Il neoilluminismo italiano
Sebbene sia preceduta da un lungo periodo di gestazione, del quale è difficile determinare l’ampiezza, sia cronologica sia geografica, la nascita ufficiale del neoilluminismo italiano ha una data precisa. Il 15 maggio 1953 Nicola Abbagnano (1901-1990) convocò un convegno inviando una lettera di invito a un gruppo di studiosi italiani di filosofia che, nella sua valutazione, si sforzavano «di orientare le loro ricerche fuori dalle tradizionali pregiudiziali di un necessitarismo metafisico o con rinnovate cautele rispetto a ogni forma di dogmatismo» (cit. in Il neoilluminismo italiano, 1991, p. 9). L’obiettivo polemico era primariamente filosofico, poiché l’iniziativa nasceva dalla preoccupata constatazione, emersa nei convegni nazionali della Società filosofica italiana del 1947 e del 1952, di una forte persistenza della cultura idealistica e di una sua rinnovata alleanza con l’indirizzo spiritualistico. Ma il fronte avversario assumeva una coloritura anche politica, se si pensa che in Italia lo spiritualismo, con o senza interconnessioni con l’idealismo, rappresentava solitamente gli interessi cattolici: d’altra parte, l’unica consistente forza di resistenza al mondo cattolico era costituita dal marxismo, che si limitava tuttavia, almeno nelle sue espressioni ufficiali, a contrapporre dogmatismo a dogmatismo.
La situazione era anche peggiorata dopo la fuoriuscita dei comunisti dal governo nel 1947, con cui si sanciva la rottura dell’unità delle forze politiche che avevano partecipato alla Resistenza, e il conseguimento della maggioranza assoluta da parte della Democrazia cristiana nelle elezioni politiche del 1948. In questo modo il bipolarismo tra cultura cattolica e cultura marxista si radicalizzò e si consolidò definitivamente: da un lato un cattolicesimo conservatore chiuso a ogni esperienza di rinnovamento, dall’altro un ambiente marxista egemonizzato dal Partito comunista italiano, fortemente subordinato alle direttive sovietiche. Molti intellettuali, almeno i più avvertiti politicamente e civilmente, percepivano la distanza tra le idealità, ma anche le concrete realizzazioni, che avevano caratterizzano i primi anni del dopoguerra e l’arretratezza culturale, la riproduzione stantia di vecchi cliché e, spesso, le compromissioni intellettuali che appesantivano l’atmosfera degli anni Cinquanta. A un’Italia che si era robustamente proiettata verso la democrazia e la ricostruzione socioeconomica faceva da contraltare un Paese che rivelava ancora per molti versi l’eredità dell’‘Italietta’ del regime. Riferendosi al problema dei rapporti tra cultura e società, Giulio Preti (1911-1972), che al neoilluminismo diede uno dei contributi più preziosi, nel 1957, a metà della parabola neoilluministica, illustrerà la situazione con icastiche parole:
Oggi, quando le speranze della Resistenza e della liberazione sono naufragate e di nuovo la reazione infuria nello sgoverno del nostro Paese, il problema pare abbia perduto di attualità: ma forse proprio per questo è il momento di rispolverarlo e rimetterlo all’ordine del giorno. Perché di nuovo l’uomo di cultura ha una responsabilità (Praxis ed empirismo, 1957, p. 230).
L’esigenza di riconnettere idealmente il movimento neoilluministico agli impulsi ideali della liberazione dal fascismo e della ricostruzione democratica era quindi consapevolmente vissuta da molti. Di questa consapevolezza è espressione emblematica il fatto che Ludovico Geymonat (1908-1991), all’inizio di quel lungo periodo di fermento culturale collettivo che sfocerà nell’esperienza del neoilluminismo, avesse voluto che i suoi Studi per un nuovo razionalismo, in cui era già prefigurata la sua posizione all’interno del gruppo, recassero simbolicamente la data di pubblicazione del 25 aprile 1945.
Che il dibattito filosofico fosse pesantemente condizionato dalla situazione culturale e politica del nostro Paese era del resto ben presente ad Abbagnano, se nel messaggio di convocazione egli faceva riferimento alle «difficoltà che si oppongono in Italia» all’affermazione di un nuovo indirizzo antidogmatico. L’impegno a cui si chiedeva di partecipare non era quindi soltanto accademico, ma in primo luogo civile: nella lettera di invito al convegno fondativo si auspicava che la «interpretazione non metafisica della ricerca filosofica» fosse applicata ai rapporti «fra indagine filosofica e vita politica» non meno che a quelli «fra indagine filosofica e ricerche scientifiche» (cit. in Il neoilluminismo italiano, cit., p. 9). E nel ‘manifesto’ che concluderà il convegno si sancirà la necessità di affermare
la responsabilità politica inerente all’impostazione aperta del lavoro filosofico e l’impegno di difendere e promuovere le condizioni di libertà che rendono possibile tale lavoro (p. 11).
Ovvero si trattava – le parole sono ancora di Preti – di «poter fare della filosofia un onesto mestiere» (Saggi filosofici, 1° vol., 1976, p. 476).
Alla chiamata alle armi risposero in molti. Al convegno che effettivamente si svolse il 3 e 4 giugno partecipò una trentina di studiosi, mentre altri otto aderirono al ‘manifesto’ con cui esso si concluse. Il gruppo torinese, oltre ad Abbagnano, era costituito da Norberto Bobbio e Geymonat (che però insegnava a Pavia), nonché da alcuni giovani della generazione successiva, tra cui emergevano Pietro Rossi e Carlo Augusto Viano, allievi di Abbagnano, e Uberto Scarpelli, allievo di Gioele Solari e Bobbio, ma ormai legato all’ambiente milanese di Renato Treves. Consistente il gruppo di Milano, rappresentato dagli allievi di Antonio Banfi ‒ il quale tuttavia, senatore comunista impegnato in uno schieramento politico-culturale che Abbagnano giudicava dogmatico, non fu invitato: Remo Cantoni, Enzo Paci, Preti, Dino Formaggio, oltre a Paolo Rossi, assistente di Banfi, ma allievo di Eugenio Garin (che aderirà più tardi al progetto). A Milano insegnava anche Mario Dal Pra, il quale aveva studiato a Padova con Erminio Troilo. Significativo il gruppo dei giovani bolognesi, che aveva come termine di riferimento la rivista «il Mulino»: Nicola Matteucci, Antonio Santucci, Alberto Pasquinelli, Luigi Pedrazzi. A questi nomi vanno aggiunti quelli di altri studiosi, disseminati in varie università, da Andrea Galimberti (Genova) ad Andrea Vasa (Cagliari), da Guido Calogero (Roma) a Ferruccio Rossi-Landi, che studiava a Oxford.
Certamente, all’ampiezza delle adesioni al programma neoilluministico non corrispose altrettanta omogeneità nelle ascendenze culturali e nelle progettualità filosofiche dei componenti. Giustamente si è parlato in proposito di un «pluralismo strutturale» (Semerari 1969, p. 283). Del resto, già sul nome, neoilluminismo, non tutti erano d’accordo. Anche perché non univoco era lo stesso riferimento all’Illuminismo, che oscillava tra l’accezione storica del termine e la sua valenza di categoria del pensiero. Nella voce Illuminismo del Dizionario di filosofia di Abbagnano è connotato non solo dal kantiano sapere aude e dalla «estensione della critica a ogni credenza o conoscenza senza eccezione», ma anche dal riferimento a una conoscenza affratellata alla scienza e a una metodologia che le consenta di correggere continuamente i propri risultati. Anche le categorie storiografiche utilizzate nella Storia della filosofia – la scoperta dell’identità tra limite e possibilità nell’Illuminismo tedesco o l’introduzione della possibilità reale con Immanuel Kant – sono comprensibili soltanto attraverso il riferimento all’impianto concettuale complessivo del pensiero abbagnaniano. Più che coincidere con il movimento filosofico settecentesco, di cui Abbagnano rifiuta il radicalismo e a cui rimprovera d’altra parte di essere rimasto prigioniero di «miti» e «illusioni ottimistiche» (Scritti neoilluministici, a cura di B. Maiorca, 2001, p. 396), l’illuminismo indica un atteggiamento culturale e metodologico che attraversa le epoche, in modo che «l’illuminismo di oggi si salda all’illuminismo classico della Grecia antica» (p. 115).
Come Abbagnano, anche Norberto Bobbio (1909-2004) prende le distanze dall’ottimismo del 18° sec. e dalla sua «fiducia nel progresso indefinito dell’umanità»: consapevole delle incertezze della storia e della durezza del compito di razionalizzazione che attende l’intellettuale, egli si definisce piuttosto un «illuminista pessimista». Più che la tradizione settecentesca, della quale tuttavia non nega l’importanza nel processo di costituzione dello Stato e della borghesia moderna, Bobbio ha alle spalle l’esperienza gobettiana e lo studio di Carlo Cattaneo, «un illuminista rinato nel secolo dello storicismo». La «filosofia militante» di Cattaneo si presenta come un modello cui ancora ci si deve riferire per la soluzione dei problemi attuali:
In lui oggi ritroviamo una posizione di pensiero che possiamo definire utile al lavoro, che dobbiamo intraprendere, di adeguamento della cultura alla vita, della scienza all’azione, di liberazione dai miti vecchi e nuovi di una cultura corrotta (N. Bobbio, Una filosofia militante. Studi su Carlo Cattaneo, 1971, p. 4).
Se generico è, tutto sommato, il riferimento all’Illuminismo dei ‘fondatori’ torinesi del movimento, ancora più sfumato appare il significato attribuitovi dall’altra sua colonna portante, il gruppo milanese. L’illuminismo a cui esso aspira è ancora quello di «Studi filosofici», cioè quell’«illuminismo umanistico» cui Banfi stesso, nel primo numero della rivista, aveva assimilato il suo razionalismo critico. Anch’egli guardava con sospetto l’Illuminismo del Settecento che, assolutizzando la scienza e la ragione, stravolgeva la concreta esperienza dell’«uomo copernicano» in una «riduzione intellettualistica astratta» (A. Banfi, Introduzione a Nietzsche, a cura di D. Formaggio, 1974, p. 21). L’«illuminismo umanistico» banfiano, e di parte del gruppo milanese, era dunque soltanto apparentemente convergente al «rinnovato umanesimo» che un altro neoilluminista, Eugenio Garin, ritrovava nella filosofia del Settecento. Malgrado la specularità delle espressioni, Garin riconosceva al Settecento la forza di un movimento emancipatore, che si alimenta di precedenti e forse più importanti vittorie culturali, mentre quello di Banfi rimane una pallida immagine di una cultura passata.
Al primo convegno torinese, del giugno 1953, ne seguirono altri otto, di cui la «Rivista di filosofia» pubblicherà regolarmente brevi resoconti: Scienza e filosofia (Milano, dicembre 1953), Significato e valutazione (Torino 1954), L’analisi del linguaggio storiografico (Torino 1955), La storiografia filosofica (Firenze 1956), Cultura e civiltà (Torino 1957), L’avvenire della dialettica (Milano 1958), un simposio di studi su John Dewey per il centenario della nascita (Santa Margherita 1960), Il linguaggio della filosofia (Torino 1962). I convegni non sono tuttavia l’unica attività in cui si esprime il movimento neoilluministico. Oltre ovviamente alle opere individuali in cui i singoli aderenti svilupparono le loro posizioni personali, fu determinante la produzione scientifica delle riviste filosofiche alle quali collaborarono.
Prima fra tutte la «Rivista di filosofia», dal 1952 diretta congiuntamente da Abbagnano e da Bobbio, la quale non solo pubblicò frequentemente i saggi dei neoilluministi o dei loro interlocutori, ma spesso servì come organo di diffusione delle relazioni presentate ai convegni o, soprattutto negli ultimi incontri, fornì il materiale preparatorio per la discussione: tuttavia né la «Rivista di filosofia», né alcun’altra divenne mai l’organo ufficiale del movimento. In considerazione della grande attenzione che almeno alcuni componenti del gruppo ebbero per gli studi sociologici, occorre ricordare anche i «Quaderni di sociologia», fondati da Abbagnano nel 1951 in collaborazione con il suo allievo Franco Ferrarotti. Accanto alle due riviste che facevano capo ad Abbagnano, ebbe grande importanza l’attività di riviste come «Studi filosofici» (1939-1949), fondata da Banfi, «Analisi», poi «Analysis» (1945-1947), alla quale collaborarono Preti e Geymonat, «Sigma» (1947-1948) e «Methodos» (1949), che pure avevano svolto la propria attività nel decennio precedente alla fondazione del movimento. Infatti, se il 1953 segna la data di nascita ufficiale del neoilluminismo, occorre tener conto di un precedente lungo periodo di fermento, soprattutto a Milano, che consentì ad Abbagnano di individuare i destinatari dell’invito al convegno fondativo. Non va dimenticata, infine, la prossimità dei neoilluministi con l’esperienza delle Edizioni di Comunità, di cui fu animatore a Ivrea, negli anni Cinquanta, Adriano Olivetti.
Quella del neoilluminismo fu una stagione breve. Il gruppo cominciò a sfaldarsi già prima della cessazione dell’attività convegnistica: nel caso dei più anziani, perché poco alla volta vennero alla luce le ambiguità insite nella loro apparente convergenza intellettuale; nel caso dei più giovani, perché ciascuno imboccò la propria strada, che era una strada diversa. Neppure l’incidenza sulla cultura italiana fu di grande portata se lo stesso Bobbio, nel congresso della Società filosofica italiana del 1973, ammetterà che «la nuova occasione d’incontro creata dalla costituzione del gruppo neo-illuministico non ebbe né grandi né durevoli effetti» (Empirismo e scienze sociali in Italia, in Atti del 24° Congresso nazionale di filosofia, L’Aquila 1973, 1° vol., Roma 1973, p. 16). È stato anche osservato che l’efficacia della polemica del neoilluminismo contro il tradizionalismo cattolico ebbe carattere soprattutto accademico, contrapponendo la parte laica delle Università di Torino, Milano, Pavia al neotomismo della Cattolica di Milano, al recupero della metafisica dell’ateneo padovano o allo spiritualismo di parte di quello torinese (Viano 2006, p. 70). Ma più in generale il tramonto del neoilluminismo venne a coincidere, per ragioni che andavano ovviamente molto al di là degli sforzi del gruppo, con la rinascita imperiosa di quelle chiusure metafisiche contro cui essi avevano tentato di allearsi:
Fra gli anni ’50 e ’60 – così ebbe a esprimersi un neoilluminista un po’ defilato, ma lucido come Garin – il richiamo della foresta, la nostalgia dei sistemi e delle concezioni definitive dell’essere, venne mietendo vittime anche tra coloro che parevano più solennemente impegnati in un lavoro serio (Garin 1966, p. 565).
È questa probabilmente la ragione per cui i due cofondatori torinesi – Abbagnano e Bobbio – nelle loro rispettive autobiografie non riserveranno particolare attenzione a quell’esperienza. Forse ingiustamente. È indiscutibile infatti che il movimento del neoilluminismo sia stato comunque un tentativo rarissimo di far filosofia attraverso le sinergie di intellettuali che condividevano un progetto culturale pur essendo di estrazioni molto diverse. Questa idealità rimane esemplare, anche se occorre riconoscere che l’intero progetto si resse, e poi cadde, sulla base di un equivoco di fondo. Studiosi che facevano riferimento a tradizioni, impostazioni e finalità differenti potevano forse convergere in un unico quadro programmatico, facendo appello agli stessi valori culturali e civili. Più difficile, anzi impossibile, era tradurre – e in ciò consistette l’equivoco – quella convergenza di intenti ideali in una concezione eclettica che esprimesse una comune posizione filosofica di base.
Il «nuovo illuminismo» aveva come premessa un rinnovato concetto di ragione. Quale fosse il modello di riferimento di questa nuova concezione è illustrato da Abbagnano nell’articolo Verso il nuovo illuminismo: John Dewey («Rivista di filosofia», 1948, 39, pp. 313-25) che può essere considerato il primo antecedente del movimento. Sullo sfondo dell’articolo c’è la distinzione, ribadita anche in altre sedi, tra ragione assoluta e ragione problematica. La ragione assoluta, che si appella al «mito di un ordine stabile e definitivo del mondo», presuppone la nozione di necessità, in cui si compendia la categoria storiografica, assai dilatata, di «romanticismo» (dalla vera e propria corrente romantica all’idealismo e al positivismo, il «romanticismo della scienza»). Il nuovo concetto di ragione, incentrato sulla categoria della possibilità, parte invece dal presupposto del «carattere problematico dell’uomo, e del mondo in cui l’uomo vive» (N. Abbagnano, Scritti neoilluministici, cit., p. 99). Questa è l’intuizione fondamentale di Dewey, la cui filosofia è
certamente un fattore importante di quel nuovo illuminismo che da più parti si profila come l’unica esigenza della filosofia contemporanea, un illuminismo che, smessa l’illusione ottimistica dell’illuminismo settecentesco e il pesante dogmatismo del razionalismo ottocentesco, veda nella ragione ciò che essa è: una forza umana diretta a rendere più umano il mondo (Scritti neoilluministici, cit., p. 111).
Ma altre due correnti sono apparentate al modello pragmatistico deweyano dal riconoscimento della dimensione problematica: l’esistenzialismo, che descrive l’incertezza dell’esistenza umana con la duplice potenzialità, positiva e negativa, in essa implicita (Abbagnano pensa al proprio «esistenzialismo positivo», elaborato in La struttura dell’esistenza del 1939, Introduzione all’esistenzialismo del 1942 ed Esistenzialismo positivo del 1948), e il neopositivismo, di cui viene apprezzata soprattutto la premessa convenzionalistica, di matrice hilbertiana, che l’empirismo logico condivide con la matematica e la fisica contemporanea.
Abbagnano tornerà a precisare il carattere della ragione neoilluministica in un articolo pubblicato sulla «Rivista di filosofia» nel gennaio del 1952, L’appello alla ragione e le tecniche della ragione, destinato ad avere grande influenza sul movimento. Il termine ragione, vi si dice, può avere due significati. In un’accezione più lata esso indica «qualsiasi ricerca, in quanto tende a liberarsi da presupposti, pregiudizi e inceppi di ogni genere che tendono a vincolarla». Nel suo significato più ristretto, essa indica invece «una particolare tecnica di ricerca» (Scritti neoilluministici, cit., p. 155). In questo modo venivano espresse le due esigenze fondamentali del neoilluminismo: da un lato, esercitare una funzione critica nei confronti della cultura, della società e della ricerca stessa; dall’altro, legare strettamente la critica al rigore del metodo, che deve condurre alla definizione di precise tecniche della stessa indagine razionale.
Da questi due elementi costitutivi della razionalità discende una serie di caratteri specifici: 1) la ragione non può mai essere esercitata in astratto, ma è condizionata da una particolare situazione umana, che ne definisce via via il campo di applicazione; 2) la ricerca razionale non deve avvalersi di una sola tecnica – come avviene nel caso della spiegazione causale aristotelica, in cui tutto è derivato necessariamente da un unico principio intuitivo – ma di una pluralità di tecniche che hanno natura convenzionale e dipendono quindi dalla diversità delle discipline di ricerca, dei campi applicativi e dei punti di vista assunti; 3) alla ragione è essenzialmente connessa la libertà e la scelta, che riguarda innanzitutto le tecniche da adottare, ma anche la modalità della loro applicazione e la continua assunzione di responsabilità nel passaggio da un punto all’altro della dimostrazione o della ricerca; 4) nessun risultato dell’indagine razionale è definitivo: tutto deve essere continuamente sottoposto a nuove verifiche; 5) la ragione ha sempre carattere normativo, perché le tecniche adottate sono nello stesso tempo regole che possono essere rispettate o trascurate: nelle operazioni razionali la rettitudine intellettuale confina con la rettitudine morale, e non c’è una netta linea di demarcazione tra la conoscenza e l’azione, l’ambito teoretico e quello pratico. In questa rivisitazione del concetto di ragione da parte dell’Abbagnano neoilluminista ritornano vecchi concetti dell’esistenzialismo positivo ‘trasfigurato’: possibilità, scelta, libertà, condizione, norma. Ciò a riprova del fatto che la ragione neoilluministica non è qualcosa di astratto, definibile sull’esclusivo piano delle procedure cognitive, ma investe direttamente l’uomo con i condizionamenti, con i rischi che la sua situazione comporta, come pure con le possibilità positive di libertà, scelta, creatività che essa dischiude.
Nella seconda metà degli anni Quaranta Abbagnano aveva avviato un sodalizio intellettuale con Geymonat, già noto per aver diffuso in Italia la conoscenza del Circolo di Vienna, con alcuni esponenti del quale, soprattutto Moritz Schlick, aveva avuto contatti diretti in un soggiorno nella capitale austriaca. Molti di questi lavori confluirono, nel 1945, nel volume Studi per un nuovo razionalismo. Nell’Avvertenza introduttiva il «nuovo razionalismo» è opposto al vecchio perché rifiuta di attribuire alla ragione un «valore assoluto e dogmatico», riconoscendole invece un triplice carattere: critico, costruttivo e aperto ai «problemi sempre nuovi che la scienza e la prassi pongono innanzi allo spirito umano» (L. Geymonat, Studi per un nuovo razionalismo, 1945, p. VIII). Una rielaborazione teorica sistematica dell’indirizzo neorazionalistico sarà tuttavia sviluppata da Geymonat soprattutto nella prima parte dei Saggi di filosofia neorazionalistica, che sono pubblicati nel 1953 – dunque all’inizio ufficiale della stagione neoilluministica – e raccolgono una serie di interventi dei primissimi anni Cinquanta.
Se alla fine della guerra Geymonat identificava implicitamente il neorazionalismo con il neoempirismo – effettivo oggetto degli studi del 1945 –, ora lo fa invece consapevolmente convergere con il neoilluminismo. Il neorazionalismo viene contrapposto a tre forme di «vecchio» razionalismo: il razionalismo metafisico, che «pretende, attraverso una costruzione sistematica e ben ordinata di concetti e proposizioni, dedurre logicamente tutto il reale da alcuni principî di valore assoluto ed eterno»; il razionalismo scientista, che vuole spiegare il mondo «mediante un sistema di leggi di tipo scientifico, ottenute dalla generalizzazione vuoi delle leggi matematico-fisiche, vuoi delle leggi biologiche»; e il razionalismo critico, che si propone «l’analisi, rigorosa e completa, delle leggi del pensiero umano». In comune i tre tipi di vecchio razionalismo hanno «la fede ingenua e ingiustificabile nel valore assoluto dei principî a partire dai quali si tenta di spiegare razionalmente il mondo», cioè, in altri termini, «la fede nell’assolutezza della ragione» (L. Geymonat, Saggi di filosofia neorazionalistica, 1953, pp. 15, 17). Alla rinuncia ai principi assoluti Geymonat riconduce l’«estrema modestia» che caratterizza il neorazionalismo, il quale si prefigge di analizzare i problemi filosofici e scientifici «con quella razionalità ristretta che è caratteristica delle costruzioni umane». Tuttavia egli ammette che questa modestia si converte in «estrema superbia» in quanto implica anche che l’uomo esaurisca completamente il significato della razionalità. E l’uomo di cui si tratta – egli ribadisce, accogliendo la proposta di Abbagnano – «è l’uomo concreto, storicamente dato, l’uomo finito di cui parlano gli esistenzialisti, che va considerato l’unico artefice della razionalità». Al centro del programma del «nuovo illuminismo» vi è dunque l’intento di «umanizzare la ragione, di umanizzare la scienza, facendo di esse qualcosa di esclusivamente nostro, di costruito da noi, e continuamente soggetto alla nostra elaborazione» (pp. 23, 25, 26).
Le affinità con la proposta di Abbagnano, del resto esplicitamente riconosciute, sono evidenti. L’atteggiamento neorazionalistico conferisce una posizione di primo piano alla metodologia, che è «la ricerca di nuove tecniche per analizzare le teorie scientifiche» (p. 36). Anche qui si deve tuttavia parlare non di una, ma di una pluralità di «tecniche della ragione», di «tipi diversi di razionalità», di «una molteplicità illimitata di sistemi» (pp. 41, 64, 65). Di questi «schemi logico-sintattici» Geymonat sottolinea da un lato il «carattere essenzialmente convenzionale» e dall’altro il loro scaturire da «atti concreti di effettiva conoscenza», cioè dalla particolare situazione che li condiziona (pp. 55, 69). Deriva di qui la necessità di una revisione continua dei risultati raggiunti dalla ragione e la conseguente «impossibilità di mantenere una concezione statica delle scienze». Le «tecniche razionali» possono e devono essere «corrette, perfezionate, sostituite», poiché, se ciò non avvenisse, verrebbe affermata la loro assolutezza e, nello stesso tempo, negata la loro razionalità (p. 41).
Attraverso questi numerosi punti di convergenza traspare tuttavia un elemento che tenderà a differenziare sempre più Geymonat da Abbagnano. Per il primo, ciò che rende convenzionale, provvisoria, situazionale una tecnica razionale è che essa è radicata nell’elemento storico e sottoposta all’azione modificatrice della storia stessa, la quale, se non ha un soggetto assoluto come pretendevano i razionalisti metafisici, si ricompatta tuttavia nel riferimento all’evoluzione di un unico genere umano. Anche Abbagnano lega la ricerca razionale al tempo, ma la temporalità di cui egli parla, in consonanza con i suoi debiti con l’esistenzialismo tedesco, non è tanto quella storica, quanto quella esistenziale (analogamente, il «tempo» di E. Paci avrà una matrice esistenzialistico-fenomenologica). La progressiva accentuazione dell’elemento propriamente storico (che sotto questo aspetto lo avvicina a Preti) porterà invece Geymonat a uscire dalla fase neoilluministica per accedere – secondo una periodizzazione comunemente accolta – alla fase storicista, negli anni Sessanta, e poi a quella del materialismo dialettico, negli anni Settanta e Ottanta. E se lo storicismo degli anni Settanta, che subisce fortemente l’influenza di Federigo Enriques, è ancora compatibile con l’affermazione della relatività delle tecniche della ragione, l’approdo materialistico-dialettico indurrà invece Geymonat a difendere una convergenza tra le strutture della razionalità e quelle del reale ormai lontanissima dai presupposti neoilluministici.
Nella definizione della vicenda neoilluministica fu determinante l’apporto del gruppo milanese. Erano gli allievi di Banfi – Cantoni, Paci e Preti – raccolti attorno alla rivista «Studi filosofici». Per i neoilluministi milanesi la nuova esperienza culturale, infatti, non è che la continuazione del «razionalismo critico» del loro maestro. Con il progetto avviato a Torino da Abbagnano e Bobbio il razionalismo banfiano aveva in effetti in comune due cose: si proponeva di definire una nuova forma di ragione critica, problematica e antimetafisica, e conseguiva lo scopo recuperando e facendo interagire – in maniera tuttavia non estrinsecamente eclettica – alcune correnti fondamentali del pensiero contemporaneo. Banfi opera infatti una sintesi tra kantismo ed hegelismo, estesa poi alla fenomenologia husserliana e al relativismo di Georg Simmel (e più tardi al marxismo). Da Kant egli riprende la critica alla metafisica e la funzione regolativa della ragione. Da Georg Wilhelm Friedrich Hegel recupera il metodo dialettico come strumento logico di integrazione delle parti in una totalità, intesa tuttavia in maniera aperta e antimetafisica. L’attenzione per la fenomenologia e per Simmel si traduce nell’esigenza di una ricerca che riconosca la pluralità della cultura. In questo modo la razionalità banfiana conserva la fondamentale funzione di unificare l’esperienza, ma conduce a una totalità integrata i cui confini e i cui significati rimangono sempre aperti, di modo che le diverse espressioni della vita culturale possono coesistere e conservare la loro struttura specifica.
Seppure in forme diverse, talvolta anche polemiche con il maestro, questo obiettivo viene perseguito anche dai due allievi che più furono attivi nel circolo neoilluministico: Paci e Preti. E, anche nel loro caso, questo scopo è ottenuto attraverso l’intersezione, feconda e creativa, di alcuni tra i maggiori indirizzi filosofici del tempo, secondo una prassi che diventa propria del neoilluminismo – Abbagnano ne è maestro – e che ebbe il merito di far interagire la cultura italiana con le espressioni migliori della filosofia europea.
Anche se nel percorso di Enzo Paci (1911-1976) si possono distinguere molte fasi, il sostrato fondamentale del suo pensiero, sin dal periodo dell’esistenzialismo positivo condiviso con Abbagnano, rimane la fenomenologia. Ovviamente, la possibilità di questa interazione tra fenomenologia e indirizzi filosofici differenti dipende dalla particolare lettura che Paci ne dà. Per lui il nerbo della fenomenologia non è l’aspirazione a quella «scienza rigorosa» che, come osserverà Garin in un famoso «bilancio», rappresenta
l’invito a integrare le più vive esigenze critiche del pensiero contemporaneo con la consapevolezza della funzione non esaurita di una filosofia fatta di rigore razionale di fronte alle pur validissime richieste del sapere scientifico (E. Garin, Introduzione storica, in E. Garin, E. Paci, P. Prini, Bilancio della fenomenologia e dell’esistenzialismo, 1960, p. 47)
atteggiamento che ben interpretava una delle principali esigenze del neoilluminismo. L’elemento precipuamente fenomenologico è invece per Paci, che guarderà sempre più all’ultimo Husserl, il riferimento alla concretezza della Lebenswelt, dove la dimensione delle idee non è oggetto di una riduzione fenomenologica che astrae dal reale, ma al contrario il telos di un processo temporale attraverso cui la realtà muove verso il costituirsi della verità razionale. La dimensione problematica da un lato e l’impegno alla responsabilità dall’altro sono i due poli interagenti dell’atteggiamento fenomenologico. E la «filosofia della relazione» in cui sfocia l’esistenzialismo positivo di Paci non è che una «fenomenologia dei processi in relazione» che
si impone il compito di rivelare le esigenze, le intenzionalità, il significato delle varie situazioni problematiche, le loro possibili soluzioni, i presupposti ambientali e le conseguenze sociali, le relazioni di fatto, infine, e le relazioni possibili dei processi (E. Paci, Il nulla e il problema dell’uomo, 1950, in Opere di Enzo Paci, 2° vol., 1988, p. 131).
Espressioni fenomenologiche, esistenzial-positive e «relazionistiche» si impastano in un unico linguaggio che, se non sempre evita le oscurità, è comunque sempre consentaneo con il carattere problematico che il neoilluminismo vuole imprimere alla ricerca.
Anche il neoilluminismo di Preti nasce dalla convergenza di tradizioni filosofiche diverse. La duplice esigenza che soggiace a queste sintesi sarà riassunta in un noto saggio del 1958:
il rigoroso impiego di determinati procedimenti logici (discorsivi) e la possibilità di ricorrere ai fatti, almeno come ultima, ma costante, istanza per il controllo di teorie ed asserzioni (G. Preti, Il mio punto di vista empiristico, in Id., Saggi filosofici, 1° vol., 1976, p. 477).
Da un lato la metodologia formale, dall’altro il riferimento all’esperienza. In Idealismo e positivismo (1943), la tesi di Preti è che questi due indirizzi, che rappresentano rispettivamente la prima e la seconda esigenza, possano fecondamente convergere, a condizione di essere entrambi spogliati dei loro presupposti metafisici. L’idealismo a cui Preti fa riferimento è principalmente quello hegeliano, ma integrato, banfianamente, con l’apparato trascendentale kantiano; il positivismo è soprattutto quello dell’empirismo logico, ma estensibile anche al primo Husserl, la cui riduzione fenomenologica presuppone ancora, in maniera ‘positivistica’, la possibilità di una conoscenza positiva e rigorosa. Nella versione demetafisicizzata, l’idealismo fornisce semplicemente «i metodi per l’integrazione razionale dell’esperienza e per la trasformazione nei simboli della scienza» (G. Preti, Idealismo e positivismo, 1943, p. 18). Il positivismo, inteso come empirismo metodologico, esprime invece l’esigenza del riferimento all’esperienza come criterio di verificazione, depurata tuttavia dell’ingenua fiducia metafisica nell’immediatezza del dato. Combinando queste due tendenze si può approdare a un «nuovo positivismo» che, come il razionalismo critico di Banfi e (quello che sarà) il neoilluminismo di Abbagnano, vuol essere «razionalismo puro, cioè antidogmatismo», ovvero ancora «pensiero che si muova fuori di ogni immobilizzazione di se stesso, cioè di ogni metafisica» (p. 35).
In Praxis ed empirismo del 1957 cambiano i personaggi, ma permangono i ruoli. L’esigenza metodologica viene espressa ora dall’empirismo logico, mentre quella empiristica dalla filosofia della praxis, nella quale convergono tanto il pragmatismo di Dewey quanto il «marxianesimo» (opposto al marxismo) di Karl Marx dagli Ökonomisch-philosophische Manuskripte (Manoscritti economico-filosofici del 1844) del 1844 a Die deutsche Ideologie (L’ideologia tedesca). Il risultato è anche qui l’elaborazione di un concetto di razionalità, e più in generale di teoria filosofica, che congiunge strettamente il momento logico-metodologico con il mondo dell’esperienza: da un lato, il primo è condizione della costruzione del secondo e, dall’altro, il secondo è momento di verifica e di controllo del primo. Ciò ha due conseguenze. La prima, strettamente teoretica (e un po’ chiusa nell’ambito di una discussione di famiglia) è la sempre maggiore presa di distanza dalla ragione banfiana, che nell’«autonomia» delle proprie strutture appare a Preti astratta e difficilmente rapportabile alla concretezza del mondo reale. La seconda – che qui più interessa, investendo la valenza ‘civile’ del pensiero di Preti – è che la teoria filosofica ha un’immediata ricaduta sul piano culturale e sociale. Il momento dell’esperienza infatti non è più rappresentato semplicemente dal dato empirico teorico (come nel «positivismo» del volume del 1943), ma dal mondo esperienziale in generale, che comprende il momento della prassi non meno di quello della conoscenza. La prospettiva si amplia e Preti parla espressamente di «umanismo». Non si tratta più di elaborare un metodo per integrare l’esperienza in modo aperto e problematico, ma – in ciò consiste l’aspirazione più profonda di questo nuovo «umanismo» – di «voler assumere il controllo della cultura e quindi concepirla volontaristicamente come qualcosa che si fa» (G. Preti, Praxis ed empirismo, cit., p. 23).
In questo modo si stabilisce uno stretto rapporto tra i metodi usati nelle procedure conoscitive e il tipo di cultura a cui esse approdano. Ritornano i temi consueti all’empirismo logico e, attraverso di esso, al neoilluminismo: la centralità dell’interpretazione scientifica della realtà, il principio della verifica empirica, il carattere convenzionale dei presupposti della ricerca e così via. Ma essi diventano nello stesso tempo le condizioni per la creazione di una cultura «democratica», fondata su una paritetica «stipulazione di accordi». Quello che nella società politica è il «contratto sociale» diventa nella dimensione culturale una comunità in cui i singoli si accordano sulla verità, o meglio sulle verità, non in base al principio di autorità, ma in virtù di una libera persuasione, fondata appunto sul riconoscimento di procedure filosofico-scientifiche condivise. Si tratta di una cultura «pubblica», aperta a tutti perché tutti possono accedere ai criteri di verificazione, e non iniziatica, perché viene escluso il riferimento a verità metafisiche presupposte come sapere sapienziale. Anche l’«oggettività» dell’esperienza non è che «intersoggettività», cioè il risultato di un processo teorico-pratico in cui gli individui si accordano sui contenuti della verità in base alla condivisione dei principi che regolano normativamente la ricerca. Nella dimensione intersoggettiva si risolve la stessa individualità, poiché l’«autocoscienza sensibile» che ciascuno ha di sé, e che costituisce il punto di partenza di ogni ricerca, si trasforma «nel complesso dei modi attivi-riflessivi in cui l’uomo entra in relazione con sé e con il mondo» (Praxis ed empirismo, cit., p. 48). Questa dimensione immediatamente sociale e, in senso lato, politica della conoscenza illumina con assoluta chiarezza la valenza civile del neoilluminismo di Preti, ma alberga anche le istanze di un’evoluzione politica che – come si vedrà – entrerà in conflitto con il quadro originario del progetto neoilluministico.
Il connubio tra ragione e scienza è uno dei tratti principali del neoilluminismo. Non bisogna dimenticare che molti neoilluministi avevano partecipato o partecipavano alle attività di due importanti centri di ricerca metodologica quali il Centro di metodologia e analisi del linguaggio di Milano e, soprattutto, il Centro di studi metodologici di Torino, mirabile associazione scientifica in cui confluivano le sinergie di filosofi, intellettuali, scienziati e «tecnici», cioè ingegneri e imprenditori. I neoilluministi erano animati da una forte volontà polemica contro la cultura antitecnologica, che si alimentava degli scritti di Martin Heidegger e del secondo Husserl. Inoltre circolava la convinzione che l’atteggiamento scientifico potesse essere ricondotto a poche regole metodologiche e che esse, pur nella diversità delle applicazioni disciplinari, fossero in qualche modo apparentate. Criteri generali di verificazione e di controllo dovevano accomunare il linguaggio fisico-matematico di derivazione neopositivistica di Geymonat con la fondazione della sociologia tentata da Abbagnano o le analisi linguistiche che, secondo Bobbio, sarebbero dovute stare alla base di una scienza generale del diritto. Ma soprattutto vi era in alcuni la coscienza – per questo il tema merita qui almeno un accenno – che il riferimento alla scienza facesse parte integrante del programma di rinnovamento civile cui gli illuministi si sentivano chiamati. Per Preti la tendenza umanistica della filosofia contemporanea non può essere disgiunta dalla vocazione allo «scientificismo» (Praxis ed empirismo, cit., p. 23), se il filosofo si vuole proporre come «uno scienziato che collabora con tutta l’umanità a costruire il sapere degli uomini» (Idealismo e positivismo, cit., p. 119).
Meno chiaro, invece, fu sin dall’inizio il ruolo che la scienza doveva svolgere nei confronti della filosofia. Vero è che anche coloro che più tendevano a far convergere le due discipline cercavano di mantenere una certa eccedenza, se non autonomia, della filosofia rispetto alla scienza. Lo stesso Geymonat, che riduceva la filosofia teoretica alla metodologia della ricerca scientifica, vedeva nell’appello alla criticità della scienza una componente specificamente filosofica (cfr. L. Geymonat, Saggi di filosofia neorazionalistica, 1953, pp. 78-79). Preti, se da un lato sottolineava che filosofia e scienza debbono avere la stessa struttura discorsiva ed essere sottoposte agli stessi criteri di verificazione, dall’altro attribuiva alla filosofia il compito di integrare le sintesi frammentarie delle varie scienze e forme di sapere pragmatico (poetica, morale ecc.) in un’unica esperienza (cfr. G. Preti, Idealismo e positivismo, cit., pp. 99, 119). Ma, in realtà, quando nel secondo convegno neoilluministico, in cui si trattò principalmente dei rapporti tra filosofia e scienza, Geymonat e Preti, seppure in modo diverso, spostarono il baricentro fortemente verso la scienza, la maggior parte dei presenti manifestò la preoccupazione che la ricerca filosofica perdesse la propria autonomia. Prevalsero quindi posizioni come quella di Paci che, pur riservando spazio alla scienza, la interpreta sempre in termini filosofici, e più precisamente fenomenologici: alla definizione husserliana della «fenomenologia come scienza rigorosa» egli accosta quella della «fenomenologia come nuova scienza» (E. Paci, Funzione delle scienze e significato dell’uomo, 1963, pp. 68-69). O ancora di più quella di Abbagnano che, se riserverà sempre alla scienza la funzione conoscitiva, reclamerà però alla filosofia quella di esprimere la vera «saggezza» dell’uomo, prospettando tra scienza e filosofia un rapporto di stretta connessione, ma non di riduzione né in un senso né nell’altro.
Se la discussione sulla scienza rivelò ben presto le incrinature nascoste sotto un’apparente omogeneità, non meglio andò con la riflessione sulla natura del linguaggio. Anche qui tutti i neoilluministi erano apparentemente concordi nel riconoscere al linguaggio una posizione centrale, in sintonia con le nuove tendenze della filosofia internazionale, dagli sviluppi americani del neopositivismo carnapiano (rappresentato nel gruppo soprattutto da Pasquinelli) all’ormai vivace filosofia del linguaggio oxoniense (difesa a oltranza da Rossi-Landi, ma oggetto di interesse anche da parte di Scarpelli e, in misura minore, di Bobbio). Ma anche qui si aprirono presto discussioni sulla possibilità del linguaggio, scientifico o ordinario, di esprimere contenuti specificamente filosofici come quelli morali (nel terzo convegno), nonché sulla convergenza o divergenza tra linguaggio comune e linguaggio storiografico ovvero, più in generale, sul rapporto tra ricerca storica e ricerca filosofica (come nel quarto e quinto convegno). Garin e Dal Pra difesero la radicale autonomia della ricerca storica dalla filosofia, mentre Paci sostenne che ogni indagine storica ha un presupposto filosofico. Ma soprattutto la scuola fiorentina, partendo dall’identità gariniana tra filosofia e «sapere storico», riduceva la stessa storia della filosofia a storia culturale, mentre i torinesi difendevano la specificità della ricerca filosofica.
Senza entrare nel dettaglio, si può osservare che era in gioco, da un lato, il rapporto tra filosofia e altre discipline e, dall’altro, la funzione che la filosofia doveva svolgere per produrre quel rinnovamento culturale e civile cui i neoilluministi si sentivano chiamati. Per un verso c’era chi riteneva che il superamento della vecchia cultura, legata alle posizioni culturalmente egemoniche che la filosofia aveva esercitato nella precedente temperie idealistica e spiritualistica, comportasse un radicale allineamento della ricerca filosofica alle altre discipline. Per altro verso c’era chi, pur riconoscendo che la filosofia doveva fare un passo indietro, riteneva comunque indispensabile salvaguardarne l’autonomia e l’irriducibilità. Pena la caduta in un tecnicismo culturale, scientifico e linguistico che avrebbe compromesso la stessa funzione ‘umanistica’ della ricerca filosofica. In qualche caso, tuttavia, si scavò un fossato anche più profondo: da una parte si assolutizzarono le procedure metodologiche, vuoi sul piano scientifico (Geymonat, Pasquinelli) vuoi su quello dell’analisi linguistica (Rossi-Landi), dall’altra si oppose una dura reazione antimetodologica che recuperava le «visioni del mondo» per una riproposizione della metafisica, seppure come «metafisica del processo» anziché dell’essere (il Paci di Tempo e relazione). Queste divergenze furono una delle cause maggiori della dissoluzione del neoilluminismo – accanto, come si vedrà tosto, alla diversa valutazione politica del marxismo – perché minarono non soltanto l’illusione generosa di costruire una piattaforma filosofica comune, ma anche l’obiettivo minimale di condividere una costellazione di valori a cui riferire il lavoro filosofico.
Abbagnano e Geymonat sono accomunati, tra l’altro, dalla tendenza a negare il confine tra momento teoretico e momento pratico. La conoscenza è legata all’azione non solo nel senso che quest’ultima costituisce l’elemento di controllo e di validazione finale della proposta teorica, ma anche e soprattutto nel senso che la stessa conoscenza ha una struttura operazionale che determina sia il profilo categoriale sia il campo di applicabilità dei propri concetti. In questa posizione la portata pratica, pur rilevantissima, è però considerata soltanto sotto l’aspetto della ricerca. Una valenza esplicitamente politica, o per lo meno civile, della componente pratica della ricerca razionale è soltanto indiretta, riferendosi alla convergenza, già sottolineata in Abbagnano, tra rettitudine scientifica e rigore morale o, ancora più genericamente, alle potenzialità liberatrici, su tutti i piani, di una ragione neoilluministicamente critica. Un esplicito passaggio dalla prassi implicita nella conoscenza a quella richiesta dall’impegno sociopolitico si avrà in Geymonat solo con le fasi successive a quella illuministica (si intende sul piano della teorizzazione concettuale, ché sul piano personale egli, ex partigiano e comunista praticante, fu da sempre impegnato sul piano politico). In Abbagnano, invece, questa evoluzione non ci fu mai. Lo stesso concetto politico di libertà si risolve per lui nella libertà della ricerca.
L’obbligo della partecipazione del filosofo alle questioni della vita sociale dev’essere ristretto a quelle che interessano il compito del filosofo come tale: la difesa della libertà e del suo esercizio effettivo, che è, per l’appunto, il filosofare (N. Abbagnano, Filosofia e libertà, in Id., Scritti neoilluministici, cit., p. 116).
Di tutt’altro avviso furono invece, seppure per diverse motivazioni, Bobbio e Preti. Gli interventi ‘neoilluministici’ di Bobbio sono consegnati ad articoli sparsi, poi confluiti nel volume Politica e cultura del 1955. Alla base della sua posizione sta la distinzione tra «politica della cultura» – espressione che egli mutua da un appello della Societé européenne de culture del 1951 – e «politica culturale». La politica della cultura «è una posizione di massima apertura verso le posizioni filosofiche, ideologiche e mentali differenti» (Politica e cultura, 1955, p. 36). Il compito degli uomini di cultura, infatti, è «quello di seminare dubbi, non già di raccogliere certezze» (p. 15). Essi devono essere aperti alle alternative concettuali e ideologiche, cercando di favorire una cultura dell’et et in luogo di quella dell’aut aut. La politica della cultura è quindi un Invito al colloquio, come recita il titolo del saggio di apertura del libro. Ma insieme è anche una rigorosa ricerca della verità, che lotta sia contro le falsificazioni dei fatti e le distorsioni dei ragionamenti, sia contro la pretesa dogmatica di una verità assoluta. La politica della cultura è dunque sicuramente una «filosofia militante» – espressione assai cara a Bobbio – ma non «una filosofia al servizio di un partito che ha le sue direttive, o di una chiesa che ha i suoi dogmi, o di uno stato che ha la sua politica» (p. 16). In ciò essa si distingue dalla, e si contrappone alla, «politica culturale», cioè alla «pianificazione della cultura da parte dei politici» (p. 37). L’intellettuale, in altri termini, è tenuto a intervenire attivamente sul piano politico, rifiutando ogni «disimpegno» neutralistico, ma lo deve fare solo in funzione della garanzia della libertà della cultura e non come intellettuale organico a un partito o a un’ideologia.
Forti punti di contatto con quella di Bobbio, per quanto riguarda l’impegno politico dell’intellettuale, ha la posizione che Preti sintetizza soprattutto nell’ultimo capitolo di Praxis ed empirismo, dedicato al rapporto tra Cultura e società. La cultura vera consiste nell’esercizio dello spirito critico e nella sua applicazione alla realtà per trasformarla. Essa non si limita a «interpretare» il mondo, ma lo vuole «modificare»; o, meglio, il suo interpretare il mondo è già un modificarlo (G. Preti, Praxis ed empirismo, cit., p. 12). La falsa cultura, che Preti chiama l’«anticultura», consiste invece nel celebrare la routine dell’esistente: è «la santificazione delle paure, dei pregiudizi, delle mancanze di entusiasmo, della profonda immoralità del filisteismo borghese». La cultura tende al «farsi uomo dell’uomo» ed è perciò «sempre e solo ‘umanesimo’, affermazione del regnum hominis» (p. 231).
L’anticultura è degenerazione dell’uomo nella trasformazione in valore eterno di ciò che è storicamente imposto all’uomo dalla situazione, dall’autorità del momento. Di conseguenza l’uomo di cultura, l’intellettuale responsabile, il filosofo è tenuto a impegnarsi in prima persona per il trionfo della cultura sull’anticultura. Ma ciò non significa affatto che egli debba riconoscersi nelle forme istituzionalizzate dell’azione politica (partiti, sindacati ecc.) che, appunto perché appartengono a una realtà già definita, possono costituire una grave minaccia alla sua autonomia intellettuale. «Tra politica e filosofia non esiste nessun rapporto immediato» (p. 242). Se il filosofo, l’uomo di cultura, non può mai essere indifferente rispetto alla situazione culturale e politica in cui vive, egli deve intervenire in essa facendo sentire la sua voce nel contesto etico che concorre alla determinazione progressiva della cultura. I partiti spesso tendono a rovesciare il rapporto tra idealità etiche e strumento politico, facendo del secondo, cioè del partito stesso, il fine e delle prime il mezzo. Ma il filosofo che accettasse questa inversione compirebbe «un vero e proprio tradimento alla propria missione e funzione» (p. 245).
Le ragioni che inducono Bobbio e Preti a riconoscere entrambi all’intellettuale il dovere di un impegno politico nettamente distinto da quello partitico sono tuttavia molto diverse. Alla base di ogni «politica della cultura» deve esserci, per Bobbio, la difesa della libertà. Ma la libertà a cui egli pensa è principalmente la libertà dell’individuo, propria della tradizione del pensiero liberale, che va da John Locke ad Hans Kelsen passando per Kant. Essa va intesa primariamente come «non-impedimento». In quanto tale si distingue nettamente dalla libertà democratica, fondata sul principio dell’autonomia, che ha il suo modello concettuale in Jean-Jacques Rousseau.
Intrecciando un serrato dialogo polemico con intellettuali marxisti come Ranuccio Bianchi Bandinelli e Galvano Della Volpe, Bobbio respinge l’idea che la libertà democratica (che per quegli studiosi tendeva a convergere con quella socialista) possa assorbire in sé la libertà individuale (che essi consideravano il portato di una tradizione borghese ormai priva di capacità innovatrice). Per Bobbio, viceversa, la libertà individuale è condizione essenziale della stessa libertà democratica, poiché non si può esercitare una vera autonomia se non si gode di quella libertà dall’impedimento che è garantita solo dallo Stato di diritto, attraverso i principi di legalità e di imparzialità. Del resto, per quanto riconosca che la libertà civile, come non impedimento, è il portato storico delle lotte sostenute dalla borghesia contro l’aristocrazia e il potere assoluto, Bobbio ritiene che la nozione fondamentale di libertà sia un valore universale e permanente. Di conseguenza, la sua analisi del concetto è il risultato, più che di un’indagine storica, di un’esplorazione categoriale di ‘modelli’ filosofici – Thomas Hobbes in negativo, Locke e Kant in positivo – sorretta da una forte componente normativa di ascendenza kantiano-kelseniana (cfr. soprattutto N. Bobbio, Difesa della libertà e Della libertà dei moderni comparata a quella dei posteri, in Id., Politica e cultura, cit., pp. 47-57 e 160-94).
Ma il riferimento di Bobbio a modelli e a categorie ideali non è congeniale a Preti. La filosofia della prassi a cui egli fa riferimento – nella quale convergono tanto suggestioni hegelo-marxiane quanto spunti pragmatistici – presuppone che gli uomini possano agire soltanto all’interno di un ethos storico concreto, rispetto ai cui contenuti «le idee pure del diritto e del dovere» sono «meri limiti negativi». Da un’etica (o un diritto) formale universale, prodotto artificiale della ragione, non sarebbe mai possibile derivare la pluralità e multiformità dei contenuti etici reali (cfr. G. Preti, Praxis ed empirismo, cit., p. 239). Al razionalismo giuspositivistico di Bobbio, incentrato sull’idea del rapporto tra individuo e Stato, Preti contrappone una concezione storicistica e dialettica in cui l’individuo è concepibile solo all’interno di un tutto etico. Ma la dimensione dell’eticità è strettamente connessa con quella della tradizione. E ciò vale anche per la trasformazione del mondo, cui il filosofo è chiamato nell’atto stesso in cui si accinge a interpretarlo. La tradizione ha infatti un duplice effetto. Da un lato essa condiziona negativamente, riproponendo la conservazione dell’esistente e favorendo l’anticultura. Ma d’altro lato essa offre «paradigmi di azione», cioè «modi operativi» o «leggi di azione su eventi e di reazione ad eventi», che possono essere utilizzati in chiave innovativa, anziché conservativa. Diversamente da quanto pensavano gli altri neoilluministi, la tradizione può essere prevaricata utilizzando strumenti che sono essi stessi tradizionali. E ciò appare tanto più facile e opportuno laddove le diverse componenti della tradizione portano a «contraddizioni», che possono essere risolte soltanto decidendo a favore dell’una o dell’altra alternativa implicata. Preti riprende una tematica cara all’esistenzialismo e alla sua versione fenomenologica, cioè la duplice valenza della natura situazionale dell’uomo: l’essere umano è sempre condizionato da una situazione storica e tuttavia proprio nella concreta specificità di questa situazione, e solo per mezzo di essa, egli può trovare gli strumenti per la sua trasformazione. Di quest’idea Preti dà però una versione storico-dialettica, insistendo sull’elemento della contraddizione, seppure liberata dai suoi aspetti necessitanti e intesa come un’opportunità per dirottare la storia verso la direzione voluta dall’uomo.
Così nella prospettiva esistenzialistico-pragmatica del neoilluminismo irrompe il «materialismo storico» (ma anche quello dialettico), che «spiega perché ad un dato momento si renda necessaria quest’opera nuova, spiega il suo successo e il suo valore nel concreto della storia» (G. Preti, Praxis ed empirismo, cit., p. 237). Il linguaggio può restare almeno in parte quello neoilluministico – si parla di «tecniche», di «possibilità», di «scelte», di «progetto» – ma la dimensione della progettualità non può più nascere né dalla costruzione dei ‘modelli’ bobbiani, né dalla semplice temporalità esistenziale di Abbagnano e di Paci – dove, nell’uno come nell’altro caso, il centro è sempre l’individuo – bensì deve riferirsi alla concreta fusione tra individuo e processo storico. Il filosofo, come l’uomo,
ha tutta un’esperienza storica dietro di sé: un’esperienza che non è sua, appunto, ma storica, e che gli è giunta non nelle forme native del suo primo presentarsi, ma attraverso la complessa elaborazione della tradizione culturale entro cui va operando (p. 234).
Dimensione storica che non è più semplice espressione della Lebenswelt husserliana, ma è strettamente connessa a una struttura dialettica, nella quale sono contenuti sia l’elemento della continuità e della conservazione sia quello della rottura e dell’innovazione. Come aveva giustamente insegnato Marx, per il quale «la rivoluzione doveva essere un evento nuovo, un ‘salto’, ma doveva avvenire nel continuum storico» (p. 237).
Nel caso di Preti il recupero del marxismo era ancora puramente filosofico, estraneo a ogni irrigidimento ideologico: tant’è che il suo Marx continua a sposarsi con Dewey. Lo stesso carattere filosofico ha anche il marxismo dell’ultimo Paci, che con Marx coniugò, anziché il pragmatismo di Dewey, la filosofia dell’ultimo Husserl, come strumento per la revisione in senso critico della teoria marxiana attraverso la formulazione di una «nuova fenomenologia».
Stabilendo un rapporto di stretta affinità tra la precategorialità dell’economia politica e quella della Lebenswelt, tra il materialismo engelo-marxiano e il tema fenomenologico del Leib, Paci proponeva sintesi tanto ardite quanto politicamente innocue (cfr. E. Paci, Funzione delle scienze e significato dell’uomo, 1962, Parte terza, Fenomenologia e marxismo). Viceversa l’‘egemonia’ marxista che si afferma a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta porterà a un’espansione e, insieme, a un irrigidimento degli aspetti ideologici, riducendo sempre più la possibilità di una convergenza con quanto rimaneva del neoilluminismo: gli ideali liberali e culturali che esso propugnava saranno considerati l’espressione di una cultura borghese asservita al capitalismo, e gli autori che esso aveva come riferimento (in primis Dewey) i teorici di quella cultura.
L’avvicinamento anche culturale al marxismo da parte di alcuni filosofi che, come Preti e Paci, avevano avuto una parte molto importante nella vicenda del neoilluminismo era quindi guardato con distanza, se non addirittura con sospetto, dalla maggior parte degli altri aderenti. Il settimo convegno neoilluministico, tenuto a Milano nel 1958, fu dedicato a L’avvenire della dialettica: Preti fu l’unico a esprimere fiducia in quell’avvenire, di fronte a una platea polemicamente convinta che la dialettica fosse un concetto ormai teoreticamente inutilizzabile, che poteva essere oggetto soltanto di ricostruzione storica. Il che era un indizio, precoce quanto estremamente significativo, della crisi imminente. Ai neoilluministi rimaneva soltanto la malinconica consapevolezza di aver sognato un grande progetto culturale.
G. Preti, Idealismo e positivismo, Milano 1943.
L. Geymonat, Studi per un nuovo razionalismo, Torino 1945.
E. Paci, Il nulla e il problema dell’uomo, Torino 1950.
L. Geymonat, Saggi di filosofia neorazionalistica, Torino 1953.
N. Bobbio, Politica e cultura, Torino 1955, 19742.
E. Paci, Dall’esistenzialismo al relazionismo, Messina-Firenze 1957.
G. Preti, Praxis ed empirismo, Torino 1957.
E. Paci, Funzione delle scienze e significato dell’uomo, Milano 1963.
G. Preti, Saggi filosofici, 2 voll., Firenze 1976.
N. Abbagnano, Scritti neoilluministici (1948-1965), a cura di B. Maiorca, introduzione di P. Rossi, C.A. Viano, Torino 2001.
E. Garin, Cronache di filosofia italiana, 1900-1943, in appendice Quindici anni dopo. 1945/1960, 2 voll., Bari 1966.
G. Semerari, Il neoilluminismo filosofico italiano, «Belfagor», 1968, 23, pp. 168-82, ristampato in Id., Esperienze del pensiero moderno, Urbino 1969, pp. 273-93.
M. Dal Pra, Il razionalismo critico, in A. Bausola, G. Bedeschi, M. Dal Pra et al., La filosofia italiana dal dopoguerra a oggi, Roma-Bari 1985, pp. 31-92.
M. Ferrari, Origini e motivi del neoilluminismo italiano tra il dopoguerra e gli anni cinquanta, «Rivista di storia della filosofia», 1985, 40, 3, pp. 531-48 e 4, pp. 749-67.
Il neoilluminismo italiano. Cronache di filosofia (1953-1962), a cura di M. Pasini, D. Rolando, Milano 1991.
S. Paolini Merlo, Consuntivo storico e filosofico sul “Centro di studi metodologici” di Torino (1940-1979), Genova 1998.
C.A. Viano, La filosofia italiana del Novecento, Bologna 2006, cap. 9, pp. 65-71.
P. Rossi, Avventure e disavventure della filosofia. Saggi sul pensiero italiano del Novecento, Bologna 2009, pp. 213-37.
Impegno per la ragione. Il caso del neoilluminismo, a cura di W. Tega, Bologna 2010 (in partic. M. Mori, Il neoilluminismo di Nicola Abbagnano, pp. 91-128).