Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La rappresentazione del paesaggio come forma autonoma, indipendente dalla “pittura di storia”, è fenomeno che riguarda le aree culturali del Nord Europa già a partire dalla prima metà del XVI secolo. In Italia (se si escludono le esperienze della scuola veneta) la civiltà umanistica aveva confinato lo spazio del paesaggio in un ruolo secondario, impiegandolo per lo più con funzione di “sfondo”, o relegandolo nelle parti decorative degli affreschi. È soltanto nel corso del Seicento che la pittura di paesaggio conosce in Europa una vasta e varia fortuna, ottenendo riscatto nella gerarchia dei generi pittorici.
Il paesaggio come “genere”
Le innovazioni dei pittori fiamminghi e tedeschi nel campo della pittura di paesaggio sono alla base di un approfondimento tematico che porta il genere a svilupparsi come forma autonoma. La propensione a osservare le cose della natura, unita alla mancanza di una gerarchia dei soggetti, favorisce nelle aree nordiche, e in particolare nei Paesi Bassi, il libero sviluppo dei cosiddetti “generi” (il paesaggio, la natura morta, il ritratto ecc.), offrendo libero campo alla specializzazione.
Nei territori olandesi, il processo di frammentazione dei generi assume particolare rilievo con l’avvento della Riforma protestante che, se da un lato estingue la committenza ecclesiastica, dall’altro potenzia il mercato privato e la diffusione di soggetti profani.
Joachim Patenier, attivo ad Anversa nella prima metà del Cinquecento, è tra i primi artisti a considerare la natura quale vero soggetto di un dipinto. In un contesto culturale differente, Albrecht Altdorfer giunge agli stessi risultati in Germania, concependo intorno al 1510 un Paesaggio con San Giorgio, dove la figura umana appare totalmente immersa nella fitta vegetazione della foresta, fino a confondersi con essa. Questo atteggiamento è proprio di una civiltà artistica priva del sedimento culturale classico, e quindi aperta alle suggestioni dell’ambiente e della natura, una cultura priva di pregiudizi riguardo ai contenuti, in cui la pratica artistica risulta ancora vicina a quella artigianale e, come questa, priva di attributi nobilitanti.
Karel van Mander, pittore e storiografo olandese, dedica al paesaggio e alle sue diverse applicazioni un intero capitolo nel proprio poema didattico sulla pittura. In Italia, nei primi decenni del secolo, la “pittura di paese” risulta ancora subordinata alla “pittura di storia”, e la sua funzione resta quella di “dilettare”, secondo un’espressione in uso fin dai tempi del Vasari.
Artisti nordici a Roma
La continua migrazione di pittori nordici verso l’Italia, alla fine del Cinquecento, contribuisce a diffondere la pratica del paesaggio come genere specifico. Il nobile dilettante Vincenzo Giustiniani ne dà un breve resoconto nel proprio Discorso sulla pittura (1610 ca.), individuando la maniera nordica.
Paul Brill, fiammingo di Anversa, giunge nel 1575 a Roma, all’età di ventun anni. Rappresentante della tradizione paesaggistica del manierismo fiammingo, diviene ben presto un punto di riferimento per l’ambiente romano. Lavora alle lunette della Scala Santa in Vaticano (1588) e ottiene commissioni per casa Mattei, per il casino Rospigliosi e per alcune chiese romane, intensificando allo stesso tempo la produzione da cavalletto su tela e su rame.
Brill, nei suoi paesaggi, promuove la natura a elemento portante della composizione, dotandola di autonomia e pari dignità rispetto alla historia. I temi spaziano dal sacro al profano, dalle marine alle vedute costiere, ai paesaggi con rovine.
Si costituisce un vasto repertorio di immagini naturalisticheche sarà raccolto e ampliato dalle generazioni successive.
Accanto alle suggestioni fantastiche, “una geografia verde e azzurra di foreste, porti e castelli senza luogo” (Zeri), risalta il modo analitico di rappresentare la natura con attenzione botanica, tipico della tradizione nordica.
A partire dai primi anni del Seicento, Brill reagisce alle innovazioni di Annibale Carracci, principale artefice della corrente classicista del paesaggio. Il mutamento stilistico si manifesta col progressivo abbandono della “veduta dall’alto” e con l’adozione del punto di vista frontale, come rileva Giulio Mancini intorno al 1620: “vedendo le cose dei Caracci et del Cavalier Giuseppe d’Arpino ha lasciato quello stento fiammengo, accostandosi più al vero”.
Nella più assoluta autonomia stilistica e poetica si muove AdamElsheimer, nativo di Francoforte, formatosi nella propria città a contatto con le esperienze paesaggistiche della scuola di Frankenthal avviata dal fiammingo Gillis van Coninxloo.
Nel 1600 Elsheimer giunge a Roma, dopo aver trascorso un breve periodo a Venezia presso il pittoreHans Rottenhammer, che lo introduce aTintoretto e alla pittura veneziana. Singolare meteora nel panorama romano d’inizio secolo, Elsheimer è l’interprete di un nuovo stile pittorico e di una maniera realistica di trattare la natura che pone le basi del moderno paesaggismo europeo.
La natura intesa come entità viva e presente, scrutata nella varietà dei suoi fenomeni (dalle luci mattutine ai notturni lunari) diviene scenario privilegiato in cui ambientare i fatti della storia umana e religiosa, facendo propri il naturalismo e le ricerche luministiche di Caravaggio.
“Nulla di simile si era visto prima di allora a Roma”, scriverà più tardi il concittadino di ElsheimerJoachim von Sandrart (Academia Tedesca, 1675-79), commentando la nuova via aperta dal pittore tedesco, dedito a imitare il vero naturale nelle pitture di piccolo formato e a osservare con incessante curiosità la natura nelle sue diverse apparenze. “Stava seduto o sdraiato intere giornate a contemplare gli alberi” (Sandrart) e ne fissava così intensamente le forme, i colori, i riflessi da riprodurli in modo perfetto, senza l’aiuto del disegno.
L’incidenza di Elsheimer sul panorama della pittura europea è vastissima. Nonostante la sua precoce scomparsa (muore all’età di trentadue anni) e l’esigua produzione, egli aveva esercitato un fascino senza precedenti sui contemporanei, come si può cogliere dalle parole di Rubens: “è morto nel pieno vigore delle sue capacità; si sarebbero potute attendere da lui cose che mai esisteranno. Il destino lo ha mostrato solo all’inizio”.
A raccogliere l’eredità elsheimeriana sono non soltanto artisti nordici presenti a Roma, quali Goffredo Wals, i fratelli Jacob e Jan Pynas,Pieter Lastman, Cornelis van Poelenburg, Bartholomeus Breenbergh fino a Rubens, ma anche numerosi pittori italiani.
Il motivo dell’acqua e dei suoi riflessi (sviluppato da Claude Lorrain) la precisione nel rendere le variazioni della luce e nel fondere le figure nel paesaggio, la capacità di dare risalto monumentale al piccolo formato, saranno oggetto di riflessione per artisti quali Carlo Saraceni, Filippo Napolitano,Agostino Tassi, Orazio Gentileschi e molti altri.
Hendrick Goudt (1583-1630), che aveva frequentato lo studio di Elsheimer a Roma, divulgherà in Olanda lo stile del maestro per mezzo di numerose incisioni tratte dagli originali. Tali immagini saranno decisive per gli sviluppi della scuola paesaggistica olandese fino a Rembrandt.
Carracci a Roma e le premesse
Nella Roma del primo Seicento, negli stessi anni in cui si diffonde un interesse specifico per il tema del paesaggio, si delinea una tendenza classicista.
Annibale Carracci e l’allievo Domenichino aprono la strada a un’interpretazione classicista della natura, ponendo le basi alla corrente ideale della “pittura di paese”; da qui i presupposti estetici di Nicolas Poussin e Claude Lorrain.
A Bologna i Carracci, negli ultimi decenni del Cinquecento, si erano orientati a una visione naturalistica attraverso lo studio del vero, per la conquista del “naturale” in pittura. Numerosi disegni di paesaggio di Annibale, insieme con alcuni dipinti degli anni bolognesi, documentano questo studio d’après nature che, durante il periodo romano, si ricomporrà in forme armoniose di equilibrio classico.
La lunetta con la Fuga in Egitto (1603-1604), eseguita da Annibale a Roma per la cappella di Palazzo Aldobrandini al Corso, propone una rinnovata formulazione del rapporto uomo-natura: nelle dimensioni di 230x122 cm, la vasta architettura naturale domina sulle figure di primo piano, proposte in scala ridotta. Annibale ricerca una condizione ideale, in cui ogni elemento del paesaggio venga selezionato in vista di un “montaggio assoluto”. Il risultato è quello di un’immagine pensata, equilibrata, in cui gli aspetti di casualità sono ormai aboliti.
Le stesse posizioni classiciste vengono sostenute sul piano teorico da Giovanni Battista Agucchi, protettore del Domenichino e segretario del cardinale Pietro Aldobrandini.L’erudito bolognese aveva tracciato nel 1602 un programma iconografico in cui erano indicati i caratteri nobili e distintivi del “paesaggio ideale”; caratteri che trovano riscontro nell’opera del Domenichino e di Francesco Albani.
L’ideale classico si consolida a Roma, tra il 1640 e il 1660, con l’opera dei francesi Nicolas Poussin e Claude Lorrain. Nel desiderio di esprimere l’armonia degli equilibri interni alla natura, l’ordine e la razionalità, essi conducono al più alto grado il processo di selezione del paesaggio.
Il tema del paesaggio a forte contenuto filosofico costituisce il punto di arrivo della carriera diPoussin, formatosi come “pittore di storia”. Un intenso rapporto lega il pittore alla città di Roma(dove era giunto trentenne) e ai luoghi della campagna romana. Nella zona Flaminia presso Tor di Quinto, battezzata poi “Val di Pussino”, è solito recarsi a disegnare per fermare sulla carta “alberi, cieli, lontananze” (De Piles); ritornato in atelier, elabora quelle immagini disegnate dal vero per farle rivivere in un’armonia solenne, all’interno delle sue scene di vita antica, in una dimensione fuori del tempo.
Una meteorologia diversa, sensibile alla variazione delle ore, delle luci e delle stagioni è quella di Claude Lorrain, che “rappresentò in modo meraviglioso i raggi del sole all’alba e al tramonto sulla campagna”, come si legge nel suo epitaffio a Trinità dei Monti. In accordo con le premesse delpaesaggio ideale, il lorenese esprime nelle sue ambientazioni storiche e mitologiche (paesaggi costieri, luoghi della campagna romana, vedute immaginarie con architetture classiche) una natura in perenne mutamento, nella molteplicità dei fenomeni.
Negli anni Trenta le grandi tele di Claude Lorrain erano già divenute oggetto di imitazione. Forse anche per tutelare la propria opera, a partire dal 1636 egli riporta in un album (il Liber Veritatis), composto di 195 disegni, le composizioni affidategli, riproducendole accuratamente per mezzo di disegni.
La visione lirica della natura unita all’indagine del fenomeno della luce nella sua complessità, sarà un punto di riferimento fondamentale per i paesaggisti inglesi della generazione di Constable e Turner, che a lui guarderanno come a un caposcuola.
Fortuna del paesaggio
La pittura di paesaggio, divenuta nella prima metà del Seicento genere assai richiesto dal collezionismo europeo, si specializza in settori tematici, secondo una gamma di sottogeneri: paesaggio “con rovine”, “eroico”, “arcadico”, “pittoresco”, vedute con monumenti, vedute urbane, “ideali” ecc.
Filippo IV di Spagna ordina per la propria residenza del Buen Retiro a Madrid un ciclo di “paesaggi anacoretici” ad alcuni pittori della cerchia romana (Poussin, Dughet, Lemaire, Both: 1637-1642); di pochi anni più tardi è il Cabinet d’Amour dell’Hôtel Lambert a Parigi (1646), ornato di paesi ispirati al genere classico (Swanevelt, Asselijn, Pierre Patel). Intorno alla metà del secolo, saloni e gallerie dei palazzi romani si riempiono di grandi scenografie naturalistiche (tempere, affreschi): i protagonisti Gaspard Dughet e l’allievo Crescenzio Onofridanno vita a una fiorente stagione decorativa, che rimarrà in voga per tutto il Settecento.
Gaspard Dughet, detto il “Pussino” (era cognato di Nicolas Poussin), arricchisce di nuove potenzialità la rappresentazione naturalistica. Dipingendo su grandi formati (i suoi “fondali” di boschi, giardini e campagne raggiungono talvolta le dimensioni di 4 metri), oltre che su cavalletto, introduce una dimensione scenografica ed elabora una tecnica veloce, di tocco, che mette a punto nei cicli decorativi dei palazzi romani e negli affreschi della chiesa di San Martino ai Monti a Roma (1647-1651); qui il paesaggio è introdotto nella pala d’altare ed assume un ruolo preminente sulle figure.
I massimi interpreti della pittura barocca “di storia”, quali Pietro da Cortona e, soprattutto, Rubens, si cimenteranno come paesisti in sintonia col “bel colorito” e il dinamismo barocchi.
Un caso singolare, di risalto europeo, è l’attività di paesista di Salvator Rosa. Egli si considerava a tutti gli effetti un pittore di “istoria”, mostrando disprezzo per ogni forma di specialismo che coltivasse il “genere”. “Tutta la sua scienza era in bizzarrie e in capricci” (Milizia): negli antri rocciosi popolati da eremiti, streghe e filosofi, Rosa esprime una visione anticlassica, inquieta e drammatica, che affascinerà il collezionismo anglosassone e incontrerà, nel nome del sublime, larga fortuna in epocaromantica.
Un capitolo importante dello sviluppo del paesaggio europeo è costituito dai rapporti che legano gli artisti nordici (sempre più numerosi a Roma e in Italia nel corso del Seicento) con la tradizione classicista italiana.
Mentre Pieter van Laer, detto il Bamboccio diffonde a Roma, tra il 1623 e il 1639, una pittura di “soggetti vili, popolari e di basse scempiaggini” (Giovan Battista Passeri), ispirata a scene di vita popolare (“bambocciate”), artisti quali Cornelis van Poelenburgh, Herman Swanewelt, Jan eJacob Pynas traggono del paesaggio italiano gli aspetti rievocanti l’antica arcadia.
Il fascino della campagna romana, i ruderi, le cascate, la vegetazione, gli angoli pittoreschi del paesaggio mediterraneo (riletti attraverso Annibale Carracci, Claude Lorrain e Poussin) costituiscono il repertorio dei cosiddetti “italianizzanti”, artisti per lo più olandesi che formano a Roma, tra il secondo e il terzo decennio, una vera e propria colonia. Tornati in patria essi ripropongono questi motivi, dando luogo a una corrente che ricopre l’intero arco del secolo.
Oltre al paesaggio “italiano”, interpretato e rivisitato, questi artisti si interessano alla veduta urbana, ritraendo la topografia di città e di luoghi architettonici con quello sguardo oggettivo che era connaturato alla tradizione olandese. La veduta “ideata”, ossia la rappresentazione di luoghi reali con architetture d’invenzione liberamente combinate e assemblate, costituisce un ramo differente di una stessa tecnica rappresentativa che si diffonde rapidamente anche in suolo italiano (Viviano Codazzi, Giovanni Ghisolfi).
Di ritorno in Olanda, i fratelli Jan e Jacob Pynas introducono, a partire dal secondo decennio, le novità di Elsheimer; ad Amsterdam WillemNieulandtdiffonde il gusto della veduta “con rovine”, genere assimilato a Roma sotto la guida di Paul Brill; mentre Jan Both e Jan Asseljin costituiscono il tramite per l’affermarsi del paesaggismo d’ispirazione italiana a Utrecht e ad Amsterdam.
Hercules Seghers, personalità indipendente, al di fuori di tutte le scuole, apre il genere alla sperimentazione di nuove tecniche (incisione su carta dipinta e su tela di lino colorata, con l’impiego di inchiostri blu, rosa e grigi) e introduce atmosfere visionarie di grande intensità lirica. Seghers, attivo tra Amsterdam, Haarlem e Utrecht, definisce verso la fine degli anni Venti una propria poetica, rappresentando negli oli e nelle incisioni l’essenza stessa del paesaggio olandese: una terra fatta di luce, cielo e acque, con linee basse di orizzonte e spazi aperti, sovrastati dalle nubi.
La città di Haarlem, attivissima per commerci e l’industria del tulipano, diviene nei primi decenni del secolo il principale centro di produzione della pittura di paesaggio. Karel van Mander sostiene che a Haarlem “si è iniziato a trattare correttamente la pittura di paesaggio”, ponendo le basi per l’opera di artisti quali Esaias van de Velde, Salomon e Jacob van Ruysdael, Nicolaes Berchem, Hercules Seghers.
Gerrit Berckheyde, anch’egli attivo a Haarlem, è un’importante precursore della pittura di vedute, genere che, con l’evolversi delle tecniche rappresentative e con l’aiuto di strumenti scientifici (la “camera ottica”), tende sempre più a divenire documento fedele, descrizione oggettiva del reale. Laveduta troverà in Gaspard Wittel, oltre che in Berckheyde e Jan Heiden, il principale artefice e il tramite per la diffusione del vedutismo in Italia.
Amsterdam si segnala fra i centri più produttivi di paesaggi e, in particolare, di un settore specializzato come la pittura di porti, marine, battaglie navali (Jan van de Cappelle, Willem van de Velde il giovane).
Il fiammingo Gillis van Coninxloo, di ritorno da Frankenthal in Baviera, dove aveva fondato una fiorente scuola di paesaggio, vi si era stabilito nel 1595, importandovi una tematica naturalistica ben precisa: la poesia segreta della foresta, la penombra dei sottoboschi, il gusto botanico per le forme vegetali. Hendrick Avercamp, rifacendosi avan Coninxloo si specializza nel “paesaggio invernale”, spesso animato con figure di improbabili pattinatori.
Il trionfo del grand goût nella Francia di Luigi XIV e l’affermazione di uno stile aulico non impediscono la lenta ascesa del genere del paesaggio.
All’interno dei programmi accademici di fine secolo, esso assume un ruolo indiscusso di guida.
Il teorico Roger de Piles, distinguendo due stili principali (quello “eroico”, introdotto da Poussin, e quello “arcadico-pastorale” sviluppato parallelamente dalle scuole francesi e olandesi), definisce il paesaggio genere che “contiene in iscorcio tutti gli altri”.
Un caso anomalo, molto sottolineato dalla critica del Novecento, è quello di François Desportes, pittore di nature morte, paesi e cacce. Egli sembra anticipare alla fine del secolo la pratica settecentesca della pittura en plein air: munito di pennelli e tavolozza, dipinge a olio nei parchi dei castelli o in campagna, per fissare con immediatezza luce, colori, atmosfere; sono ormai fissati gli orientamenti estetici che porteranno alla vasta fortuna del paesaggismo in Francia, per tutto il corso del Settecento.