Il 'non expedit'
Si è spesso sostenuto che il non expedit non sia stato inizialmente sollevato dalla Curia romana, ma dalla prassi spontanea dei cattolici intransigenti, talvolta più papalini del pontefice, per poi venir ratificato dall’autorità ecclesiastica solo molto più tardi1. Il primo pronunciamento esplicito e pubblico del non expedit si avrà infatti da parte del papa solo nel 1874 e occorrerà attendere il 1886 per la precisazione del Sant’Uffizio che lo confermerà in quanto divieto e non come consiglio2. Nei fatti, lo slogan celeberrimo dell’astensionismo cattolico non si deve a istruzioni della Santa Sede ma all’articolo di un noto pubblicista cattolico, don Giacomo Margotti, che nel gennaio 1861 dalle colonne de «L’Armonia» lanciò l’imperativo «né eletti né elettori», destinato a lunga fortuna3. Le ragioni di questa presa di posizione sono state da molti ricondotte alla delusione seguita alle elezioni del novembre 1857, che avevano visto il successo di molti candidati cattolici (tra cui lo stesso Margotti) ma che erano state annullate da Cavour sotto il pretesto di «coercizione morale esercitata sugli elettori dal clero». Se così fosse, avrebbe avuto ragione Niccolò Tommaseo a definire l’astensionismo «un dispettuzzo nella sua realtà fanciullesco»4. Cesare Marongiu Buonaiuti ne ha invece individuato la causa nella delusione seguita nelle elezioni del marzo 1860, che, seppure immediatamente successive alle annessioni, videro una massiccia partecipazione da parte dei cattolici e l’incoraggiamento dello stesso Margotti5. Fu probabilmente il risultato catastrofico di queste elezioni, che dimostrò come i cattolici difficilmente avrebbero potuto servirsi delle elezioni politiche per fermare il movimento unitario, che convinse il teologo de «L’Armonia» a incoraggiare una differente strategia, lanciando il famoso slogan, a cui infatti aggiungeva il commento: «questa volta [il nostro programma] vincerà certamente». Né eletti né elettori equivaleva dunque a una forma di protesta verso la politica del nuovo stato italiano, soprattutto dopo che l’11 ottobre 1860 Cavour aveva dichiarato alla camera l’intenzione del Regno di annettere il Lazio. Infine, l’astensionismo era considerato strumento decisivo per rendere più fragile il Parlamento davanti all’opposizione delle sinistre repubblicane e radicali, le quali, una volta al potere, avrebbero certamente mandato in malora il regno unitario. Si trattava però della convinzione di alcuni cattolici, diffusa dai pubblicisti più intransigenti, come don Margotti, mentre è da verificare la reale incidenza di tale opinione sui comportamenti elettorali. L’analisi statistica sembrerebbe infatti indicare che i più tra i cattolici continuarono ad accedere in massa alle urne, appagando il loro sentimento patriottico nazionale6. Inoltre, alcuni cattolici fedeli alla Santa Sede, come Vito d’Ondes Reggio e Cesare Cantù, scelsero in queste prime fasi di difendere la causa cattolica impegnandosi in prima persona tra gli scranni parlamentari: si dimisero nel novembre 1870, dopo Porta Pia. Ambo gli imperativi della formula «né eletti, né elettori», parrebbero essere stati dunque, almeno per i primi tempi, abbastanza opinabili.
Il compilatore di uno studio sull’origine del non expedit commissionato nel 1882 dalla Congregazione degli affari ecclesiastici straordinari (probabilmente Rampolla), ha sostenuto che, prescindendo dalle isolate risposte offerte in principio e per questioni di principio, dato che lo scandalo dell’aggressione al patrimonio di Pietro era ancora recente, «può con verità affermarsi che nel primo lustro degli sconvolgimenti d’Italia né tra l’Episcopato né tra il Clero e i semplici fedeli fu mossa mai la questione se fosse lecito ai Cattolici sedere nelle Camere legislative del nuovo regno, né alla Santa Sede altresì fu somministrata occasione di rendere su tal oggetto palese la sua sentenza». Le cause di ciò venivano individuate «nella situazione nuova degli stati italiani non ancora abbastanza consolidata, e nella mancata occasione di rinnovamento delle Camere legislative»7. Secondo tale tesi, la questione doveva dunque essere affrontata per la prima volta con sistematicità al primo rinnovarsi delle consultazioni elettorali in tempi abbastanza distanziati dai fatti del 1860. Nel giugno 1864 appariva imminente lo scioglimento delle camere. Alla Sacra Penitenzieria, il tribunale della Santa Sede per il foro interno, ovvero per i casi di coscienza dei fedeli, cominciarono a pervenire da imprecisati mittenti due quesiti: se i sudditi degli antichi territori del regno di Sardegna e della Lombardia potessero partecipare alle elezioni delle camere e se fosse loro lecito essere eletti in quanto rappresentanti di quelle provincie. I penitenzieri si orientarono per il no, ma all’unanimità decisero di non diffondere la risposta, neanche a coloro che avevano posto i due dubbi. Le ragioni di tale scelta furono riferite dal penitenziere maggiore Antonio Maria Cagiano de Azevedo in una relazione inviata nel marzo successivo alla Congregazione degli Aes:
«Siccome però fu riflettuto che la domanda veniva da persone private e forse non ben conosciute, che nella proposta dei dubbi non si scorgeva tutta la cristiana semplicità e potevano essere diretti a creare nuovi imbarazzi alla S. Sede facendosi abuso della risposta negativa, e che tale risposta poteva mettere in pericolo di peccare formalmente quegli elettori ch’erano in buona fede, fu risoluto di non pubblicare per allora la detta risposta negativa»8.
Oltre al timore di esporre la Santa Sede su una posizione sentita ancora come provvisoria, la preoccupazione dei penitenzieri verteva anche su quei cattolici, elettori in buona fede, sui quali tale risposta si sarebbe abbattuta come una condanna difficile da revocare. Nei mesi successivi però i quesiti si fecero sempre più frequenti. Anche all’ordinario della sede d’Ivrea, monsignor Luigi Moreno, che aveva riferito il desiderio suo e di alcuni colleghi di permettere ai vescovi di sedere in senato, fu data risposta negativa. Contro ogni illusoria distinzione avanzata dal prelato sulla base dell’epoca delle nomine (prima o dopo le annessioni) o dei luoghi da cui provenivano, la Penitenzieria ribatteva che le camere di Torino rappresentavano innegabilmente tutti gli stati annessi e dunque a tutti i parlamentari si estendeva l’illiceità di rappresentanza, giacché continuava a persistere l’usurpazione, mentre ai cattolici restava interdetto il giuramento richiesto dal governo. La categoricità del no venne confermata dal papa il quale, in un’udienza concessa il 9 settembre 1864, all’esempio addotto da Moreno dei casi nei quali «quasi bastò un sol voto per far rigettar la proposta d’una legge», aveva risposto «di sua propria bocca» facendo l’esempio di «altro parlamento» in cui «i clamori e rumori dei membri avversi alla Chiesa, mortificavano e rendevano non intellegibili le parole dei personaggi che peroravano in senso religioso e cattolico»9. Una valutazione così negativa da parte dei penitenzieri era certo condizionata dalla prossimità di un evento epocale, come il crollo del millenario Stato della Chiesa, ancora troppo recente per non essere considerato come transitorio. D’altro canto proprio tale percezione di provvisorietà contribuiva a ispirare cautela nelle decisioni della Santa Sede, che aveva bisogno di tempi più distesi per maturare le proprie posizioni. Da quanto si legge nella relazione di Cagiano, sembrerebbe che a tali prime richieste la risposta «non licere» fu effettivamente inviata. Un documento della Penitenzieria del novembre 1870 invece, riassumendo le risposte sul voto politico date nel primo decennio dall’unificazione, specifica che sarebbe stata data risposta negativa solo a un quesito proveniente da Città di Castello nel febbraio 1861, mentre successivamente, per «Piemonte, Lombardia, Genovesato» si sarebbe optato per il «nihil esse respondendum», aggiungendo che «il card. Cagiano di chiara memoria, il quale era contrario a tali elezioni, più d’una volta propose al S. Padre di rispondere: non licere; ma il S. Padre stette fermo nella risoluzione presa: nihil esse respondendum»10. Se ne dedurrebbe quindi che fu risposto negativamente alle domande relative ai territori annessi tramite i plebisciti, mentre non si diede risposta ai quesiti intorno ai territori appartenenti «di diritto» al regno sabaudo. L’inaccessibilità dell’archivio della Santa Penitenzieria purtroppo non permette di ricostruire la cronologia completa delle varie risposte e, come tanti hanno denunciato, ciò spiega la frequente contraddittorietà tra le ricostruzioni dei vari studiosi che hanno esaminato la questione. L’indeterminatezza o comunque una situazione di scarsa diffusione dell’opinione della Santa Sede era percepita però anche dagli stessi contemporanei. Fu ancora possibile a pochi cattolici di candidarsi o essere riconfermati alle elezioni politiche del 1865 e, come ha indicato Giorgio Candeloro, «si disse da alcuni, ma si negò da altri, che alcune candidature cattoliche, come quella del d’Ondes Reggio in Sicilia, erano state approvate dal Vaticano»11. In molti hanno ritenuto improbabile questo assenso da parte dell’entourage del pontefice, ma sembrerebbe in questa sede possibile confermare tali supposizioni grazie a un verbale di una congregazione cardinalizia del 27 novembre 1866, durante la quale, secondo gli appunti conservati, Giacomo Antonelli ebbe a riferire che «il Santo Padre approvò che D’Ondes Reggio e Cantù avessero accettato il mandato di deputati e li animò a rimanere fermi nel loro posto»12. In quegli anni dunque mentre la Penitenzieria guidata da Cagiano si esprimeva per il no, e, probabilmente per volere del papa, non dava pubblicità alle risposte negative, uno sparuto gruppo di cattolici fedeli alle direttive della Santa Sede continuava a sedere in Parlamento, come pare, direttamente con l’assenso di Pio IX.
La già citata relazione di Cagiano del marzo 1865 nasceva dalla volontà del penitenziere maggiore di dar resoconto (e giustificazione) dei passi fino ad allora compiuti dalla propria congregazione riguardo al voto cattolico, dopo la decisione di papa Pio IX, alla fine del 1864, di interpellare sulla questione la Congregazione degli Affari Ecclesiastici Straordinari. In realtà era stato questo dicastero a decidere nel marzo 1860 quali provvedimenti ufficiali la Santa Sede avrebbe dovuto intraprendere in risposta agli eventi appena compiuti, in particolare riguardo ai rapporti con le autorità e alle censure13: le risposte date dalla Penitenzieria non erano dunque che l’esecuzione delle direttive ricevute da Aes. Il tribunale però avrebbe dovuto rispondere solo ai dubbi «già pervenuti» (e quindi già esaminati dalla congregazione) in quelle prime settimane del 1860, non a quelli a venire. Nella posizione a stampa preparatoria della sessione del 1865 si legge infatti:
«la Santità di N. S. dispose che tutti gli dubbi e domande d’istruzioni che da moltissime diocesi comprese nelle province usurpate giungevano alla S. Sede in ordine a vari punti concernenti il novello stato di cose venissero esaminati da questa Sacra Congregazione degli Affari Ecclesiastici Straordinari: nell’intendimento di fissare le basi generali delle risposte e facoltà che dalla Sagra Penitenzieria dovessero darsi alle singole domande già pervenute, non che a quelle che in seguito sarebbonsi presentate»14.
Rispondendo quindi ai dubbi presentatisi riguardo alla partecipazione elettorale dei cattolici, la Penitenzieria era probabilmente andata oltre al proprio mandato. D’altronde, nel fare rapporto del proprio operato, il penitenziere maggiore Cagiano mostrava anche un certo rancore per l’estromissione del suo dicastero dalla questione. Il passaggio di consegne tra le due congregazioni era stato infatti provocato dall’intervento del cardinale Sisto Riario Sforza, arcivescovo di Napoli. Quest’ultimo aveva inoltrato al pontefice un’istanza del vescovo di Gallipoli, che si era fatto portavoce dell’opinione di molti colleghi dell’ex regno delle Due Sicilie:
«perché non ostacolare il male, che si accumula, con tutti quei mezzi, che ci si offrono nell’attuale posizione delle cose? […] Il programma dei cattolici è né eletti né elettori. Ma se la durata del disordine si prolungasse, molti laici cattolici, animati dall’esempio di quelli del Belgio e del deputato italiano Cantù sarebbero venuti nel proponimento di andare nella Camera per difendere la Chiesa e vorrebbero che i vescovi ottenessero ai medesimi la venia della S. Sede e si adoperassero di poi a formare una nota dei loro nomi commendandoli ai rispettivi diocesani, perché gli scegliessero [...]. Così, dicono, la distruzione dei monasteri sarebbe arrestata, e così i beni della Chiesa verrebbero manomessi con minore violenza, così le leggi contro la medesima non sarebbero approvate con tanta facilità e molto meno eseguite. Così insomma il campo non verrebbe a rimanersi in balia dei nemici»15.
Il papa esaminò la lettera all’inizio del novembre 1864 e decise che fosse posta al vaglio dei cardinali di Aes, previo voto di un consultore che egli stesso volle designare in monsignor Giuseppe Cardoni, vescovo di Loreto e presidente dell’Accademia ecclesiastica. Mentre il prelato elaborava un diffuso parere, giungevano in febbraio ripetute lettere dell’arcivescovo di Firenze, implorante istruzioni riguardo ai rapporti con la famiglia reale: si completava infatti in quei mesi il trasferimento della capitale. A Cardoni fu quindi chiesto di compilare un secondo voto che rispondesse ai quesiti fiorentini. Intanto il papa incaricava anche il gesuita Camillo Tarquini, che nel 1873 sarebbe stato creato cardinale, di elaborare un parere sul problema delle elezioni, probabilmente perché le tesi di Cardoni, essendo nettamente favorevoli alla partecipazione alle urne, dovevano aver provocato risentite reazioni. Più passaggi dell’indispettita relazione di Cagiano, inviata il 30 marzo, confutavano infatti puntualmente gli argomenti postulati da Cardoni, anche se non li citavano esplicitamente. Tarquini tuttavia, consegnando il proprio voto in aprile, si associò alla posizione del vescovo di Loreto, servendosi quasi delle stesse argomentazioni. È stato ipotizzato che fu la coincidenza dei voti dei due consultori su tale posizione certamente innovativa a impedire che fosse presa già nel 1865 una decisione in merito: è probabile, infatti, che ebbe luogo tra i cardinali una discussione lunghissima che non portò ad alcuna conclusione, cosicché il papa ritenne opportuno di rinviarla sine die, oppure che Pio IX, ricevuti in mano i due pareri, abbia bloccato la convocazione per impedire una decisione a favore della partecipazione. Il cambiamento dell’ordine del giorno fu comunicato solo tre giorni prima dell’adunanza prevista l’11 maggio, motivato dall’urgenza dei quesiti fiorentini:
«Monsig. Arcivescovo di Firenze avendo fatto nuove e più premurose istanze per la risposta ai dubbi presentati già alla S. Sede la Santità di N. S. vista l’urgenza del caso, ha disposto che rimanendo frattanto in sospeso la discussione sui primi cinque dubbi della posizione già distribuita, la S. Congregazione si aduni immeditamente per risolvere gli ultimi cinque dubbi della medesima»16.
I dubbi posti dall’arcivescovo di Firenze riproponevano però molti dei quesiti a cui già la stessa Aes, attraverso la Penitenzieria, aveva dato risposta nel 1860 e difatti i cardinali non fecero altro che confermare quanto era stato disposto in precedenza. È lecito dunque ipotizzare che a motivare il rinvio della discussione possa essere stata la forte opposizione della Penitenzieria e in particolare del cardinale Cagiano. Avvalorerebbe tale tesi l’esistenza di un terzo voto, stavolta di un consultore del sacro tribunale, padre Cambi, il quale si dedicò alla confutazione durissima di ogni affermazione dei due consultori di Aes. Il suo voto non fu allegato come gli altri alla posizione preparatoria della sessione e ciò indurrebbe a pensare che Cambi avesse scritto delle osservazioni per uso particolare di Cagiano, senza che gli altri cardinali le potessero leggere. Eppure un biglietto del 30 aprile in cui Cambi si scusava con il segretario di Aes Alessandro Franchi per il ritardo nella consegna sembrerebbe far pensare che fu proprio il pontefice a far interpellare anche un consultore della Penitenzieria: indubbiamente indizio di un supplemento di scrupolo, se non nei confronti di Cagiano e dei penitenzieri, almeno per riguardo agli altri cardinali, tra i quali non mancarono altre voci di protesta per le posizioni dei due consultori di Aes. Le critiche opposte a Cardoni e Tarquini vertevano soprattutto sull’astrattezza delle loro argomentazioni e contro la loro ipotesi secondo cui non si era più in regime di usurpazione violenta, ma di pacifico possesso da parte dell’usurpatore, per cui era lecito alla popolazione, senza ledere i diritti del legittimo sovrano, delegare all’usurpatore l’esercizio dell’autorità, perché ogni popolo, anche sotto ingiusta dominazione, ha diritto a essere governato. Cardoni e Tarquini, in sostanza, si erano occupati del problema dal punto di vista teorico e dottrinale, tentando di dimostrare la liceità del voto, mentre in quel momento tendevano a prevalere i dubbi sull’opportunità, ovvero la preoccupazione per i risvolti pratici di una partecipazione dei cattolici alla vita dello stato unitario. Ed è su questi ultimi che Cambi, dopo aver «smontato» gli assunti teorici dei due consultori, fondò la propria argomentazione, sostenendo come la presenza al Parlamento italiano di deputati cattolici non avrebbe soccorso affatto i diritti della Chiesa, ma anzi avrebbe provocato più danni che vantaggi, essendo di «scandalo ai buoni» e apparendo come un riconoscimento del fatto compiuto. Per Cambi «la morale cattolica non consente che si prenda parte attiva neppure indiretta per favorire chi vuole eseguire l’ingiustizia e l’irreligione. Una resistenza passiva, quando non si può usare attiva, è l’unica via per non compromettere la propria coscienza»17. Erano due piani, quello della lecitudine e quello della opportunità costretti a inseguirsi nel corso di tutto il dibattito sul non expedit.
Probabilmente per il contrasto così forte tra i tre voti (e quindi all’interno della Curia), la questione rimase in sospeso dal maggio 1865 al novembre 1866, quando la sollecitudine del cardinale Riario Sforza provocò finalmente la convocazione dell’adunanza che discusse i voti di Cardoni e Tarquini. La centralità del ruolo di Sforza per questa convocazione è testimoniata anche dal fatto che gli fu eccezionalmente concesso di partecipare ai lavori della seduta. Una sessione a ranghi ridotti quella di quel 27 novembre 1866, a cui parteciparono anche Cagiano, Patrizi, Barnabò, Antonelli e Franchi. Significativo è rilevare come proprio le adunanze più ridotte siano state quelle che maggiormente hanno espresso risoluzioni a favore della partecipazione politica dei cattolici, come avverrà di nuovo nel 1876 quando sei assessori del Sant’uffizio dichiareranno «doveroso» il voto alle urne. I meccanismi di funzionamento dei dicasteri della Santa Sede non pongono infatti questioni di quorum e forse un minor numero di consultati, se non garantiva rappresentatività, tutelava la snellezza delle procedure18. All’adunanza del 1866, se si eccettuano le partecipazioni di Franchi e Riario Sforza, i convocati rappresentavano equamente le parti in gioco: due sostenitori della formula «né eletti, né elettori» (Cagiano e Patrizi) e due propugnatori dell’accesso alle urne (Antonelli e Barnabò). Patrizi rispose alla convocazione con un lapidario parere scritto: «sarebbe meglio che i vescovi non s’imbarazzassero sulla facoltà dei deputati, tanto più che poco o niun vantaggio potrebbero procurare alla buona causa essendo tanto maggiore il numero dei cattivi deputati che il partito buono non sarebbe in grado di prevalere»19. Sosteneva inoltre, e non a torto, che sarebbe stato molto difficile che il governo accettasse il giuramento nei termini proposti dalla Santa Sede. Della sessione particolare del 27 novembre 1866 non è conservato il verbale, ma solo appunti. Secondo tali brevi note, Cagiano tentò di liquidare il problema adducendo la «giurisprudenza» pregressa: in questo caso, le risposte del 1864-65. È a questo proposito che Antonelli addusse per contro l’esempio dei deputati cattolici (D’Ondes Reggio e Cantù), eletti con l’approvazione, anzi, l’incoraggiamento del papa. Neutralizzato il penitenziere, Riario Sforza sollecitò un chiarimento definitivo della questione, ricordando come per i vescovi fosse «imbarazzante» non disporre di criteri precisi per poter rispondere in modo definitivo e categorico. E mentre Barnabò affermava di non ritenere illecito che i vescovi raccomandassero al popolo l’elezione di buoni deputati («non ci vede scandalo»), Antonelli rincarò la dose domandando «se la società e la religione guadagni in questa totale astensione dei vescovi e di tutte le persone oneste?». Dopo il cedimento di Patrizi («nello stato attuale delle cose è lecito dare il voto») venne quindi adottata la risoluzione: «a richiesta i Vescovi, in occasione delle elezioni, ricordino il dovere che corre ai fedeli di fare tutto il possibile per impedire il [maggior] male e promuovere il bene». Si riproponeva poi la formula di giuramento con la clausola salvis legibus e con la promessa da parte dell’eletto «di non concorrere alla formazione di leggi cattive». I vescovi avrebbero dunque dovuto ricordare ai fedeli, nel caso fosse stato chiesto loro di pronunciarsi in occasione delle elezioni, il dovere di ciascuno «di fare tutto il possibile per impedire il male e promuovere il bene». Una norma generale, insomma, che lasciava alla prudenza degli ordinari l’applicazione nei casi particolari. Ai vescovi infatti veniva suggerito con quali criteri agire nel caso che fossero stati sollecitati a intervenire sulla questione. Si trattava dunque di una «condotta passiva» volta non a contraddire, ma a rendere più flessibili, adattandole alle diverse circostanze e ai problemi di coscienza dei fedeli, le precedenti risposte date dalla Penitenzieria. Se veniva smentito lo slogan né eletti, né elettori, esso non veniva certamente capovolto. Si apriva però il dubbio se tale facoltà includesse anche quella di indicare ai fedeli su quali candidati concentrare il voto (in quanto promotori del bene). Inoltre la formula di giuramento non risolveva il problema, dato che il governo italiano difficilmente avrebbe potuto ritenerla valida20. A questo proposito infatti in seguito si rivelerà necessaria una strategia alternativa.
Le risoluzioni del 27 novembre 1866, approvate da Pio IX, furono trasmesse alla Penitenzieria il 30 novembre. Ancora una volta, si decise di non dare eccessiva pubblicità alla risoluzione. Ma il 20 febbraio 1867 «Lo stendardo cattolico» di Genova la inserì tra le sue colonne, esponendola al dibattito pubblicistico. Nessuno potè da quel momento ignorarne l’esistenza.
La risoluzione del 1866 non equivaleva a un’apertura alla partecipazione politica, tuttavia non tutti i vescovi italiani compresero la prudenza a cui venivano invitati. Nel febbraio 1867, alla vigilia di una nuova tornata elettorale, la Penitenzieria aveva dovuto chiarire al vescovo di Mondovì la «mente» delle decisioni del 1866: «quando i vescovi, interrogati, risponderanno che ciascuno, potendo, è tenuto a procurare il bene ed impedire il male, non avranno fatto altro che ricordare un principio generale, la cui applicazione ai casi particolari dipende da mille circostanze, le quali ben ponderate faranno giudicare quando si debba o possa concorrere alle elezioni»21. Nel novembre 1867 gli ordinari della provincia ecclesiastica di Torino si riunirono in Congresso per trattare dei problemi pastorali comuni alle loro rispettive diocesi. Dal verbale dell’adunanza si legge che, tra i quesiti posti all’ordine del giorno, il n. 28 chiedeva: «se non si debba eccitare i buoni a concorrere alle elezioni e concertarsi perché riescano bene». Interpretando le indicazioni della Penitenzieria in senso ampio, gli adunati «furono unanimi nel decidere che sia cosa convenientissima di prender parte a tutte le elezioni sia comunali, sia provinciali, sia politiche, di eccitare i buoni a far uso del diritto elettorale e di fare quanto si può perché riescano elette persone degne del mandato che loro si affida»22. Torino però, sede del congresso episcopale, era anche la città in cui veniva stampata «L’Unità cattolica», la rivista fondata da Margotti nel 1863 dopo essere stato allontanato da «L’Armonia» proprio a causa delle sue posizioni astensionistiche. I vescovi torinesi ritennero che, per convincere i titubanti e vincere l’opposizione degli astensionisti, sarebbe stato cruciale guadagnare dalla propria parte il loro campione, l’inventore della formula né eletti, né elettori. O perlomeno ridurlo all’obbedienza e ad adeguarsi alle risoluzioni del suo episcopato. Al gesuita pervenne dunque in via segreta e confidenziale la richiesta di modificare la politica del proprio giornale, convertendo gradualmente le proprie pagine e i propri lettori a favore della partecipazione. Questi apparentemente obbedì, ma non è chiaro se fu un Margotti troppo zelante, o piuttosto troppo furbo, quello che il 14 gennaio 1868 di punto in bianco scrisse nella propria rivista:
«chi ne sa più di noi ha deciso essere ormai conveniente che i cattolici prendano parte ad ogni maniera alle elezioni, tanto amministrative quanto politiche. E tale è pure dal giorno di oggi la nostra opinione che ci studieremo di difendere nell’Unità Cattolica, lietissimi che un’autorità competente abbia una volta messo un termine a qualche screzio del giornalismo cattolico. Ormai tutti unanimi e concordi procureremo di popolare i consigli Municipali e Provinciali, e la Camera dei Deputati, di persone veramente cattoliche».
Tale sconcertante dichiarazione, che pareva pervenire da altissime fonti, rimbalzò su tutte le riviste. Anche «L’Osservatore romano» si affrettò «a dar pubblicità» alla nuova linea e riprese tra le sue colonne la nota margottiana, ma già il 16 gennaio fu indotto a rettificare: «da quanto ci è stato dato di rilevare, siamo in grado di asserire come le informazioni dell’egregio periodico torinese non possono fondarsi se non sopra un equivoco; dappoichè oltre le già conosciute, nessuna nuova disposizione è stata data, da chi poteva darla, in sul proposito»23. Due giorni dopo ne «L’Unità cattolica» Margotti rispondeva che non occorreva «dire né da chi, né dove, né quando né come fosse abbracciato il partito a cui accennai. É stato dichiarato da chi ne sa più di noi, da chi ha lumi, ispirazioni, criteri, che non abbiamo noi, da chi può darci un consiglio a cui sempre ci arrenderemo». La polemica non accennava a placarsi e la preoccupazione degli astensionisti portò lo stato maggiore della rivista «Il Diritto cattolico» di Modena a chiedere udienza a Roma per chiarire una volta per tutte la questione. Pio IX in persona spiegò loro che l’astensione non era «obbligo di coscienza, ma misura di prudenza». Il 21 gennaio il «Giornale di Roma» poteva dichiarare:
«Si è presentata in questi giorni alla Santità di Nostro Signore una deputazione di un giornale cattolico che si stampa in una delle città d’Italia, dimandando istruzioni sui consigli da darsi in circostanza delle elezioni alla Camera di Firenze. Siamo autorizzati a dichiarare il Santo Padre aver risposto che nulla erasi cambiato, che la S. Sede stava sempre ferma nei principii già manifestati e che s’ingannava chiunque pensasse e scrivesse diversamente».
«L’Unità cattolica» si affrettò a scusarsi, lieta che si fosse dissipato un «momentaneo equivoco» e dichiarando chiuso un incidente che «se fu in qualche parte disgustoso, produsse tuttavia il segnalato vantaggio della dichiarazione surriferita, che facciamo pienamente nostra»24. In seguito la rivista continuò a manifestare soddisfazione per l’iniziativa dei redattori de «Il diritto cattolico» e, riportandone le argomentazioni, dichiarava:
«ognuno comprende con quanto piacere ristampiamo queste osservazioni. In esse si ripete ciò che abbiamo scritto da sette anni. […] ma eravamo tormentati da lettere di persone che ci chiamavano caparbii, superbi, nemici della Chiesa e dello Stato, perché non volevamo essere né eletti, né elettori. Quind’innanzi, speriamo, ci verranno risparmiati simili rimproveri»25.
L’accusa di «poco esatte comunicazioni» e di insistenze e «rimproveri» per la linea da sempre sostenuta dal giornale rivelerebbe che Margotti non era stato certo entusiasta del cambiamento di rotta imposto alla propria rivista dai vescovi piemontesi. Monsignor Alessandro Riccardi, vescovo di Torino, scrivendo a Cesare Cantù nel febbraio di quell’anno, ipotizzò che le modalità e i toni della prima dichiarazione di Margotti fossero stati un espediente tattico ordito di proposito ai danni degli interventisti («Artifizio!») e affermava con convinzione che la dichiarazione ricevuta dai redattori de «Il diritto cattolico» nulla cambiava della risoluzione della Penitenzieria del 1866 e che dunque rimaneva possibile essere elettori ed eletti: «s’inganna di grosso chiunque dice diversamente, e con questo si aggiunse una bella conferma a quel decisorio rescritto, cui taluni osarono apporre di falso e d’interpretare con tesi non plausibili»26. Si è spesso dipinto Margotti come malleabile strumento nelle mani dell’autorità ecclesiastica, ma in questa sede, anche alla luce dell’episodio che coinvolse dieci anni dopo lo stesso sacerdote e di cui in seguito si parlerà, si preferisce ipotizzare un Margotti coerente a se stesso ed esperto pubblicista, cosciente del potere mediatico della carta stampata. La confusione generata da questa polemica non poteva infatti non avere ripercussioni all’interno della Congregazione degli Aes e finì per accelerarne le decisioni, a causa tra l’altro delle numerose sollecitazioni di chiarimento che cominciarono a pervenire da vari vescovi italiani. Il 30 gennaio 1868 si riunivano Patrizi, Barnabò, Panebianco, Bizzarri, Antonelli e Franchi. La carica di penitenziere maggiore, dopo la morte di Cagiano nel gennaio 1867, era andata al cardinale Panebianco a cui toccò, in avvio ai lavori della congregazione, esporre l’ordine del giorno, ovvero «il fissare il senso della risoluzione della S. Penitenzieria». Andava inoltre deciso se e come «farsi qualche avvertenza ai vescovi della provincia ecclesiastica di Piemonte e al direttore dell’Unità cattolica». Per Barnabò i vescovi piemontesi «non sono scusabili» poichè non si erano attenuti alle indicazioni date dalla Penitenzieria. Per Patrizi «tutta la colpa è del giornalista e non dei vescovi» e osservava che la risoluzione del 1866 «non si oppone in facto alla decisione dell’Episcopato»: era stato insomma Margotti a pasticciare il tutto. Patrizi tra l’altro non lo riteneva degno di una replica diretta da parte della Santa Sede. Fu però deciso che al giornalista fosse risposto in via privata, mentre ai vescovi piemontesi avrebbe dato riscontro la Congregazione del Concilio. Restava il problema di come chiarire le disposizioni date nel 1866. Ovvero, se si era affermato e ribadito al vescovo di Mondovì nel 1867 che l’indicazione di massima di «promuovere il bene ed impedire il male» andava applicata esaminando di volta in volta le circostanze, quale interpretazione suggerivano quelle presenti?
«Volendo poi applicare il principio generale al caso particolare, e considerando tutto ciò che presentemente si sta consumando in Italia a danno della Chiesa, che sarebbe moralmente impossibile col concorso alle elezioni procurare un rimedio e rimuovere i gravissimi mali ond’è afflitta la società e la Chiesa, avuto in fine riguardo al complesso delle presenti circostanze, giudicarono concordemente doversi rispondere non expedire»27.
La risoluzione finale di quella seduta rivela come la preoccupazione principale dei cardinali fosse il frenare un eccesso, ovvero il diretto e attivo incoraggiamento alla partecipazione alle elezioni da parte dei vescovi, che invece erano invitati a pronunciarsi solo se interrogati. Se per la prima volta appariva la formula «non expedit», questa non implicava un divieto assoluto, ma una considerazione di opportunità riferita a quel preciso frangente storico, considerata la situazione della Chiesa in Italia e probabilmente anche il variegato orientamento dei cattolici che tanto vivacemente era riemerso attraverso la polemica di quelle settimane. La paura dello spaccamento dei cattolici, nonché i toni del dibattito giornalistico torneranno più volte negli anni successivi a influenzare le decisioni della Curia romana.
Nella lettera inviata a Margotti in ottemperanza alle decisioni dell’adunanza del 30 gennaio 1868, veniva brevemente chiarito: «1. la S. Sede non intende di dar norme ai giornalisti nella questione delle elezioni; 2. non conviene affatto che in aggravio del principio che l’Unità Cattolica sostiene riguardo alle elezioni siano invocate le decisioni della S. Penitenzieria, le quali essendo dirette a regolare le coscienze, sono d’un ordine interamente differente dalle questioni politiche; 3 conseguentemente è pregato il redattore dell’Unità cattolica a riportare la questione nel suo vero punto di vista e ciò con analoga ed opportuna dichiarazione»28. È evidente come la Santa Sede volesse prendere le distanze dal dibattito giornalistico e soprattutto dalle posizioni de «L’Unità cattolica», anche precedenti all’articolo incriminato. Ancora una volta dunque non sembrerebbe esserci stata un’opzione definitiva per la partecipazione o per l’astensione: di fatto, nella risoluzione del 1868 gli ordinari poterono ancora individuarvi chi un assoluto divieto e chi un suggerimento di convenienza. Si aggiunga poi che questo primo non expedit, limitato alle «presenti circostanze», rimase ignoto ai più non venendo diffuso se non in risposta alle domande di volta in volta presentate alla Penitenzieria, motivo per cui anche gli storici ne hanno a lungo ignorato l’esistenza29.
In prossimità delle consultazioni elettorali del 1870 fu così possibile al vescovo di Guastalla, monsignor Pietro Rota, di sollevare nuovamente il problema, convinto che dopo la presa di Roma proprio le circostanze mutate non mettessero più in dubbio l’opportunità dell’intervento politico dei cattolici. Offriva un’ipotesi di soluzione a quello che individuava come ostacolo principale al problema della liceità, ovvero il giuramento. A questo proposito, proponeva che la formula salvis legibus potesse essere presentata presso il Vescovo invece che in aula parlamentare. Un’alternativa che però non poteva reggere, dato che la preoccupazione principale della Santa Sede era quella di garantirsi dal «pubblico scandalo», piuttosto che il problema di coscienza di colui che prestava giuramento.
Il dubbio di Rota fu inoltrato ad Antonelli ancora una volta attraverso Riario Sforza, il quale però stavolta espresse la propria perplessità. Non credeva più che i cattolici potessero aver successo alle urne e reputava «illusione il pensare diversamente», temendo soprattutto la divisione dei fedeli. Ad ogni modo, la lettera fu portata a conoscenza del papa, il quale «questa volta ordinò che se ne occupasse la Sacra Penitenzieria». Il sacro tribunale, riunitosi in congresso l’8 novembre 1870, confermò la valutazione del 1868; cioè che i tempi non erano ancora maturi per un accesso alle urne, «poiché invece di essere diminuite le circostanze sonosi colla violenta occupazione di Roma aggravate, ed i nuovi Deputati dovrebbero rappresentare anche Roma e forse venire a questa Capitale del mondo Cattolico a farla da Legislatori in faccia al Sommo Pontefice legittimo Sovrano». La soluzione alternativa alla questione del giuramento, peraltro ritenuta già da Riario Sforza «insufficiente a prevenire lo scandalo», non venne neanche discussa, data l’intenzione di non recedere dal non expedire30.
Proprio con il trasferimento della capitale del regno a Roma dopo Porta Pia presentavano intanto le dimissioni, probabilmente su ordine del papa, quei pochi cattolici che ancora sedevano in Parlamento, come i già citati d’Ondes Reggio e Cantù, mentre di fatto la partecipazione alle elezioni politiche rimase alla valutazione dei singoli. Tuttavia l’episodio della breccia di Porta Pia doveva portare l’opinione cattolica a confermare sempre più l’astensione. Gabriele De Rosa, studiando le pagine de «La Civiltà cattolica», ha sostenuto che «l’astensionismo da questo momento diventa un fatto qualificante del cattolicesimo militante», quasi un indice di ortodossia, come emerge per esempio in un articolo apparso nel 1872: «noi ascriviamo quest’aumento nelle astensioni ad un aumento nella fede [...] sappiamo che v’ha cattolici, i quali deplorano questo procedimento della massa dei loro confratelli. Ma sappiamo altresì che il sovrano pontefice non lo ha mai deplorato»31. Mentre in seguito i cardinali riuniti nel 1876 riterranno anacronistica la politica dell’astensione una volta crollato l’ultimo residuo del potere temporale, molti cattolici a partire da allora arrivarono persino a estendere la formula non expedire del 1868, che in effetti aveva portata abbastanza generale, anche in ambito comunale e provinciale. Tuttavia quest’astensione amministrativa non era destinata ad avere fortuna, dato che proprio a Roma, città del papa e nuova capitale, era stata possibile nel 1871 la nascita dell’Unione romana per le elezione amministrative, finalizzata a convogliare i voti cattolici per il Campidoglio. A chiarire la questione intervenne più volte lo stesso Pio IX che il 2 luglio 1872 dichiarò ai parroci di Roma che «uno dei mezzi onde impedire i progressi dell’empietà ed il pervertimento della gioventù, potrebbe anche essere il concorrere alle elezioni amministrative e municipali, che non traggono seco verun obbligo di giuramenti vietati alla coscienza dei cattolici»32. Proprio il giuramento, da cui erano esenti i consiglieri municipali e provinciali, costituiva quindi per Pio IX il discrimine tra consultazioni locali e nazionali. In un colloquio con Giambattista Casoni che gli chiedeva a metà degli anni Sessanta una «norma generale, sicura, autorevole d’azione» il papa avrebbe risposto infatti «vi è quella faccenda del giuramento»33. A ragione dunque monsignor Rota aveva individuato in esso il maggior ostacolo alla rimozione del non expedit. L’autorevole intervento papale non mise più in dubbio la liceità per i cattolici di partecipare almeno alle elezioni amministrative, che molti consideravano un banco di prova in attesa di una più ampia partecipazione. I primi congressi cattolici di Venezia (1874) e di Firenze (1875) ribadiranno infatti l’impegno del laicato esclusivamente in questo campo. Il papa però non aveva ancora fatto sentire personalmente la propria opinione a proposito delle elezioni politiche. Lo fece l’11 ottobre 1874, invitando le donne cattoliche romane del Circolo di Santa Melania a un’intenzione di preghiera «straordinaria»:
«Tra pochi giorni, quelli che chiamano elettori, dovranno occuparsi della scelta dei deputati, destinati a sedere in una grande aula. E poiché da qualche città d’Italia ho ricevuto la domanda sulla liceità di sedere in quell’aula, mentre consiglio a pregare, rispondo alle interrogazioni con due sole osservazioni. E dico, in prima, che la scelta non è libera, perché le passioni politiche oppongono troppi e prepotenti ostacoli. E fosse anche libera, resterebbe un ostacolo anche maggiore da superarsi; quello cioè del giuramento che ciascuno è obbligato a prestare senza alcuna restrizione. Questo giuramento, notate bene, dovrebbe prestarsi in Roma, qui nella capitale del Cattolicesimo, qui sotto gli occhi del Vicario di Gesù Cristo. E dovrebbe giurarsi l’osservanza, la tutela, e il mantenimento delle leggi dello Stato: cioè si deve giurare di sancire lo spoglio della Chiesa, i sacrilegi commessi, l’insegnamento anticattolico e quel che di più che si fa e si farà nell’avvenire. [...] Per il che io concludo che non è lecito andare a sedere in quell’aula e voi, dilettissime figlie, pregate perché Iddio […] apra gli occhi a quelli che vanno barcollando […]. Pregate specialmente per questi che meritano compassione»34.
Era la prima volta che il papa esprimeva la propria opinione sull’argomento in modo diretto. Federico Chabod ne ha dedotto che di fatto «le prime elezioni politiche per le quali si ebbe una vera presa di posizione da parte delle supreme gerarchie ecclesiastiche furono quelle del novembre 1874». Non c’era insomma più possibilità di equivoco, soprattutto dopo che il 10 settembre la Penitenzieria aveva dichiarato che il concorso alle elezioni politiche, «attentis omnibus circumstantiis, non expedit» e che «l’esercizio dell’ufficio di deputato e di senatore in Roma non è affatto tollerato»35. Alle elezioni di quell’anno tuttavia vi fu una discreta partecipazione dei cattolici e persino di ecclesiastici, forse incoraggiati dalla Santa Sede a intervenire in qualche collegio, onde impedire l’elezione di candidati di sinistra particolarmente invisi, come per esempio Garibaldi, candidato (ed eletto) nel V Collegio di Roma, quello corrispondente a Borgo, il quartiere del papa36.
Nel marzo 1876 cadeva la Destra Storica: per la Santa Sede era l’allarmante segnale dell’inizio di una nuova era. Maturò forse in quel momento una più certa consapevolezza dell’irreversibilità del processo unitario e della perdita del potere temporale, aggravata dalla situazione diplomatica di un papato sempre più isolato nei rapporti con le potenze europee: l’ascesa delle sinistre era infatti avvenuta senza comportare la rivoluzione che nei palazzi vaticani ci si aspettava, senza distruggere il regno unitario. Se i cattolici si erano astenuti dalle urne principalmente per non rallentare questo presunto processo disgregativo della creatura italiana, sei anni dopo Porta Pia, insediato il primo governo Depretis, era chiara la necessità di una diversa strategia.
Il 5 aprile Pio IX incaricò monsignor Lorenzo Nina, assessore del Sant’Uffizio, di convocare «una congregazione speciale da prendersi dal seno della Suprema» per discutere quale dovesse essere la posizione della Santa Sede nel nuovo contesto politico, convinto a ciò «dalle molteplici e reiterate dimande e inquisitorie» che gli erano nel frattempo giunte da molti cattolici37. Di queste istanze, nel fondo della Congregazione degli Aes ne è conservata solo una, datata però 22 giugno e inviata dai membri del Comitato cattolico di Genova. Pervenuta quando il dibattito cardinalizio era già in corso, è possibile che sia stata conservata in rappresentanza di tutte sia perchè ben riassumeva i termini della questione, sia per le numerose e autorevoli firme che la sottoscrivevano. I genovesi domandavano «neppure un atto esplicito e pubblico della S. Sede che raccomandi ai cattolici di accorrere alle urne, ci basterebbe anche solo di essere sicuri in coscienza di operare bene, cioè in conformità delle intenzioni del Santo Padre», ricordando come «niente più potrebbe metter a repentaglio l’unità d’azione dei cattolici italiani, quanto il difetto di direzione delle loro coscienze che essi implorano dai lumi del Sommo Pontefice»38. Essi sottolineavano come il cambiamento di scenario politico costituisse una giustificazione più che sufficiente alla rimozione del non expedit e all’impegno diretto dei cattolici («qual sia il programma dei nuovi governanti è noto: si riassume nel concetto di guerra ad oltranza ed aperta alla Chiesa Cattolica»); inoltre in settembre con altre lettere diedero resoconto di colloqui avuti con esponenti della destra, i quali avevano assicurato la possibilità di un accordo elettorale «anche per trenta, e quaranta seggi»39. La proposta venne dunque tenuta in seria considerazione se Pio IX convocò una commissione speciale attingendone i membri dal Sant’Uffizio, probabilmente proprio per risolvere una volta per tutte la questione della liceità della partecipazione elettorale. Interessante è il fatto che il papa abbia espressamente indicato, tra il materiale da inviare ai cardinali in preparazione all’adunanza, proprio quei due voti di Tarquini e Cardoni su cui si era arenato il dibattito nel 1865. La ponenza d’accompagnamento alla lettera di convocazione spiega le ragioni che avrebbero indotto il pontefice a non assecondare allora i suggerimenti dei due consultori:
«Ambedue […] hanno sviluppato con grande valentia la tesi, che i popoli non potevano pigliar parte al governo della cosa pubblica quand’esso trovasi essere il risultato di una usurpazione, fino a che, l’usurpatore non avesse talmente compita l’opera sua [...]. E certamente all’epoca in cui scrivevano i mentovati Consultori il S. Padre non avrebbe potuto ritrovar a’ citati estremi […] giacché tanto la S. Sede fino a che non avesse perduto l’ultimo palmo del suo principato, si difendeva con tutti i mezzi di cui poteva disporre, contro le aggressioni del potente vicino, quanto i popoli della penisola si dimostravano pronti a combattere l’aggressore»40.
Fino al 1870, dunque, era doverosa la resistenza al fatto compiuto, «tanto più che alcuni Governi dell’Europa […] non avrebbero mancato di servirsi del suddetto permesso per provare […] che non solamente le popolazioni italiane, ma ben anche la S. Sede stessa non sperava più di poter vincere la rivoluzione e si rassegnava ad usare dei mezzi concessi dai governi moderni ad ogni particolare per difendere come cittadini i propri interessi». Questo giudizio era stato confermato nel 1868, ma tale pronunciamento non aveva «risoluto nulla sulla questione dei principii riguardo allo scabroso affare in parola», costituendo solo un giudizio di opportunità valido «sul momento».
«Oggi però chi non vede, chi non sa che le condizioni della S. Sede sono del tutto cambiate? Oggi disgraziatamente non vi è più un solo governo in Europa che non appoggi ufficialmente il Governo dell’Usurpatore; […] se la somma del pubblico regime continuasse per qualche tempo ancora a risiedere esclusivamente nelle mani degli atei e dei rivoluzionarii, questi ricaccerebbero la Chiesa non più nella Sacristia, come ipocritamente sogliono esprimersi, ma nelle Catacombe».
Veniva quindi riferito come i favorevoli alla partecipazione, chiamati «i benpensanti italiani», si fossero persuasi dei vantaggi che potevano provenire dall’elezione di deputati cattolici proprio grazie all’esperienza maturata in campo amministrativo, ove «gli interessi […] nell’ordine religioso politico e sociale hanno trovato un sensibile miglioramento». Per questo, assieme alla ponenza preparatoria alla seduta, veniva allegata una bozza di possibile «proclama dei Cattolici per le elezioni politiche», attraverso cui spiegare all’elettorato le ragioni dell’intervento ed il programma elettorale, in cui figurava la difesa dei beni ecclesiastici, del matrimonio, della moralità, della libertà di insegnamento, dell’indipendenza del pontefice:
«mutate sostanzialmente le circostanze, è necessario mutare il modo di operare. Se fin qui era spediente tenersi passivi in faccia ad invasioni politiche, non pigliando parte alla nuova forma di vita pubblica da esse introdotta, ora non è più così. Il contraddire colla voce, cogli scritti e col fatto di una nobile e coscienziosa astensione non è più bastante […]. Dalle urne politiche escono i legislatori; accorriamovi».
Riguardo ai timori maggiori, come l’affiliazione ai rivoluzionari o ai liberali, il proclama rassicurava:
«i deputati cattolici non formano un partito, perché la religione e la giustizia, sotto la cui bandiera entrano nella lotta, non sono opinioni particolari proprie dei partiti […]. Essi non saranno quindi ne’ destri, né sinistri; ma […] saranno sempre uniti in uno sol corpo, dove si tratta della difesa dei sacri principii della religione e della giustizia».
Era allegato infine anche un modello di «manifesto per il giuramento», che avrebbe dovuto essere utilizzato dai deputati cattolici per giustificarsi riguardo a questo argomento: «Noi giureremo, e manterremo lealmente la parola giurata, perché le cospirazioni e le rivoluzioni non entreranno mai in un programma cattolico. Ce lo impone la nostra coscienza di cattolici. Ma come questa ci impone un tale obbligo, c’impone ancor l’altro di dichiarare in ciò salve le ragioni di Dio e della sua Chiesa. Noi qui lo dichiariamo. Il primo articolo della costituzione, che riconosce la religione da noi professata quale religione di questo Stato, ci dà il diritto di farlo. Il principio della libertà di coscienza, accettato nella pratica, ce lo conferma. E noi ce ne vagliamo». La commissione si riunì il 30 novembre 1876. Non se ne conserva verbale, ma solo la risoluzione finale stesa da Nina. Dei sei convocati originariamente, Antonelli era morto il 6 novembre e Patrizi, segretario del Sant’Uffizio, risultò infermo (morirà infatti il 17 dicembre). A fianco di Bilio, Franchi, Mertel e Nina, erano subentrati dunque Franzelin - creato cardinale in aprile - e il cardinale Monaco La Valletta, chiamato a sostituire al Vicariato di Roma Patrizi:
«Tutti gli emi sono convenuti in massima del licere; e che alla condizione a cui è ridotta la cosa pubblica segnatamente per tutto quello che si riferisca alla religione ed ai diritti della chiesa, non solo è un diritto ma è un dovere rigoroso dei cattolici di prender parte alle elezioni politiche. [...] Però tutti egualmente gli Em.mi sono stati concordi non esser necessario che si risponda ora al quesito di massima anche sul riflesso che essendo imminente la pubblicazione della nuova legge elettorale è bene che prima si conosca il tenore della medesima. In quella vece hanno ravvisato opportuno che fin da ora si dia corpo ad alcune prattiche tendenti a predisporre il terreno»41.
Tali «prattiche» prevedevano il «preparare la opinione pubblica e istruire le masse» onde «raddrizzare alcune idee false» e potevano attuarsi soprattutto con l’«avvertire alcuni giornalisti a non occuparsi con calore ulteriormente del principio fin qui sostenuto ne eletti né elettori e lasciarlo cadere appoco appoco» e con lo scrivere ad alcuni vescovi «per esplorare e conoscere la opinione dei cattolici sull’argomento». Dopo tali passi preparatori, una volta che fosse nota la nuova legge elettorale, «la Congregazione tornerà nuovamente sull’argomento ed emetterà la sua definitiva soluzione». La sinistra al potere e i progetti di allargamento del suffragio erano dunque le motivazioni principali di questo cambiamento di rotta, che Pio IX confermò e approvò. La decisione del novembre 1876 sembrò chiudere la questione della liceità, ma non era comunque risolutiva, dato che, quanto all’opportunità, veniva rimandata la «definitiva soluzione». Resta da capire in che modo venne messa in esecuzione. Per Maria Franco Mellano ciò non avvenne a causa di un «incidente di natura transitoria» a cui in seguito ebbe modo di alludere Nina in un documento del 1878, quando era ormai segretario di Stato di Leone XIII42. Tale incidente è stato da Mellano individuato, tra le varie ipotesi, o nella morte di Antonelli, o nella brusca sospensione a ottobre del III congresso cattolico italiano a Bologna, ordinata dalla prefettura a causa del timore di manifestazioni anticlericali. Entrambi gli incidenti ipotizzati avvennero però prima dell’adunanza del 30 novembre. Grazie all’indagine dei fondi di Aes è qui possibile invece aggiungere un ulteriore documento che chiarirebbe, forse una volta per tutte, la vicenda. In un’adunanza del 1881, infatti, Nina ebbe modo di riferire i dettagli dell’episodio:
«sarebbe stata definitivamente sciolta la questione, se non fosse giunto un incidente forse non conosciuto, che egli si trova in grado di dichiarare. Due mesi dopo tale risoluzione munita dalla approvazione pontificia, venne fuori un Breve dello stesso Pio IX diretto al Presidente della gioventù cattolica di Bologna, cui altrimenti del risoluto dal S. Offizio, si diceva non essere ancora definito dalla S. Sede se l’accorrere alle urne fosse lecito o illecito, ma frattanto i cattolici doversene astenere. L’assessore del S. Offizio rappresentò al Pontefice come quella dichiarazione non stesse in armonia colla precedente risoluzione da lui sanzionata ed in pari tempo dimandavagli istruzioni sul da farsi. Il Papa allora non gli nascose la sua sorpresa per quella lettera portata alla sua firma dal segretario dei Brevi ad Principes, cui egli sottoscrisse, in buona fede, ed in pari tempo gli ordinò di sospendere quanto erasi dal S. Offizio risoluto circa alla preparazione della Opinione pubblica per le elezioni politiche. […] Essere questa la genuina spiegazione del perché quelle determinazioni prese rimanessero ineseguite»43.
In effetti tutti gli storici concordano nell’individuare nel breve a Giovanni Acquaderni del 29 gennaio 1877 un punto di cesura nella storia del non expedit, anche a causa della concitata polemica che suscitò tra i cattolici e tra i liberali. In esso il pontefice aveva solennemente dichiarato: «Poichè questa autorità non ha ancora definito se sia lecito o non e in quale forma, specialmente in ossequio a Noi, immischiarsi nelle pubbliche faccende, non possiamo affatto approvare il parere di quelli che, anticipando arbitrariamente il deliberato della sacra autorità, ritengono che essa debba essere piuttosto precorsa che seguita». Una dichiarazione forse non troppo dura, se papa Mastai Ferretti non avesse aggiunto:
«Noi temiamo non a caso che in questo frangente Satana […] crea all’interno degli scismi per dividere le forze e propone un bene più grande perché voi vi allontaniate da quel bene che fate. E certo questo bene apparente non lo giudicherete ovvio né sicuro se vi farete mente con serietà. Ogni giorno ci si parano dinanzi agli occhi i risultati di tutte le pubbliche elezioni e gli atti delle pubbliche assemblee presso le nazioni estere. Dai primi impariamo che per lo più i malvagi sono preferiti alle persone per bene; dai secondi, anche se i cattolici autorevoli e di grande prestigio sul popolo difendono egregiamente la causa della giustizia, che si bandiscono dappertutto leggi così ostili alla Chiesa, che se essa non fosse opera divina sembrerebbe decisamente in procinto di essere distrutta. A una sicura utilità se ne propone una incerta; e tanto più pericolosa perché non bisogna combattere con un errore d’intelligenze, ma con la volontà ostile di quasi tutti gli eletti, infiammata dall’odio contro la religione»44.
Qui però sia lecito sollevare il dubbio che Pio IX abbia consapevolmente firmato quel breve, attribuendone la colpa ad altri, onde bloccare la decisione innescata dai cardinali. Si ipotizza ciò, alla luce di un discorso che papa Mastai aveva tenuto qualche giorno prima in occasione del pellegrinaggio nazionale della Società della Gioventù cattolica, organizzato annualmente da Acquaderni per l’Epifania. Si tratta di un intervento poco citato dai giornali dell’epoca, probabilmente a causa della paura per le leggi italiane contro gli abusi di stampa, ma che la solerte penna del Giuseppe Manfroni ha annotato sul proprio quaderno (non è pubblicato però nella versione edita delle sue memorie). In quell’occasione, tra le altre cose, il pontefice aveva affrontato il tema della partecipazione alle urne e in particolare del giuramento, cioè quel nodo di liceità che la congregazione del 30 novembre aveva risolutamente sciolto:
«Purtroppo si vorrebbe da alcuni che pur si chiamano cattolici che si avvicinasse la Chiesa allo Stato e riguardasse come atto irretrattabile la usurpata giurisdizione del dominio temporale. In quanto a me, ricordo i miei giuramenti, che col Divino aiuto cerco di adempire senza prestare orecchio a certi argomenti, suggeriti dalla fantasia e dall’orgoglio di teste esaltate. Rispetto i giuramenti fatti a Dio e suggerisco a tutti coloro che vogliono giurare lo adempimento di certe leggi, che in parte sono contrarie a Dio, di astenersi da un atto, che stando così solo e isolato, è riprorevole»45.
D’altronde non sorprende una tale posizione da parte di papa Mastai, che più volte aveva avuto modo di ribadire il concetto: il 18 giugno 1874 in un discorso alle Opere Cattoliche di Napoli, l’11 ottobre 1874 nel già citato saluto alle donne del circolo di S. Melania, il 21 dicembre 1874 in un’allocuzione al S. Collegio, il 25 settembre 1876 nel breve inviato al Congresso cattolico di Bologna (quello che fu poi sospeso dalle autorità) e infine in un breve indirizzato sempre alla Società della Gioventù cattolica il 21 gennaio 1878, nel quale il pontefice, pochi giorni prima della morte, instancabilmente ripeteva:
«abbiamo saputo non senza dolore [...] che alcuni […] ingannati dai sofismi dei conciliatori, hanno preferito l’opinione dei privati al nostro avviso, e son passati alla loro parte [...]. Ci congratuliamo pertanto con voi, che, benché vi contristiate per l’abbandono dei fratelli trasportati dal vento di fallace dottrina, non per questo vi lasciate commuovere, anzi, dal loro errore vi sentite eccitati ad accogliere con maggior piacere e a seguire con maggiore premura non solo i comandi, ma ben anche qualunque avviso di questa apostolica Sede»46.
Nel settembre 1878 il Conte Carlo Reviglio della Veneria chiese alla Santa Sede di poter accettare il seggio di senatore, offertogli in via ufficiosa dal Governo con la promessa che mai si sarebbe preteso da lui nulla di contrario alla sua coscienza e alla sua fede cattolica. Anche se il conte prometteva di non votar mai leggi avverse alla Chiesa o prestare un giuramento diverso da quello previsto dalla formula di Pio VII, la Penitenzieria diede parere negativo. Il papa però, bloccando tale risoluzione, dispose che la questione fosse esaminata da una commissione speciale del Sant’Uffizio. Il 6 ottobre Bilio, Monaco, Franzelin e Nina tornarono dunque a riunirsi per discutere del non expedit. Negli ultimi due anni si erano verificati casi analoghi, che costituivano precedenti di cui i quattro porporati avrebbero dovuto tener conto. Nel dicembre 1877, per esempio, al senatore De Riso era stato concesso di accettare la carica, ma non di esercitarla, salvo in occasione di leggi che riguardassero direttamente gli interessi della Chiesa. Analogamente anche altri senatori, presentati dall’arcivescovo di Torino, ebbero in gennaio la stessa risposta. In queste occasioni Pio IX aveva dichiarato «essere sua mente che a niun cattolico si permettesse di accettare la carica di senatore». Tuttavia Leone XIII nel maggio 1878 aveva fatto rispondere al conte Cesare Valperga di Masino di poter mantenere l’ufficio di deputato alle condizioni previste dalla Penitenzieria nel 186647. La commissione perciò decise che il conte Reviglio, così come un anonimo di Novara il cui caso era stato inoltrato dal provicario diocesano, avrebbero potuto accettare il mandato, ma non esercitarlo né prestare giuramento finché non fossero pervenute loro ulteriori istruzioni dalla Santa Sede. La risposta sarebbe stata comunicata attraverso i rispettivi vescovi che avrebbero dovuto poi «lacerare» le missive, onde mantenere la segretezza di tali permessi speciali. Papa Pecci approvò quanto deciso, ma dettò lui stesso le bozze di risposta ai due ordinari. In tali minute, tra le cose più notevoli, inseriva una significativa modifica alla prassi del giuramento: gli eletti avrebbero dovuto pubblicare su qualche giornale nei giorni immediatamente precedenti al giuramento una dichiarazione che spiegasse l’interpretazione che essi davano all’atto. In questo modo i deputati cattolici non sarebbero stati più tenuti a pronunciare in Parlamento la clausola salvis legibus rifiutata dallo Stato italiano.
Un cambiamento notevole quello voluto da Leone XIII, che però riguardo alla richiesta di riconvocare una commissione che discutesse il problema del non expedit, preferì differire. I quattro prelati, che avevano tutti partecipato alla risoluzione del 1876, avevano chiesto infatti a papa Pecci di rendere operativo quanto deciso due anni prima e, nell’attesa di porre nuovamente all’ordine del giorno la questione del voto politico, proponevano al papa di incaricare, con segreto del Sant’Uffizio, padre Steccherella, redattore de «La Civiltà cattolica», e in seguito altri giornalisti di redigere opportuni articoli che preparassero l’opinione pubblica all’intervento alle urne48. Ma il papa non diede loro risposta. Casoni nelle sue memorie riporta un significativo episodio relativo al neo papa. Al cardinal Lucido Maria Parocchi che gli aveva chiesto come avrebbe affrontato il problema del non expedit, Pecci avrebbe risposto: «quand’ero Vescovo di Perugia avevo creduto che fosse utile alla causa della Chiesa e al benessere dell’Italia che i Cattolici usassero anche di questo mezzo di difesa dei diritti sacrosanti della Chiesa e del bene maggiore della loro Patria. Ma, divenuto papa, veggo che questa è questione di altissimo momento e che vuol essere profondamente esaminata prima di revocare il non expedit»49. L’eredità di un pontificato come quello di papa Mastai si rivelava per Pecci non certo facile da gestire, non solo per la quantità e qualità dei problemi rimasti in sospeso nel passaggio di consegne, ma soprattutto per l’impossibilità pratica propria di tutti i papi a smentire il pontificato dei predecessori, specialmente se così lungo e autorevole come quello di Pio IX. A ciò si aggiunga che il papa non governa da solo: i cardinali con cui si trova a collaborare nei primi anni (che sono anche gli stessi cardinali che lo hanno eletto) sono quasi tutti nominati dal papa precedente e serve quasi un decennio perché il nuovo pontefice possa creare una propria «maggioranza» all’interno del Sacro Collegio. Se dunque Leone XIII non assestò la sterzata attesa è anche perché in effetti era, almeno nell’immediato, impossibilitato a compierla. Nel resoconto steso da Nina dell’udienza del 7 ottobre è riferito che il papa, riguardo all’istanza dei quattro porporati, preferì «differire la soluzione»50. In realtà già M.F. Mellano ha dimostrato che tra l’ottobre e il novembre del 1878 ebbe effettivamente luogo un tentativo di esecuzione di quanto deciso nel 1876. Non sembri però inopportuno sostenere in questa sede la tesi che tale manovra fu effettuata per iniziativa di Leone XIII e del suo segretario di Stato Lorenzo Nina all’oscuro del resto della Curia. Di tale episodio infatti non verrà mai fatto cenno nelle adunanze e nei documenti della Congregazione degli Aes.
Il 19 ottobre Nina inviò una lettera riservata a monsignor Gaetano Tortone, vescovo di Torino, con la quale, dopo avergli imposto solennemente il segreto pontificio, lo metteva al corrente di quella che era stata la risoluzione del Sant’Uffizio nel 1876, riferendogli il progetto di suggerire alla stampa cattolica di modificare gradualmente i propri slogan e di abituare l’opinione pubblica a considerare che il voto politico «non era in sé in nessun caso illecito e cambiandosi le circostanze poteva eziando riuscire opportuno». Ricordando come tale progetto, pur godendo del beneplacito di Pio IX, si era allora arenato a causa di un «incidente [...] di una indole meramente transitoria», ora che sembravano riproporsi le condizioni opportune per attuarlo incaricava Tortone di far eseguire «senza ritardo» tali disposizioni al teologo Margotti sulle pagine della propria rivista, sempre sotto segreto pontificio.
«Ben s’intende, che qui non si tratta di operare una immediata e completa evoluzione nella suddetta questione, ma di adoperarsi senza ritardo [...] in primo luogo a non più combattere l’idea del più volte ripetuto concorso, e poi a togliere dalle menti dei fedeli quelle idee che finora hanno diretto la loro attitudine in tale questione, poiché la S. Sede potrebbe dietro fatti che oggi non può ancora palesare trovarsi costretta non solo a permettere ma ancora in qualche possibilissima ipotesi, di preferire il concorso in parola»51.
Ancora una volta dunque veniva scelto l’indomabile ideatore della formula «né eletti, né elettori», ripetendo il tentativo che già dieci anni prima era stato dei vescovi piemontesi e che lo stesso Nina rievoca, nel contesto di una frase che, tra l’altro, nitidamente esplica l’idea della Santa Sede riguardo alla stampa cattolica: «il giornalismo cattolico, non potendo avere altro scopo in ragion d’essere, che di servire gli interessi della S. Sede, dovrà quindi adoperarsi nell’indicato senso come nel passato ha agito secondo le norme che riteneva essergli dettate da Essa». Tortone rispose il 26 del mese, offrendo puntuale resoconto della conversazione avuta con Margotti. Questi si era fatto rileggere due volte le istruzioni di Nina ed aveva assicurato che avrebbe eseguito prontamente quanto richiesto, «non solo per l’illimitata sua sottomissione ad ogni minimo cenno del Sommo Pontefice, ma anche per la convinzione, che dietro la lettura del Dispaccio, si era egli formata sull’opportunità della misura da adottarsi»52. All’offerta di Tortone di inoltrare alla Santa Sede i quesiti che il giornalista avesse voluto porre per avere maggiori chiarimenti, questi rispose che «l’affare sarebbe andato troppo per le lunghe, che era miglior partito trattare subito l’argomento», temendo uno scioglimento delle camere e di non fare in tempo per le prossime elezioni generali. Il 29 ottobre però «L’Unità cattolica» pubblicava ancora una volta un articolo troppo sbilanciato per non destare immediatamente i sospetti delle altre testate e originare la consueta polemica, la quale, fino al contributo della Mellano, era stata registrata dagli storici del non expedit come dovuta all’inaspettata «conversione» del Margotti53:
«Noi, che […] nel 1860 proclamammo la massima né eletti né elettori, siamo oggi in dovere di esaminare seriamente se questa massima debba eziando perdurare, proclamato il suffragio universale. E non esitiamo a rispondere di no, ed a dire che, quando ci avranno dato a tutti la facoltà di eleggere i deputati, tutti dovranno accorrere alle urne politiche, pronti ad eleggere, e, se eletti, ad entrare nella Camera a combattervi per la Chiesa e per la società. [...] ricordiamo che la massima né eletti né elettori era un espediente transitorio, non una regola morale e costante [...] non si è preteso mai che fosse cosa illecita prendervi parte [...] non era espediente, perché allora in Roma regnava e governava il Pontefice, e le elezioni si facevano con una legge ed uno Statuto subalpini. Non era spediente, perché il diritto di eleggere era un privilegio di pochi [...] ora però è un’era nuova che si apre, è forse una porta di salvezza che la provvidenza ci dischiude [...] noi dobbiamo afferrare l’arma che ci danno nelle mani. [...] Dopo la proclamazione del Suffragio universale, noi siamo tanto convinti non solo della convenienza, ma anche della necessità del dovere di concorrere alle elezioni anche politiche, quanto prima, con un suffragio ristrettissimo, ci parea utile lo astenercene»54.
Eppure Margotti aveva promesso che avrebbe «scritto in modo tale da non lasciare supporre affatto per ora un’evoluzione dalla troppo nota formula né eletti né elettori, e che nessuno potrà neppure avere il meno sospetto che l’idea di un tale articolo possa essergli stata ispirata da altri»55. Mentre il direttore del «L’Unità cattolica» proseguiva l’operazione tentando nei successivi articoli di difendersi dagli attacchi del resto della stampa (e dei suoi stessi lettori) e contemporaneamente rimpiazzare il suo fortunato slogan con un improbabile «deputati papali in Roma papale»56, Nina manifestava a Tortone la propria insoddisfazione per la condotta del giornalista: «ho rilevato non senza sorpresa che egli non si è attenuto esattamente alle istruzioni ricevute [...] tutto ad un tratto ha proclamato in un modo troppo esplicito e risoluto la contraria teoria politica in modo da fare strepito, come disgraziatamente è avvenuto, e promuovere, anche suo malgrado discussioni troppo vive, ed atte a portare la divisione nel campo cattolico». Quello che Nina avrebbe voluto era un graduale abbandono della militanza astensionistica, il preparare la via ad un «cangiamento d’idee, che doveva principalmente risguardare (sic) la lecitudine dell’atto», ma non il sostenere da subito e con foga la soluzione opposta. Nina ora esigeva da Margotti di tacere e di «non insistere sull’argomento del suffragio universale. Anzi sarebbe più espediente che soprassiedesse per ora dal discutere ulteriormente la delicata questione sulla opportunità del concorso dei cattolici alle urne politiche». Soprattutto, che allontanasse da sé i sospetti di aver parlato per istruzioni superiori57. Incontrando Tortone il 16 novembre, Margotti si scusò dell’articolo affermando, come emerge dal resoconto del vescovo a Nina, di essersi «dimenticato di tutte quelle avvertenze», cosa che, aggiungeva con malizia, «non gli sarebbe accaduta se l’E. V. si fosse per iscritto rivolta direttamente a Lui»58. Mellano ha dipinto un Margotti estremamente ossequioso dell’autorità superiore, pronto ad assecondare con forse eccessivo entusiasmo i desiderata impostigli col vincolo dell’obbedienza dal pontefice stesso o, come era avvenuto nel 1868, dai vescovi della sua regione ecclesiastica. Il rimprovero di Nina dunque doveva scottare ad un uomo che «da oltre due settimane si era battuto in un clima di stressante tensione, offrendosi agli strali di avversari e di amici, conscio del fardello si responsabilità che gli era piovuto sulle spalle, intimamente convinto di ricevere un cenno di consenso da parte di chi, onorandolo della missione, gli aveva chiesto in cambio il più rigoroso silenzio»59. In realtà è ragionevole credere tutto il contrario e sostenere che Margotti non si fosse comportato in maniera diversa rispetto al 1868, cioè impiegando la propria astuzia per far prevalere la tesi a cui sempre rimase fedele, vale a dire quella dell’astensione. È possibile avanzare tale supposizione in ragione di un documento sfuggito all’indagine di Mellano, originariamente conservato in un altro fascicolo rispetto a quello consultato dalla studiosa. Si tratta di una terza lettera di Tortone a Nina, confidenziale e «riservatissima», inviata il 27 novembre, cioè undici giorni dopo l’ultima comunicazione. In essa il vescovo riferisce nuovamente della conversazione avuta col teologo, comunicando stavolta inediti dettagli che rivelano aspetti finora solo supposti della personalità di Margotti:
«Non potendosi difendere […] mi disse: – e crede Ella che sia cosa lecita di vincolarmi con un segreto ed obbligarmi poscia a sostenere come mia una teoria affatto opposta alle mie convinzioni? Una tale diplomazia non è degna né di Sua Santità né dell’Em.mo Nina, e non può essere benedetta da Dio che comanda di chiamare nero il nero e bianco il bianco, ed il Vangelo ci dice che il nostro linguaggio deve essere est est, non non. – Oltre a ciò mi disse – se io non avessi voluto accettare né il secreto né di trattare in quel modo la questione, Ella cosa avrebbe fatto? – In quanto a me gli risposi la cosa era semplicissima, avrei fatto ivi conoscere all’Em.mo Seg. di Stato ch’Ella non voleva né una cosa né l’altra. Circa poi la diplomazia che Ella non approva, mi duole assai ma non sono affatto conformi alla mia maniera di pensare e di operare le sue osservazioni. Siccome io non sono giornalista, così non uso di discutere le disposizioni del Santo Padre né del suo Segretario di Stato, ma convinto come sono che sì l’uno che l’altro conoscono assai meglio di me ciò che conviene al bene pubblico, eseguisco i Loro ordini con la più pronta ubbidienza, tranquillo come sono che di essa Iddio non mi domanderà conto. Allora cercò di persuadermi che era una vera utopia il sistema, che si voleva fargli adottare, contrario alla nota prediletta sua formola: che egli ne aveva già parlato al predecessore dell’Em.mo Seg. di Stato (ma non dissemi che fosse rimasto convinto delle sue osservazioni) che insomma alla prova che se ne farebbe, si sarebbe veduto quanto fondate erano queste sue previsioni, che della sua inaspettata evoluzione aveva già sentito ben vivi rimproveri da distinte persone, che il suo giornale ne avrebbe sofferto assai e che qualora gli venisse meno il numero degli associati, non gli rimaneva altro che ritirarsi non essendo giusto di averne oltre le beffe anche il danno»60.
Tortone, riferendo nella prima comunicazione solo per sommi capi il dialogo avuto col teologo, preferì darne più puntuale riscontro in una lettera separata, affidata alla «prudenza ed amicizia» di Nina, onde «fargli soltanto conoscere la differenza ben enorme che esiste tra quanto il Margotti pubblica colle stampe e le sue personali opinioni». Compatendo un religioso forse «troppo pieno di sé», ma in fondo convinto di sostenere la buona causa, Tortone probabilmente più che denunciare la disobbedienza del giornalista, intendeva mettere in guardia il segretario di Stato dal ricorrere in futuro a tale personaggio per analoghi tentativi. Margotti si era infatti rivelato abile stratega, capace di apparire aderente ai comandi superiori, restando fedele alla propria convinzione astensionistica. Gli effetti della sua strategia non tardarono a presentarsi, conseguenti alla feroce polemica originatasi. Se nella prima parte dell’anno erano pervenuti alla Santa Sede fiumi di lettere di cattolici illustri i quali, incoraggiati dall’elezione del nuovo pontefice, avevano avanzato le proprie speranze per una possibile conciliazione, dopo il novembre 1878 una moltitudine di missive di cattolici sdegnati o anelanti chiarezza sommersero la Segreteria di Stato, sostenendo con fermezza la necessità dell’astensione. Tra questi ultimi, anche il barone Vito d’Ondes Reggio, il quale temeva «che se ai cattolici la S. Sede ordinasse o permettesse d’essere candidati al parlamento italiano, pochi sarebbero eletti che portano il nome di cattolici e di essi i più Cattolici liberali»61. Leone XIII dovette ricavarne un’impressione più che esplicita della diversità di opinioni all’interno dello schieramento cattolico e di quanto fossero dunque reali le preoccupazioni dei cardinali di Curia che avevano paventato la divisione dei fedeli.
Il 10 maggio 1879 il segretario degli Aes, Wladimiro Czacki, per ordine del papa sottoponeva a 17 cardinali una voluminosa ponenza, perché esternassero il loro parere per iscritto riguardo nove dubia intorno al non expedit. Principalmente, si chiedeva se dopo la risoluzione del 30 novembre 1876 la questione della liceità potesse «ritenersi come risoluta, o messa in disparte» e se occorresse da parte della Santa Sede un atto pubblico per dichiararla o se bastasse la formula tolerari posse; si poneva inoltre il dubbio se partecipare già alla prima consultazione elettorale utile o attendere un’adeguata preparazione dell’opinione pubblica cattolica, se occorresse un «programma» e quali istruzioni dovessero essere date «tanto ai vescovi quanto ai capi del movimento cattolico». In sintesi, la ponenza chiedeva se la costituzione di un «centro cattolico» non fosse forse «il mezzo unico lasciato dalla Provvidenza in questo periodo di tempo alla S. Sede, perché [...] le fosse restituito il rispetto sociale e la protezione non illusoria delle leggi del Paese»62. I consultati erano Di Pietro, il decano del S. Collegio che alla morte di Pio IX aveva convinto i cardinali a non tenere il conclave fuori Roma, Bilio, estensore del Sillabo ma anche, da quanto risulta dal verbale, il principale artefice della risoluzione del 1876, Panebianco, Monaco, Franzelin e Mertel, che a quella sessione avevano partecipato, e poi il polacco Ledochowski, reduce del Kulturkampf tedesco, Bartolini, il grande elettore di Leone XIII, Simeoni, l’ultimo segretario di Stato di Pio IX, e poi Sacconi, De Luca, Ferrieri, Chigi, Oreglia, Giannelli, Consolini e Nina. Alla ponenza erano allegati la relazione di Cagiano del 1865, le risoluzioni del 1866, del 1868, del 1876 e del 1878, e ancora una volta i voti dei consultori Tarquini, Cardoni e Cambi, a cui si aggiungevano quelli di Guardi e Schiaffino, consultori di Aes, e di Baccelli, avvocato fiscale e consultore del Sant’Uffizio.
Schiaffino riteneva risolta nel 1876 la questione della liceità e consigliava di preparare l’opinione pubblica al riguardo, ma in merito all’opportunità non riteneva che dovesse essere consentito nell’immediato l’accesso alle urne, perché al momento non c’era da attendersi un esito soddisfacente, inoltre «si toglierebbe quella differenza tra l’Italia legale e l’Italia reale che sin’allora aveva fatto considerare il governo piuttosto come un partito, che come il rappresentante vero di tutto il Paese» e le potenze europee avrebbero potuto far pressioni sulla Santa Sede «affinché recedendo dalla sua resistenza si acconciasse ad un accomodamento col governo italiano»63. Per Baccelli il problema non era di opportunità, che non era messa in dubbio, ma di liceità e di utilità, in quanto gli interessi nazionali mai avrebbero dovuto prevalere sugli interessi universali della Santa Sede e la situazione dei cattolici italiani era direttamente connessa alla questione romana, cioè all’indipendenza territoriale della Santa Sede, inconciliabile con l’esistenza stessa dello Stato italiano; né era da sperarsi che intervenendo in Parlamento i cattolici la potessero risolvere. Tuttavia l’avvocato del Sant’Uffizio suggeriva la risposta del tolerari posse, più che altro come garanzia nel caso futuro in cui la Santa Sede fosse indotta o costretta dalle circostanze a incoraggiare l’intervento alle urne. Guardi infine rifiutò i paragoni avanzati da molti circa la situazione dei cattolici in altri Paesi, dato che a suo parere in Italia illecito era il giuramento, nonostante «i sotterfugi», dato che il Governo lo pretendeva come assoluto, ed illecito era l’esercizio di rappresentanza, dato che la sovranità popolare era impossibile proprio a Roma «dove l’unico legislatore è spodestato». Aggiungeva che i deputati erano stati tutti scomunicati: come permettere quindi che i cattolici sedessero in Parlamento con loro se la Santa Sede non tollerava che nessuno avesse rapporti col governo italiano, anche all’estero?
La severità di tali pareri non indusse i cardinali a formulare voti favorevoli: concordemente le risposte dei consultati constatavano l’inopportunità di rimuovere attualmente il non expedit. Molti però consigliavano quella che in seguito sarà chiamata la strategia della preparazione nell’astensione. Leone XIII, stando al resoconto dei fatti steso tre anni dopo, «stimò conveniente per allora di coprire col silenzio la ardente e delicata controversia»64.
L’esito unanimemente negativo di tale consultazione, che coinvolgeva anche gli stessi cardinali che appena due anni prima avevano espresso parere opposto, può essere probabilmente spiegato dal clima di forte polemica respirato in quei mesi a cavallo del 1878-1879, gli anni della pubblicazione del libello Il moderno dissidio tra la Chiesa e l’Italia dell’ex gesuita Carlo Maria Curci, ma soprattutto gli anni del tentativo da parte di molti cattolici, tra cui il gruppo romano di «casa Campello», di creare un partito conservatore italiano, cristiano e nazionale65. Il gruppo contava non pochi aderenti, con rappresentanti dai centri più importanti d’Italia, riuniti attorno al nucleo dell’Unione Romana che stava gradualmente conseguendo nell’Urbe considerevoli successi elettorali66. Monsignor Domenico Jacobini e il cardinale Bilio, penitenziere maggiore, avevano avuto contatti con questi conservatori e li avevano sostanzialmente appoggiati. In seguito però cominciarono i contrasti in seno al movimento stesso, in particolare con la separazione del gruppo fiorentino, che decise di affrontare la prova parlamentare con o senza l’approvazione della Santa Sede. Il discredito colpì tutto il gruppo e la fine anche dei timidi appoggi dai palazzi apostolici venne con le dimissioni del cardinale Nina dalla Segreteria di Stato, rassegnate il 16 dicembre 1880. Da quel momento, annota Paolo Campello nelle sue memorie, «non tardò a spirare dal Vaticano un vento alquanto intransigente, che prima raffreddò e poi estinse del tutto lo zelo degli innovatori»67.
In quegli anni di speranze conciliatoriste si registrarono, ancora una volta, colpi di mano anche da parte dell’episcopato, come quello che Carlo Bellò, nella sua biografia di Geremia Bonomelli, ha segnalato intorno al vescovo di Cremona. Bonomelli ricevette infatti un richiamo da parte della Segreteria di Stato perché smentisse l’accusa, secondo Bellò probabilmente senza fondamento, di aver incoraggiato alcuni fedeli a non tener conto del non expedit e a regolarsi secondo coscienza68. Negli archivi vaticani è custodito il carteggio che ricostruisce la vicenda: in marzo Nina aveva scritto al vescovo di Brescia, monsignor Verzeri, perché richiamasse i redattori de «Il cittadino» che avevano affermato sulle pagine del loro giornale che il programma di casa Campello aveva ottenuto l’approvazione della Santa Sede e che il non expedit stava per essere rimosso69. Compiuta la missione, Verzeri rivelava che a origine di tutto era stata una lettera «incoraggiante» ricevuta da uno dei redattori da parte di Bonomelli. Nella lettera incriminata si leggeva:
«ecco la risposta netta e chiara rispetto al quesito delle elezioni politiche: le elezioni politiche son lecite, lecitissime: il dubbio versa ancora sull’expedit. Questa risposta ebbi 36 giorni sono da chi poteva darmela ex officio. Non ascoltate questa turba di giornalisti che fan tutti far imbrogliar tutto e tutti. Dunque potete andar alle elezioni. Principio generale. Nel caso pratico expedit? È utile? Conviene? Badate ai soggetti proposti, alla possibilità di riuscita, al bene della Chiesa, del Paese e se credete che il vostro intervento possa esser utile, andate; se no, attendetevi. Giudicar questo in particolare è affar vostro e d’ognuno che opera per coscienza. Checché altri dica, potete. Son sicuro, sicurissimo di quel che vi scrivo. Se credete usarne, usatene francamente. Quel quid di dittatura che hanno esercitato i giornali, anche cattolici, determinando l’astensione fu nocivo. Senza saperlo, senza volerlo, fecero ciò che i tristi scaltramente volevano. È ora a tempo che la direzione [cattolica] dell’opinione pubblica rompa le pastoje di questo giornalismo che pretende d’essere l’organo della Chiesa, ma fece del male [...] ed ora confonde le lingue. Basta»70.
Il 4 luglio 1879 Bonomelli, sollecitato da Nina, rendeva conto delle accuse e (in parte) le confermava, non negando di aver risposto al quesito che gli era stato posto da un fedele di Brescia. Ma onde difendersi tirava in mezzo le responsabilità del proprio «informatore» nella Curia vaticana, che si rivelava essere stato, a sorpresa, lo stesso segretario di Stato: «interrogato da un ottimo laico d’altra diocesi, già mio scolaro, intorno alle elezioni politiche, risposi precisamente senza nominare persona, ciò che da Sua Eminenza ebbi l’onore di udire, cioè: 1° le elezioni per sé essere lecite 2° restare fermo il non expedit fino a nuovo avviso»71. I procedimenti contro il vescovo, per il momento, terminarono qui.
Subito dopo le elezioni del 1880, che avevano visto una considerevole partecipazione dei cattolici, sia come eletti che come elettori, si riaffacciò la questione dell’allargamento del suffragio, provvedimento da tempo nel programma della sinistra e che impensieriva non poco il campo cattolico. Nonostante il non expedit non fosse stato ritirato dall’ultimo pronunciamento pubblicamente noto del 1874, l’orientamento dell’opinione pubblica cattolica cominciava a modificarsi e gli stessi intransigenti, di fronte alle critiche dei conservatori nazionali, dovettero ammettere che l’astensione non era fine a se stessa, mentre persino «L’Osservatore romano» ratificò la formula della preparazione nell’astensione72. Il nuovo atteggiamento di «astensione attiva» non poteva non interpellare la Santa Sede: il 21 febbraio 1881 i 17 cardinali che due anni prima avevano espresso per iscritto il proprio parere furono convocati dal nuovo segretario di Stato Ludovico Jacobini per discutere la questione delle elezioni politiche. Il materiale preparatorio alla sessione fu realizzato dal giovane Mariano Rampolla del Tindaro, segretario della Congregazione degli Aes: i primi sei dei dieci quesiti proposti vertevano propriamente sull’ipotesi di rimuovere il non expedit, domandando se, dopo anni di discussioni in proposito, «sia ora necessario e conveniente definire la questione teoretica della licitudine, o convenga piuttosto discutere soltanto la questione pratica della opportunità»; gli ultimi quattro riguardavano invece più in generale la situazione del papato in Italia, dimostrando come per il pontefice fosse evidente il nesso tra non expedit e questione romana. Era questa infatti la maggiore obiezione posta dagli intransigenti contro la partecipazione dei cattolici alle urne e papa Pecci invitava ora i porporati a riflettere se il perdurare dello stato di cose non moltiplicasse i danni e «se a recuperare la sovranità temporale [...] la S. Sede debba tenere un’attitudine meramente passiva aspettando fiduciosa nella divina Provvidenza gli avvenimenti, ovvero debba ancora formarsi un piano e tenere una linea di condotta operosa ed attiva»73. Leone XIII chiedeva insomma di abbandonare le illusioni di restaurazione del potere temporale, incoraggiando a un intervento più attivo nella vita politica italiana. Tuttavia preoccupanti per lui erano state proprio le manovre dei conservatori nazionali, che avevano suscitato la divisione del fronte cattolico, come rivela l’intervento del segretario di Stato in apertura di sessione:
«il Santo Padre mostrandosi da vario tempo preoccupato di questo affare e della triste situazione, in cui trovasi la S. Sede, più volte avevagli tenuto discorso ‘sulla necessità di stabilire una norma’ sia in vista delle divisioni manifestatesi, tra i Cattolici italiani riguardo al concorso alle urne politiche, nel che spesso sono coadiuvate dal Clero ed ancora da qualche prelato, sia per le notizie ricevute di un partito che nel seno dei Cattolici si va organizzando»74.
Molti hanno sostenuto che Leone XIII non approvava il partito cattolico così come lo vedevano i suoi promotori, cioè un partito che si sarebbe dovuto collocare a destra dello schieramento politico, in stretto contatto con gli altri conservatori: il biografo ufficiale di Leone XIII, Edoardo Soderini, ha sottolineato come il pontefice auspicasse «una specie di Centro che farebbe pagar caro, ogni singola volta, non solo una temporanea alleanza, ma la sua stessa neutralità»75. Probabilmente Pecci avrebbe preferito un partito come il Centro tedesco, più spiccatamente cattolico e principalmente più libero di muoversi nello schieramento politico, nonché più manovrabile da parte del Vaticano stesso76. Se Leone XIII temeva dei deputati cattolici troppo tiepidi e legati al partito dei conservatori, la maggior parte dei cardinali di Curia non riusciva ad allontanare da sé lo spauracchio dei cattolici liberali. Anche i sostenitori dell’intervento alle urne temevano l’abbandono da parte dei cattolici della fedeltà alla Santa Sede, ma ne indicavano come causa proprio il perdurare del regime di astensione. Il 21 febbraio, nel corso del lungo dibattito avvenuto durante la sessione, mentre la maggior parte dei cardinali non riteneva ancora risolta la questione della liceità e Di Pietro invano li esortava a non sprecar parole su questo punto, lo scontro principale si verificò tra il penitenziere maggiore Bilio, favorevole a graduali passi in avanti verso la preparazione alle urne, e il Vicario di Roma Monaco La Valletta, deciso per un rafforzamento del non expedit in senso proibitivo, nonostante avesse partecipato anch’egli, come Bilio, alla congregazione del novembre 187677. La minaccia della divisione del movimento cattolico costituì l’argomento che più fece breccia tra i presenti e alla fine anche Bilio, cedendo alle repliche, dovette dirsi «colpito da ciò che […] sarebbe un danno gravissimo». Ciò nonostante si professava ancora non pienamente convinto, a causa dei vantaggi che i cattolici avrebbero potuto conseguire con la partecipazione, per esempio nell’ambito della legislazione sull’istruzione o sulla famiglia, inoltre teneva a ribadire che i conservatori di casa Campello nulla avevano a che fare con il cattolicesimo liberale, «il quale come partito fortunatamente non esiste, e ciò rilevasi ben chiaro dal noto programma del Conte Masino contenente le condizioni con cui i cattolici conservatori entrerebbero nelle Camere». Tuttavia cedeva. Alla fine, i cardinali concordarono nel suggerire al papa di trovare il modo, magari attraverso una pretestuosa lettera indirizzata al suo cardinale vicario, di affermare nel non expedit la presenza di una proibizione, ovvero che «l’accesso alle urne politiche è proibito e che non lasci occasione di tener viva alla mente dei fedeli siffatta proibizione»78. Leone XIII però riuscì ad aggirare tale risoluzione, assecondandola senza compiere un passo di chiusura definitivo. L’occasione scelta fu l’udienza alla Federazione delle Società Cattoliche di Roma, il 24 aprile 1881, durante la quale infatti ebbe modo di ribadire indirettamente il divieto, ma con una perifrasi piuttosto «morbida»:
«Siccome insieme agli interessi cattolici, sono ora minacciati anche quelli della famiglia e della società, anche a questi è necessario che accorriate portando la vostra azione nel campo delle amministrazioni comunali e provinciali: il solo che per ragioni di ordine altissimo è al presente consentito ai cattolici d’Italia»79.
La discussione del 21 febbraio aveva rivelato la vivacità delle posizioni interne alla Curia. A un Di Pietro isolato troppo «a sinistra» che non riusciva a far valere le proprie ragioni a favore dell’abbandono dell’intransigentismo, si opponeva un più moderato Bilio che tentava di non legar le mani al papa e proseguire la strada della preparazione nell’astensione. È con Bilio che la Penitenzieria in quegli anni prese a rispondere ai quesiti intorno al voto politico con la moderata formula pro nunc non expedire80. I cardinali invece più conservatori, guidati da Bartolini e soprattutto da Monaco, desideravano che Leone XIII proseguisse «le tradizioni di Pio IX nei suoi discorsi» e consideravano superata la risoluzione del 1876 a motivo non solo delle circostanze cambiate e dell’esiguo numero dei consultati rispetto ai 17 chiamati da Leone XIII, ma soprattutto per quell’ultimo indirizzo di Pio IX ad Acquaderni del 1877, nonostante Nina avesse rivelato proprio in quella adunanza i particolari dell’«incidente» avvenuto con il segretario dei Brevi.
Pecci però appena 18 mesi dopo tornò ad interrogare la Curia sul problema del voto politico. I cardinali infatti in quel lasso di tempo avevano continuato a riunirsi divisi in commissioni per portare a termine il dibattito sull’eventualità della più volte ipotizzata fuga da Roma del pontefice e avevano definito nei dettagli ogni particolare: sarebbe stato quindi finalmente possibile dedicarsi a pieno regime alla questione della partecipazione politica dei cattolici italiani, senza che altre questioni potessero venir frapposte dai cardinali onde prender tempo81. La maggiore determinazione con cui il pontefice intendeva affrontare la questione risulterebbe anche dal modo con cui la ponenza preparatoria, compilata nell’agosto 1882 dal segretario degli Aes Rampolla, liquidò il problema della liceità rispetto all’anno precedente:
«non verrà posto in questa ponenza il problema speculativo di massima se sia lecito o no [...] Il proporre nuovamente siffatta questione per molti delle EE.VV. che la ritengono già esaurita, sarebbe cosa per fermo molesta o per lo meno oziosa, ed occuperebbe quel tempo che molto più vantaggiosamente sarebbe destinato a discutere la questione pratica dell’opportunità. Per coloro poi che non la credessero ancora abbastanza chiaramente definita e quindi ritenessero non potersi procedere a discutere sulla opportunità di licenziare i cattolici italiani alle urne politiche, senza prima essere del tutto sicuri intorno alla onestà dell’atto, si fa rispettosamente osservare che essendo stato ciò in vari casi manifestatamente consentito dalla S. Sede e però non potendosi mettere in dubbio da nessuno che col consenso o permesso previo del Sommo Pontefice e colle condizioni dallo stesso appostevi si possa lecitamente esercitare un tale atto, perciò stesso la questione passa a divenir pratica, riducendosi tutto a conoscere di esaminare i motivi pei quali si ravvisi opportuno o necessario il concedere o rifiutare siffatto pontificio consenso e permesso, non che i limiti ed i modi di tale concessione o rifiuto»82.
La questione del giuramento veniva ugualmente messa in disparte, perché la sua liceità, qualora il pontefice ne avesse dato il permesso, non avrebbe potuto più essere messa in discussione. Quanto al problema dell’accettazione da parte del Parlamento della formula, la ponenza lo dichiarava risolto ricordando il caso del deputato Felice Cavallotti, il cui giuramento (senza clausole) era stato accettato, non senza polemiche, nonostante egli avesse pubblicato una dichiarazione a mezzo stampa per chiarire l’interpretazione che dava all’atto83. Fatta piazza pulita di queste cavillose questioni, Rampolla compiva un lunghissimo resoconto dei passi fatti dalla Santa Sede riguardo al non expedit dai primi atti della Penitenzieria fino a quella data, sollecitando i cardinali a emettere una volta per tutte una parola definitiva sul problema. Anche il numero esiguo dei dubbi proposti (solo tre) è significativo, come a voler circoscrivere maggiormente l’ambito di intervento. In breve, ci si chiedeva se fosse opportuno «insistere sul divieto», se e in che modo toglierlo o moderarlo e come «predisporre gli animi dei fedeli a tal cambiamento, onde rimuovere il pericolo di divisione tra i buoni». Ma la volontà ferma di papa Pecci ad andare fino in fondo alla questione aveva un’altra palese manifestazione. Gli allegati alla ponenza infatti questa volta erano costituiti dai pareri di ventidue vescovi della penisola, invitati personalmente dal pontefice ad esprimere la propria opinione riguardo alla questione del voto cattolico. Non più consultori, dunque, né anziani cardinali di Curia, ma ordinari con una concreta e consumata esperienza pastorale. Oltre al quesito se ritenessero conveniente insistere sul divieto o permettere l’accesso alle urne e come prepararsi a tale cambiamento, ai consultati era richiesto anche «se, nonostante il divieto, i Cattolici sogliono andare alle urne politiche, in qual numero e se in buona o male fede» e quale fosse la prassi del clero in rapporto a tale disubbidienza84.
I fatti accaduti in quei 18 mesi giustificavano infatti il ritorno della questione all’attenzione della Santa Sede. Dopo il brusco risveglio del 13 luglio 1881, con l’episodio dell’assalto alla salma di Pio IX che aveva improvvisamente svelato quanto poco cattolica fosse la società italiana, giungeva al termine il dibattito sul suffragio universale, che sarebbe stato introdotto con la legge del 24 settembre 1882. Il nuovo sistema elettorale offriva l’opportunità di compiere il passo della partecipazione senza che apparisse in contraddizione col passato: «non muta la Chiesa, mutano le condizioni sociali e le circostanze, e la Santa Chiesa trova opportuno oggi quello che ieri non giudicava tale», aveva scritto Domenico Agostini, patriarca di Venezia85. In previsione di tale cambiamento, come segnalò Manfroni al suo questore nei primi mesi di quel 1882, «il Papa, a seguito della nuova legge elettorale politica, aveva dato istruzioni al partito clericale perché […] d’accordo coi parroci, siano esaminati i registri delle rispettive parrocchie, verificati quali degli aderenti al partito possano aver diritto di essere elettori politici e interessarsi perché siano fatti inscrivere in tempo utile»86. Tale mossa poteva costituire una manovra preventiva in attesa della rimozione del non expedit, ma poteva essere anche facilmente giustificata con la volontà di far risultare nei registri la forza dell’astensione cattolica. Bisogna però dubitare che proprio quest’ultimo fosse il motivo principale di tale operazione, dato che l’impatto del non expedit era reso più significativo anche da quella fetta dell’elettorato che per ignoranza, ignavia, disinteresse o convenienza mai sarebbe andata a votare (e quindi anche ad iscriversi alle liste elettorali). La manovra, che tuttavia corrispondeva efficacemente al criterio della «preparazione nell’astensione», probabilmente non risultò gradita agli intransigenti, così come la convocazione della sessione di Aes dovette infastidire quella fetta della Curia romana che considerava evidentemente chiusa la questione del voto dei cattolici. I pareri dei ventidue vescovi erano infatti risultati quasi tutti favorevoli alla partecipazione alle urne, mentre il tono della ponenza non dissimulava nel tono e nel linguaggio l’evidente intento di recedere dal non expedit. Tuttavia non sappiamo quale fu infine l’esito del dibattito, dato che il pontefice approvò le decisioni prese, ma trattenne presso di sé il verbale della riunione. Ad ogni modo la risoluzione non doveva discostarsi molto dalle soluzioni tratteggiate come possibili dalla ponenza. A differenza dei dibattiti precedenti, infatti, il papa aveva fatto esporre tutta una gamma di risoluzioni tra le quali i cardinali avrebbero potuto scegliere:
«tra i molti temperamenti medi che frappongonsi alle due estreme sentenze di una amplissima licenza e di un rigoroso divieto […] si potrebbe ascendere per molti gradi, cominciando, per esempio, secondo il parere di monsignore vescovo di Montefiascone, dal tener fermo il generale divieto e riservare in pari tempo al giudizio dei singoli vescovi, o ancor meglio della S. Penitenzieria, l’accordare nei casi particolari delle dispense condizionate e ristrette [...] sino a giungere se non a licenziare universalmente i cattolici d’Italia alle urne coll’attivo intervento della S. Sede, come da molti si vorrebbe, perlomeno, con forme all’opinamento degli arcivescovi di Bologna e Palermo, attenere una attitudine passiva e tollerare generalmente che essi a lor grado e per fatto proprio possano, senza gravame di coscienza, concorrere e come elettori e come eletti al governo della pubblica cosa per promuovere il bene ed impedire il male»87.
Dunque si andava dalla soluzione minima che equivaleva a una moderata riproposizione della decisione del 1866, fino al tolerari posse, che, per quanto avanzata, non coincideva con la posizione di coloro che, come Di Pietro, avrebbero voluto la rimozione immediata del non expedit. Erano tutte soluzioni, però, che escludevano sia la riproposizione del non expedit come divieto, sia il perdurare della situazione nello stato attuale. Leone XIII imponeva quindi, pur cautamente, dei passi in avanti. Testimonianze indirette indurrebbero a credere che i cardinali, nella riunione finale del 12 settembre, si siano accordati su una posizione un po’ più avanzata rispetto a quella minima tra quelle previste dal papa. L’ha dedotto Andrea Ciampani da uno scambio di lettere tra Simeoni e Bilio, tramite cui si desume che Bilio era stato incaricato, insieme a Rampolla, di riassumere gli esiti del dibattito tenutosi in agosto in modo da presentare una risoluzione per il voto del 12 settembre: l’intransigente Simeoni temette che Bilio avrebbe interpretato in maniera troppo larga l’indicazione della congregazione, dichiarando che ai deputati eletti «provvederebbe nei casi particolari la S. Penitenzieria, la quale userebbe la maggior possibile facilitazione»88. Il non expedit dunque fu ufficialmente modificato, ma si introdusse la tolleranza di alcune singole candidature e quindi del comportamento dei vescovi, su cui il moderato penitenziere maggiore avrebbe con complicità chiuso tutti e due gli occhi. A questo proposito si aggiunge la testimonianza di Giovanni Battista Scalabrini, vescovo di Piacenza, il quale raccontò a Bonomelli che, avendo chiesto a Roma informazioni sul non expedit, pur essendogli stato risposto che per il momento si era deciso di mantenerlo, fu sollecitato a proporre un quesito in merito alla Penitenzieria. Rivoltosi quindi a Bilio, questi gli fece rispondere a voce che, «dandosi il caso, colle debite riserve, lasciassi fare scrivendo dopo al cardinale Penitenziere per ottenere all’eletto cattolico il permesso di sedere in Parlamento». La stessa risposta fu in seguito data anche il 5 gennaio 1883 ad altri ordinari: «si regoli nei casi particolari secondo ciò che le detterà la sua coscienza e prudenza, considerate tutte le circostanze». Scalabrini concludeva che «poco, ma pur qualche cosa, si è ottenuto»89.
Le elezioni del 1886 si sarebbero svolte per la prima volta col nuovo suffragio, coinvolgendo quasi due milioni e mezzo di cittadini. La campagna elettorale fu caratterizzata da notevoli pressioni ai vescovi perché permettessero ai fedeli l’accesso alle urne. Ne avevano interesse per esempio i grandi proprietari terrieri che avrebbero voluto opporre il voto dei propri dipendenti a quello di radicali e socialisti. In questa situazione gli ordinari dovevano dar risposta ai fedeli che domandavano loro come regolarsi, senza scontentare l’opposizione intransigente. Inevitabili gli incidenti, come accaduto ancora una volta a Scalabrini90. Nella primavera di quell’anno, infatti, il vescovo di Piacenza fu sollecitato da alcuni cattolici a pronunciarsi sulla questione. Pur potendosi servire delle istruzioni ricevute nel 1882, tornò a domandare istruzioni al papa, il quale gli fece rispondere che «nulla era mutato intorno alla condotta da tenersi dai Cattolici», ma, in casi particolari, «come nel 1882 così anche adesso la S.V. potrà valersi dei privati responsi avuti dalla Sacra Penitenzieria». Veniva precisato però che «quelle risposte, date dalla S. Penitenzieria, valgono per lume ai Vescovi in qualche caso speciale che si presenti: e quindi non conviene che sieno pubblicate».
La deroga a Scalabrini infatti era stata data a voce e non per iscritto, indizio di una prudenza raddoppiata, probabilmente sia per timore delle reazioni dell’opinione pubblica che della Curia. Da quello che raccontano i due biografi del vescovo, pare però che i vari candidati che avevano consultato il monsignore, confrontandosi tra loro, scoprissero di aver avuto tutti la medesima risposta: ne dedussero che fosse diventato lecito l’intervento alle urne e pubblicarono una circolare onde esortare gli elettori, rassicurandoli della liceità del voto politico. Gli astensionisti della diocesi diramarono a loro volta un comunicato in cui precisavano che la questione non era ancora risolta e reclamavano: «vogliamo il non expedit, quale ci è spiegato da chi solo ha l’autorità e il diritto di spiegarlo ai fedeli». Tali opinioni rimbalzarono sul giornale diocesano, «L’amico del popolo», e da lì a Roma, scatenando la polemica consueta. Il cardinale Monaco La Valletta, che era divenuto segretario del Sant’Uffizio, fece pervenire al vescovo una lettera di richiamo91.
Episodi come quello di Scalabrini non restarono isolati e dovettero impensierire la Curia vaticana, sorprendendola nell’imbarazzo di non aver ancora dato una parola definitiva sulla questione e di aver lasciato i cattolici nel disagio di un divieto mai ritirato, a cui però erano consentite informalmente numerose deroghe. Probabilmente fu questa la ragione che spinse alla precisazione del Sant’Uffizio del 1886, la quale è stata registrata da molti storici come definitiva chiusura alla possibilità dell’intervento alle urne e segno dell’irrigidimento del pontificato di Leone XIII:
«In parecchie diocesi d’Italia è invalsa l’opinione che sia lecito il concorso alle urne politiche, perchè la S. Penitenzieria richiesta in proposito ha risposto soltanto non expedire. A togliere ogni equivoco il Santo Padre, udito il parere di questi eminentissimi signori cardinali inquisitori generali miei colleghi, ha ordinato che si dichiari non expedire contenere un divieto. Ed io nel comunicare questa dichiarazione alla S.V. ho il dovere di aggiungere che il Santo Padre nelle presenti circostanze tiene fermo questo divieto.
E gioverà alla S.V. conoscere le risposte date dalla s. Penitenzieria nel 1883 ai Vescovi dai quali fu consultato ed in quanto al peccato che si commette ed in quanto alle censure che si contraggono nel prendere parte alle elezioni politiche. In quanto al peccato, se dovesse cioè ritenersi reo di colpa grave chi andasse a dare il voto per la elezione dei deputati la risposta fu: “Si regolerà nei casi particolari secondo ciò che le detterà la sua coscienza e prudenza, considerate tutte le circostanze”. In quanto alle censure: “Che l’incorrere o non incorrere nelle censure per le elezioni politiche dipende dalle circostanze del fatto e dalle disposizioni di animo degli elettori, circostanze e disposizioni da ponderarsi secondo le norme che si danno sul proposito da buoni autori”»92.
In realtà tale circolare del Sant’Uffizio, se esplicitava il divieto contenuto nella formula non expedit, per il fatto di aver richiamato le risposte della Penitenzieria del 1883 non sembra essere stata troppo severa. A detta della stessa «Civiltà cattolica» il papa «non intese e non poté affermare di tale concorso se non quella illiceità che è propria delle cose proibite soltanto perché, in determinate circostanze, il Papa le crede nocive o non espedienti al bene della Chiesa, di cui egli solo è giudice competente»93. Né sono da trascurare i successivi interventi del pontefice, mai tesi a rimuovere il divieto, ma neanche suffraganti la tesi dell’illecitudine. Appena un anno prima, infatti, nel 1885, sembra che Leone XIII avesse incaricato monsignor Scalabrini di scrivere l’opuscolo Intransigenti e transigenti. Considerazioni di un vescovo italiano, opuscolo che, pur non contestando il non expedit, pareva redatto in ottemperanza alla strategia della preparazione nell’astensione94. Anche l’enciclica Immortale Dei di quell’anno, in un passaggio molto discusso, aveva affermato:
«È generalmente utile e opportuno che la partecipazione dei cattolici si estenda da questo campo più ristretto fino a comprendere il più vasto ambito dello Stato. Diciamo generalmente, perché questi Nostri insegnamenti si rivolgono a tutti i popoli. Ora può accadere in qualche luogo che, per cause molto gravi e fondate, non sia affatto conveniente prendere parte alla vita pubblica e assumere incarichi politici. Ma generalmente, come abbiamo detto, l’astenersi del tutto dal partecipare alla vita politica sarebbe altrettanto colpevole quanto negare il proprio contributo operoso al bene comune: tanto più in quanto i cattolici, proprio in ragione della dottrina che professano, sono impegnati ad agire con particolare scrupolo e integrità. Per contro, se essi si tengono in disparte, prenderanno facilmente il potere uomini, le cui opinioni danno ben poco affidamento di poter giovare allo Stato. E ciò sarebbe dannoso anche per la religione, poiché acquisterebbero moltissimo potere coloro che osteggiano la Chiesa, pochissimo quelli che l’amano»95.
Quell’accenno all’eccezione di «qualche luogo» sembrò a molti una conferma del divieto italiano, che difatti non era smentito. Il tono generale però di quel passaggio dell’enciclica, che incoraggiava come assolutamente necessaria la partecipazione dei cattolici alla vita politica dei rispettivi paesi, non poteva non indurre a riflessione anche i cattolici italiani, facendo piazza pulita delle «idee false» sulla illiceità della partecipazione alle urne in sé. E mentre nell’anno appena successivo al «divieto» del Sant’Uffizio, il 1887, aveva luogo il tentativo conciliatorista che vide per protagonista l’abate di Montecassino Luigi Tosti, con il suo opuscolo, La conciliazione, nel 1889 ancora una volta la Penitenzieria dovette affrontare il problema dell’intervento dei cattolici alle elezioni, dato che, dopo il divieto del 1886, «le istanze e le insistenze e dei privati e degli Ordinari non per questo cessarono: anzi, può dirsi forse che crebbero»96. Pertanto i penitenzieri proponevano al pontefice un accomodamento: fu risposto tolerari, purché il deputato esprimesse la nota clausola al giuramento o presso la Curia diocesana o «per iscritto» e purché venissero avvertiti gli elettori «di questa tolleranza nei casi particolari e [...] che con essa non è stato recato pregiudizio alla S. Sede e alle leggi della Chiesa». Veniva insomma accolta la proposta «alternativa» per il giuramento che il vescovo di Guastalla aveva avanzato nel 1870. La risposta terminava anche con una raccomandazione: «queste cose però non devono essere divulgate alla stampa o in nessun’altra maniera anzi è più conveniente concordare ogni cosa per via orale finché è possibile». Il pontefice tuttavia fece inviare il voto della penitenzieria al Sant’Uffizio il quale, il 10 aprile, lo rispedì indietro imponendo notevoli limitazioni, approvate da Leone XIII stesso: «ferma la massima non expedire, se si tratta solo di Deputati già eletti, abbiano o non abbiano assunto l’ufficio, l’Emo. Cardinal Penitenziere Maggiore potrà provvedere secondo la proposta formola di rescritto, da cui però si tolga tutto ciò che riguarda gli elettori»97.
È interessante notare che, dopo la morte di Bilio, avvenuta nel gennaio 1884, entrambe le congregazioni fossero passate sotto la guida di Monaco La Valletta, che proprio di Bilio era stato rivale nelle discussioni del 1882. Ad ogni modo, anche questo episodio sembrerebbe dimostrare che il «divieto» del 1886 poco abbia cambiato alla sostanza della posizione vaticana riguardo alla partecipazione politica dei cattolici.
Un momento di «chiusura» ben più marcato potrebbe invece essere stato quello del 1895, quando ancora una volta si diffusero voci di trattative di conciliazione, lasciate circolare liberamente da Crispi nella speranza di incoraggiare i cattolici all’intervento nell’ormai prossima tornata elettorale di maggio, onde fronteggiare l’avanzata dei radicali e dei socialisti. Mentre si rinnovava il clima di divisione tra cattolici interventisti, astensionisti e «per la preparazione», il 14 maggio 1895, quindici giorni prima dell’apertura delle urne, Leone XIII volle dissipare i dubbi, scrivendo una lettera al proprio Vicario di Roma, cardinale Parocchi, riprendendo quasi il suggerimento ricevuto dai cardinali della Congregazione di Aes nel 1881:
«il concorso dei cattolici alle elezioni amministrative è lodevole e più che mai da promuoversi, altrettanto è da evitare nelle politiche, siccome non espediente per ragioni di ordine altissimo; non ultima delle quali sta nella condizione stessa delle cose che s’è fatta al Pontefice, la quale non può certo rispondere alla piena libertà e indipendenza propria del Suo Apostolico Ministero. Con tutto ciò, troppo bene siamo consapevoli come si venga continuando a discutere sulle intenzioni Nostre, a togliere peso alle Nostre parole, ad eludere ancora e fare eludere le disposizioni Pontificie. Appunto con ogni argomento ed arte si tenta far credere che siano intervenuti per parte Nostra, certi temperamenti onde sia oggi mai consentito ai cattolici il concorso a quelle elezioni. Noi, dunque, Signor Cardinale, riputiamo opportuno di opportunamente dichiarare che nulla si è da noi immutato nelle suddette disposizioni e che perciò raccomandiamo a quanti sono veramente cattolici di voler acquietarsi ad esse e conformarsi con docile ossequio»98.
È questo forse il più duro pronunciamento di papa Pecci nel corso del suo lungo pontificato. La «delusione» dei conciliatoristi del 1895 sarà anche l’ultima, non ripetendosi per il resto del periodo leonino ulteriori stagioni che potessero dar adito alla speranza. Si avrà piuttosto un brusco risveglio, in particolare nel 1898 quando anche i cattolici più favorevoli alla partecipazione si ritroveranno a fare i conti con uno Stato che li assocerà ai perturbatori dell’ordine pubblico, accomunandoli ad anarchici e radicali nelle repressioni ordinate da Di Rudinì. L’enciclica Saepe Numero che Leone XIII promulgò quell’anno tentando di difendere i cattolici in quanto cooperatori del bene pubblico, al momento di chiarire in che modo essi contribuissero alla causa sociale, non poteva fare a meno di tornare sull’argomento del non expedit, sancendo la straordinarietà della situazione dei cattolici italiani, ma con parole ben diverse da quelle dell’Immortale Dei. Si smentiva infatti risolutamente la formula della preparazione nell’astensione e si negava che i cattolici avrebbero potuto mai concorrere alla vita politica dello Stato italiano, perché non avrebbero potuto farlo senza l’assenso della Santa Sede. E tale assenso mai come allora sembrava più lontano:
«Il richiedere dai cattolici un positivo concorso al mantenimento dell’attuale ordine delle cose, sarebbe pretesa irragionevole ed assurda; poichè ad essi non sarebbe più lecito ottemperare agli insegnamenti ed ai precetti di questa Apostolica Sede, anzi dovrebbero agire in opposizione ai medesimi e dipartirsi dalla condotta che tengono i cattolici di tutte le altre nazioni. Quindi è che l’azione dei cattolici italiani nelle presenti condizioni delle cose, rimanendo estranea alla politica, si concentra nel campo sociale e religioso e mira a moralizzare le popolazioni, renderle ossequienti alla Chiesa ed al suo Capo, allontanarle dai pericoli del socialismo e dell’anarchia»99.
Leone XIII morì senza aver risolto la questione della partecipazione politica dei cattolici, a cui forse all’inizio del proprio pontificato aveva voluto porre rimedio. A fermarlo fu soprattutto il prevalere dell’opinione intransigente, non solo all’interno della Curia ma anche, e forse soprattutto, sulle riviste, nelle associazioni, nelle organizzazioni laicali. Ogni pronunciamento che moderasse o rafforzasse il non expedit originava inevitabilmente un vespaio di polemiche e divisioni e fu soprattutto la paura di dividere la forza cattolica quella che legò le mani pesantemente al pontefice.
Se i tentativi conciliatoristi fallirono, ciò si è dovuto anche all’eccessiva intraprendenza delle fazioni cattolico-liberali, pronte ad inserirsi nello stato unitario senza condizioni, e che facilmente inducevano a fraintendere anche le intenzioni dei conservatori nazionali, o, per così dire, dei «conciliatoristi moderati». I vescovi di consumata esperienza pastorale nelle diocesi, come quelli consultati da papa Pecci nel 1882, forse riuscivano a percepire con più acutezza la differenza tra gli uni e gli altri, ma gli anziani cardinali di stanza alla Curia certamente faticavano a cogliere il paradosso di una partecipazione combattiva a livello amministrativo, ma spesso soffocata a livello del Parlamento, come denunciarono i dirigenti dell’Unione romana in un «memoriale riservatissimo» inviato al pontefice nel 1888, ma che non ebbe mai risposta:
«Le elezioni municipali di Roma hanno un carattere politico, quindi si deve rinunciare alla lotta o accettarla sul terreno quale le circostanze lo hanno fatto [...]. Ora il rinunciarvi significa lasciare al governo un potere senza freni [...] tutti i mezzi di educazione o di pervertimento... scuola... stampa, sono nelle mani del governo [...]. Il veleno penetra da tutti i pori nel gran corpo della nazione e ne scaccia lo spirito cristiano che l’animava [...]. Ora non si riesce a spiegare come debba essere consentito, anzi comandato ad una nazione di lasciarsi strappare la fede... è una specie di suicidio»100.
Un «suicidio» che per gli intransigenti era considerato ad ogni modo un male minore rispetto ad un delitto più certo, quello di rinunciare ai diritti della Chiesa e del Pontefice accondiscendendo a intessere rapporti con lo Stato italiano, facilmente travisabili come volontà di conciliazione. Non si trattava dunque solo della paura di un magro risultato alla prova elettorale.
In molti hanno ravvisato nell’avvicendamento dei cardinali di Curia una delle ragioni del presunto «irrigidimento» della politica di Leone XIII, in particolare dopo la nomina di Rampolla a Segretario di Stato, avvenuta nel luglio 1887, a scalzare la candidatura del rivale Luigi Galimberti101. Decisivo era stato anche il passaggio tra gli anni 1884-1886, un arco di tempo durante il quale erano scomparsi molti dei protagonisti del dibattito sul non expedit, come Bilio, Di Pietro, Nina. Le file degli intransigenti si dimostrarono invece più longeve, quanto bastò, almeno, per allontanare la discussione sul non expedit dal calendario delle sedute della Congregazione degli Aes fino al novembre 1903, quando cioè un nuovo pontefice si era ormai insediato sulla cattedra di Pietro102.
Pio X poteva godere dell’esperienza del pontificato precedente e rilevare come avesse fallito, almeno apparentemente, la politica di preparazione nell’astensione intrapresa dal predecessore. Non si erano infatti esauriti i conflitti all’interno dello schieramento cattolico e un nuovo fenomeno, quello della democrazia cristiana, stava pericolosamente sorgendo, la quale appariva al nuovo pontefice, come ha osservato Pietro Scoppola, «pericolosa ed eversiva anche ai fini dell’ortodossia e della disciplina»103. I giovani «democratici cristiani», soprattutto sotto la guida di Romolo Murri, non facevano mistero di adoperarsi per sollecitare la Santa Sede alla rimozione del non expedit in vista della formazione di un partito cristiano. Essi, quasi opportunisticamente, benedicevano il non expedit in quanto, come sostenevano, aveva preservato i cattolici dal confondersi con la causa dei conservatori. Il progressivo contrasto tra i «giovani» democratici cristiani e i «vecchi» conservatori intransigenti e tradizionalisti arrivò al culmine nel 1903, quando il nuovo movimento arrivò ad imporsi come maggioranza nell’Opera dei Congressi, durante la presidenza Giovanni Grosoli. Pio X reagì sciogliendo l’organizzazione, ma ciò non fermò la dissidenza: la generazione dei nati dopo il 1870 ormai non riusciva più a condividere le ragioni di opportunità del non expedit e l’astensione diventava progressivamente sempre più apparente che reale.
Già nel 1900 la Congregazione degli Aes aveva constatato con impotenza e sdegno come alle elezioni di quell’anno perfino dei sacerdoti si fossero recati alle urne, disobbedendo ad un divieto mai ritirato: fu visto addirittura un parroco insediarsi come presidente di seggio104. Del resto il clima era cambiato anche a livello politico: il governo italiano aveva infatti smorzato i toni dell’anticlericalismo ed il presidente del Consiglio Giovanni Giolitti aveva avviato quell’atteggiamento che Jemolo ha chiamato di «conciliazione nella indifferenza»105, o piuttosto di conciliazione silenziosa, tentando progressivamente di avvicinare i cattolici per contrastare i socialisti. Sarà questa la politica che maturerà nel clerico-moderatismo, consacrato dal patto Gentiloni del 1913, e che in seguito verrà condannata dai cattolici dell’esperienza del Partito popolare.
Le prove ufficiose della nuova strategia si ebbero durante le elezioni del 1904: lo sciopero generale del settembre di quell’anno aveva infatti scosso grandemente l’opinione pubblica, inducendo Giolitti a sciogliere le camere ed indire nuove elezioni, nella speranza di riuscire ad indebolire definitivamente l’opposizione socialista, coalizzando un «partito dell’ordine» con l’aiuto anche dei voti cattolici. Pio X, dopo istanze presentategli con insistenza da molti esponenti cattolici e anche dal vescovo Bonomelli, alla fine lasciò ai cattolici di «fare secondo coscienza», ovvero concesse sommessamente il permesso di intervenire alle urne. I «cattolici deputati» (e non deputati cattolici) risultati eletti furono alla fine tre, ma si apriva un periodo nuovo, che vide cattolici e governativi fianco a fianco nella lotta per preservare l’ordine pubblico ed il bene della società italiana. Forse, ciò corrispondeva esattamente all’eventualità che Leone XIII non avrebbe voluto, cioè un accomodamento dei cattolici «a destra» dello schieramento politico, ma non poteva probabilmente essere diversa la conseguenza di una rimozione solo parziale del non expedit. Veniva ancora impedita la formazione di un partito cattolico, ma si delineava una prima risposta al mutare dei tempi, che venne sancita pubblicamente l’anno successivo con l’enciclica Il fermo proposito. Pur trattandosi di una dispensa «nei casi particolari», l’atteggiamento della Santa Sede era definitivamente cambiato:
«Ragioni gravissime ci dissuadono, venerabili fratelli, dallo scostarci da quella norma già decretata dal nostro antecessore di Santa Memoria Pio IX, e seguita poi dall’altro antecessore di S.M. Leone XIII durante il diuturno suo Pontificato, secondo la quale rimane in genere vietata in Italia la partecipazione dei cattolici al potere legislativo. Sennonchè altre ragioni parimenti gravissime tratte dal supremo bene della società, che ad ogni costo deve salvarsi, possono richiedere che nei casi particolari si dispensi dalla legge, specialmente quando voi, venerabili fratelli, ne riconosciate la stretta necessità per il bene delle anime e dei supremi interessi delle vostre chiese e ne facciate domanda. Ora la possibilità di questa benigna concessione Nostra induce il dovere dei cattolici tutti di prepararsi prudentemente e seriamente alla vita politica, quando vi fossero chiamati»106.
«La società ad ogni costo deve salvarsi», aveva affermato il pontefice. Ciò lo aveva indotto ad un passo importante verso la partecipazione, ma con tutta l’ambiguità originata dal peso di decenni di prudenza. Anche Pio X, come Pecci, quand’era ancora nella propria sede arcivescovile aveva affermato: «bisognerebbe avere il coraggio di abbandonare il non expedit. Sento che avrei questo coraggio qualora divenissi papa»107, ma si trovò nello stesso imbarazzo di non poter contraddire le scelte dei predecessori, forse più per il condizionamento di un’opinione pubblica cattolica scissa tra un intransigentismo più papalino di quello del papa e un progressismo più spregiudicato di quanto la prudenza avrebbe dovuto consigliare. Quelle che avevano sopraffatto Pio X e forse anche Leone XIII erano state le alte esigenze del governare un organismo di tradizione millenaria come la Chiesa. Se non può essere accettata la tesi del Gramsci del non expedit come «espressione dell’opportunismo più piatto»108, esso fu certamente un sofferto compromesso, durato probabilmente troppo a lungo.
1 Tra l’altro, come ha affermato Martina, «non senza timidezza e riserbo, almeno all’inizio». Cfr. G. Martina, Il ‘non expedit’, in R. Aubert, Il pontificato di Pio IX (1846-1878), II, Torino 1970, p. 850.
2 In realtà, come si vedrà, un primo non expedit si ebbe dalla Penitenzieria anche nel 1868, ma era circoscritto alle «presenti circostanze» e non fu molto pubblicizzato, tant’è che molti storici ne hanno ignorato a lungo l’esistenza.
3 «L’Armonia», XIV, 7, 8 gennaio 1861. Su «L’Unità cattolica» cfr. M. Tagliaferri, L’Unità Cattolica. Studio di una mentalità, Roma 1993.
4 Cfr. R. Ciampini, Studi e ricerche su Niccolò Tommaseo, Roma 1944, p. 122.
5 «E pel papa e pel re. La Savoia resti al re di Sardegna e le Romagne a Pio IX. Chi sostiene questa politica abbia i voti degli elettori, chi nutre altre idee venga rigettato come nemico della monarchia e del cattolicesimo», «L’Armonia», XIII, 64, 17 marzo 1860, riportato da C. Marongiu Buonaiuti, Non expedit. Storia di una politica (1866-1919), Milano 1971, pp. 3-4.
6 Cfr. ISTAT, Compendio delle statistiche elettorali italiane dal 1848 al 1934, 2 voll., Roma 1946.
7 Ponenza agosto 1882, in ASV, AES Rapporti sessioni, 1882, vol. XXV, fasc. 6, sessione 556, n. 2.
8 Relazione del cardinale Cagiano, somm. n.1 alla ponenza del 1865, in ASV, AES I periodo, Italia, PO. 335, fasc. 103.
9 Ibidem.
10 F. Tamburini, Il ‘non expedit’ negli atti della Penitenzieria apostolica (1861-1889), «Rivista di storia della Chiesa in Italia», 41, 1987, p.136.
11 G. Candeloro, Il movimento cattolico in Italia, Roma 1955, pp. 112-113.
12 ASV, AES Rapporti sessioni, 1866-67, vol. XXVII, fasc. 6, sessione 385, f. 364.
13 ASV, AES Rapporti sessioni, 1860, vol. XXV, fasc. 7, sessione 360.
14 Ponenza del 1865, in ASV, AES I periodo, Italia, PO. 335, fasc. 103.
15 Lettera del 14 ottobre 1864 in ASV, AES I periodo, Italia, P.O. 91, fasc. 12, f. 56.
16 ASV, AES I periodo, Italia, P.O. 91, fasc. 13, f. 40.
17 ASV, AES I periodo, Italia, P.O. 112, fasc. 16, f. 101.
18 In seguito papa Pecci si servirà invece di consultazioni quantitativamente più rappresentative, ottenendo però maggiori difficoltà nei processi decisionali. Cfr. F. Jankowiak, La curie romaine de Pie IX à Pie X. Le gouvernement central de l’Église et lla fin des états pontificaux, Roma 2007.
19 ASV, AES I periodo, Italia, P.O. 112, fasc. 16, f. 99.
20 Nel 1867 si ebbe infatti il caso di Edoardo Crotti di Costigliole che giurò con la formula imposta dalla Santa Sede, ma il cui giuramento non fu ritenuto valido dal Parlamento, per cui Crotti non fu ammesso ad esercitare la funzione di deputato. cfr. Atti della Camera dei deputati, 1867, n. 88, p. 333, seduta del 9 maggio. Casi analoghi si ripeteranno anche negli anni successivi.
21 Ponenza agosto 1882, cit., n.19. La lettera è citata anche da P. Bellu, I cattolici alle urne. Chiesa e partecipazione politica in Italia dall’Unità al Patto Gentiloni, Cagliari 1977, p. 18.
22 Arch. vescovile di Mondovì, Carte Ghilardi, cartella «Conferenze episcopali», cit. in M.F. Mellano, Cattolici e voto politico in Italia, Casale Monferrato 1982, p.213. Dell’adunanza dei vescovi piemontesi la Congregazione per gli affari ecclesiastici straordinati ne discusse nella sessione 388 del 30 gennaio 1868.
23 La raccolta degli articoli si trova in ASV, AES I periodo, Italia, P.O. 150.
24 «L’Unità cattolica», 24 gennaio 1868.
25 «L’Unità cattolica», 28 gennaio 1868.
26 Cit. in C. Marongiu Buonaiuti, Non expedit, cit., p. 18.
27 ASV, AES Rapporti delle sessioni, 1868, vol. XXVII, fasc. 8, sessione 388.
28 Posizione agosto 1882, cit., n. 22.
29 Per molti storici infatti la prima affermazione del non expedit da parte del Vaticano fu infatti quella del 1874: cfr. G.Candeloro, Il movimento cattolico, cit., p. 138; cfr. G.Martina, Il non expedit, cit., p. 849; P. Bellu, I cattolici alle urne, cit., p 11.
30 Arch. S. Penitenzieria, tomo LIV n 42. bis, verbale dell’8 novembre 1870, pubblicato in F. Tamburini, Il ‘non expedit’, cit., pp. 136-139.
31 «La Civiltà cattolica», s. VIII, 6, 1872, p. 389, cit., in G. De Rosa, Storia del movimento cattolico in Italia, I, Dalla restaurazione all’età giolittiana, Bari 1966, pp. 98 segg.
32 «La Civiltà cattolica», s. VIII, 4, 1872, p. 233.
33 G.B. Casoni, Cinquant’anni di giornalismo (1846-1900). Ricordi personali, Bologna 1907, p. 175.
34 «L’Osservatore romano», 14 ottobre 1874.
35 F. Chabod, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, Bari 1951, p. 632. Non è stato possibile rintracciare negli archivi vaticani dettagli su questa decisione, probabilmente perchè non se ne discusse presso la Congregazione degli Aes.
36 Garibaldi era candidato contemporaneamente anche al VII collegio. Eletto in entrambi i collegi, alla fine fu sollecitato dal governo ad accettare il mandato relativamente al VII e non a quello di Borgo, per riguardo al papa. Dà resoconto della vicenda G.Manfroni, Sulla soglia del Vaticano (1870-1901), I, Bologna 1920, p. 194.
37 ASV, AES I periodo, Italia, P.O. 227, fasc. 48, f. 2.
38 ASV, AES I periodo, Italia, P.O. 227, fasc. 48, ff. 4-5.
39 ASV, AES I periodo, Italia, P.O. 227, fasc. 48, f. 10.
40 ASV, AES I periodo, Italia, P.O. 227, fasc. 48, ff. 14-17. Pubblicato anche da M.F. Mellano, Cattolici e voto politico, cit., p.158-175.
41 ASV, AES I periodo, Italia, P.O. 227, fasc. 48, ff. 22-23.
42 M.F. Mellano, Cattolici e voto politico, cit., p. 59. Il documento a cui la Mellano fa riferimento è una lettera di cui in seguito si tornerà a parlare, inviata da Nina a monsignor Tortone, vescovo di Torino, il 19 ottobre 1878, conservata in ASV, AES II periodo, P.O. 335, fasc. 102.
43 Verbale del 21 febbraio 1881, in ASV, AES II periodo, Stati ecclesiastici, P.O. 1030, fasc 329, ff. 20.
44 ASS, vol IX, 1876, pp. 581-583 e pubblicato anche da «La Civiltà cattolica» s. X, 10, 1879, p. 316.
45 G. Manfroni, Memorie, anno 1877, p. 7, custodito presso la Fondazione Baruchello di Roma. Finora il diario del commissario di Borgo Giuseppe Manfroni era conosciuto nella forma edita dal figlio Camillo nel 1920 sotto il titolo C. Manfroni, Sulla soglia del Vaticano (1870-1901). Dalle memorie di Giuseppe Manfroni, Bologna 1921, 2 voll. Nel luglio 2008 mi è stato possibile il ritrovamento di parte del manoscritto autografo, che si discosta notevolmente dalla versione edita non solo per la sproporzione in mole del materiale (su 17 volumi originari meno di 800 sono le pagine pubblicate), ma anche per i contenuti. Il curatore Camillo Manfroni ha infatti trascritto il contenuto delle carte del padre modificandone frequentemente la sostanza e manipolandole secondo la propria personale interpretazione.
46 Lettere e discorsi dei sommi pontefici Pio IX e Leone XIII alla Società della gioventù cattolica italiana dal 1868 al 1879, Udine 1893, II, p. 180.
47 ASV, A.E.S II periodo, Italia, P.O. 335, fasc. 102.
48 Verbale della risoluzione presa nell’adunanza del giorno 6 ottobre 1878, in ASV, A.E.S II periodo, Italia, P.O. 335, fasc. 102.
49 G.B. Casoni, Cinquant’anni di giornalismo, cit., p. 180 segg.
50 ASV, AES II periodo, Italia P.O. 335, fasc. 102.
51 Lettera del cardinale Nina a monsignor Tortone del 19 ottobre 1878, in AES, Italia II periodo, P.O. 335, fasc. 102.
52 Lettera di monsignor Tortone al cardinale Nina del 26 ottobre 1878, in ASV, AES Italia II periodo, P.O. 335, fasc. 102.
53 P. Bellu, I cattolici alle urne, cit., p.38.
54 «L’Unità cattolica», 29 ottobre 1878.
55 Lettera di monsignor Tortone al cardinale Nina del 26 ottobre 1878, in ASV, AES Italia II periodo, P.O. 335, fasc. 102.
56 «L’Unità cattolica», 28 dicembre 1878.
57 Lettera del cardinale Nina a monsignor Tortone del 4 novembre 1878 in ASV, AES Italia II periodo, P.O. 335, fasc. 102.
58 Lettera di monsignor Tortone al cardinale Nina del 16 novembre 1878, in ASV, AES Italia II periodo, P.O. 335, fasc. 102.
59 M.F. Mellano, Cattolici e voto politico, cit., p. 110.
60 Lettera di monsignor Tortone al cardinale Nina del 27 novembre 1878, in ASV, AES II periodo, Italia P.O. 335, fasc. 102, ff. 37-38.
61 Lettera di Vito d’Ondes Reggio al cardinale Nina del 27 dicembre 1878, in ASV, AES II periodo, Italia P.O. 335, fasc. 102.
62 ASV, AES II periodo, Italia P.O. 335, fasc. 103.
63 Allegato alla ponenza a stampa congregazione 1879, in ASV, AES II periodo, Italia P.O. 335, fasc. 103.
64 Ponenza agosto 1882, cit., n. 68. I voti autografi dei 17 cardinali sono conservati in ASV, AES II periodo, Italia P.O. 335, fasc. 107-109.
65 Si veda G. Ignesti, Il tentativo conciliatorista del 1878-1879. Le riunioni romane di Casa Campello, Roma 1988.
66 Cfr. A. Ciampani, Cattolici e liberali durante la trasformazione dei partiti: la “questione di Roma” tra politica nazionale e progetti vaticani (1876-1883), Roma 2000.
67 P. Campello, Ricordi di cinquant’anni dal 1840 al 1890, Spoleto 1910, p. 142.
68 C. Bellò, Geremia Bonomelli, con documenti inediti, Brescia 1961, p.82.
69 ASV, A.E.S II periodo, Italia P.O 335, fasc. 106, ff. 2-4.
70 ASV, A.E.S II periodo, Italia P.O 335, fasc. 106.
71 Lettera di monsignor Bonomelli al cardinale Nina del 4 luglio 1879, in ASV, A.E.S II periodo, Italia P.O 335, fasc. 106.
72 «L’Osservatore romano», 120, 26 maggio; 125, 2 giugno; 132, 11 giugno 1880.
73 ASV, AES II periodo, Italia P.O. 335, fasc. 109.
74 Verbale del 21 febbraio 1881, in ASV, AES II periodo, Stati Ecclesiastici P.O. 1030, fasc. 329, f. 12.
75 E. Soderini, Il pontificato di Leone XIII, II, Verona 1933, p. 20.
76 C. Marongiu Buonaiuti, Non expedit, cit., p. 47.
77 Monaco affermò di aver cambiato opinione in seguito all’esperienza pastorale maturata come Vicario di Roma. Il verbale della sessione si trova in ASV, AES II periodo, Stati Ecclesiasti P.O 1030, fasc. 329, ff. 11-26. Si veda anche A. Ciampani, Orientamenti della Curia romana e dell’episcopato italiano sul voto politico dei cattolici (1881-1882), in «Archivum Historiae Pontificiae», 34, 1996, pp. 269-324.
78 ASV, AES II periodo, Stati Ecclesiastici P.O 1030, fasc. 329, f. 26.
79 «La Civiltà cattolica», 130, s. XI, 12, 1882, p. 95.
80 Cfr. documento della Penitenzieria del 27 febbraio 1889, pubblicato in F. Tamburini, Il ‘non expedit’, cit., p. 140.
81 I verbali si trovano in ASV, AES II periodo, Stati Ecclesiastici P.O 1030, fasc. 329. Si rimanda a questo proposito al saggio sulla questione romana presente in questo volume.
82 Ponenza agosto 1882, cit., n. 95.
83 Ibidem. La vicenda di Cavallotti è documentata attraverso estratti degli atti parlamentari e una rassegna stampa in ASV, AES II periodo, Italia P.O. 335, fasc. 109.
84 Somm. 2 alla ponenza agosto 1882, cit. Tra i consultati, scelti in modo da ben rappresentare il nord, il centro e il sud del paese, anche Bonomelli e monsignor Domenico Jacobini, assistente ecclesiastico delle Società cattoliche romane, compresa l’Unione per le elezioni amministrative.
85 Somm. 3/A alla ponenza agosto 1882, cit.
86 Nota dell’11 febbraio 1882 in ASR, Questura, b. 21, fasc. 120, partito clericale 1881-1882, cit. in A. Ciampani, Orientamenti della curia, cit., p. 289.
87 Ponenza agosto 1882, cit., n.98.
88 A. Ciampani, Orientamenti della curia, cit., p. 303. La lettera di Simeoni a Bilio è del 14 agosto 1882 e si trova in ASV, AES II periodo, Italia P.O. 335, fasc. 111.
89 Lettera di monsignor Scalabrini a monsignor Bonomelli del 19 settembre 1882, in Carteggio Scalabrini-Bonomelli (1868-1905), a cura di C. Marcora, Roma 1983, pp. 70-75. La risposta del 5 gennaio 1883 è riportata da M. Caliaro, M. Francesconi, L’apostolo degli emigranti, Giovanni Battista Scalabrini, vescovo di Piacenza. La sua opera e la sua spiritualità, Milano 1898, p. 435.
90 M. Caliaro, M. Francesconi, L’apostolo degli emigranti, cit., p. 434 segg.
91 Ibidem, p. 438.
92 Circolare del S. O. ai vescovi d’Italia del 30 luglio 1886, in ASS, vol XIX, 1886, pp. 94-95. La traduzione è quella riscontrata in ASV, AES II periodo, Italia P.O. 384, fasc. 126, f. 23.
93 «La Civiltà cattolica», s. XII, vol. 3.
94 C. Marongiu Buonaiuti, Non expedit, cit., p. 72.
95 Enciclica Immortale Dei in ASS, XVIII, pp. 161-180.
96 Arch. S. Penitenzieria (senza segnatura), documento del 27 febbraio 1889, pubblicato in F.Tamburini, Il ‘non expedit’, cit., pp.139-141.
97 Ibidem.
98 ASS, XXVII, 1894-1895, pp. 641-642.
99 ASS, XXXI, 1898-1899, p. 134.
100 E. Soderini, Il pontificato, cit., vol II, p.167.
101 C. Crispolti, G. Aureli, La politica di Leone XIII, da Luigi Galimberti a Mariano Rampolla su documenti inediti, Roma 1912, p. 50.
102 ASV, A.E.S III periodo, Italia P.O. 756, fasc. 276, ff. 29-87.
103 P. Scoppola, Dal neoguelfismo alla democrazia cristiana, Roma 1963, p.93.
104 ASV, A.E.S Rapporti delle sessioni, anno 1900, sessione 886.
105 A.C. Jemolo, Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni, Torino 1955, p. 490.
106 ASS, XXXVII, 1904-1905, pp.741-767. Il non expedit fu in seguito definitivamente abolito da Benedetto XV. Cfr. A. Monticone, Benedetto XV e il non expedit, in A. D’angelo , P. Trionfini, R.P. Violi, Democrazia e coscienza religiosa nella storia del Novecento. Studi in onore di Francesco Malgeri, Roma 2010, pp. 13-38.
107 P. Scoppola, Dal neoguelfismo, cit., p. 93.
108 A. Gramsci, Il Risorgimento, Torino 1949, p.176.