di Annalisa Perteghella
Un’ondata di entusiasmo e ottimismo ha salutato l’elezione a presidente di Hassan Rouhani, avvenuta nel giugno 2013. Da una competizione elettorale la cui vittoria era stata da molti già assegnata agli uomini forti della Guida suprema Khamenei, è infatti emerso vincitore uno dei candidati apparentemente meno allineati all’establishment conservatore. Ma chi è Hassan Rouhani? Non di certo un outsider. Esattamente come i suoi predecessori alla carica di presidente della repubblica, Rouhani può vantare solide credenziali rivoluzionarie, che gli hanno assicurato fin dai primi giorni di vita della Repubblica islamica l’accesso alle più alte cariche del complesso sistema istituzionale iraniano. Membro del Consiglio supremo per la sicurezza nazionale dal 1989, del Consiglio per il discernimento dal 1991, dell’Assemblea degli esperti dal 1999, Rouhani si è seduto sulle poltrone dei principali centri decisionali iraniani. È proprio durante il suo mandato come segretario del Consiglio supremo per la sicurezza nazionale, carica mantenuta per sedici anni, dal 1989 al 2005, che Rouhani si è guadagnato l’appellativo con il quale è noto tutt’oggi: ‘the Diplomat
Sheikh’, lo sceicco della diplomazia. Per due anni, dall’ottobre 2003 all’agosto 2005, ‘lo sceicco della diplomazia’ ha ricoperto il ruolo di capo negoziatore per il dossier nucleare, guidando la delegazione iraniana nei negoziati con il gruppo P5+1. Nel 2005, con l’apertura dell’era Ahmadinejad, Rouhani ha abbandonato l’incarico di segretario del Consiglio supremo per la sicurezza nazionale, e con esso l’incarico di capo negoziatore per il dossier nucleare, uscendo dalla scena pubblica e mantenendo solamente la carica di direttore del Centro di studi strategici di Teheran, uno dei più influenti think tank iraniani. Rouhani riassume inoltre in sè un’educazione religiosa di prim’ordine, ricevuta in uno dei principali centri dello sciismo, il seminario di Qom, ma anche una solida formazione in campo giuridico, acquisita tra l’Università di Teheran e la Glasgow Caledonian University in Scozia. Nelle elezioni presidenziali del giugno 2013, quasi a sorpresa, Rouhani si è imposto già al primo turno, ottenendo il 50,9% dei consensi. Fondamentale per la sua vittoria è stato il ‘momentum’ guadagnato negli ultimi giorni della campagna elettorale, quando la partecipazione al corteo funebre per l’ayatollah dissidente Taheri e le promesse di liberazione dei prigionieri politici l’hanno fatto emergere dal grigio gruppo di candidati, conferendogli un’aura di diversità e moderazione che gli è valsa, in ultima analisi, il voto ‘di protesta’ della maggioranza degli iraniani. Ad aiutare, certo, anche il ritiro dell’unico candidato riformista ammesso, Mohammed Reza Aref, e l’endorsement ricevuto dall’ex presidente riformista Mohammad Khatami. Ma è possibile parlare di un ‘nuovo Iran’ sotto la guida del neopresidente ‘moderato’? Rouhani si trova stretto tra due opposte pressioni. Una pressione dal basso, che coincide con l’investitura popolare ottenuta tramite l’elezione, e che chiede e si aspetta da lui un cambiamento. E una pressione dall’alto, costante per tutti i presidenti, che viene dalla Guida e dall’establishment conservatore, e che stabilisce che cosa si può o non si può fare, fino a che punto le aperture, necessarie per dare fiato al sistema, sono concesse e oltre quale punto invece non si può andare per non rischiare di mettere in crisi il sistema stesso. Precisamente in mezzo a queste due opposte pressioni sta lo spazio di azione di Hassan Rouhani. Mentre sotto il suo operato l’Iran si apre e sperimenta ad esempio tattiche comunicative e di public diplomacy del tutto inedite, la domanda che incombe sembra essere: fino a quando i falchi della politica iraniana staranno a guardare?
Un precedente illustre è stato fornito dall’ex presidente Mohammad Khatami, i cui tentativi di riforma del sistema dall’interno sono rimasti frustrati dopo la controffensiva lanciata in parlamento dalla fazione conservatrice, che lo sottopose a un fuoco incrociato di critiche e minacce finanche da parte dei generali dei pasdaran, portandolo di fatto alla ritirata e all’abbandono di qualsiasi proposito riformatore. Rouhani, che non è Khatami, sembra puntare per il momento più che alla riforma del sistema alla rilegittimazione dell’immagine dell’Iran a livello internazionale, allo scopo di riportare nel paese i flussi di investimento necessari per risollevare un’economia fortemente provata dall’effetto combinato di sanzioni e politica economica avventurista dell’epoca Ahmadinejad, e tenere lontano così lo spettro delle tensioni sociali che potrebbero presto ritrasformarsi in protesta e innescare una ulteriore crisi di legittimità. È in quest’ottica che si collocano i tentativi di riavvicinamento agli Stati Uniti, culminati nella storica telefonata del settembre 2013, ma soprattutto nella firma del Joint Plan of Action sul dossier nucleare concordato a Ginevra con i paesi del P5+1. Parlare dell’Iran di Hassan Rouhani come del ‘nuovo Iran’ richiede pertanto una certa cautela. Soprattutto, occorre tenere ben presente che, se delle vere svolte ci saranno, esse avverranno più che nel ‘nuovo Iran’ di Hassan Rouhani, nel ‘vecchio Iran’ di Ali Khamenei.