso di parzialità che frantuma la struttura sociale e trascende il richiamo all’unità superiore.
Entrare nel partito significa uscirne per definirne uno nuovo o rinnovare gli esistenti organismi tramite una creazione individuale e ineffabile. Solo con «questo trarsi fuori dal partito» è possibile mantenere il disperato senso dell’unità altrimenti in frantumi. Non «la signora Democrazia e il signor Socialismo», idee prive di esistenza, ma le «questioni determinate e concrete» sono al centro della buona politica orientata all’universale. Secondo Croce ciò che davvero importa nell’agire politico è che «l’ispirazione sia profonda e il lavoro dell’esecuzione scrupoloso e tenace» (p. 222). Partiti con il senso della patria, della nazione, dell’unità devono alimentare nelle classi dirigenti un sentimento schietto di coesione e di unità sociale. Il buon governo implica la coltivazione di idee costruttive e non partiti con interessi organizzati e tendenze particolaristiche. In Croce l’azione del singolo conta più che il partito e l’ideale morale vale più dei rapporti di forza tra le classi sociali. La sua inclinazione è protesa verso un partito che vibra come un’idea del buon governo più che come una storica organizzazione del conflitto.
Contro gli interessi di partito, scrutati con sospetto, Croce enfatizza l’incidenza dei valori metapolitici. Egli condivide la persuasione della cultura liberale del suo tempo che celebra la funzione delle aristocrazie e delle classi politiche ma, in vista di una grande proiezione etico-politica, esclude l’opera di rigide macchine e di attori collettivi ben strutturati. Questa visione rinvia al ceto medio, a vagheggiamenti sul partito degli intellettuali, a disegni di metapartiti della cultura, piuttosto che a organizzazioni politiche durevoli radicate nelle fratture sociali. L’agire politico, secondo la concezione di Croce, tollera la presenza dei partiti purché lo spirito si sollevi contro la macchina, la volontà vitale contro la forma, l’unità contro gli interessi, i valori contro il conflitto, la passione contro l’organizzazione, l’intuizione contro i programmi rigidi.
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