di Gabriele Giovannini
Il 22 maggio 2014 l’esercito thailandese ha portato a termine un nuovo colpo di stato incruento. Nuovo in quanto trattasi solo dell’ultimo di una lunga serie: da quando la Thailandia è passata alla monarchia costituzionale nel 1932 ne sono stati effettuati ben dodici, un record a livello globale negli ultimi cento anni. Che le sorti del governo fossero appese ad un filo, del resto, era nell’aria da diversi mesi, ovvero da quando il fragile equilibrio politico che permetteva ad Yingluck Shinawatra di governare si è infranto di fronte al tentativo di far passare una legge di amnistia a fine 2013 che rischiava di riportare in patria l’ingombrante ex primo ministro Thaksin Shinawatra, in esilio volontario dal 2008. Dopo circa sei mesi connotati da una crescente tensione, manifestazioni di piazza, ventotto morti, centinaia di feriti, un’elezione annullata, il primo ministro deposto e l’imposizione della legge marziale, il nuovo colpo di stato sembrava dunque ormai inevitabile. Così la sera del 22 maggio il generale Prayuth Chan-ocha, comandante in capo delle forze armate, ha spiegato alla nazione tramite un discorso televisivo come di fronte alle violenze dei mesi precedenti e al rischio di un’escalation fosse dovere dell’esercito ristabilire l’ordine e favorire le riforme politiche tramite l’istituzione del Consiglio nazionale per la pace e l’ordine (Ncpo). La sera stessa è stato imposto il coprifuoco, le trasmissioni televisive sono state sospese e la libertà di riunione interdetta. Successivamente si è assistito a numerosi arresti che hanno preso di mira esponenti politici e chiunque si rifiutasse di accettare la presa del potere ed è stata avviata un’azione di propaganda e controllo dei media su vasta scala. Il tutto senza spargimento di sangue. Il 22 luglio, a due mesi dal colpo, una Costituzione ad interim ha rimpiazzato quella del 2007, ma questa volta, a differenza di quanto accaduto dopo il colpo di stato del 2006 non è stato indetto nessun referendum. La neo-costituita Assemblea nazionale ha quindi proceduto a consolidare il potere di Prayut il 21 agosto nominandolo primo ministro e con ogni probabilità la Giunta manterrà il potere per tutto il 2015, il tempo da quest’ultima dichiarato necessario per giungere ad una nuova Costituzione e per riappacificare le diverse anime della Thailandia.
Fin qui i fatti. Numerosi interrogativi, tuttavia, avvolgono tanto le motivazioni dei militari, quanto i possibili scenari di medio e lungo termine. Per quel che concerne le motivazioni sembra legittimo chiedersi perché i militari abbiano lasciato governare Yingluck Shinawatra per quasi tre anni se il loro intento era contrastare il potere di Thaksin, il cosiddetto ‘Thaksin regime’. In altre parole, perché non è successo prima? E se anche la motivazione stesse nel tentativo di amnistia, perché non subito, ma dopo mesi di scontri? Due ipotesi alternative appaiono in grado di fornire una risposta. La prima si allinea sostanzialmente alla posizione della Giunta e vede l’esercito riluttante a intervenire, ma costretto dalle continue manifestazioni anti-governative. Pur non sottostimando i lati intrinsecamente negativi di ogni colpo di stato, bisogna prendere atto che in una congiuntura in cui gli investitori internazionali fuggivano dal paese la Giunta si è dimostrata da subito efficace, approvando, per esempio, il massiccio piano da 32 miliardi di dollari di investimenti nelle infrastrutture che tanto interessa Pechino e che era in fase di stallo. Questa ipotesi non appare inoltre priva di fondamento se si considera che, lavorando congiuntamente dopo l’alluvione del 2011, i rapporti tra l’esercito e Yingluck erano migliorati sensibilmente. La seconda ipotesi, invece, indica nel rischio di peggioramento delle condizioni di salute del re Bhumibol Adulyadej - con conseguente rischio di veder salire sul trono il principe ereditario Vajiralongkorn, stretto alleato di Thaksin - la ragione che avrebbe spinto Prayut ad agire. In quest’ultimo caso la posta in gioco potrebbe essere il futuro della monarchia stessa.
Passando agli scenari, pur non potendo trascurare l’effetto stabilizzante nel breve termine del colpo sotto il profilo sia politico che economico, guardando al medio e lungo periodo risulta difficile immaginare libere elezioni non vinte da un partito pro-Thaksin, esattamente come accaduto dal 2001 in avanti. In tal caso come potrà la Thailandia evitare di ricadere nella spirale di forte contrapposizione e violenza che ha caratterizzato gli ultimi anni? Una soluzione potrebbero essere governi di coalizione che favoriscano la riconciliazione nazionale, come suggerisce l’Economist Intelligence Unit; un altro possibile sviluppo potrebbe invece basarsi sulla ripresa economica – nei prossimi anni il pil dovrebbe registrare tassi di crescita del 5% - che permetterebbe ai militari di mantenere un forte controllo sul governo evitando allo stesso tempo grandi sollevazioni popolari. Gli scenari si complicano, tuttavia, aggiungendo all’equazione la successione del re.
Qualora infatti l’ottantaseienne sovrano dovesse decedere, il paese entrerebbe in una fase di interregno e si verrebbe a creare un vuoto di potere ricco di incognite, nel quale non si potrebbe escludere una vera e propria guerra intestina tra gli anti-monarchici filo-Thaksin e l’attuale establishment. Se a succedere all’amato sovrano dovesse però essere la principessa Sirindhorn, vicina, a differenza del fratello, all’attuale élite, si potrebbe assistere a una riconfigurazione politica basata su un rinnovato compromesso con un governo pro-Thaksin al potere, ma senza le nubi della successione all’orizzonte.