di Andrea Nasti
Lanciato a cavallo tra il 2011 e il 2012, il cosiddetto ‘pivot verso il Pacifico’ (detto anche riequilibrio verso l’Asia) rappresenta quella mossa strategica che vede gli Stati Uniti impegnati nel rafforzamento del proprio ruolo e della propria presenza nel teatro dell’Asia-Pacifico. Un rafforzamento multidimensionale che, seguendo uno schema tracciato dall’allora segretario di stato Hillary Clinton in un articolo emblematicamente intitolato America’s Pacific Century, dovrebbe declinarsi nei prossimi decenni in un maggiore investimento diplomatico, economico e militare nella regione, oltre che nell’approfondimento di tutte le partnership bilaterali asiatiche degli Usa, tanto quelle tradizionali quanto quelle più recenti. Nonostante la presenza statunitense in questo teatro non rappresenti affatto una novità, ma sia piuttosto una costante della politica estera di Washington dal 1945 in avanti, l’enfasi accordata al lancio di questa strategia, tramite una serie di iniziative di alto profilo autorizza a considerarla la principale novità strategica della presidenza Obama. Si consideri, infatti, come abbia coinciso con la fine della missione in Iraq e con il progressivo ritiro da quella afghana e quindi idealmente chiuda con la centralità del Grande Medio Oriente nell’orizzonte strategico americano, per assegnarla invece alla regione dell’Asia-Pacifico. Non a caso la regione che tutti i principali indicatori identificano come il nuovo vero motore della crescita economica mondiale e dove si registra l’emergere di una potenza come la Cina, da più parti indicata come l’unico accreditato potenziale sfidante per l’egemonia globale americana. Rispetto alla Cina, d’altra parte, il nuovo pivot opera in evidente funzione di contenimento, e quindi indirettamente serve a rassicurare i diversi alleati asiatici di Washington preoccupati dalla crescente assertività di Pechino nel rapporto con il suo vicinato.
Sebbene fino a ora lo shift strategico verso l’Asia si sia dimostrato più dibattuto che effettivamente praticato e sia stato di continuo messo in discussione dalla necessità di rispondere allo scoppio di nuove crisi in altri teatri (Ucraina in Europa e Siria in Medio Oriente), tutta una prima serie di iniziative prese dall’amministrazione Obama dal 2011 in avanti sembra incasellarsi in maniera coerente con i suoi obiettivi dichiarati.
In primis un incremento dell’attività diplomatica nella regione, esemplificato nell’accesso di Washington all’East Asia Summit e nella forte promozione, presso i suoi tradizionali partner (Giappone, Corea del Sud e Australia), di una maggiore cooperazione regionale. In ambito economico vanno poi registrate, a livello bilaterale, la definitiva stipulazione con Seoul di un accordo di libero scambio, a livello multilaterale, l’intensificazione dei negoziati della Trans-Pacific Partnership, un progetto di liberalizzazione commerciale, promosso con decisione dagli Usa, che al momento conta la partecipazione di ben dodici nazioni tra le due sponde del Pacifico (quattordici contando il recente interessamento anche della Corea del Sud e di Taiwan) e che, significativamente, non coinvolge la Cina.
In terzo luogo, nella sfera militare, sono da segnalare tanto il rafforzamento delle intese militari con due storici alleati come Giappone e Australia (ma anche con Singapore, rispetto a un maggiore dispiegamento navale americano), quanto l’avvio di negoziati per estendere il campo della cooperazione di sicurezza sia con partner più recenti come l’Indonesia e il Vietnam, sia con partner più datati come la Nuova Zelanda, la Thailandia e le Filippine. È di fine aprile 2014, per esempio, la firma di un importante accordo decennale proprio con Manila in tema di cooperazione e assistenza militare.
Gli ultimi documenti di pianificazione strategica americana, da ultimo, confermano in diversi punti la centralità di questa strategia: dal rafforzamento della marina, fondamentale per la proiezione di potenza nel teatro pacifico, a fronte di un corrispondente disinvestimento dall’esercito e dall’aviazione e nonostante la necessità di procedere a ingenti tagli nel bilancio federale; all’ampliamento della presenza e delle funzioni della base americana di Guam, centrale nello scacchiere dell’Asia sudorientale; all’investimento, infine, in tutte quelle tecnologie in grado di contrastare la cosiddetta strategia anti-accesso cinese, su cui Pechino ha indirizzato il programma di modernizzazione del suo settore di difesa.
Nonostante vada riconosciuta la forte enfasi che nel ‘pivot’ è stata affidata allo strumento militare – enfasi che non a caso la Cina critica e stigmatizza come provocatoria – è solo considerando la sua natura multidimensionale, specie il suo pilastro economico, che si può individuare la complessità della strategia tentata da Washington per risolvere una tensione sempre più crescente per la sua egemonia nel teatro dell’Asia-Pacifico. Quella tensione, cioè, vissuta dai tanti partner asiatici degli Usa nelle loro scelte politiche di allineamento e conformità, dal momento che questi si trovano inseriti in una regione dove il baricentro delle dinamiche economiche e quello delle dinamiche militari non coincidono più. Il fatto che il primo continui ad avvicinarsi all’orbita cinese, mentre il secondo continui a rimanere nelle mani degli Americani, crea infatti un potenziale trade off tra le scelte che rispondono a interessi economici e quelle che rispondono a calcoli strategici. Anche da qui, dunque, discende la razionalità della risposta di un egemone che, considerando tradizionalmente interconnesse la dimensione strategica e quella economica del proprio potere internazionale, non può limitarsi a fornire ai suoi alleati nuove garanzie di sicurezza, ma sa di dovere riguadagnare terreno anche nella sfera dell’economia.